Signore e signori, lasciate che vi presenti Bob Hoover.
Molti piloti lo conoscono. Una leggenda nel mondo aeronautico. E di quello degli air show statunitensi.
Qui da noi, forse, almeno dal nome, pochi saprebbero risalire al personaggio.
Del resto, noi italiani abbiamo poca inclinazione verso gli air show. E poi abbiamo una Pattuglia Acrobatica Nazionale che è, senza mezzi termini e senza dubbio alcuno, la migliore in assoluto sul pianeta Terra. Perciò tendiamo a conoscere solo quella.
Abbiamo scarsa inclinazione anche verso la lettura. Specialmente di libri in una lingua diversa dalla nostra.
Ma forse, se dico che Bob Hoover è quel pilota che vola con un bimotore, seduto ai comandi indossando un largo cappello da cow-boy (ma non lo è veramente) e poi esegue un tonneau mentre versa acqua, da una bottiglia, in un bicchiere appoggiato sul cruscotto senza che il bicchiere si sposti di un millimetro e senza che una sola goccia si perda… allora molti sapranno di chi si tratta.
Potenza di Youtube.
Questo libro non è altro che l’autobiografia di Bob Hoover.
Ma lasciamo che a presentarlo sia un altro pilota, un Generale che risponde al nome di James Doolittle. Tutti coloro che non hanno idea di chi si tratti, neanche in questo caso, possono semplicemente scriverne il nome su Google.
Al Monterey County Air Show, nel 1988, Doolittle presentò così Hoover al pubblico:
[“Ladies and gentlemen, let me introduce to you Bob Hoover, the greatest stick-and-rudder pilot alive today…
No, That’s wrong, let me introduce to you Bob Hoover, the greatest stick-and-rudder pilot who ever lived”.]
“Signore e signori, lasciate che vi presenti Bob Hoover, il più grande pilota cloche-e-pedaliera vivente …
No, è sbagliato, lasciate che vi presenti Bob Hoover, il più grande pilota cloche-e-pedaliera che sia mai esistito”.
Nelle primissime pagine troviamo le suddette parole, a mo’ di presentazione del contenuto del libro, che il Generale ha voluto riproporre qui, come se si trattasse di introdurre uno spettacolo tipico di Hoover.
Dopo la lettura di questo libro saprete che Doolittle diceva la verità. Certamente di grandi piloti ce ne sono stati molti altri. Uno solo fra questi, tanto per fare un esempio, è stato Chuck Yeager. Su VOCI DI HANGAR trovate il libro autobiografico di Yeager recensito da me un po’ di tempo fa. S’intitola: Yeager: an autobiography – Una vita in cielo.
Anche lui ha scritto una propria presentazione, giusto una pagina dopo. In quella, Yeager racconta un episodio di come si sono incontrati, un giorno, nel cielo del deserto del Mohave, dove aveva sede il Reparto Sperimentale Volo dell’epoca, durante i collaudi di due aerei. Un bimotore a elica per Hoover e un caccia a reazione per Yeager. Era frequente che due piloti del loro calibro si sfidassero in qualche tipo di duello aereo, per ragioni puramente addestrative, ma nessuno avrebbe mai osato attaccare Yeager. Entrambi erano reduci dalla Seconda Guerra Mondiale e avevano combattuto e abbattuto aerei nemici. Erano, perciò, combattenti temibili. In quel cielo volavano come piloti collaudatori di nuove macchine volanti. Erano il meglio del meglio e Yeager aveva una reputazione che non lasciava spazio a scherzi del genere. Non si aspettava di essere sfidato in un duello. Men che mai da un bimotore a elica! Senza avere neppure la più pallida idea di chi ci fosse ai comandi.
Come si è svolta quella storia e come è finita … ve lo lascio scoprire leggendo il breve scritto di Yeager. Ma ne sarete sorpresi …
Segue una pagina intera di onorificenze che Hoover si è guadagnato nel corso della sua carriera. L’elenco è lungo ed è suddiviso tra quelle militari e civili.
Yeager, comunque, ha scritto una vera e propria prefazione di tre pagine, che troviamo di seguito.
E’ un libro strutturato davvero in maniera magistrale.
Dopo un capitolo che riguarda un air show in Russia, dove Hoover si esibisce alla sua maniera, sorprendendo tutti fino a superare i limiti della decenza rischiando di essere arrestato ed incarcerato, il libro vero e proprio comincia. E secondo la più comune consuetudine comincia proprio dall’inizio, dalla nascita, dalla descrizione della famiglia, dalle proprie umili origini etc.
Immancabile è anche la descrizione del suo primo approccio al mondo dell’Aviazione, che nel suo caso riguarda un vicino aeroporto e qualche attività di volo che il piccolo Bob poteva osservare da fuori dell’area aeroportuale, con le dita aggrappate alla classica rete.
Per raggiungere questo luogo di meraviglia, comunque, doveva percorrere una trentina di chilometri, di sola andata, in bicicletta.
Nelle biografie dei vari piloti, spesso vengono citati alcuni personaggi dai quali hanno tratto ispirazione. Hoover non fa eccezione. I suoi personaggi cominciano da un nome famosissimo: Charles Lindberg. La sua trasvolata oceanica, solo a bordo di un monomotore, aveva sbalordito il mondo intero.
E aveva affascinato e travolto di ammirazione il piccolo Bob Hoover.
Bob leggeva molto, da piccolo. E conosceva le gesta di altri piloti. Oltre Lindberg, conosceva Roscoe Turner, Eddie Rickenbacker e Jimmy Doolittle. Quest’ultimo era quello che più attirava il suo interesse. Ma c’era un ulteriore nome, in quei giorni, che divenne per lui particolarmente orientativo: Bernie Ley, che molti anni dopo divenne suo amico. La sua specialità era l’acrobazia aerea.
Hoover cominciò presto a prendere lezioni di volo, racimolando con vari mezzi i dollari necessari. Ma alla fine trovò la strada per entrare in Aviazione. La guerra stava per scoppiare anche per gli Stati Uniti, che aveva bisogno di piloti da mandare a combattere in Europa.
Un aspetto sorprendente del nostro Bob Hoover è che, insieme ad una smisurata passione per il volo e per le manovre acrobatiche, aveva la tendenza a subire il mal d’aria. Non c’era volo che terminasse senza una buona dose di air-sickness. Tuttavia, nel tempo, ogni sintomo divenne sempre più debole e, alla fine, scomparve.
L’aria e il mal d’aria vanno spesso di pari passo, ma solo per una distanza limitata.
Attraverso una serie ininterrotta di eventi, alcuni piuttosto complessi e spesso comici, finalmente il nostro pilota raggiunge l’Europa in guerra, ma anche qui sembra difficile arrivare proprio dentro il conflitto, ai reparti realmente combattenti. Piuttosto, la sua fama di pilota collaudatore, capace di mille prodezze ai comandi di qualunque tipo di aereo, gli procurano un incarico davvero speciale.
Un B-26 Martin Marauder, grosso bimotore da bombardamento, era stato abbattuto sulla costa siciliana, dalle parti di Messina e aveva fatto appena in tempo a raggiungere una spiaggia idonea ad un atterraggio sul ventre. L’aereo era stato riparato, ma la lunghezza della spiaggia non sembrava sufficiente per la ripartenza. Cercavano un pilota capace di compiere il miracolo.
E chi poteva fare una cosa simile?
Chiesero a Hoover. Lui accettò. Se ci fosse riuscito, probabilmente il merito acquisito avrebbe pesato abbastanza da far accettare la sua assegnazione a qualche reparto combattente.
Hoover andò sul posto con una squadra di tecnici militari. Fece smontare ogni cosa possibile, per alleggerire al massimo il pesante bimotore. Fece lasciare nei serbatoi la minima benzina, sufficiente appena per raggiungere il primo aeroporto disponibile, che in questo caso era Palermo. Poi mise in moto i motori e decollò, superando di pochi metri gli ostacoli.
Hoover aveva già pilotato il B-25. Ma mai il B-26, che sembra avesse anche una pessima reputazione, visto il notevole numero di incidenti che erano accaduti durante i voli di addestramento. E lui riuscì a portare via una macchina del genere da una simile spiaggetta piena di ostacoli, di un migliaio di piedi di lunghezza (circa 300 metri, NdR).
Descritta così, in poche righe, può anche sembrare un compito facile. Ma nel libro la descrizione dell’intera impresa prende molto più spazio, si arricchisce di particolari molto interessanti e soprattutto rivela che ci volle più di un mese di preparazione, anche della striscia di decollo, che venne pavimentata con grelle metalliche. Furono fatte prove e tentativi per verificare la fattibilità e l’efficacia dell’accelerazione per raggiungere la velocità minima di rotazione e di sostentamento.
Quando giunse il giorno fatidico, il sergente motorista, caposquadra dei vari tecnici, volle assolutamente salire a bordo e andare con Hoover. Una dimostrazione di fiducia non indifferente.
All’arrivo nel cielo di Palermo, visto che il carburante era ancora più che sufficiente, Bob cercò di dimostrare il proprio talento agli spettatori che stavano aspettando a terra. Dapprima sfidò al combattimento il pilota di un caccia P40 che si trovava in volo nei dintorni. Poi fece alcune manovre acrobatiche e infine atterrò. Da notare che solo lui aveva un sedile, dietro i comandi. Il sergente motorista non lo aveva, perché era stato smontato per alleggerire il peso.
