Come già anticipato nella recensione del libro intitolato “Sullandai“, questo racconto costituisce idealmente il prologo o – utilizzando un’espressione mutuata dalla gastronomia – l’antipasto del volume pubblicato nel 2004 a opera del Com.te Glauco Nuzzi.
In verità il “Il viaggio – l’inizio dell’avventura ” è molto più giovane, cronologicamente parlando (primavera 2021) rispetto al libro in questione. Come mai – vi chiederete -?
Semplicemente perché il racconto costituisce una sorta di concreto apprezzamento da parte dell’autore nell’essere stato esortato – e non comandato volontario – a partecipare alla IX edizione del nostro premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE. Anzitutto in qualità di giurato speciale, poi di ospite d’onore nel corso della cerimonia di premiazione e poi, se proprio gli fosse avanzato del tempo e se la memoria lo avesse supportato, anche di autore di almeno un racconto ambientato nel Congo.
Dalla spontanea disponibilità dell’autore è nato dunque il primo capitolo rivisto e corretto, condensato e migliorato di quello che è – e rimane tuttora – il primo capitolo stampato di “Sullandai” .
D’altra parte il titolo del racconto lo lascia facilmente intendere: è l’inizio dell’avventura che visse l’autore, poco più che ventenne, nei loghi aerei e terrestri del continente africano. Suo malgrado – sottolineiamo perché comandato volontario ad andarci e, prima ancora, comandato a trasferirsi a Pisa presso la 46a Aerobrigata trasporti pesanti come destinazione al reparto, appena terminata l’Accademia Aeronautica.
Forse sarà per questo che il comandantissimo Nuzzi si è subito adoperato per migliorare e riscrivere il primo capitolo del suo libro e farne un racconto peraltro piacevolissimo e godibilissimo: perché nessuno degli organizzatori del Premio letterario l’ha comandato … al massimo “pregato di”, certamente non “obbligato a”.
Tornando all’espressione iniziale “antipasto”, ebbene “Il viaggio – l’inizio dell’avventura ” è sicuramente un antipasto appetitoso, sapido, gustoso che appaga la mente e solletica la curiosità del lettore.
La prosa è semplice, senza particolari artifici narrativi, quasi confidenziale.
La trama è snella ma l’intreccio è davvero ben congegnato per essere confinato allo spazio di un medio-breve racconto.
Pochi ma fondamentali i personaggi e, sebbene la narrazione sia in prima persona, sono presenti alcuni periodi con il discorso diretto evitando così il rischio di un testo piatto se non monotono. E’ pur vero che la vicenda narrata è così dinamica che …
In definitiva un racconto che vi farà venire la voglia di leggere il romanzo o – ci auguriamo – la recensione del libro ospitata nel nostro hangar.
A conclusione di questa recensione permetteteci invece di ringraziare il Com.te Glauco Nuzzi per averci regalato questo cammeo. Lo interpretiamo come un segno di stima e di affetto nei nostri confronti. Come quello che abbiamo noi nei suoi. Nel nostro caso però non disgiunto da un reverenziale rispetto verso quel ventenne oggi cresciuto e divenuto solo per motivi anagrafici un delizioso ultraottantenne, comandato volontario a diventarlo.
Narrativa / Medio-lungo
Inedito
In esclusiva per la IX edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole” – 2021
Attenzione: Non esiste il Tag IL VIAGGIO - L'INIZIO DELL'AVVENTURA
All’interno dell’antologia del nostro Premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE, in coda a tutti i racconti, vengono citati i giurati che hanno permesso di stilare la classifica e dunque il vincitore. A conferma della bontà dei giurati coinvolti e affinché gli autori/autrici ma anche il lettori creino idealmente un’immagine del giurato, è presente una breve nota biografica relativa appunto a ciascuno di loro.
