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Kindu è vendicata!


Ciò che accadde l’11 novembre 1961 (o al più tardi il 12 novembre 1961, ancora oggi non è dato sapere con esattezza) in quell’angolo sperduto del Congo che portava e porta tuttora il nome di Kindu, è quanto di più aberrante e orripilante nella storia del popolo italiano. Non che gli uomini italici durante la millenaria storia della nostra area geografica non si siano mai macchiati di nefandezze innominabili, no, certo che no … e lo stesso dicasi per i congolesi in un paese – il loro – ben più inospitale del nostro (ove la lotta per la sopravvivenza è quotidiana).  Tuttavia una tale bestiale crudeltà, un efferato istinto di vendetta come quello che la storia recente ci ha consegnato come “eccidio di Kindu”, beh …  è difficilmente paragonabile ad altri episodi cruenti e sanguinolenti della nostra comune memoria storica.

Nella cultura mediterranea e, più estesamente, occidentale, è impensabile il consumo di carne umana, neanche se appartenesse al nostro peggior nemico, neanche per farne il più bieco scempio. Non ne faremmo mai uso; viceversa nel mondo africano, vuoi per un ambiente naturale più selettivo, vuoi a causa di un  istinto animalesco appena sopito in quelle aggregazioni tribali spesso isolate dal resto dell’umanità, il consumo alimentare del corpo dell’avversario costituisce  una sorta di rivincita, una specie di trofeo che va al di là del desiderio di prevalere sul nemico violando il suo corpo fin nell’ultima fibra.

A Kindu accadde proprio quello, o almeno le cronache lasciano supporre (non smentendolo  in modo categorico) che i tredici aviatori italiani della missione di pace sotto l’egida dell’ONU, furono non solo massacrati barbaramente ma – pare e sottolineiamo pare – anche brutalmente cannibalizzati secondo il costume locale o comunque secondo un rituale ancestrale mai del tutto abbandonato da quelle genti.

Un fatto di una gravità inaudita, inimmaginabile secondo la nostra cultura e costumi eppure per nulla scandalosa per i congolesi. 

I Fairchild C-119 Flying Boxcar in forza alla 46° Aerobrigata di Pisa furono i velivoli che sopportarono tutto il peso della missione ONUC (ONU for Congo) sostenuta dal nostro paese. Nel corso dell’operazione, tra incidenti di volo e l’eccidio di Kindu, l’Italia pagò un tributo altissimo in termini di vite umane (foto proveniente da www.flickr.com)  

Si obietterà: i miliziani congolesi probabilmente erano ubriachi e sotto l’effetto di droghe mentre i tredici martiri di Kindu erano certamente indifesi e unici uomini bianchi presenti in un’area dove i bianchi – belgi, s’intende – si erano macchiati di schiavismo, torture, sfruttamento disumano degli indigeni. Da qui un profondissimo odio nei confronti di tutti i bianchi in genere.

Si dirà poi che i due velivoli italiani, benché in missione di pace trasportavano armi anziché medicinali … sì – d’accordo – ma a uso e consumo delle truppe ONU malesi che presidiavano la zona di Kindu e che, in quanto soldati con il mandato di riappacificare il paese anche con le armi, avevano il sacrosanto diritto all’autodifesa. Quanto meno.

Nell’accezione popolare si suole dire che “in amore e in guerra tutto è concesso” … ebbene in Congo era in corso una vera e propria guerra civile – è vero – ma che nulla aveva di “civile”. Di qui a cannibalizzare il nemico (presunto o realmente tale) ne corre, non trovate? … eppure!?

Quando si verificano episodi di crudeltà come quella consumata a Kindu anche la più democratica e permissiva cultura occidentale va letteralmente a farsi a benedire e anzi non stupirà se qualcuno invocò allora (e soprattutto avrebbe praticato volentieri) la “legge del taglione”. Occhi per occhio, la pena identica o almeno pari al torto subito.

Probabilmente è quello che deve aver pensato e poi applicato il personaggio del racconto di Rosario Trimarchi. Occhio per occhio e Kindu è vendicata!

Non sappiamo se si tratti di un racconto di pura fantasia o se ci sono dei fondamenti di realtà … di certo il racconto ha qualcosa di truculento e di senso della vendetta che viene dal profondo.