Un’altra epoca. Un altro mondo.
In questa impresa Bob Hoover si guadagnò un alto riconoscimento militare: la Distinguished Flying Cross.
E l’assegnazione a un gruppo combattente, che operava con i famosissimi caccia Spitfire, basato in Corsica, a Calvì.
E qui accadde un altro fatto, una disavventura, un grosso guaio, come è stato tipico di tutta la vita operativa di Bob Hoover.
Dopo un certo periodo di ambientamento, fu promosso flight leader, cioè capo squadriglia.
Il 9 febbraio del 1944 Hoover volava, appunto, come capo squadriglia, in una missione di pattugliamento del tratto di mare tra la costa della Corsica e la Costa Azzurra, con il compito di attaccare e possibilmente distruggere navi, treni e ogni altro obiettivo di convenienza, fino a una certa distanza all’interno della Francia del sud.
Per aumentare l’autonomia degli Spitfire si usava montare un serbatoio ausiliario sganciabile sotto la fusoliera dell’aereo. In caso di attacco nemico, prima di iniziare il combattimento, avrebbero sganciato il serbatoio ausiliario, altrimenti questo avrebbe impedito di aumentare la velocità oltre un certo limite e di manovrare agilmente.
Furono attaccati da una squadriglia di caccia tedeschi. Erano Focke-Wulf 190.
Dopo alcuni scambi di colpi di mitragliatrice, Hoover tirò la maniglia di sgancio del serbatoio, ma la maniglia rimase nella sua mano e il serbatoio al suo posto. Nonostante tutto riuscì a colpire e abbattere un caccia nemico. E pochi istanti dopo ne colpì un altro.
Era il suo primo combattimento reale, un’azione di guerra, non un addestramento con piloti amici.
Lo Spitfire, tanto limitato dalla presenza del serbatoio, aveva ancora una magnifica maneggevolezza, ma la lotta era impari. Uno Spitfire, quello del suo amico Montgomery, esplose in volo, centrato da una raffica. Gli altri, invece di difendere il loro collega, fuggirono alla massima velocità. Un attimo dopo anche l’aereo di Bob fu colpito e il motore prese fuoco. Subito lui aprì la cappottina, rovesciò l’aereo, sganciò le cinture e si lasciò cadere nel vuoto.
La raffica che aveva colpito il suo aereo aveva anche provocato l’esplosione di schegge che avevano raggiunto il sedile e le parti basse del corpo di Hoover. E avevano bucato il canottino gonfiabile, sistemato sotto il paracadute, utilissimo in caso di lancio in mare.
Bob cadde in acqua con soltanto la Mae West gonfiata.
Prima di essere costretto a lanciarsi aveva fatto in tempo a trasmettere un messaggio di soccorso, con la sua posizione e la richiesta di mandare un idrovolante per il recupero.
Ma dopo tre ore di attesa in mare fu una piccola nave tedesca a prenderlo a bordo.
Era prigioniero. Lui, il miglior pilota tra migliaia di altri piloti, era stato abbattuto subito, alla prima missione. Come unica consolazione aveva quella di aver, poco prima, abbattuto un FW 190 nemico. Il suo primo abbattimento.
Ho sintetizzato questo episodio soltanto per renderlo noto. Ma nel libro, il racconto di Hoover è molto più particolareggiato. Nella sua tragicità, con il suo stile stringato e ironico, cattura la mente del lettore.
Da notare un particolare interessante. Anche un altro pilota famosissimo è stato abbattuto più o meno nello stesso tratto di mare, davanti alla linea di costa francese e anche lui era partito dalla Corsica: Antoine de Saint-Exupéry (l’autore del celeberrimo “Il piccolo principe”, NdR).
Il libro continua con la lunga descrizione del periodo di prigionia, fitto di episodi tragici, goliardici, comici e inimmaginabili. Hoover non lasciava mai la minima occasione per cercare di evadere. Lo riprendevano sempre, lo punivano, ma alla successiva occasione ci riprovava. Ha tentato una ventina di volte di fuggire nel tempo di un mese.
Poi, finalmente, la guerra prese una brutta piega per i tedeschi. I russi avanzavano da Est, gli alleati da Ovest e le forze germaniche si trovarono allo sbando.
Approfittando della scarsa attenzione dei suoi carcerieri, Hoover e un gruppo di americani presero il largo.
Durante la fuga attraverso il territorio martoriato dai bombardamenti, arrivarono in un aeroporto.
Sul campo erano sparsi qua e là tanti caccia tedeschi, tutti squarciati da colpi di armi da fuoco e schegge di bombe. Ma ne trovarono uno in condizione di poter volare, sebbene sforacchiato anche quello.
Che può pensare un pilota, in presenza di un aereo che potrebbe volare? Specialmente un pilota collaudatore, abituato a pilotare aerei sui quali non ha mai volato prima? Un pilota che, oltretutto, è anche uno specialista delle fughe?
Nel campo c’erano alcuni militari tedeschi, addetti alle operazioni di volo, rimasti a presidiare il sito, ma timorosi anch’essi dell’avanzata dei russi e sul punto di scappare. Ne presero uno, lo costrinsero a dare una mano nel preparare l’aereo, un FW 190, poi Hoover si mise a bordo e decollò.
Inizialmente pensava di andare in Inghilterra, ma temeva di essere abbattuto dagli alleati. Un caccia tedesco sembra sempre un caccia nemico, anche se pilotato da un americano. Per cui, dopo tanto riflettere, nel sorvolare l’Olanda, decise di atterrare in un campo e raggiungere un gruppo di americani, o inglesi che avanzavano da ovest. Così fece e fu poi riportato in Inghilterra.
Questo libro è talmente zeppo di episodi simili che è impensabile inserirli tutti in una recensione.
Diciamo soltanto che dopo la guerra Hoover tornò negli Stati Uniti, dove la sua vita, manco a dirlo, continuò sulla falsariga di quella vissuta fino a quel momento. Passando da una disavventura all’altra, da un guaio all’altro, ma anche da una conquista all’altra di obiettivi mirabolanti, nel campo del volo militare e successivamente di quello civile.
La terza parte del libro si intitola, appunto, “Test flying for uncle Sam” – “Volando come pilota collaudatore per lo zio Sam”.
La guerra era stata un periodo breve che aveva solamente interrotto la continuità della sua professione principale, quella di pilota sperimentatore.
Ma anche di quella di ammaliatore di pubblico negli air-show.
Le pagine del libro si succedono numerose, scritte a caratteri piccoli, zeppe di episodi. Impossibile fare menzione di tutti. Come orientamento generale, diciamo che, seppure attraverso strade tortuose ed episodi comici e a volte tragici, Hoover andò a finire in un posto sperduto in mezzo al deserto del Mohave, chiamato Muroc. Conosceva già la base di Muroc, ma non sapeva ancora cosa sarebbe diventata: il più grande e più famoso luogo di sperimentazione di tutto ciò che avrebbe volato negli anni a venire, compreso l’aereo razzo che avrebbe superato il muro del suono oppure, l’F-104 modificato che avrebbe superato i centomila piedi di quota percorrendo, in traiettoria balistica e con il motore ormai spento, un breve tratto nello Spazio, prima di rientrare nell’atmosfera. E addirittura lo Space-shuttle. Quella base avrebbe cambiato nome. Si sarebbe chiamata Edwards Air Force Base.
Qui avrebbe operato insieme a personaggi, vecchi e nuovi, che sarebbero diventati famosissime. Giusto per fare qualche nome: Chuck Yeager, Bud Anderson e Neil Armstrong. Ma ne potrei nominare molti altri.
Dopo aver letto tutti gli episodi che Hoover racconta nel libro e che riguardano la parte militare della sua carriera, arriviamo infine a quella fatidica decisione di lasciare la divisa per intraprendere la carriera civile, ma sempre come pilota sperimentatore.
Molte compagnie civili avevano un proprio nucleo di piloti, provenienti spesso da ambienti militari, ai quali affidavano lo sviluppo e la messa a punto di macchine e sistemi.
La North American Aviation era una di queste. Bob fu chiamato e subito fece i bagagli, insieme a sua moglie Colleen per raggiungere Los Angeles, California e iniziare un altro lungo capitolo della sua vita.
Anche qui il libro è pieno di episodi che lasciano il lettore senza respiro.
Farò cenno ad un solo episodio, il collaudo di un caccia F-86. Il capitolo si intitola “Forty minutes of stark terror”- “Quaranta minuti di crudo terrore”.