Quando si è trattato di stilare la biografica del giurato speciale della IX edizione, al secolo Com.te Glauco Nuzzi, non è stato affatto facile redigere la sua scheda personale. Come rendere l’idea di avere a che fare con un monumento dell’aviazione italiana? Come essere leggeri o brillanti senza risultare offensivi agli occhi dell’interessato? Ci abbiamo provato e forse ci siamo riusciti … questo è quanto:
“Pimpante ultraottantenne, ha svolto una lunga carriera militare (dapprima nella 46a Aerobrigata di Pisa, poi al 103° Gruppo Cacciabombardieri di Treviso), altrettanto lunga nell’aviazione commerciale (Alitalia, comandante di MD-80) e infine in quella generale/sportiva.Oltre a “Sullandai“, ha pubblicato le avventure di volo con il FIAT G-91 in “Centotreesimo”, mentre in “Quasi … manuale di volo” ha riversato la sua esperienza da istruttore in una serie di suggerimenti per i piloti, giovani e non.Ovviamente non poteva mancare un volume dal titolo piuttosto polemico, “AH! L’Italia” che ne lascia presagire il tono generale ed è dedicato, ovviamente, alla nostra Compagnia di bandiera.”
Per inviare impressioni, minaccie ed improperie all’autore:
I Lupi della 46° Aerobrigata erano chiamati così perché a quei tempi era l’unico reparto che volasse con qualsiasi tempo per arrivare dovunque e sempre.
Il C-119 era una gran bella macchina per l’epoca e consentiva un’operatività molto vasta. Due meravigliosi motori, da 3500 cavalli ciascuno, un grosso vano di carico ed equipaggi molto preparati con un forte spirito di corpo.
Quel giorno mi fu affidata una missione di routine. Andare a caricare del materiale in una base statunitense della NATO in Germania, non ricordo quale. La navigazione non fu delle più tranquille. Maltempo su tutta la rotta così come previsto nella base di arrivo.
L’unica cosa che mancava al “vagone volante” era un radar meteo, a quei tempi tutt’altro che diffuso, e a volte la cosa creava qualche problema. In altre parole quando in volo si notavano grosse nubi cumuliformi … si evitavano accuratamente variando la prua in maniera da non finirci dentro, ma poteva capitare di trovare un cumulo nembo embedded che noi definivamo “affogato”, quando si trovava proditoriamente ben occultato in altre formazioni di nubi inoffensive. Capitava, in tali casi, che il velivolo venisse sbattuto da tutte le parti come se si trovasse dentro una lavatrice in centrifuga. In cabina si creavano scene da tregenda, manuali, matite, carte di navigazione, occhiali e altri oggetti che volavano e sbattevano dappertutto. Il velivolo doveva essere pilotato manualmente perché l’autopilota era poco affidabile anche con aria calma e la situazione era tutt’altro che allegra.
Quel giorno, per l’appunto, la navigazione divenne IMC subito dopo il decollo e prosegui verso la Germania con tutti i dispositivi antighiaccio in funzione, ma senza turbolenza particolare.
In avvicinamento al campo le cose presero una piega diversa. Turbolenza da media a forte, turbinio di fiocchi di neve davanti al muso, colpi continui contro la fusoliera per i blocchi di ghiaccio che si staccavano dall’elica grazie all’antighiaccio sulle pale …
Passammo alla frequenza GCA. Un operatore piuttosto bravo, con una cadenza di voce da afroamericano, ci condusse speditamente verso il tratto finale. Nel turbinio di fiocchi bianchi, a qualche centinaio di piedi sul terreno intravidi la luce guizzante dell’EFAS e finalmente la pista, non molto lunga, con larghe chiazze bianche … che non erano zucchero vanigliato, ma semplicemente ghiaccio.
Atterrai con molta attenzione e non senza una certa apprensione per le vaste aree ghiacciate, usando i freni con parsimonia. Mi fermai, tirando un sospiro di sollievo, poco dopo metà pista, in attesa di istruzioni.
“Back track on the active, strangle parrot” … Strangola il pappagallo! Questo è scemo, pensai.
Temendo di non aver capito replicai: “Say again”, mentre girando, mi accingevo a tornare indietro.
“Strangle parrot” … Aridaje col pappagallo! Mi girai verso l’equipaggio. “Qualcuno c’ha un pappagallo? … così ‘o strozzamo e famo contento ‘sto matto” col mio inguaribile accento romanesco.
L’operatore GCA, pensando che non capissi l’inglese, me lo disse in italiano … beh insomma, quasi … “Sciangoula pep ghelou” e finalmente intuii … spensi l’IFF.