Un C-119 presente oggi nel giardino del grande museo di Piana delle Orme (Latina) dove si può ammirare ancora oggi in tutta la sua imponenza. Era capace di trasportare carichi notevoli e, all’occorrenza anche un discreto numero di paracadutisti che potevano lanciarsi agevolmente senza impigliarsi nei piani di coda. (foto proveniente da www.flickr.com)

In effetti l’autore così riassume il suo racconto: 

Una benefica missione di pace, sfocia in una tragedia.
Sono anni in cui l’opinione pubblica non viene ancora coinvolta al punto da poter spingere a fare chiarezza, lasciando così alla politica governativa la possibilità di stendere arbitrariamente un velo che seppur pietoso lascia dubbi e perplessità.
Un uomo d’armi che non è Rambo uno dei pagliacci di Hollywood, ma Carlo B…a, un autentico soldato reduce da più guerre, è coinvolto sul luogo dell’eccidio in fatti immediatamente successivi ad esso.
Durante la sua attività di mercenario trova un modo per vendicare, a modo suo e anonimamente, gli avieri italiani e contemporaneamente sentirsi a posto con la propria coscienza.
Il metodo può sembrare folle ma, senza inorridire per il gesto e nemmeno volerlo giudicare, si potrebbe essere spinti a pensare che egli sia riuscito nell’intento.

Il racconto parte piano e procede apparentemente in modo innocuo ma, giunti verso la conclusione, esplode in tutta la sua crudezza lasciando il lettore basito e assillato di dubbi: fantasia o realtà?

Ovviamente non possiamo anticiparvi di più pena annullare l’effetto sorpresa. Quella stessa sorpresa che non deve aver fatto breccia nella della giuria del premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE che non lo ha trovato meritevole di accedere la fase finale e dunque di annoverarsi tra i magnifici 20 racconti presenti nell’antologia della IX edizione.

Peccato … sarà per la prossima edizione perché Rosario Trimarchi è sicuramente un ottimo autore che ha fantasia e tecnica, sa narrare e intrigare il lettore e dunque è destinato a crescere e a migliorarsi a ogni partecipazione. Tieni duro Rosario!

Per l’intanto godiamoci questo suo racconto e domandiamoci se, nei panni del protagonista ci saremmo comportati allo stesso modo. 



Narrativa / Medio – Lungo

Inedito

Ha partecipato alla IX edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole” – 2021


Kindu è vendicata!


Correva l’anno 1982 e, nella ricorrenza del 40° anniversario della battaglia di El Alamein, si svolgeva a Viterbo il raduno nazionale dei paracadutisti italiani.

Il nostro gruppo era numerosissimo e molte autovetture si erano aggiunte ai sei pullman non bastanti a trasportare i soci dell’A.N.P.d.I. di Milano aderenti all’iniziativa, al punto che, i posti garantiti nella caserma per il pernotto della sera del sabato, non sufficienti per tutti, avevano costretto molti di noi a bivaccare nei sacchi a pelo.

Il pranzo della domenica si era svolto nella caserma della VAM, ed al mio fianco c’erano il fraterno amico Gianni, che purtroppo ci ha lasciati, e York ed Ezio con i quali sono ancora in contatto anche se non ci vediamo ormai da quasi trent’anni.

A qualche tavolo di distanza c’era un signore attempato ma energico nei modi e nella voce, un po’ burbero ed al tempo stesso sorridente e scherzoso, con i capelli bianchi e le foltissime sopracciglia, che conversava amabilmente con il presidente della nostra sezione Attilio Cambielli, e con Salvatore D’Oronzo reduce di El Alamein ed autore dello splendido libro “Folgore e si moriva”.

Dopo gli antipasti, divorati famelicamente, giunse come primo un’abbondantissima dose di ravioli e noi quattro ci soffermammo ad osservare con curiosità e commentare con quanta composta e raffinata eleganza il dirimpettaio li mangiasse, senza farsi influenzare dal vassoio da caserma che li conteneva e dalle posate di plastica che usava con una grazia particolare come fossero state d’argento.

Ci passò per la mente una voce più che attendibile che circolava su di lui, e ci venne spontaneo chiederci, scherzando, se quando si era cibato di carne umana il suo stile fosse stato lo stesso. Fu così che, finito il pranzo, corredato da vini ed amari che si erano susseguiti senza sosta nei nostri bicchieri, che pensammo di porgli qualche domanda.

Conoscevamo abbastanza bene Carlo B…a, sempre presente nelle serate associative, e posso affermare senza alcun timore di smentita che in maniera insuperabile lo avevo sentito parlare bene, a lungo e con estrema coerenza della pace.

Questa è un’altra storia ma la devo riassumere per evitare che l’uomo, per via dei suoi trascorsi, possa sembrare al lettore un violento guerrafondaio senza scrupoli.

A quei tempi ero studente universitario, istruttore di body building in una palestra per guadagnarmi qualche soldo, e volontaristicamente aiutavo alla preparazione fisica gli allievi paracadutisti che venivano forgiati dall’associazione.