Durante questo volo di collaudo, avvenuto proprio nello spazio aereo dell’area di Los Angeles, con partenza da un aeroporto adiacente a quello che è oggi l’aeroporto civile della metropoli, Hoover si trovava sul mare, a poca distanza dalla costa. Improvvisamente si trovò con i comandi quasi bloccati. Nel tentativo di capire cosa stesse succedendo, l’aereo andò praticamente fuori controllo. Il timone di profondità, quello che agisce sull’assetto longitudinale dell’aereo, era scollegato dalla cloche e poteva essere parzialmente controllato solo con il trim, ma a fronte di ritardi lunghissimi nella reazione. Ci sono due pagine di comunicazioni concitate che Hoover scambiò con gli enti del controllo e con il pilota di un altro caccia che gli volava a fianco. Un aereo di linea, pronto alla partenza sulla pista adiacente fu bloccato al suolo. Dopo una lunga serie di prove per avere ragione del proprio caccia in avaria e dopo tante esortazioni a lanciarsi, Hoover si diresse verso la terraferma, verso il deserto e riuscì a compiere un magistrale atterraggio, sfruttando il cuscino d’aria che si forma sempre sotto la pancia di un aereo quando si avvicina a terra. Così salvò l’aereo e rese possibile un attento esame per scoprire le cause dell’avaria. Ma, detto tra noi, solo lui poteva fare una cosa del genere.
Il quinto capitolo riguarda la guerra di Korea. Hoover non si fece sfuggire neanche quella.
Segue un lungo racconto che riguarda il collaudo del famoso caccia F-100, tanto bello a vedersi quanto problematico nell’uso pratico,
E ancora air-show, argomento questo, che garantisce al lettore un’infinita serie di disavventure che, come al solito, sono allo stesso tempo tragiche e comiche. Però tutte mirabolanti e al limite dell’incredibile. Ce n’è da leggere…
Nell’epilogo, Hoover sceglie un titolo che è davvero illuminante: “Dogfighting with the FAA”. Il dogfighting è il duello aereo, il combattimento tra due caccia, amici o nemici che siano. E la FAA è la Federal Aviation Administration, cioè l’ente che controlla tutti gli ambiti dell’Aviazione statunitense. Ed è proprio con quella che Hoover ha dovuto sostenere lunghe e accanite lotte, specialmente quando la sua età si faceva sempre più avanzata e, a detta della FAA, sempre meno compatibile con il tipo di volo richiesto per gli air-show.
Nel libro, la parte finale è dedicata proprio a questo argomento ed è altrettanto appassionante per chi legge, perché Hoover ha sempre vinto ogni attacco. E continuato a volare.
Poi, un giorno, il destino ha finalmente trovato un modo semplicissimo per metterlo a terra.
Non gli hanno più rinnovato la copertura assicurativa. Semplice, ma efficace. Anzi, definitivo.
Bob Hoover ci ha lasciato il 25 ottobre del 2016.
Sembra incredibile che il destino appena nominato abbia potuto veramente staccare per sempre la spina di un personaggio tanto vitale, esuberante e apparentemente immortale.
Recensione di Evandro A. Detti (Brutus Flyer), didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: Bleeding Sky – The Story of Captain Fletcher E. Adams and the 357th Fighter Group.
autore: Joey Maddox
editore: Xlibris Corporation
anno di pubblicazione: ottobre 2009
ISBN libro: 978-1441555588
ISBN ebook: 978-1-4415-5
Nella recensione di “The Great Rat Race For Europe“, di Joey Maddox, avevo accennato a uno dei piloti del 357° Gruppo Caccia statunitense, di stanza in Gran Bretagna nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Il suo nome è Fletcher E. Adams.
Avevo solo accennato alla sua storia, dicendo che ne avremmo riparlato.
Ecco, ne riparliamo adesso. Questo libro è dedicato proprio di lui.
Yoey Maddox, l’autore, nel mettere insieme un gran numero di racconti, che tanti piloti avevano scritto e gli avevano inviato, affinché non si perdesse la memoria delle loro storie, si era trovato addirittura con troppo materiale da inserire in un solo libro. Perciò, ne aveva scritti due.
Il primo è “The great rat race for Europe“, che si può tradurre come “I grandi combattimenti aerei per l’Europa“, oppure anche “Le grandi battaglie aeree per l’Europa” ma così, in italiano, non suona troppo bene. Anche se, all’epoca, il cosiddetto dog-figthing, cioè il combattimento tra aerei da caccia, a volte veniva chiamato anche “rat race”, come dire “corsa di topi”, o “caccia al topo”.
Le frasi idiomatiche sono difficili da tradurre, a volte.
Questo libro, invece, ha un titolo che non necessita di spiegazioni. E’ la storia di un capitano pilota, un asso della caccia.
A lui è dedicato il Museo, della cui inaugurazione avevamo parlato a proposito dell’altro libro. Chiunque fosse interessato può andare a leggere la mia recensione in questa sezione dell’hangar.
All’inaugurazione erano presenti molti piloti che, come Adams, avevano fatto parte del 357° Gruppo caccia. Erano tutti molto anziani, prossimi o già oltre i novanta anni.
Yoey Maddox aveva accennato a questa età elevata, dicendo, senza mezzi termini che “ormai stiamo cadendo tutti come mosche“. E aveva ragione.
Oggi anche un altro illustre asso, presente all’inaugurazione del Museo, uno dei più famosi tra di loro, se ne è andato di recente: Chuck Yeager.
Ora resta in vita un solo altro nome famoso del gruppo: Bud Anderson.
Anderson, nella prefazione di questo libro, scrive:
“The story of Fletcher Adams is one of the vast number of tales that could be told about WWII”.
“La storia di Fletcher Adams è una delle tante storie che possono essere raccontate riguardo alla Seconda Guerra Mondiale”.
Sì. Esattamente. Solo una delle tante storie.
Allora, perché su di lui si scrive addirittura un libro?
Lasciamo ancora la parola a Bud Anderson.
“This book gives us the best insight into a tragic casuality of WWII and the mistery of what happened to captain Fletcher E. Adams. Yoey Maddox’s use of other voices, quotes, and investigative interviews make the story interesting. You’ll not only learn about Fletcher Adams but also the history of the 357th Fighter Group. I found the use of Adams’ personal diary, an illegal practice in wartime, particularly interesting to learn of his personal feelings during his training and combat”.
“Questo libro ci dà la migliore visione dall’interno di un fatto tragico della Seconda Guerra Mondiale e del mistero di cosa accadde al capitano Fletcher E. Adams. L’uso che Yoey Maddox fa delle tante voci, citazioni, e delle interviste investigative, rende la storia interessante. Non soltanto si finisce per conoscere Fletcher Adams, ma anche il 357° Gruppo Caccia. Ritengo l’uso del diario personale di Adams, una pratica illegale in tempo di guerra, particolarmente interessante per scoprire cosa aveva provato durante l’addestramento e durante il periodo di combattimento”.
Adams, infatti, teneva un diario, dove annotava diligentemente tutti i fatti salienti di ogni giorno.
Inoltre, ogni giorno scriveva alla giovane moglie, Aline.
Molti altri piloti tenevano un diario, anche se , formalmente, era proibito farlo. E tutti, o quasi, avevano una ragazza, o una famiglia, a cui scrivere quasi quotidianamente.
La posta era censurata, ma tante cose, apparentemente banali, potevano essere scritte.
Dopo la fine della guerra, la grande quantità di informazioni contenute nei diari e nella lettere, ha aiutato tanti autori a tracciare e tenere vivo il filo dei ricordi. Molti libri sono stati scritti così. Compreso questo.
Il diario di Adams ha costituito una traccia degli avvenimenti del periodo di guerra da lui vissuto. Si comincia dal periodo di addestramento negli Stati Uniti, si continua con la storia del viaggio verso l’Europa, con la storia del primo periodo a Leiston, un aeroporto a poca distanza da Londra, e poi si prosegue con i racconti dei combattimenti aerei successivi. Parliamo del 1943 e dei primi mesi del 1944.
E si termina, purtroppo, con l’abbattimento dell’aereo di Adams sul cielo della Germania, il 30 maggio 1944. Il momento più sbagliato per essere costretti a scendere in un paese ostile, che subisce ogni giorno bombardamenti e mitragliamenti e si trova sul punto di perdere la guerra.
Lo sbarco in Normandia e l’invasione (con la conseguente liberazione) dell’Europa occupata dai tedeschi, sarebbe avvenuta soltanto pochi giorni dopo, il 6 giugno.
Il libro è una raccolta di racconti di diversi piloti. Ogni racconto va a collocarsi lungo la traccia segnata dal diario di Adams.
In questo modo possiamo seguire Adams, non solo nella sua stessa narrazione, ma anche in quella dei suoi commilitoni. E’ come vederlo in azione con gli occhi di chi gli viveva e volava accanto.
Un lavoro davvero ben fatto.
A Leiston era di base il 357° Gruppo Caccia, del quale faceva parte Adams, come abbiamo detto.
Come tanti altri, Adams era partito per l’Europa a bordo della famosa nave Queen Elizabeth. E come tanti, anche lui aveva lasciato la famiglia. E una ragazza.
La ragazza era sua moglie.
Si erano sposati poco prima della sua partenza. Nel diario di Adams non c’è annotazione che non contenga una dichiarazione d’amore per Aline.
E poi, c’era un altro elemento importante, in questa storia: Aline aspettava un bambino.
Sin dal suo arrivo a Leiston (ma diciamo pure sin dalla partenza), non passava giorno senza che Adams scrivesse a sua moglie. E lei faceva altrettanto.