“Clear runway on the first intersection on your left and check the marshal”
Anni ‘60, guerra fredda. Gli americani avevano fatto installare su tutti i velivoli NATO un apparato il cui acronimo ne chiariva l’intento: IFF stava per Identify Friend or Foe. In altri termini: identifica se è dei nostri o no. Era il precursore degli odierni transponder e forse i piloti giovani non ne hanno mai sentito parlare. In pratica non faceva altro che ritrasmettere un codice ricevuto da terra … ecco perché pappagallo. Serviva a discriminare i velivoli NATO da eventuali visite indesiderate dal Blocco di Varsavia.
Gli americani lo chiamavano parrot per il fatto che ripeteva quello che aveva ricevuto, ma per me, giovane capo equipaggio non ancora venticinquenne, era un IFF
Con un leggero sorriso il Comandante del 2° Gruppo della 46° Aerobrigata, del quale facevo parte: “Allora lei parte volontario per il Congo?”
Che fossi un volontario per la missione africana non me ne ero ancora accorto … ma a 23 anni lo spirito di avventura spesso ha il sopravvento. Inoltre, avvelenato come ero per essere stato destinato a un sonnolento reparto di trasporti, dopo aver conseguito il Brevetto Militare alla Scuola Aviogetti per una ovvia destinazione a un reparto da caccia, questa variante nel mio impiego non mi dispiacque. Sì, il Congo era una zona di guerra, ma …
Che un reparto di trasporti non fosse poi tanto “sonnolento” lo scoprirò ben presto …
Avevo appena terminato l’addestramento per l’impiego previsto del Reparto e avevo raggiunto la qualifica di combat ready, secondo gli standard NATO. Praticamente “pronto al combattimento”, in altre parole non ero più un addestrando, ma un pilota pronto all’impiego bellico e se dovevo andare in zona di guerra … beh, faceva parte del copione.
L’Italia aveva aderito, come membro ONU, all’operazione Congo e segnatamente con una cooperazione dell’Aeronautica Militare per il supporto logistico dei reparti multinazionali schierati nell’area per aiutare il governo centrale nella lotta contro la secessione mossa da Tchombe
Dopo qualche giorno ci fu il volo di trasferimento. Dovevamo portare un velivolo a Leopoldville (oggi Kinshasa) dove era la nostra base operativa, per ampliare la flotta dei velivoli già schierati in loco. La rotta prevedeva una sosta ad Atene, poi Il Cairo, quindi Khartoum, Entebbe e finalmente Leopoldville. C’è da tener presente che la velocità di crociera del panciuto C 119 era di circa 150 nodi e, date le distanze da percorrere, si prevedevano tratte lunghissime con pilotaggio manuale … sì, perché l’autopilota c’era, ma spesso, anzi troppo spesso, si surriscaldavano i servomotori dei comandi e l’aereo cominciava a prendersi iniziative strane per cui toccava sbrigarsi a staccarlo …
Dopo la breve sosta ad Atene iniziò il volo verso l’Africa, tratta interminabile alternandosi ai comandi con i colleghi (l’equipaggio era doppio o forse di più perché c’era anche da sostituire chi aveva terminato il suo periodo in area operativa).
Si interrompeva il digiuno ogni tanto con le combat rations, dette le “razioni K”. La dotazione consisteva in una scatola di cartone (che poteva far supporre che all’interno ci trovassimo un paio di scarpe). Ci si trovava uno scatolame vario, preparato negli USA, con gusto ben lontano da quello italiano. Il contenuto, spesso carne con sughi piuttosto grassi e rappresi … richiedeva uno stomaco robusto ma avevamo trovato il modo di renderli più appetibili … scaldando il barattolo. Non c’erano fornelli di nessun tipo su un velivolo spartano come il C-119, ma, l’italica fantasia, aveva trovato la soluzione … A metà fusoliera, all’altezza grosso modo delle semiali, c’era un vano nel quale era alloggiato un cilindro metallico con alettature … era il regolatore di tensione dei generatori che in volo diventava pressoché rovente … un barattolo adagiato sopra per una ventina di minuti pareva uscito dal forno. Aperto i barattolo … il tutto diventava profumato (beh, insomma) e appetibile.
Quando all’orizzonte vidi apparire una striscia gialla che si staccava dal blu del mare “Ecco l’Africa”, pensai e cominciammo una lenta discesa. Sorvolato il delta del Nilo ci addentrammo verso Il Cairo, dove, finalmente, atterrammo.