Era consuetudine che nell’ultima lezione antecedente il primo lancio, un veterano venisse incaricato di fare un discorso etico dottrinale ai futuri parà. In quell’ultimo corso precedente di poco il raduno di Viterbo l’incombenza era toccata proprio a Carlo, e rimasi più che sorpreso quando egli, dopo i necessari preamboli, passò a parlare della pace, soffermandovisi a mio parere più di quanto avrebbe potuto fare un religioso, e con una cognizione ed una forma di coinvolgimento senza pari.

Ricordo la sua voce tonante nel silenzio della palestra, il suo sguardo sugli allievi uomini e donne di tutte le età, e la commozione che seppe suscitare negli astanti.

Sapevamo che Carlo era stato istruttore di paracadutismo alla scuola militare di Tarquinia, che aveva combattuto nella seconda guerra mondiale aderendo alla Repubblica Sociale, e che nel 1945 si era arruolato nella legione straniera procurandosi una ferita in Algeria e la ben più dolorosa cattura da parte dei vietcong a Dien Bien Phu.  Aveva scontato una lunga e durissima prigionia in un campo di concentramento vietnamita prima di rientrare in Italia negli anni ’60 da dove era ripartito per fare il soldato di ventura in Africa.

Era questo il periodo della sua vita che maggiormente ci incuriosiva, soprattutto quanto fosse avvenuto in una particolare giornata, e studiavamo come approcciarci quando, finito il pranzo, dopo aver esaurito tutto il repertorio di canzoni di marcia dei paracadutisti, intonammo la tristissima canzone “avevo un camerata” seguita a ruota dall’ancor più nostalgica “il mercenario di Lucera”.

Proprio su queste note, mentre avvenivano degli spostamenti per favorire convenevoli fra i gruppi che durante il pranzo erano rimasti distanti, che si liberarono dei posti vicino a Carlo, che io, Gianni, York ed Ezio ci precipitammo ad occupare.

Potemmo intavolare il discorso che ci eravamo prefissati senza alcuna difficoltà, e Carlo, facendoci il punto di un momento storico internazionale e di uno stralcio della sua vita, ci narrò fra ritagli di storia pubblica e privata, come fosse diventato cannibale, anche se solo per un giorno.

Non sarebbe stato facile, ancora nel fiore degli anni, con i miei trascorsi ed il mio temperamento, restare con le mani in mano, pertanto, anche se avrei potuto vivere con la pensione di legionario, avevo provato a trovare una qualsiasi occupazione onesta e dignitosa ma senza successo.

Così, man mano che passavano i giorni dal rientro, avanzava in me sempre più la convinzione che stessi sprecando il mio tempo, mentre prendevo cognizione che la mia sete di avventura non si era ancora placata, e che dovevo trovare una via d’uscita all’immobilità che mi intristiva.

Radio e giornali riportavano notizie che nel cuore dell’Africa erano in atto sanguinose guerriglie alimentate da poteri forti attraverso la vendita di armi e mezzi, e che permettevano con i taciti consensi governativi statunitensi, sovietici ed anche europei che, su base volontaria ed incentivata, potessero parallelamente affluire uomini per insegnare l’arte della guerra e l’uso di armi agli abitanti del terzo mondo.

Anche se con la fine della seconda guerra mondiale apparentemente si era dissolto lo spirito colonialistico di cui era stata vittima per quasi cento anni, l’Africa rimaneva comunque un territorio di conquista dagli immensi spazi e dalle grandi potenzialità.

Alcuni stati europei avevano perso il loro “posto al sole” e non avevano più alcuna ingerenza su quei territori, mentre altri cercavano di convertire i paesi che avevano già sfruttato a dismisura, in stati apparentemente indipendenti sotto il profilo politico ma non sotto quello economico, anzi, tentavano di gettare le basi affinché tale vincolo diventasse perpetuo.

Il ritiro delle loro truppe lasciava i territori nel caos più completo, dove le tribù più bellicose si schieravano con i trafficanti, prendendo il sopravvento sulle popolazioni inermi che restavano alla loro mercé.

Il caso più eclatante lo viveva il Congo, ove a seguito della proclamazione dell’indipendenza da parte del Belgio, si accese un’aspra guerra civile fomentata da entità che volevano assumere il controllo delle grandi ricchezze minerarie del paese.

Fu in questo contesto che si sviluppò l’idea secessionista del Katanga (l’area più ricca) dove si costituirono due blocchi armati: uno appoggiato dai sovietici, l’altro, più occidentalista, rinforzato da mercenari europei.

Le notizie che giungevano in Italia riguardo ai massacri che venivano perpetrati giornalmente in quell’area geografica non destavano alcuna preoccupazione e non suscitavano alcun coinvolgimento emotivo sui cittadini ancor memori delle tragedie della seconda guerra mondiale, che consideravano quegli scontri come dei modesti focolai di rivolte lontane e di nessuna influenza sulla propria vita.