Poiché che il libro è costituito da racconti scritti da tanti piloti, dove Adams si vede partecipare alle azioni, e dalle registrazioni che lui stesso annotava sul diario, possiamo seguire la vita di reparto per tutti i mesi del 1943.
In questo periodo Adams diviene un asso, viene promosso, conduce il suo aereo P-51 Mustang in ogni tipo di missione di guerra.
E continua a scrivere alla sua Aline.
Nei primi mesi del 1944 parla spesso della prossima nascita del loro figlio, di quale nome vorrebbero dargli etc.
La corrispondenza si fa sempre più serrata. Spesso le lettere di Aline tardano ad arrivare e Adams freme, chiedendosi cosa può essere successo. Poi arrivano tutte insieme.
Insomma, la vita normale di due sposi.
Ma la loro vita non era affatto normale. Aline si trovava a migliaia di chilometri di distanza. E lui andava in volo ogni giorno per combattere e in qualunque momento poteva morire, per un motivo o per un altro.
All’epoca, il servizio di spionaggio era molto organizzato. Alla radio tedesca trasmetteva spesso un signore che parlava benissimo l’inglese e che sembrava dedicare il suo programma proprio ai reparti americani e inglesi di stanza in Gran Bretagna. E sembrava conoscerli ad uno ad uno.
Appena arrivato a Leiston, Adams si trovò ad ascoltare quella radio. Il signore di cui sopra, in perfetto inglese, li salutò e diede loro il benvenuto, riferendosi ad essi come agli “Yoxford Boys“.
Infatti, vicino all’aeroporto c’era un piccolo paese che portava questo nome. E dove spesso il gruppo andava in libera uscita.
Segno evidente che il Regno Unito pullulava di spie.
Comunque questo nomignolo rimase in uso e da allora i ragazzi del 357° Gruppo Caccia continuarono a chiamarsi gli “Yoxford Boys“.
E il signore che trasmetteva fu, a sua volta, battezzato “Lord Haw Haw“.
Arriviamo al mese di maggio 1944.
La nascita del bambino era sempre più imminente.
Aline aveva scelto già un nome, sia per un maschio che per una femmina. Ma questi nomi non piacevano ad Adams.
Lui sperava in un maschietto e nel caso, per lui avrebbe scelto il nome Jerry.
Perché proprio Jerry?
Perché, come abbiamo detto sopra, il combattimento aereo era anche chiamato “rat race”, dove il nemico era il topo. E ognuno di loro si sentiva di essere il gatto.
Tom e Jerry, in altre parole.
Infatti, il nascituro si rivelò essere un maschietto. E prese davvero il nome di Jerry.
Dal diario di Adams, un’annotazione del 28 aprile 1944 riporta la nascita di Jerry il 23 o il 24. Qualche giorno prima.
Le altre annotazioni riguardano missioni di guerra, piloti che sono stati abbattuti, notizie di vario genere. Fino al 22 maggio 1944.
Da questo punto in poi, inspiegabilmente, nulla. Le pagine vengono sbarrate da una riga e nessuna annotazione compare più.
Il libro prosegue facendo riferimento ai racconti degli altri.
Ma da questo punto comincia la parte più tragica della vita di Fletcher Adams.
Ora bisogna occorre in evidenza un particolare importante, avvenuto proprio in quei giorni.
Hitler era sempre più rabbioso.
Infischiandosene delle convenzioni internazionali riguardo ai prigionieri di guerra, aveva emanato una direttiva che condannava a morte qualunque pilota alleato che fosse stato costretto a paracadutarsi sul territorio della Germania. Questi piloti dovevano essere considerati criminali, delinquenti, che osavano colpire la popolazione civile inerme. Come se non fosse stato proprio lui, Hitler, ad aggredire per primo la popolazione civile inerme degli altri paesi europei.
Goebbels, dal canto suo, aveva rafforzato l’ordine di Hitler.
E Lord Haw Haw, ovviamente, aveva trasmesso la notizia, per spaventare gli ascoltatori alleati.
Non si sa se Adams avesse sentito alla radio tedesca di questi ordini criminali … possiamo solo ritenerlo molto probabile. Non c’è nessun accenno nel suo diario, che comunque si interrompe improvvisamente e inspiegabilmente al 22 maggio. Ma se anche non avesse ascoltato direttamente la radio, almeno i commenti dei suoi commilitoni li sentì eccome, ne siamo quasi certi.
“On the night of May 29, 1944, the pilots of the 362nd Fighter Squadron were in the pilots’ room listening to German radio. They probably laughed as Lord Haw Haw threatened the next “Dirty Yoxford Boy” shot down, and captured alive with death. We’ll never know whether Fletcher Adams heard the broadcast; he made no mention of it in his last letter to Aline”.
“Nella notte del 29 Maggio 1944, i piloti del 362° Gruppo Caccia erano nella stanza dei piloti e stavano ascoltando la radio tedesca. Probabilmente risero quando Lord Haw Haw minacciò di morte il prossimo degli “Sporchi Ragazzi di Yoxford” abbattuto e catturato vivo. Non sapremo mai se Fletcher Adams ascoltò la trasmissione; non ne fece menzione nella sua ultima lettera ad Aline”.
Se anche l’avesse sentita, di sicuro non ne avrebbe scritto nulla ad Aline, per non farla preoccupare.
Il giorno dopo, nel pomeriggio, Adams era in volo sulla Germania. Stava scortando i bombardieri in una missione di bombardamento della città di Bernberg e stavano sorvolando un piccolo paese, Tiddische.
Il suo aereo, un Mustang P 51 che aveva nominato The Southern Belle (La Bella del Sud, cioè Aline, ma lui aveva evitato di proposito di nominarla perché non voleva andare in guerra con il nome di sua moglie scritto sulla fusoliera) fu colpito. Un gruppetto di caccia tedeschi Me 109 li aveva attaccati.
Un gregario della sua squadriglia raccontò che ci fu un’azione eversiva per sfuggire all’attacco. Ma vide che il The Southern Belle era stato raggiunto da alcuni colpi e stava perdendo liquido refrigerante dal motore: lasciava una scia bianca dietro di sé.
Adams si lanciò immediatamente, prima che l’aereo prendesse fuoco.
Il paracadute si aprì regolarmente e Adams scese dolcemente verso terra.
Nello stesso momento, a poca distanza, era stato abbattuto anche un caccia tedesco e il pilota, Ferdinant Spychinger, era morto nello schianto.
Da questo punto in poi il libro riporta la storia di ciò che avvenne dopo l’atterraggio di Adams, in un campo vicinissimo al paese di Tiddische.
L’aereo, senza controllo, aveva urtato il terreno in una maniera talmente piatta che, dopo alcuni rimbalzi, si era fermato proprio al limite dell’abitato, quasi intatto. E non si era neanche incendiato.
Ora la storia si fa davvero tristissima. Per questo motivo preferisco tracciarne solo le linee essenziali, lasciando al lettore l’onere di leggerla dal libro di Maddox.
Adams venne catturato. Il capo della polizia di Tiddische, Adolf Funke, un fanatico nazista, assolutamente privo di umanità, lo arrestò. Lo portò subito all’interno della sua casa che fungeva anche da ufficio, coadiuvato da un suo nipote, capo della locale sezione della Gioventù Hitleriana.
Adams fu spinto brutalmente, colpito più volte e fatto sedere su una specie di poltrona.
La moglie di Funke lo colpì a sua volta, ripetutamente, con un ferro da stiro, facendolo cadere a terra svenuto.
A queste scene assisté parecchia gente, gli abitanti del paese, che si assembrarono fuori dalla casa e sentirono le urla di Funke, di sua moglie e del nipote. Ma dopo poco furono brutalmente dispersi da Funke, che li minacciò e ordinò loro di andare a casa.
Bisogna dire che la gente comune non voleva che il pilota fosse maltrattato. Era sufficiente prenderlo prigioniero e trattarlo secondo le convenzioni internazionali in vigore.
Ma le rabbiose direttive di Hitler e di Goebbels avevano fatto presa sul nazista Funke.
Il nipote, pur essendo il capo della Gioventù Hitleriana, non era come lo zio. Provò a dissociarsi, ma rischiava di farsi denunciare e arrestare, se non lo avesse assecondato.
E nessuno della popolazione osò muovere un dito. Tutti si ritirarono nelle loro case, spiando dalla finestra. Quelli che potevano vedere qualcosa. Altri non videro più nulla, o almeno così dichiararono dopo la guerra.
Più tardi Adams, che aveva ripreso i sensi, fu condotto a piedi lungo la strada che usciva dal paese, verso un bosco vicino.
Funke sparò due colpi al pilota, che non morì subito. Il nipote, con la pistola cal. 45 di Adams, sparò il colpo di grazia.
Il corpo fu lasciato nel bosco fino al giorno dopo, quando alcuni prigionieri che lavoravano nei campi al comando dei civili tedeschi furono incaricati di prendere il cadavere e seppellirlo in un punto che fu loro indicato, nei pressi di un muro, ad un angolo del locale cimitero.
Nella primavera del 1945, le truppe americane arrivarono a Tiddische e cercarono i resti del loro pilota.
Poi catturarono i responsabili del suo omicidio.
Tutti, tranne Funke, che non fu mai trovato e non pagò mai per i suoi crimini.