Al Cairo, ormai è un bel po’ che non ci passo, a quei tempi, anni ‘60, la città appariva alquanto caotica. Traffico intenso, un perenne coro di clacson, costruzioni di scarso valore architettonico, palme dappertutto, venditori ambulanti e un senso olfattivo completamente diverso.
Che ci fosse un ristorante italiano al Cairo, il “Roma”, non me lo aspettavo. Alcune cose restano indimenticabili anche col passare degli anni. Mi restò impresso il sapore della rucola e dei ravanelli, molto più grossi di quelli che abitualmente vediamo in Italia, le bistecche (qualcuno dubitò, sarà mica cammello?) in realtà erano ottime, anche se di zebù, un bovino diffuso in Africa.
La sera una lunga passeggiata fra negozietti e bancarelle. Da bravo turista subito comprai qualche souvenir africano: una sella di cammello, che ancora uso come sgabello e una capiente borsa di pelle che diventerà la mia borsa “operativa” per tutto il periodo. Era capiente abbastanza per farci entrare, oltre ai ricambi necessari, anche il MAB, caricatori, bombe a mano e tutto quello che mi accompagnerà in tutti i voli operativi a venire.
Uno o due giorni dopo, non ricordo, partimmo per Khartoum. La rotta prevedeva un percorso che faceva risalire il Nilo e mi faceva vedere dal vivo quello che avevo studiato, a scuola, in geografia. Larghe chiazze di verde costeggiavano il fiume: le periodiche esondazioni fertilizzavano le aree circostanti rendendo le zone abitabili.
Mano a mano che si procedeva verso sud le temperature, naturalmente, aumentavano e a bordo non c’era nessun tipo di condizionamento. Il fatto che si volasse fra gli otto e diecimila piedi portava un sollievo solo parziale e, avvicinandosi al suolo per l’atterraggio, i 40 e oltre gradi di temperatura si sentivano tutti.
La sosta in Sudan mi è rimasta in memoria come una lunga sauna. L’albergo non disponeva di aria condizionata (anni ’60!) e anche di sera le temperature erano insopportabili. Ricordo che, per potermi addormentare, dovetti bagnare il lenzuolo.
Ma il problema principale era il decollo. Esaminando le tabelle di pista ci rendemmo conto che con quel carico dovevamo aspettare che la temperatura scendesse a non oltre 31 gradi, cosa che si verificava intorno alle tre di notte, ma durava poco … subito dopo si tornava verso i 35/36 gradi.
Scegliemmo, o meglio, fummo costretti a scegliere, di decollare alle tre di notte.
A Entebbe era tutto diverso. Sull’altopiano la sera si godeva di una temperatura piacevolmente fresca. La città, ex colonia britannica, mi apparve come un gioiello. Costruzioni di tipo europeo contornate di vegetazione africana e fu in quella occasione che ebbi la sensazione di essere un privilegiato, remunerato per fare il turista. Ci fermammo qualche giorno e fu una vera vacanza. Passeggiate lungo il lago Vittoria, vegetazione e fiori che mi incuriosivano e mi sorprendevano ad ogni passo, il pensiero che stavo andando verso una zona di guerra al momento non mi sfiorava nemmeno.
Lasciai a malincuore quel piccolo paradiso africano per l’ultima balzo, il volo per Leopoldville.
La tratta era piuttosto lunga e si ponevano problemi di autonomia: esaminammo la possibilità di un eventuale scalo tecnico per rifornimento, ma, un imprevisto e robusto vento in coda che ci fece aumentare la velocità e diminuire il consumo, ci risparmiò la fatica.
A Leopoldville fummo accolti calorosamente dai colleghi che ci aspettavano con ansia, per pezzi di ricambio e rifornimenti vari dalla madrepatria … nonché per l’atteso avvicendamento di personale. Ci furono assegnate, due ufficiali per abitazione, delle belle villette nel quartiere di N’Djili, a una decina di chilometri dalla città.