La stampa, oltretutto, ben poco pubblicizzava l’intervento dei caschi blu dell’ONU inviati in “missione riappacificatrice”, tanto che in pochissimi sapevano della partecipazione dell’Italia a tale attività.

Il nostro governo, impegnato ad acquisire credibilità nei confronti degli alleati del blocco occidentale, aveva messo a disposizione un piccolo contingente che svolgeva missioni a favore della popolazione civile, ma senza provvedere a tutelarlo adeguatamente. Così quando i nostri uomini vennero catturati, non fece in tempo per tentare di liberarli e successivamente all’eccidio, nulla per fare chiarezza sui fatti insabbiando addirittura l’inchiesta.

Si trattava di uomini di vara età e grado, che avevano aderito su base volontaria a portare un aiuto umanitario in quelle zone disagiate, e servire così non solo il proprio paese, ma altruisticamente e senza remore di sorta, degli abitanti che soffrivano persino la fame ed erano sprovvisti di medicinali, emarginati in località dove la guerra portava via quel poco che poteva servire alla normale sopravvivenza. Quei cargo messi a disposizione dall’Italia, non trasportavano armi ed esplosivi ma movimentavano materiali che servivano esclusivamente ad alleviare le sofferenze dei deboli e degli oppressi.

Dopo essere stati uccisi, i militari italiani erano stati cannibalizzati, ma l’ambasciata, imbeccata dal nostro governo, riportò come conclusione che la mattanza fosse stata causata da un errore di regolari soldati congolesi e che comunque i resti delle vittime “dell’incidente” fossero stati debitamente sepolti. In seguito fu effettuato il recupero di una parte dei resti che vennero tumulati in Italia.

Non sarei onesto se affermassi che mi arruolai per vendicare l’eccidio dei tredici membri dell’equipaggio dei due aerei C119 della 46° Aerobrigata di Pisa, avvenuto il 12 novembre 1961, in quanto già da più di un mese avevo preso contatto con il centro arruolamento mercenari, sito in una villetta di Milano in zona Fiera.

Avevo compilato un facsimile di domanda inserendo i miei dati, i precedenti militari ed il mio recapito e, scelto un nome di battaglia avevo contrattato su quello che sarebbe stato il mio compenso (costituito da premio d’ingaggio, un corrispettivo mensile e la liquidazione).

Il premio d’ingaggio mi sarebbe stato versato sul conto corrente all’arrivo in zona operazioni, il mensile ogni primo giorno del mese e la liquidazione a fine attività, e mi era stato richiesto il nominativo di una persona alla quale destinare l’ultimo importo in caso di morte (per questo scelsi mia sorella alla quale mentii dicendo che partivo per andare a lavorare in un cantiere).

Si trattava di una cifra importante, più di quanto avevo guadagnato in quindici anni di Legione, e soddisfatto di andare incontro a questa avventura passavo quasi tutta la giornata al bar del quale avevo dato il numero di telefono, non disponendo di tale comodità nella stanza ammobiliata che avevo preso in affitto.

Fu proprio nel giorno in cui giunse la notizia che in Congo erano stati trucidati i tredici militari italiani, che arrivò la chiamata per passare dal centro di arruolamento a definire alcuni dettagli. Mi vennero presentati due colleghi che sarebbero partiti assieme a me e ci venne consegnato un biglietto ferroviario per Bruxelles da dove avremmo proseguito per via aerea alla volta del Congo.

Non sto a raccontarvi i dettagli del viaggio né le azioni in cui venni coinvolto, alcune incruente ed altre decisamente più vivaci, ma solo che, man mano che passavano i giorni di servizio in zona operazioni, prese forma nella mia mente l’idea bizzarra di cibarmi per vendetta di carne umana.

Mi accorgevo senza stupore, avendolo già provato sia nella guerra mondiale che nel periodo legionario, che ogni volta che tiravo il grilletto del mio fucile o lanciavo una granata sentivo di vendicare qualcuno che, combattendo dalla mia parte, era stato ucciso. Probabilmente questo tipo di pensiero è abbastanza diffuso fra i soldati, costituendo un modo per alleggerire la coscienza, così da riuscire ad uccidere non solo per provare a sopravvivere al combattimento ma anche per poterla far franca un giorno davanti al Padreterno.

Sulla scia di questa idea, ebbi la certezza che per vendicare quei tredici ragazzi non bastasse combattere la gente che stava dalla parte di chi li aveva assassinati, ma che fosse necessario effettuare una ritorsione di pari entità.