Nel libro Maddox rivela che il corpo di Adams subì altri oltraggi. I suoi resti, riesumati, mancavano di alcune parti, come le mani, i piedi e la testa, che non furono mai ritrovati.
A seguito di questo episodio ci furono interrogazioni, processi e condanne.
E solo dopo parecchio tempo i poveri resti di Adams furono riportati negli Stati Uniti.
A questo punto, specialmente dopo aver letto il libro, sarebbero moltissime le considerazioni da fare.
Ci si interroga sul perché di tanta brutalità, gratuita, senza scopo alcuno. Ma questa è la guerra.
Anzi, questa è l’Umanità.
C’è ben poco da aggiungere: l’Umanità è questa ed è capace di compiere azione tanto agghiaccianti.
L’Umanità non è capace di imparare e migliorare davvero. In questo momento storico assistiamo al ritorno di condizioni capaci di rimetterci a rischio di ripetere episodi simili. Anzi, nel mondo non è mai cessata la crudeltà. L’Uomo sembra incapace di vivere in pace evitando di fare del male al mondo intero e a sé stesso.
Anni fa ho letto l’autobiografia del famoso Horst Tappert, meglio noto come l’Ispettore Derrick.
Lui aveva fatto la guerra. Nel libro diceva di essere stato sempre contrario alla violenza e che tutto il popolo tedesco, in generale, lo era. Tranne una piccola minoranza, che però era stata capace di trascinare il resto in un turbine di violenza senza fine.
Derrick aveva scritto una frase che mi aveva colpito:
“Noi tedeschi avevamo imparato a diffidare di chiunque parlasse a voce troppo alta”.
Credo a questa affermazione. Ma credo anche che la memoria della gente sia piuttosto breve.
A distanza di qualche decennio, secondo me, sono pochi quelli che continuano a diffidare. E sempre di più quelli che, invece, sono pronti a seguire.
Recensione a cura di Evandro A. Detti (Brutus Flyer)
Didascalie e fotografie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Quando Tom Neil cominciò a raccogliere le proprie memorie degli anni di guerra pensava di scrivere un solo libro. Ma poi, accumulò materiale per almeno tre libri. Per anni aveva scritto e pubblicato le sue avventure di pilota di caccia durante la guerra. Si può ben immaginare che le maggiori riviste del settore aeronautico fossero interessate ai suoi articoli.
Oltretutto, Neil ha un modo di scrivere veramente accattivante. Le sue pagine sono intrise di quel classico umorismo inglese che non ha mancato di conquistarmi nel corso della lettura. Ho finito per comprendere perfino le sue frasi idiomatiche, così difficili da compenetrare per noi italiani.
L’umorismo inglese lui lo mette anche nella descrizione delle tragedie più terribili. Ma in “Gun button to fire” aveva spiegato chiaramente che la guerra li aveva abituati ad accettare, con un’elevata indifferenza, ogni avvenimento, fin dai primissimi giorni. Non c’era molto dell’umorismo inglese in quel libro. Forse lo aveva riservato tutto per i libri successivi, per “The silver Spitfire” e “Scramble!“. E infatti in questo ultimo volume non si finisce mai di ridere, nonostante i fatti tragici, immancabili, che descrive. Perché in questo libro, evidentemente, ha scelto di usare un modo ironico che sottolinea gli aspetti tragicomici della guerra e altrettanto bene della vita comune.
E poi, lo dico subito: “Scramble!” è sorprendente.
“Gun button to fire” era un lungo racconto di vita, un compendio di Storia aeronautica, centrato sul periodo della cosiddetta “Battle of Britain“(o Battaglia d’Inghilterra).
“Scramble!” invece, sebbene cominci dai suoi primi anni di vita dell’autore e poi ricalchi la linea di narrazione dei primi anni di guerra, tanto da avermi fatto fare un bel ripasso dell’altro libro, è molto più particolareggiato in ogni descrizione.
Qui troviamo la vera vita di un tempo lontano, la Gran Bretagna di allora con tutte le sue caratteristiche peculiari, la mentalità, i luoghi, i modi di viaggiare, i personaggi tipici, il loro ancor più tipico modo di ragionare e di comportarsi. Il tutto, descritto in modo delicatamente comico. Ma estremamente vivido e riconoscibile.
Tom Neil è stato un grande pilota, ma anche un grande scrittore.
Il suo talento si estende dalla prima pagina fino all’ultima e riesce veramente a far vivere al lettore le sue stesse vicende. Su queste pagine mi sono fatto un mare di risate perché … in verità gli stessi episodi, in fondo, avvengono pari pari anche qui da noi. Ne ho riconosciuti molti, ma descritti da un inglese diventano impagabili.
Mi sono preso la briga di seguire la narrazione di Neil riguardo a tutti i suoi spostamenti nel territorio del Regno Unito, da un aeroporto all’altro, da una città all’altra, cercando su Google Earth ogni location e tutti i suoi dintorni. Molto interessante.
Scrive Neil:
“… I became quite an expert on the major rail junctions on all four railway systems in Britain… I grew to know (some stations) like the back of my hand, especially as seen between the hours of midnight and 4 a. m.! I often reflected that, were I to survive and have grandchildren, I should be able to claim, not so much that I had flown aircraft during the war, but that I had travelled to every known inch of Britain by rail – and mostly at dead of night”.
“… Divenni abbastanza esperto delle principali stazioni di scambio dei quattro sistemi ferroviari inglesi… imparai a conoscere (alcune stazioni) come il palmo della mia mano, specialmente come apparivano tra la mezzanotte e le quattro di mattina! Pensavo spesso che, se fossi sopravvissuto e avessi avuto nipoti, avrei dovuto affermare, non tanto di aver pilotato aerei durante la guerra, ma di aver viaggiato per ogni conosciuto angolo d’Inghilterra in treno – e nella maggior parte dei casi a notte fonda”.
Questa parte mi ricorda molto i miei viaggi in treno durante il periodo di permanenza nell’Aeronautica Militare Italiana, molti anni più tardi. Anche a me capitava spesso di viaggiare di notte. Oggi non si può più fare, almeno a cuor leggero. Non è più sicuro come prima. Allora si stava tranquilli.
In uno di questi viaggi Neil perse il treno notturno per una località che si chiamava Dundee, perché il treno, appunto, era partito tre minuti prima dell’orario stabilito.
Un evento che non si verificava mai nella Gran Bretagna di allora. I treni erano estremamente ligi agli orari stabiliti.
Sorpreso e stupito di come una cosa del genere potesse essere accaduta, chiese a un capostazione l’orario del treno successivo. Ma non ce ne sarebbe stato un altro prima del giorno dopo. Aveva tutta la notte da passare nell’atrio della stazione.
Perciò, dopo un attimo di costernazione, si decise a partire a piedi per raggiungere la stazione di scambio successiva. E avrebbe camminato lungo i binari della ferrovia. Erano poche miglia da percorrere. Lo aveva fatto molte altre volte.
Già camminare sulla ferrovia non è una buona idea, per il pericolo che comporta. Inoltre, con la guerra che incombeva, tutte le luci non indispensabili erano tenute spente. Sarebbe stato buio pesto lungo tutto il percorso e in certi punti c’erano delle guardie notturne armate, il cui scopo era quello di scoprire e catturare eventuali spie e sabotatori. Di solito si trattava di improbabili ex militari della Prima Guerra Mondiale, pensionati, ormai in là con gli anni.
Infatti è proprio in uno di essi che Neil si imbatte, appena partito e fuori dalla stazione.
“I had gone about 400 yards when, out in the blackness and from a distance of only a few yards, there came a shout. “Halt!” I nearly died. The voice again, almost a treble. “Halt! Don’t ye move, now!”.
“Avevo percorso circa 400 metri quando, nell’oscurità e a una distanza di pochi metri arrivò una incitazione: “Alt!” Quasi mi fece morire. La voce ripeté, quasi in un tremolio. “Alt! Non ti muovere, ora!”.
Non scrive “don’t you move”, ma proprio “don’t ye move”. In molti casi, Neil scrive le conversazioni in modo da sottolineare più il dialetto che la lingua inglese. E questo, per un lettore italiano, va oltre la completa comprensione.
La descrizione di questo incontro è tutta da leggere. La riporto solo come esempio. Ma il libro è tutto così.
“I called back uncertainly, “Friend!” There were shuffling steps in the dark and I sensed that whoever had called was a good deal more scared than I was. And I was not far wrong”.
“Risposi in maniera incerta “Amico!” Ci fu rumore di passi nel buio e intuii che chiunque fosse stato a parlare era un bel po’ più spaventato di quanto lo fossi io. E non mi sbagliavo”.
Emerse un personaggio di piccola statura, con il mozzicone di una sigaretta in mano. Ma anche con un fucile nell’altra. Tremava di freddo e tremava anche la sua voce, mentre ripeteva a Neil di non muoversi. Una situazione delicata, un uomo impaurito, che sta di guardia nel buio e si imbatte in uno sconosciuto che cammina lungo i binari, potrebbe anche sparare prima di fare domande.
Neil era cosciente di questo, nonostante i suoi diciannove anni. Ma la guardia sembrava un brav’uomo. E’ qui che la descrizione del fatto, di per sè delicato e pericoloso, diventa divertente e si presta a quel sottile umorismo inglese di cui parlavo.