Ci fu un briefing generico al palazzo ONU sul tipo di attività che avremmo svolto, raccomandazioni generiche e indicazioni sulle norme di comportamento con i nativi. Alcuni particolari mi sorpresero: “Donne, se dicono di sì, ok, altrimenti non insistere, potrebbe finire male. Se fate a pugni non colpiteli alla testa … è inutile … pugni allo stomaco …”.
L’ambiente non mi appariva particolarmente familiare ma tenni conto delle raccomandazioni e mi resi conto che dovevo, in qualche modo, adattarmi all’ambiente.
L’alloggio del Comandante del distaccamento era il più grande e aveva un ampio salone che diventò la mensa ufficiali e faceva anche da sala briefing. A cena venivano formati gli equipaggi e si assegnavano i voli per l’indomani. Si parlava dei voli del giorno, problemi vari, pericoli potenziali e difficoltà generale per portare a termine le varie missioni. Aeroporti con piste corte, affogati nel verde fitto della foresta, difficoltà dei rifornimenti (da un bidone su una carriola il negretto pompava a mano … centinaia di litri di benzina 115/145 e passavano ore nel caldo torrido) e l’alea di trovarsi, dopo l’atterraggio, invece che i Baschi Blu, i mercenari dei secessionisti katanghesi …
Mi resi conto che per conoscere l’Africa … beh, forse ci potevano essere condizioni migliori, ma ero un militare … e poi “volontario”.
All’inizio qualche giro per Leopoldville. Era una bella città, costruzioni europee, vegetazione africana, giardini fioriti dappertutto e si apprezzava un certo ordine e pulizia (… rispetto al Cairo e Khartoum …) ordine e pulizia che tornandoci molti anni dopo, volando per l’Alitalia … erano un bel ricordo.
Mercatino dell’avorio e manufatti artigianali locali, un forte vocio di contrattazioni, un odore tipico africano indescrivibile, di cuoio e pelli animali. Mi accorsi che il francese imparato a scuola … non era stato inutile e cominciai a integrarmi nel nuovo ambiente. Bar affollati di varie razze, qualche ragazza indigena carina e disponibile, birra fredda che attutiva il caldo soffocante, cambio dei dollari con franchi congolesi (borsa nera, in banca ci si rimetteva troppo ) … ed un po’ per volta mi trovai a mio agio … beh, a terra. Durante le operazioni un po’ meno …
Indimenticabile il mio primo volo operativo.
Luluaburg, si carica il velivolo col materiale da portare a destinazione, Stanleyville. Vedo imbarcare casse su casse, bidoni di carburante, altre cassette metalliche di munizioni … un ufficiale svedese mi consegna il piano di carico … peso totale piuttosto elevato … sento il Comandante chiedere il pieno di carburante … regolo di bilanciamento in mano … faccio qualche calcolo e …
“Comandante … siamo fuori peso, e con questa temperatura …”.
Senza cambiare espressione del volto o mostrare alcuna emozione: “Ragazzo! Qui c’è la guerra e si fa così. Salta a bordo e fai i controlli che andiamo!”
Decollo indimenticabile (ma non sarà l’unico in quel periodo) … lunga corsa si accelerazione, a fondo pista (sì, proprio fondo pista) … una cabrata secca e ci troviamo per aria … con le cime degli alberi che parevano spazzolarci il fondo della fusoliera …
Deglutii sospirando … bell’ambiente pensai … ma in seguito questo tipo di volo diventerà abituale …
Il protagonista indiscusso e ineguagliabile della premiazione del nostro premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE, VIII e IX edizione, è stato sicuramente il Com.te Glauco Nuzzi e il suo Sullandai.
Nella fantasmagorica cornice dell’Auditorium del Palazzo dell’Aeronautica di Roma, domenica 17 ottobre 2021, egli ha raccontato con la vividezza della sua voce le sue esperienze di volo – e di vita – in Congo così come, in modo articolato e ben più esteso, aveva già confessato nel 2004 in forma scritta nel suo libro autobiografico Sullandai, appunto.
Appena ventenne, nei primissimi anni ’60, partecipò infatti alla missione di pace in quel martoriato paese africano sostenuta dall’Aeronautica Militare Italiana e sotto l’egida dell’ONU. Missione che comportò un massiccio impegno di uomini e velivoli della 46a Aerobrigata di Pisa e purtroppo tragicamente passata la storia per il terribile eccidio di Kindu in cui due equipaggi di C-119 italiani furono barbaramente trucidati dai tagliagole congolesi.