Ne parlavo ogni tanto con i due italiani che con me erano partiti, ma non riuscivamo mai a farlo seriamente, o meglio se il discorso inizialmente lo era, si finiva poi sempre sul faceto. Uno dei due, il più scherzoso, arrivava addirittura a chiudere sempre con una barzelletta sui cannibali del tipo:

  • Cosa mangia un cannibale al venerdì? Risposta: Palombaro
  • Cosa mangia un cannibale a Pasqua? Risposta: donna incinta
  • Cosa mangia un cannibale il 25 dicembre? Risposta: Babbo Natale

E via di questo passo…

Il nostro cuoco/interprete, Mabili, un ragazzo congolese che aveva vissuto per un certo periodo a Parigi dove aveva lavorato in un grande ristorante, si era più volte offerto di cucinarci qualche caduto, assicurando che la carne umana, se ben preparata, è più appetibile della bovina, ma avevamo sempre sorvolato sull’argomento. Lo avevo visto indugiare più di una volta presso qualche vittima della battaglia per poi appartarsi a cucinare separatamente  e solo per sé, ma non indagai mai per sapere di cosa si trattasse, anche se ero certo che i miei non fossero solo dei sospetti.

Il 20 aprile 1962 avevamo effettuato un posto di blocco all’uscita di un villaggio dichiaratamente ostile, dove avevamo catturato tre individui che procedevano su una Land Rover con a bordo dieci fucili d’assalto e svariate casse di munizioni. Al nostro interprete i tre avevano giustificato tale armamento come necessario per una battuta di caccia all’elefante, ma il tipo di materiale non lasciava alcun dubbio su quale sarebbe stato il suo reale utilizzo, così li arrestammo e sequestrammo i loro beni.

La sorte volle che quella sera non potessimo rientrare al quartier generale distante quasi trecento chilometri dove avremmo dovuto consegnare i prigionieri, e che ci accampassimo, dovendoci spingere il giorno successivo più a sud per congiungerci con un’altra pattuglia. Legammo i catturati fra loro e, per maggior sicurezza ad un albero, e ci accingemmo a fare una partita a carte mangiando carne in scatola con gallette e bevendo birra.

Era già buio quando i prigionieri, che fino a quel momento erano stati tranquilli, iniziarono ad intonare una nenia forse per passare il tempo, ma più probabilmente per segnalare la nostra posizione. Dicemmo più volte all’interprete di farli smettere, ma ogni volta riprendevano e, da un commento fattoci da Mabili, capimmo che avrebbero continuato così fino all’alba. Mi alzai e mi avvicinai a loro per ammonirli in italiano,  facendo capire con chiari gesti che non mi sarei ripetuto. Smisero per una decina di minuti per poi riprendere a cantare a squarciagola.

In quell’attimo il ricordo degli equipaggi italiani dei due C119 e la voglia di vendicarli sul serio ebbe il sopravvento. Presi il mio fucile scarrellandolo e, ponendo la leva del selettore sul colpo singolo, percorsi la breve distanza che mi separava da loro.

Fu un’esecuzione veloce, un proiettile alla testa per ciascuno, prima di tornare dal cuoco che incaricai della preparazione delle carni e che fu oltremodo felice dell’incarico.

Erano squisiti, e fu l’unica volta che mangiai carne umana.

Con quel gesto ebbi la piena certezza che io, Carlo B…a, avevo vendicato i ragazzi dell’eccidio di Kindu”.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #

Il Viaggio – L’inizio dell’avventura


Come già anticipato nella recensione del libro intitolato “Sullandai“, questo racconto costituisce idealmente il prologo o – utilizzando un’espressione mutuata dalla gastronomia – l’antipasto del volume pubblicato nel 2004 a opera del Com.te Glauco Nuzzi.

In verità il “Il viaggio – l’inizio dell’avventura ” è molto più giovane, cronologicamente parlando (primavera 2021) rispetto al libro in questione. Come mai – vi chiederete -?

Il Fairchild C-119 Flying Boxcar fu per l’autore il fidato amico su cui contare durante le avventure nei cieli africani. Ne è qui ritratto uno splendido esemplare – appena restaurato – che faceva e tuttora fa bella mostra di sé a Pisa, presso la 46a Brigata aerea ove svolse il suo gravoso ininterrotto ruolo di trasporto pesante per vent’anni e più, praticamente a partire dal 1953 fino al 1979, data registrata negli annali dell’aviazione come ultimo volo ufficiale tra le fila del’AMI (foto proveniente da www.flickr.com)

Semplicemente perché il racconto costituisce una sorta di concreto apprezzamento da parte dell’autore nell’essere stato esortato – e non comandato volontario – a partecipare alla IX edizione del nostro premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE. Anzitutto in qualità di giurato speciale, poi di ospite d’onore nel corso della cerimonia di premiazione e poi, se proprio gli fosse avanzato del tempo e se la memoria lo avesse supportato, anche di autore di almeno un racconto ambientato nel Congo.