Scrive Neil:
“I assured him that I had no intention of moving and the small figure, holding a rifle and seeming uncertain as to what to do next, fumbled about in the dark, presumably hunting for a torch or light. For an instant, I thought of offering to hold his gun whilst he did so and found myself grinning then wanting to giggle”.
“Lo rassicurai che non avevo intenzione di muovermi e la piccola figura, tenendo un fucile e sembrando incerto su cosa fare, armeggiò nel buio, forse cercando una torcia o una qualche fonte di luce. Per un attimo pensai di offrirmi di tenergli il fucile mentre cercava e mi trovai a ghignare e mi veniva da ridere”.
Ecco. Una situazione tragicomica. Lo standard di questo libro.
In questa occasione fu praticamente arrestato. Ma dopo essere stato identificato, la sua situazione cambiò sensibilmente. Dovette passare la notte confinato in una stanza, insieme a un gruppo di operai della ferrovia, che gli offrirono del thè e un letto lercio.
Anche la descrizione di questa notte, trascorsa senza quasi dormire, ha risvolti tragicomici. Non poteva uscire e andarsene. Forse, in considerazione della sua giovanissima età, aveva circa diciannove anni, i suoi più attempati detentori volevano solo evitare che andasse a cacciarsi in guai più seri.
Neil descrive senza mezzi termini il russare dei suoi compagni di stanza, gli odori e i rumori, e le condizioni del suo giaciglio, dalle lenzuola nere e infestato di pulci.
Avevo letto con piacere, nei primi capitoli, il racconto del periodo della scuola di volo. Neil descrive l’ambiente, gli istruttori e gli aerei. Negli altri due libri non ne aveva parlato in maniera particolareggiata. Molto interessante per un pilota.
Ma l’argomento che speravo di trovare e che, anche questo, non era stato troppo sviscerato negli altri libri, era l’incontro – scontro con i piloti italiani.
I pochi aerei che avevano attraversato la Manica per bombardare l’Inghilterra erano stati decimati. I caccia CR42 che li scortavano erano stati abbattuti o respinti.
Neil non li aveva mai incontrati personalmente. Non nasconde di essere stato molto interessato ad incontrarli, ma per una serie di ragioni non era accaduto.
I suoi compagni di squadriglia che avevano combattuto contro i nostri biplani, sebbene ne avessero parlato in maniera vagamente ironica, avevano, però, anche detto che non dovevano essere sottovalutati. Erano rimasti sorpresi dalla loro estrema maneggevolezza. E dall’abilità dei piloti, dal loro coraggio, dal loro valore. Avevano espresso un certo rispetto per quei poveri diavoli, seduti in cabine aperte, nel freddo tremendo e a contatto diretto con il vento gelido, senza capi di vestiario adeguati, senza ossigeno, penalizzati ancor più dalla lentissima velocità dei bombardieri bimotori che dovevano scortare e difendere.
Uno di quei caccia, proprio un CR42, si trova oggi a Hendon, vicino Londra, al Museo della RAF. L’ho visto alcuni anni fa, quando c’era solo quello da poter vedere. Poi ne è stato ricostruito anche un altro che ora si trova al Museo di Vigna di Valle, sul lago di Bracciano. Ma credo proprio che non ne esistano altri al mondo.
Tornando alla mia legittima curiosità di sapere cosa pensavano i britannici degli italiani, che allora erano ancora nemici e che solo più avanti non lo sarebbero stati più, arriviamo finalmente al diciannovesimo capitolo. Il titolo è: “Flight to Malta”.
Infatti Neil, con la sua squadriglia, fu trasferito a Malte nel 1941.
Malta è stata sempre un obiettivo strategico, durante la Seconda Guerra Mondiale. La sua posizione era strategica per natura. Le forze dell’Asse che combattevano in Africa dovevano attraversare un bel pezzo di mare per raggiungere il Nord Africa e rifornire i loro contingenti di ogni tipo di materiale e di truppe. Da Malta era facile intercettare i convogli di navi. E perfino le squadriglie di lenti trimotori che volavano dalla Sicilia alla Libia e viceversa. L’isola si trovava proprio a metà strada tra le coste della Sicilia e le coste africane.
Per questo Malta era stata messa sotto una sorta di assedio e veniva attaccata frequentemente dai nostri caccia, non solo dai soliti CR32 e CR42. C’erano anche i vecchi Macchi 200, a cabina aperta e soprattutto i Macchi 202. Dopo comparvero sulla scena anche altri tipi di caccia più moderni, che potevano davvero competere con gli obsoleti Hurricane britannici. Gli Spitfire furono mandati a Malta solo più tardi. Allora entrarono in gioco i nostri nuovi Macchi 205, che poco avevano da invidiare perfino agli Spitfire. Ma ormai la guerra aveva già preso tutta un’altra piega.
Tom Neil arrivò a Malta attraverso il Mediterraneo a bordo di una portaerei inglese.
Quando giunse vicino a Malta, ma non troppo vicino, la sua squadriglia decollò dal ponte della nave e raggiunse l’isola in volo.
La descrizione di questo viaggio è interessantissima e lascio il piacere di leggerla a chi lo vorrà fare.
Non si tratta di una storia semplice. E’ intrisa di avventure di ogni tipo, difficoltà di navigazione, pericoli, avarie (una delle peggiori toccata proprio a Neil) e di strategie militari tipiche di un teatro di guerra tra i più pericolosi e subdoli. Basta pensare al fatto che il Mediterraneo non è piccolo come sembra se lo guardiamo sulla superficie di un mappamondo. Ore e ore di navigazione senza riferimenti sul mare, con un ingombrante serbatoio supplementare sotto la fusoliera, senza armi, che erano state tolte per compensare il maggior peso costituito dalla benzina in più. E con un solo motore.
Ammarare, sapendo che l’Hurricane affonda immediatamente dopo aver toccato, lascia poco tempo tra la possibilità di vivere o morire.
I capitoli successivi raccontano della vita su Malta. E sono di estremo interesse, specialmente per chi conosce la Malta di oggi.
Neil operava da un aeroporto che oggi non esiste più, ma se si guarda l’isola in una delle fotografie di Google Earth si riesce facilmente a localizzarlo. L’impronta della pista e delle vaste aree aeroportuali è ancora ben stampata nel paesaggio, come la cicatrice di una ferita. Basta digitare il nome del vecchio aeroporto, Ta Kali, nel campo di ricerca di Google Earth per trovarlo.
Nei primi mesi del 1941, i pochi Hurricanes presenti a difesa dell’isola dovevano affrontare i caccia e i bombardieri tedeschi. Ma le incursioni, abbastanza frequenti, non sembravano fare molti danni. Oltretutto, appena i tedeschi entrarono in guerra con i loro ex alleati russi, aprendo sprovvedutamente un altro fronte, trasferirono ad Est le loro forze aeree e rimasero solo gli italiani ad attaccare l’isola.
Leggendo queste vicende mi imbattevo spesso nella parola “Huns” che significa “Unni” e che si riferisce ai tedeschi. E questo termine mi era chiaro per averlo trovato in tutti i libri di Neil. Evidentemente era un termine molto usato all’epoca.
Ma ad un certo punto ho trovato la parola “Eyeties“. E questa non era mai stata usata prima, né spiegata in alcun modo.
Non sapendo come tradurla ho continuato a leggere per vedere se più avanti, almeno dal contesto, potessi venire a capo del dilemma.
Pian piano ho cominciato a capire che si riferiva agli attaccanti, ai nemici. E siccome ormai i nemici erano solo, o prevalentemente, gli italiani, doveva riferirsi a loro. Ma in che modo?
Una breve ricerca su Internet ha chiarito la faccenda.
Quando gli alleati prendevano prigionieri scrivevano la nazionalità accanto al loro nome. Nel caso degli italiani mettevano la sigla “IT” che sta per “Italian“.
E come si pronunciano, in inglese queste due lettere? Si pronunciano “Ai Ti”.
Al plurale si dice “Ai Tis”.
A forza di usare questa sigla, divenuta di uso comune, qualcuno ha preso a riferirsi agli italiani come agli “Eyties“.
Il primo vero riferimento agli Eyties che Neil fa, e che riguarda il modo in cui erano considerati i nostri connazionali si trova nel ventesimo capitolo.
“Soon, the Hun units, which had dealt so harshly with our ships and aircraft in and around Malta, would be departing for the borders of Russia, leaving us only the Italians with whom to wage war. Had we known of this at the time, we might have felt rather better; The Germans we could just about cope with, the Eyties we regarded as easier meat. After all, were they not the chaps whose tanks were said to have one forward gear and four reverse, and who boasted that nothing could catch their cruisers and destroyers?”.
“Improvvisamente, le unità tedesche, con le quali avevamo avuto a che fare così duramente con le nostre navi e aerei nell’isola di Malta e nei suoi dintorni, erano partiti per il fronte russo, lasciandoci solo gli Italiani con i quali fare la guerra. Lo avessimo saputo all’epoca, ci saremmo sentiti piuttosto meglio; con i Tedeschi potevamo appena competere, gli Italiani li consideravamo come carne più facile. Dopo tutto, non erano forse quelli, dei cui carri armati, si diceva che avessero una marcia avanti e quattro indietro, e che si vantavano che niente potesse raggiungere le loro navi da guerra?”.