Il drammatico episodio, in occasione del suo sessantesimo anniversario, è stato assunto quale personaggio storico del Premio letterario appunto, edizione 2021. O meglio, lo sono stati i due equipaggi rispettivamente del velivolo Lyra 5 e del Lupo 33 che sono dunque divenuti oggetto di numerosi racconti in qualità di protagonisti o elementi principali della trama. Un modo diverso per unire la conservazione della memoria con la divulgazione storica e al contempo per onorare i tredici aviatori caduti nello svolgimento del loro dovere; storia e narrativa unite in un connubio snello eppure evocativo.
Per gli organizzatori del Premio, una volta stabilito il personaggio storico della IX edizione, associarlo al nome dell’autore è stata una questione di pochi istanti. Per il Presidente dell’HAG, Stefano Gambaro, Glauco Nuzzi è stato infatti un istruttore di volo fondamentale – quanto indimenticabile – nel corso della sua carriera professionale di pilota commerciale; per il gestore di VOCI DI HANGAR nonché Segretario del Premio, Glauco Nuzzi era invece l’autore di un romanzo autobiografico recuperato in modo singolare e letteralmente divorato un paio di anni prima. Un autore da cui era stato molto favorevolmente impressionato per la semplicità narrativa ma anche per il realismo del racconto.
Da qui è nato il comune desiderio di coinvolgere in modo fattivo il Com.te Nuzzi in quelle che sarebbero state le dinamiche del Premio, ossia: preparare una speciale prefazione da inserire nell’antologia, svolgere lo spinoso incarico di giurato – nel suo caso, speciale – da aggiungere alla schiera dei giurati ”convenzionali” del Premio, godere della sua presenza in occasione della cerimonia di premiazione attribuendogli il ruolo dell’ospite d’onore.
In realtà, presi dall’onda dell’entusiasmo di poter attingere a una fonte autorevole quanto mirabile, gli organizzatori hanno avuto l’ardire di chiedere al loro beniamino anche la stesura di un eventuale racconto inedito che traesse spunto dalla sua pluriennale carriera di pilota cominciata proprio tra le fila della 46a Aerobrigata in Africa.
La risposta dell’ormai ultraottantenne autore romano non si è fatta attendere né si è fatto pregare di fronte a tante richieste audaci – non c’è che dire – tanto che si è dichiarato subito disponibile su tutta la linea e anzi, tempo qualche giorno, ha fornito alla Segretaria del Premio ben due racconti inediti, uno dei quali costituisce virtualmente un gustoso antipasto di quello che è il suo romanzo Sullandai.
E’ dunque consapevoli del grande privilegio che ci ha concesso che pubblichiamo in questo speciale angolo del nostro hangar i racconti intitolati:
A proposito della recensione, in verità, contavamo di pubblicarla diversi mesi orsono ma la scelta di non influenzare gli autori/autrici impegnati con il Premio in corso ci ha fatto desistere; ora che la classifica di RACCONTI TRA LE NUVOLE è stilata, divulgata e i premi sono stati consegnati, possiamo renderne partecipi i nostri visitatori. E senza indugio alcuno.
Ebbene … se la motivazione che si pone quale causa scatenante della stesura del libro è alquanto singolare, altrettanto fortuite sono state le combinazioni che hanno reso possibile per noi recuperare una copia del volume. Ma di questo ne verrete edotti in coda alla recensione …
Viceversa ci teniamo a precisare che Sullandai – e non ce ne voglia l’autore – non è un best sellers né mai lo diventerà nonostante la genuina pubblicità che gli organizzatori del Premio hanno svolto nel corso della premiazione. Anche perché, a oggi, non ci risulta che ne siano disponibili copie nella rete di vendita on line o che qualche editore sia disposto alla sua ristampa. Forse ne esiste qualche rara copia usata in circolazione. Nulla più. Peccato. E questo rende vieppiù pregiata la copia in nostro possesso o in possesso dei fortunati possessori.
Sullandai è’ invece un piacevolissimo diario che non ha le fattezze del diario – in termini di rigidità cronologica – bensì ha la fisionomia di un lungo racconto quasi confidenziale. Si snoda lungo un periodo di tempo incentrato agli inizi degli anni ’60 e in quei loghi distribuiti principalmente sul suolo/cielo del Congo e dintorni.