Dalla spontanea disponibilità dell’autore è nato dunque il primo capitolo rivisto e corretto, condensato e migliorato di quello che è – e rimane tuttora – il primo capitolo stampato di “Sullandai” .

D’altra parte il titolo del racconto lo lascia facilmente intendere: è l’inizio dell’avventura che visse l’autore, poco più che ventenne,  nei loghi aerei e terrestri del continente africano. Suo malgrado – sottolineiamo perché comandato volontario ad andarci e, prima ancora, comandato a trasferirsi a Pisa presso la 46a Aerobrigata trasporti pesanti come destinazione al reparto, appena terminata l’Accademia Aeronautica.

Non sappiamo se vi è mai capitato di salire a bordo di un C-119 … ad ogni modo questa potrebbe essere la vista, piazzandosi dietro ai seggiolini dei piloti … di sicuro questa è la vista che ebbe l’autore quando fu inviato d’autorità a Pisa, ancora fresco di Accademia. E dire che all’inizio il Com.te Nuzzi odiò il velivolo ma, dopo aver trascorso sopra una parte importante della sua vita professionale, lo lasciò dicendogli un sincero: “ti voglio bene, bestione!”. Sebbene non l’abbia dichiarato apertamente in “Sullandai”, non stentiamo a immaginare che versò pure una lacrimuccia  … ma ci sarà l’occasione di scrivere un racconto a margine del romanzo, non è vero com.te Nuzzi? (foto proveniente da www.flickr.com)

Forse sarà per questo che il comandantissimo Nuzzi si è subito adoperato per migliorare e riscrivere il primo capitolo del suo libro e farne un racconto peraltro piacevolissimo e godibilissimo: perché nessuno degli organizzatori del Premio letterario l’ha comandato … al massimo “pregato di”, certamente non “obbligato a”.     

Tornando all’espressione iniziale “antipasto”, ebbene “Il viaggio – l’inizio dell’avventura ” è sicuramente un antipasto appetitoso, sapido, gustoso che appaga la mente e solletica la curiosità del lettore.

La prosa è semplice, senza particolari artifici narrativi, quasi confidenziale.

La trama è snella ma l’intreccio è davvero ben congegnato per essere confinato allo spazio di un medio-breve racconto.

Pochi ma fondamentali i personaggi e, sebbene la narrazione sia in prima persona, sono presenti alcuni periodi con il discorso diretto evitando così il rischio di un testo piatto se non monotono. E’ pur vero che la vicenda narrata è così dinamica che …

In definitiva un racconto che vi farà venire la voglia di leggere il romanzo o – ci auguriamo – la recensione del libro ospitata nel nostro hangar.

A conclusione di questa recensione permetteteci invece di ringraziare il Com.te Glauco Nuzzi per averci regalato questo cammeo. Lo interpretiamo come un segno di stima e di affetto nei nostri confronti. Come quello che abbiamo noi nei suoi. Nel nostro caso però non disgiunto da un reverenziale rispetto verso quel ventenne oggi cresciuto e divenuto solo per motivi anagrafici un delizioso ultraottantenne, comandato volontario a diventarlo.



Narrativa / Medio-lungo

Inedito

In esclusiva per la IX edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole” – 2021 




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Il viaggio – L’inizio dell’avventura


Con un leggero sorriso il Comandante del 2° Gruppo della 46° Aerobrigata, del quale facevo parte: “Allora lei parte volontario per il Congo?”

Che fossi un volontario per la missione africana non me ne ero ancora accorto … ma a 23 anni lo spirito di avventura spesso ha il sopravvento. Inoltre, avvelenato come ero per essere stato destinato a un sonnolento reparto di trasporti, dopo aver conseguito il Brevetto Militare alla Scuola Aviogetti per una ovvia destinazione a un reparto da caccia, questa variante nel mio impiego non mi dispiacque. Sì, il Congo era una zona di guerra, ma …

Che un reparto di trasporti non fosse poi tanto “sonnolento” lo scoprirò ben presto …

Avevo appena terminato l’addestramento per l’impiego previsto del Reparto e avevo raggiunto la qualifica di combat ready, secondo gli standard NATO. Praticamente “pronto al combattimento”, in altre parole non ero più un addestrando, ma un pilota pronto all’impiego bellico e se dovevo andare in zona di guerra … beh, faceva parte del copione.