E aggiunge, riferendosi ai nostri aerei che avevano attaccato, tempo prima, l’Inghilterra:
“…we had heard all about the Fiat BR 20 bombers and CR 42 fighters. Biplane fighters!”.
“…avevamo sentito dei bombardieri Fiat BR 20 e caccia CR 42. Caccia biplani!”.
Più avanti Neil parla di quattro aerei Savoia italiani intercettati vicino all’isola. Uno era stato abbattuto e solo un componente dell’equipaggio si era salvato. Ma anche un pilota inglese, un sergente di nome Rex, era stato abbattuto.
L’inglese, sostenuto dalla sua Mae West, aveva preso a nuotare, purtroppo nella direzione sbagliata.
L’italiano si era aggrappato ad un pezzo di ala che galleggiava e ci si era sistemato sopra.
Entrambi furono salvati da una lancia. Il viaggio di ritorno verso la costa durò due ore.
Dice Neil:
“Rex and the Eytie spent the next two hours sitting in the launch, commiserating with each other”.
“Rex e l’Italiano passarono le successive due ore seduti nella lancia, commiserandosi a vicenda”.
Alla fine, siamo proprio tutti esseri umani.
L’italiano era ferito e ustionato. Fu portato all’ospedale in una località di nome Imtarfa.
Un paio di giorni dopo, Neil e altri commilitoni andarono a far visita all’italiano ferito. Gli portarono alcune cose che pensavano potessero essergli utili e perfino un rasoio per potersi radere.
Lo trovarono in uno dei vani dell’ospedale e sembrava molto in apprensione per la propria sorte.
Con l’assistenza di un medico che parlava italiano cercarono di calmarlo e rassicurarlo. Passarono un certo tempo con lui.
Mi viene da pensare che forse andarono più per interrogarlo che per confortarlo. E forse lo fecero senza parere, sfruttando la naturale tendenza degli italiani alla socializzazione e al fatto che pochi, all’epoca, erano quelli che veramente volevano la guerra.
Quando andarono via il piccolo uomo li salutò con gratitudine e amicizia, felice come un bambino.
Ora sarebbe interessante fare una ricerca, vedere chi fu abbattuto in quella data nel mare di Malta e scoprire chi fosse quell’uomo. E che fine ha fatto dopo il ricovero in ospedale.
C’è anche un altro abbattimento, descritto nelle pagine successive. In questo caso, però, i superstiti erano di più. E rimasero a galleggiare in mare per parecchio tempo. In loro soccorso partì un idrovolante italiano della Croce Rossa. Giunto nei pressi dei superstiti l’aereo si apprestava ad ammarare.
Una squadriglia, di cui Neil non faceva parte, sorvolò la zona e riportò per radio, al controllo dell’epoca, il quadro della situazione.
L’ordine fu perentorio: abbattere l’aereo soccorritore.
Il caposquadriglia rispose rabbiosamente che non si poteva fare una cosa del genere, aggiungendo che l’aereo aveva le croci rosse ben visibili su ali e fusoliera.
Ma stavolta non c’era nessun sergente Rex da salvare. L’ordine fu confermato in maniera perentoria.
L’aereo fu abbattuto. E, forse, altri uomini furono lasciati a morire in mare, in modo orribile.
Bene. Devo dire che Neil afferma di aver rilevato una notevole costernazione per quell’ordine e per quello che qualcuno aveva dovuto fare. Tutti erano rimasti sconcertati dal fatto che qualcuno potesse aver dato un ordine tanto estremo e che qualcun altro avesse dovuto trovare la forza per eseguirlo.
Ma anche così, la realtà non cambia.
La guerra è una cosa stupida e crudele. Ma mi permetto di aggiungere, poiché lo credo fermamente, che gli “Eyeties” non si sarebbero macchiati di un crimine del genere.
Nei mesi di permanenza di Neil a Malta si susseguono scontri con squadriglie italiane. I caccia Macchi 200 erano piuttosto ridicoli agli occhi degli inglesi. Il fatto che avessero la cabina aperta, con solo un deflettore, faceva pensare che gli italiani li preferissero così.
E vi sono racconti di incursioni sulla Sicilia, per attaccare le nostre basi.
In generale, però, se le nostre formazioni passavano in quota e non si mostravano aggressive, qualche volta gli inglesi non si degnavano neppure di partire per intercettarli.
La vita sull’isola era piuttosto miserabile. Neil scrive di stormi di zanzare, eserciti di pulci dalle quali non ci si poteva difendere neppure con quintali di DDT, che facevano più male alle persone che ai parassiti. Il caldo era atroce. Il cibo pessimo.
Tutti cercavano di sopravvivere al meglio possibile.
All’epoca si leggevano certi libri che andavano per la maggiore. Uno di questi era “Winged Victory“, di Victor Yeates.
Ho recensito già questo libro, con il titolo di “Vittoria tra le nuvole“, qui su Voci di Hangar.
Si trova anche con altri titoli, come “Alta quota“.
Invito a cercare la mia recensione e leggerla. E’ davvero un libro interessante.
Nel raccontare la vita quotidiana su Malta, Neil riporta anche alcuni episodi che credo di aver identificato in certi fatti storici letti in altri libri. Si tratta di attacchi alle navi inglesi nel porto di Malta, che la nostra Decima MAS condusse con successo e che rappresentò il valore dei nostri militari, anche se la Storia ha finito per rendere evidente che combattevano dalla parte sbagliata.
Sbagliata, certamente, perché non si può pensare che combattere al fianco di un pazzo criminale come Hitler significasse stare dalla parte giusta.
Era un’altra epoca, si credeva in altri valori, non c’era modo di confrontarsi con altre idee, non c’era internet, la televisione era appena in embrione e la radio trasmetteva solo ciò che serviva al regime. Ma il valore è un’altra cosa.
Neil descrive i famosi barchini velocissimi che si presentarono vicino al porto maltese e attaccarono con decisione la flotta alla fonda. Alcuni furono distrutti e gli incursori uccisi o catturati.
Erano Eyeties, ma erano eroi. Qualunque cosa pensassero gli inglesi degli italiani.
Il caccia Macchi 202 faceva la sua comparsa in quel periodo.
“There was news, too, of the Eyeties getting something called a Macchi 202, which had the same in line engine as the 109 and was supposed to be about as fast. None of us had seen any, but we were not too concerned about the prospect of meeting them. Eyeties were Eyeties, when all was said and done”.
“C’erano notizie, pure, che gli Italiani avessero qualcosa chiamata Macchi 202, che aveva lo stesso motore del Me 109 e che avrebbe dovuto essere altrettanto veloce. Nessuno di noi ne aveva mai visto uno, ma non eravamo troppo preoccupati dalla prospettiva di incontrarli. Gli italiani erano italiani, dopo tutto”.
Concetto piuttosto chiaro.
Che gli italiani combattessero malvolentieri e che si sentissero, almeno alcuni di loro, dalla parte sbagliata, corrisponde a tanti racconti che ho sentito da persone che la guerra l’avevano fatta. Si sapeva addirittura di possibili sabotaggi ai siluri che i nostri aerosiluranti andavano a sganciare a poche centinaia di metri da una nave avversaria. Nave che sparava su di loro con tutte le armi disponibili, per tutto il percorso di avvicinamento, anche quando l’aereo era costretto a sorvolare quella nave ad appena poche decine di metri di quota e poi per tutto il lento allontanamento successivo.
Spesso l’aereo veniva abbattuto.
Neil racconta uno di questi siluramenti, mentre andava in Egitto, al termine della sua permanenza sull’isola di Malta. Il convoglio, del quale faceva parte la nave sulla quale era imbarcato, fu attaccato da un aerosilurante italiano. Il siluro fu sganciato proprio sulla sua nave, ma non scoppiò.
L’aereo fu abbattuto.
Come ho detto, sarebbe interessante fare un raffronto tra questi racconti e i documenti ufficiali, per risalire ai nomi degli eroici Eyeties…
E Neil dice anche che spesso riuscivano a sapere il destino degli equipaggi dei nostri abbattuti. La radio italiana ne parlava e a Malta molte persone erano di origini italiche e capivano la nostra lingua. Gli inglesi avevano ormai radicate relazioni con le donne maltesi. Qualcuno si è poi addirittura sposato con una di loro.
“If we had shot at a Macchi, a Cant or a Savoia, we simply asked the girlfriend the following day for news of its fate. And usually they were able to oblige”.
“Se avevamo sparato ad un Macchi, un Cant o un Savoia, chiedevamo semplicemente ad una delle ragazze, il giorno successivo, notizie del suo destino. E di solito erano in grado di dircelo”.
In questo libro tutto è molto interessante.
La mia curiosità riguardo all’interazione con i nostri connazionali che, in un certo senso, tenevano Malta sotto una sorta di assedio, è stata abbastanza soddisfatta. Neil parla di tutto ciò, molto più di quanto io abbia riportato in questa recensione.