Protagonista – neanche a dirlo – è l’autore che narra gli eventi e gli innumerevoli episodi in prima persona senza però stancare il lettore o rallentare il suo resoconto.
C’è poi una cospicua messe di coprotagonisti tra cui spicca Giulio Garbati – soprannominato dall’autore Garbulio – che il destino beffardo vorrà privarlo per sempre all’affetto dei suoi cari e consegnarlo alla storia come uno dei tredici martiri di Kindu.
L’autore – sempre il destino ha voluto – visse gli eventi congolesi prima e dopo l’eccidio di Kindu tuttavia, da commilitone ma soprattutto da vero amico del capitano Garbati, fu letteralmente travolto dalla drammatica vicenda di Kindu.
Il romanzo infatti si colloca in diverse situazioni, non necessariamente di servizio e di volo. Dunque, parafrasando il sottotitolo del volume, contiene storie varie degli aviatori italiani in terra d’Africa, specie in Congo, ma non solo.
Che l’autore fosse stato accidentalmente comandato volontario in Africa, ce lo confesserà subito; che prima ancora fosse stato destinato d’autorità ai “pesanti” (gli aerotrasporti) anziché ai caccia (come era nei suoi desideri) ce lo ricorderà più volte nel corso della sua narrazione. Anzi la svolta finale, peraltro del tutto imprevista – finalmente secondo il suo volere – lo coglierà ugualmente contrariato perché ormai si era affezionato al reparto e agli aeroplani che non si fermavano mai perché volavano ognitempo. Quelli della 46a
Il titolo del volume trae dunque origine da una delle tante situazioni rocambolesche vissute dall’autore. E’ una parola in lingua svedese ed è la parola magica che salverà l’equipaggio del C-119 impegnato in una missione impossibile – una delle tante – dalla concreta minaccia di abbattimento ad opera dell’unico “pseudo caccia” nemico (un Fougà Magister) che imperversa nei cieli congolesi.
Vi possiamo anticipare che – incredibile – l’espediente funzionerà e i nostri uomini la faranno franca ancora una volta grazie alla loro inventiva e alle loro indubbie capacità tecniche ma anche freddezza unita a una sottile vena di audacia. Al lettore, viceversa, rimarrà la tensione che trasuda dalle righe di questo episodio e vi assicuriamo gli rimarrà addosso per molte pagine ancora.
Un piccolo inciso: anche in questa missione il nostro beniamino parteciperà come volontario accidentalmente comandato.
In effetti l’autore ci spiega il senso figurato della parola – e ce lo ha ribadito nel corso della premiazione, immancabilmente interrogato sull’argomento – ma non ci spiega il significato espressamente letterale del termine “sullandai” né ci è stato fornito alcun conforto dal tanto osannato traduttore universale disponibile in rete. Purtroppo in Redazione non disponiamo nessuno/a di origine scandinava, come pure non abbiamo amici, conoscenti, lontanissimi parenti capaci di sciogliere questo enigma. Confidiamo però nei nostri visitatori/lettori. In verità auguriamo loro di intrattenersi con uomini/donne provenienti da quell’area geografica, magari nel corso di qualche vacanza balneare, affinché il contatto sia anche culturale. Oltre che di corpi e di anime, s’intende. Sullandai, ricordatevi. E fateci sapere.
La prosa dell’autore è rapida, efficace, leggera in quanto inframezzata di brevi note esplicative a carattere tecnico ma anche di riflessioni intime come pure di battute fulminanti – spesso in dialetto romanesco – mentre non mancano le descrizioni delle bellezze naturali o le situazioni grottesche sottolineate da quel disincanto o quel pragmatismo tipicamente romano di cui l’autore era già illustre esponente. Il tutto unito a una sottile sagacia congenita con l’autore.
L’alchimia tra periodi in terza persona e quelli con discorso diretto è ottima e non ci si accorge di leggere un romanzo di memorie tanto che, senza le opportune premesse, si può scambiarlo tranquillamente per un buon romanzo di fantasia. Inoltre non mancano le irrinunciabili battute in dialetto, romanesco e pisano che rendono assai veraci i dialoghi e i personaggi evocati.