L’Italia aveva aderito, come membro ONU, all’operazione Congo e segnatamente con una cooperazione dell’Aeronautica Militare per il supporto logistico dei reparti multinazionali schierati nell’area per aiutare il governo centrale nella lotta contro la secessione mossa da Tchombe

Dopo qualche giorno ci fu il volo di trasferimento. Dovevamo portare un velivolo a Leopoldville (oggi Kinshasa) dove era la nostra base operativa, per ampliare la flotta dei velivoli già schierati in loco. La rotta prevedeva una sosta ad Atene, poi Il Cairo, quindi Khartoum, Entebbe e finalmente Leopoldville. C’è da tener presente che la velocità di crociera del panciuto C 119 era di circa 150 nodi e, date le distanze da percorrere, si prevedevano tratte lunghissime con pilotaggio manuale … sì, perché l’autopilota c’era, ma spesso, anzi troppo spesso, si surriscaldavano i servomotori dei comandi e l’aereo cominciava a prendersi iniziative strane per cui toccava sbrigarsi a staccarlo …

Dopo la breve sosta ad Atene iniziò il volo verso l’Africa, tratta interminabile alternandosi ai comandi con i colleghi (l’equipaggio era doppio o forse di più perché c’era anche da sostituire chi aveva terminato il suo periodo in area operativa).

Si interrompeva il digiuno ogni tanto con le combat rations, dette le “razioni K”. La dotazione consisteva in una scatola di cartone (che poteva far supporre che all’interno ci trovassimo un paio di scarpe). Ci si trovava uno scatolame vario, preparato negli USA, con gusto ben lontano da quello italiano. Il contenuto, spesso carne con sughi piuttosto grassi e rappresi … richiedeva uno stomaco robusto ma avevamo trovato il modo di renderli più appetibili … scaldando il barattolo. Non c’erano fornelli di nessun tipo su un velivolo spartano come il C-119, ma, l’italica fantasia, aveva trovato la soluzione … A metà fusoliera, all’altezza grosso modo delle semiali, c’era un vano nel quale era alloggiato un cilindro metallico con alettature … era il regolatore di tensione dei generatori che in volo diventava pressoché rovente … un barattolo adagiato sopra per una ventina di minuti pareva uscito dal forno. Aperto i barattolo … il tutto diventava profumato (beh, insomma) e appetibile.

Quando all’orizzonte vidi apparire una striscia gialla che si staccava dal blu del mare “Ecco l’Africa”, pensai e cominciammo una lenta discesa. Sorvolato il delta del Nilo ci addentrammo verso Il Cairo, dove, finalmente, atterrammo.

Al Cairo, ormai è un bel po’ che non ci passo, a quei tempi, anni ‘60, la città appariva alquanto caotica. Traffico intenso, un perenne coro di clacson, costruzioni di scarso valore architettonico, palme dappertutto, venditori ambulanti e un senso olfattivo completamente diverso.

Che ci fosse un ristorante italiano al Cairo, il “Roma”, non me lo aspettavo. Alcune cose restano indimenticabili anche col passare degli anni. Mi restò impresso il sapore della rucola e dei ravanelli, molto più grossi di quelli che abitualmente vediamo in Italia, le bistecche (qualcuno dubitò, sarà mica cammello?) in realtà erano ottime, anche se di zebù, un bovino diffuso in Africa.

La sera una lunga passeggiata fra negozietti e bancarelle. Da bravo turista subito comprai qualche souvenir africano: una sella di cammello, che ancora uso come sgabello e una capiente borsa di pelle che diventerà la mia borsa “operativa” per tutto il periodo. Era capiente abbastanza per farci entrare, oltre ai ricambi necessari, anche il MAB, caricatori, bombe a mano e tutto quello che mi accompagnerà in tutti i voli operativi a venire.

Uno o due giorni dopo, non ricordo, partimmo per Khartoum. La rotta prevedeva un percorso che faceva risalire il Nilo e mi faceva vedere dal vivo quello che avevo studiato, a scuola, in geografia. Larghe chiazze di verde costeggiavano il fiume: le periodiche esondazioni fertilizzavano le aree circostanti rendendo le zone abitabili.

Mano a mano che si procedeva verso sud le temperature, naturalmente, aumentavano e a bordo non c’era nessun tipo di condizionamento. Il fatto che si volasse fra gli otto e diecimila piedi portava un sollievo solo parziale e, avvicinandosi al suolo per l’atterraggio, i 40 e oltre gradi di temperatura si sentivano tutti.

La sosta in Sudan mi è rimasta in memoria come una lunga sauna. L’albergo non disponeva di aria condizionata (anni ’60!) e anche di sera le temperature erano insopportabili. Ricordo che, per potermi addormentare, dovetti bagnare il lenzuolo.

Ma il problema principale era il decollo. Esaminando le tabelle di pista ci rendemmo conto che con quel carico dovevamo aspettare che la temperatura scendesse a non oltre 31 gradi, cosa che si verificava intorno alle tre di notte, ma durava poco … subito dopo si tornava verso i 35/36 gradi.

Scegliemmo, o meglio, fummo costretti a scegliere, di decollare alle tre di notte.

A Entebbe era tutto diverso. Sull’altopiano la sera si godeva di una temperatura piacevolmente fresca. La città, ex colonia britannica, mi apparve come un gioiello. Costruzioni di tipo europeo contornate di vegetazione africana e fu in quella occasione che ebbi la sensazione di essere un privilegiato, remunerato per fare il turista. Ci fermammo qualche giorno e fu una vera vacanza. Passeggiate lungo il lago Vittoria, vegetazione e fiori che mi incuriosivano e mi sorprendevano ad ogni passo, il pensiero che stavo andando verso una zona di guerra al momento non mi sfiorava nemmeno.

Lasciai a malincuore quel piccolo paradiso africano per l’ultima balzo, il volo per Leopoldville.

La tratta era piuttosto lunga e si ponevano problemi di autonomia: esaminammo la possibilità di un eventuale scalo tecnico per rifornimento, ma, un imprevisto e robusto vento in coda che ci fece aumentare la velocità e diminuire il consumo, ci risparmiò la fatica.

A Leopoldville fummo accolti calorosamente dai colleghi che ci aspettavano con ansia, per pezzi di ricambio e rifornimenti vari dalla madrepatria … nonché  per l’atteso avvicendamento di personale. Ci furono assegnate, due ufficiali per abitazione, delle belle villette nel quartiere di N’Djili, a una decina di chilometri dalla città.

Ci fu un briefing generico al palazzo ONU sul tipo di attività che avremmo svolto, raccomandazioni generiche e indicazioni sulle norme di comportamento con i nativi. Alcuni particolari mi sorpresero: “Donne, se dicono di sì, ok, altrimenti non insistere, potrebbe finire male. Se fate a pugni non colpiteli alla testa … è inutile … pugni allo stomaco …”.

L’ambiente non mi appariva particolarmente familiare ma tenni conto delle raccomandazioni e mi resi conto che dovevo, in qualche modo, adattarmi all’ambiente.

L’alloggio del Comandante del distaccamento era il più grande e aveva un ampio salone che diventò la mensa ufficiali e faceva anche da sala briefing. A cena venivano formati gli equipaggi e si assegnavano i voli per l’indomani. Si parlava dei voli del giorno, problemi vari, pericoli potenziali e difficoltà generale per portare a termine le varie missioni. Aeroporti con piste corte, affogati nel verde fitto della foresta, difficoltà dei rifornimenti (da un bidone su una carriola il negretto pompava a mano … centinaia di litri di benzina 115/145 e passavano ore nel caldo torrido) e l’alea di trovarsi, dopo l’atterraggio, invece che i Baschi Blu, i mercenari dei secessionisti katanghesi …

Mi resi conto che per conoscere l’Africa … beh, forse ci potevano essere condizioni migliori, ma ero un militare … e poi “volontario”.

All’inizio qualche giro per Leopoldville. Era una bella città, costruzioni europee, vegetazione africana, giardini fioriti dappertutto e si apprezzava un certo ordine e pulizia (… rispetto al Cairo e Khartoum …) ordine e pulizia che tornandoci molti anni dopo, volando per l’Alitalia … erano un bel ricordo.

Mercatino dell’avorio e manufatti artigianali locali, un forte vocio di contrattazioni, un odore tipico africano indescrivibile, di cuoio e pelli animali. Mi accorsi che il francese imparato a scuola … non era stato inutile e cominciai a integrarmi nel nuovo ambiente. Bar affollati di varie razze, qualche ragazza indigena carina e disponibile, birra fredda che attutiva il caldo soffocante, cambio dei dollari  con franchi congolesi (borsa nera, in banca ci si rimetteva troppo ) … ed un po’ per volta mi trovai a mio agio … beh, a terra. Durante le operazioni un po’ meno …

Indimenticabile il mio primo volo operativo.

Luluaburg, si carica il velivolo col materiale da portare a destinazione, Stanleyville. Vedo imbarcare casse su casse, bidoni di carburante, altre cassette metalliche di munizioni … un ufficiale svedese mi consegna il piano di carico … peso totale piuttosto elevato … sento il Comandante chiedere il pieno di carburante … regolo di bilanciamento in mano … faccio qualche calcolo e …

“Comandante … siamo fuori peso, e con questa temperatura …”.

Senza cambiare espressione del volto o mostrare alcuna emozione: “Ragazzo! Qui c’è la guerra e si fa così. Salta a bordo e fai i controlli che andiamo!”

Decollo indimenticabile (ma non sarà l’unico in quel periodo) … lunga corsa si accelerazione, a fondo pista (sì, proprio fondo pista) … una cabrata secca e ci troviamo per aria … con le cime degli alberi che parevano spazzolarci il fondo della fusoliera …

Deglutii sospirando … bell’ambiente pensai … ma in seguito questo tipo di volo diventerà abituale …



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Glauco Nuzzi