Il nostro Glauco dimostra perciò di saper usare sapientemente l’ostica lingua italiana alla stregua dei comandi di volo del pesante “Vagone volante” e il lettore, capitolo dopo capitolo, quasi non si accorge di essere giunto al termine delle 188 pagine che compongono il volume. Perché vicende drammatiche e tragicomiche, avventurose, di terra e di cielo si alternano in un susseguirsi per nulla artificioso. Il tutto è inoltre inframezzato da numerose foto in bianco e nero, generose nelle dimensioni e dotate di preziose didascalie.
Il formato del libro è ottimo, la carta di stampa impeccabile, la dimensione dei caratteri di stampa è standard, l’impaginazione professionale.
Avremmo qualche riserva sul contorno nero della copertina tuttavia – occorre ammetterlo – esalta la foto di copertina. Non è invece presente la IV di copertina.
Valida la biografia presente nei risguardi interni e, sebbene la sinossi sia pressoché inutile, è davvero striminzita.
Onesto il prezzo di vendita (di allora) a testimonianza che sia l’autore che l’editore non intendevano fare business con un libro che aveva tutt’altri scopi.
Insomma un volume che consigliamo agli appassionati di volo ma anche di viaggi, non solo alla ricerca di informazioni circa l’eccidio di Kindu.
Di certo questo volume ha appassionato l’autore nello scriverlo giacché, giusto qualche anno dopo, ha pubblicato altri volumi (di cui vi daremo conto in altre recensioni), ugualmente piacevoli e meritevoli di attenzioni.
Se non fosse per la venerabile età di Glauco – lungi da noi volersi prendere gioco di lui – vorremmo scrivere che, come autore, è certamente destinato a crescere e a migliorarsi in futuro … tuttavia sappiamo che il Com.te Nuzzi, con i suoi libri, ci ha regalato le sue preziose esperienze come pilota a tutto tondo (militare, commerciale, sportivo, amatoriale) con lo stesso spirito con cui un qualsiasi nonno trasmetterebbe le sue esperienze di vita al suo amato nipotino, convinto che l’inesorabilità del tempo li allontanerà per sempre. Prima o poi.
Ebbene, per quanto ci riguarda, possiamo dire di aver avuto il privilegio di conoscere fisicamente il Com.te Glauco Nuzzi, di aver goduto della sua squisita compagnia, di essere stati partecipi delle sue vicissitudini aeronautiche. Grazie Glauco. Ciò nonostante il viso radioso degli occhi guizzanti di questo nostro grande nonno lo serberemo in un angolo speciale del nostro cuore mentre alle sue testimonianze scritte concederemo volentieri l’angolo migliore della nostra memoria. Perché tanto ci ha reso senza nulla pretendere.
Lunga vita a Glauco!!!
Prologo di “Sullandai”
“Aeroporto di Milano Linate. In attesa dell’imbarco passeggeri […]
Rassegnato a un potenziale ritardo mi accomodo su una delle poltrone anteriori del MD-80 […] sfoglio distrattamente un quotidiano.
Vedo con la coda dell’occhio salire a bordo l’atteso personaggio che si mette a discutere con l’Assistente di Volo
– Va bene, fra due minuti vi arriva tutto quello che manca, scusate il disservizio […] Arrivederci, otikala malamu!
– Kenda malamu – rispondo istintivamente mentre l’uomo si avvia alla scaletta per scendere. […]
– Io ho salutato per scherzo in dialetto lingala …
– E io ho risposto sul serio in lingala, ma lei come fa a sapere il dialetto congolese?
– E lei?
– Sono stato in Congo […]
Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
L'unico sito italiano di letteratura inedita (e non) a carattere squisitamente aeronautico.
Aforismi
L’immaginazione è l’aquilone più alto su cui si possa volare.
(Lauren Bacal)
Q.T.B.
PILOTA: Non passa in Sollfar da vario elettrico. MECCANICO: la commutazione da vario a solfahrt è possibile solo ponendo il selettore AUTO/SC sulla posizione V: solo allora è attivo il comando remoto sulla cloche
(Suggerita da Big Mark)
Check-In
A bordo durante servizio bevande. HOSTESS: Signora gradisce bere qualcosa? PASSEGGERA: No, no niente da bere, solo acqua