Non posso dire che ci stimassero. Certamente no. Chi leggerà il libro si farà un’idea personale al riguardo. Gli episodi furono tanti, nei pochi mesi di permanenza di Neil.
La Storia generale è più ampia. Solo su Malta si potrebbero scrivere metri cubi di libri.
Questo libro prosegue con l’interessantissimo viaggio di ritorno dell’autore nella madre patria, la Gran Bretagna, sempre con un convoglio di navi. Il racconto, zeppo di episodi che fanno trattenere il respiro, parla della circumnavigazione dell’Africa, delle soste in porti adeguati per rifornirsi e di soste in mare aperto, in giorni di tempesta.
Ma per concludere, voglio riportare un episodio avvenuto su Malta. E’ un altro dei tanti.
Ero un po’ deluso dalla dilagante opinione negativa che riguardava gli italiani. Non nascondo che spesso aspettavo la conclusione dei racconti con il malcelato desiderio che qualche Eyetie, alla fine, gliele suonasse di santa ragione. Poi mi sono imbattuto in questo episodio, che spero possa ripagare il lettore del tedio di leggere una recensione così lunga:
“Later the same day, Butch Barton, with the other half of 249, chased a minor swarm of Macchi 200s toward the sicilian coast, at which point, to Butch’s considerable consternation, the Eyeties suddenly turned and fought like tigers”.
“Più tardi lo stesso giorno, Butch Burton, con l’altra metà della squadriglia 249, inseguì un piccolo gruppo di Macchi 200 verso la costa siciliana, e a quel punto, con considerevole costernazione di Butch, gli italiani virarono improvvisamente e combatterono come tigri”.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: The Great Rat Race For Europe” – Stories of the 357th Fighter Group.
autore: Joey Maddox
editore: Xlibris Corporation
anno di pubblicazione: giugno 2011
ISBN libro: 978-1-4628-8629-6
ISBN ebook: 978-1-4628-8630-2
Questo libro è dedicato al Museo del 357° Gruppo Caccia intitolato al Capitano Fletcher E. Adams, con sede nella città di Ida, Louisiana.
Si tratta di un piccolo museo, ma con la strada aperta per diventare, un giorno, Museo Nazionale.
Il libro comincia subito con un paio di pagine di ringraziamento a un gran numero di persone che hanno reso possibile la realizzazione del Museo.
Il 357° Gruppo Caccia è quello, per intenderci, che era basato a Leiston, Inghilterra, e del quale hanno fatto parte personaggi molto famosi, come Chuck Yeager e Clarence E. Anderson. Questi ultimi, in particolare, hanno scritto libri che ho già recensito su VOCI DI HANGAR.
E, ovviamente, del 357° Gruppo ha fatto parte anche il capitano Fletcher Adams.
Questo reparto di cacciatori statunitensi, stanziati in Gran Bretagna dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro la Germania, avevano il compito di scortare le formazioni di bombardieri per tutto il viaggio di andata e ritorno verso gli obiettivi militari dell’intero continente europeo. Avevano in dotazione il P-51 Mustang, una macchina meravigliosa, non solo per le sue straordinarie caratteristiche di volo, ma soprattutto perché il P-51 poteva montare uno o più serbatoi ausiliari sganciabili. Aveva quindi l’autonomia necessaria per volare con i bombardieri tutto il tempo necessario e li poteva proteggere dagli attacchi dei caccia avversari, compresi, verso la fine della guerra, i temibili jet tedeschi Me-262.
Il giorno dell’inaugurazione di questo museo, Chuck Yeager in persona, accompagnato dalla moglie Victoria, aveva fatto un lungo viaggio per essere presente. Era il 24 Luglio 2010.
Fin dal giorno prima erano cominciati gli arrivi di tantissime persone, che si erano poi distribuite nei vari alberghi della zona per essere pronti il giorno dopo alla cerimonia dell’inaugurazione.
Chuck Yeager era stato l’ultimo. Il suo aereo aveva subito un ritardo in partenza da Dallas. Quindi era arrivato tardi, poi aveva affittato un’ automobile, si era spostato dall’aeroporto di arrivo fino a Ida e finalmente, dopo le dieci di sera, aveva varcato la porta del museo tra uno scroscio di applausi e addirittura una standing ovation.
Il museo era anche dedicato al 357° gruppo della VIII Forza aerea e conteneva oggetti, dipinti, modellini di aerei e ogni altro genere di reliquie sopravvissute alla guerra. C’erano documenti e foto dell’epoca.
E poi c’erano i piloti.
I piloti erano tutti anziani, come dice l’autore:
“All of them were in there late eighties or early nineties”…
“Tutti loro erano oltre gli ottant’anni o sui novanta”…
Ma c’era un altro genere di documentazione che sarebbe stata perfettamente al posto giusto in un museo di questo genere. In fondo, a cosa serve un museo? A mantenere memoria di una realtà che era stata importante nel tempo, che aveva avuto un ruolo di primo piano nella Storia.
La memoria, appunto.
E quale memoria avrebbe dovuto far parte a pieno diritto di un museo?
Quella di coloro che di quella Storia erano stati i protagonisti: gli uomini che avevano combattuto in quel Gruppo di volo, primi fra tutti i piloti.
“For these reasons and others, these pilots and the crewmen who supported them have always been and will forever be my personal heroes. They all deserve to have their stories recorded in print in order that every generation of Americans can read about their history and never forget the sacrifices they made in order to ensure our freedom today. It is for these reasons that I wrote this book, and I hope that it serves its purpose”.
“Per questa e altre ragioni, questi piloti e i loro specialisti di supporto erano sempre stati e per sempre saranno i miei eroi personali. Tutti loro meritano che le loro storie siano stampate in modo tale che ogni generazione di Americani possa leggerle e non dimentichino mai i sacrifici che hanno fatto per assicurare la nostra libertà di oggi. E’ per questo motivo che ho scritto questo libro, e spero che raggiunga questo scopo”.
Ma l’autore era anche sicuro che tantissime altre storie fossero ancora tutte da scrivere.
Esistono tanti libri sul 357° Gruppo Caccia. Molti hanno scritto per profitto personale o per ragioni professionali, ma l’autore dichiara di volersi inserire nel numero di coloro, come Bud Anderson, Chuck Yeager e altri che hanno scritto libri sul Gruppo, per preservare la sua Storia (History) e per documentare il coraggio e l’altruismo di centinaia di piloti e specialisti (il gruppo di non piloti che si occupava della manutenzione e delle riparazioni degli aerei) che avevano contribuito a sconfiggere il dominio di Hitler sull’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale.
“Stiamo cadendo come mosche, ormai”,
dichiara. L’età avanza e sono sempre di meno coloro che queste storie possono ancora raccontarle. E’ urgente raccoglierle, e scriverle, e stamparle, pubblicarle in uno o più libri, per consegnarle ai posteri così che siano per sempre disponibili per chi vorrà conoscerle.
Così cominciò a chiedere a tante persone di collaborare al reperimento di tutte le storie possibili.
Un altro pilota, Joseph “Joe” Shea, gli mandò un pacco di queste storie da lui raccolte e scritte. Erano venti, tutte inedite. E tutte interessanti.
“It is funny how quickly a moundane, boring moment in a combat pilot’s life may change into a hair-raising experience with the snap of a finger”.
“E’ divertente quanto rapidamente un banale, noioso momento, nella vita di un pilota combattente, possa cambiare in un’esperienza da far rizzare i capelli in uno schiocco di dita”.
Così, l’autore e Joseph Shea unirono gli sforzi e cominciarono a contattare i piloti ancora reperibili, oppure i loro discendenti, figli, mogli parenti o amici, per mettere insieme racconti e testimonianze.
Tutti furono ben lieti di dare il loro contributo.
Furono sommersi da “tons of material“, tonnellate di materiale. Da scrivere non uno ma letteralmente tre volumi.
Questa è stata la genesi di:
“The Great Rat Race for Europe: Stories of the 357th Fighter Group“.
Dalla ricerca di tante storie è nato un altro libro:
“Bleeding Sky: The Story of Capitan Fletcher E. Adams and the 357th Fight Group“.
Ma di questo parleremo in un altro momento.
Tutti questi racconti mantenevano viva la memoria di fatti e avvenimenti storici, di persone, macchine e perfino animali che avevano vissuto quel periodo, di usi e consuetudini, metodi, mentalità, disciplina, sentimenti, tutto…
Per i posteri, certo, ma anche per i discendenti dei protagonisti dei racconti. Così da portarli a conoscenza del valore e dell’eroismo dei loro cari, molti dei quali scomparsi. Ma anche di quelli ancora in vita, perché molti di loro non amavano parlare dei tragici episodi della guerra, di un tempo fortunatamente ormai andato.
Durante la permanenza a Leiston, il 357° Gruppo aveva anche un altro appellativo.
Vicino a Leiston c’era una cittadina che si chiamava Yoxford. Probabilmente tutti quelli del Gruppo vi andavano spesso durante le ore di libertà.
Perciò cominciarono a riferirsi a loro stessi come gli “Yoxford Boys”.
“So this book and the others that will surely follow are dedicated to you Muff, and Hibbie and Butch and Arch and Aline and Jerry, and so on and so on and so on. Your loved ones will never be forgotten as long as I can hold a pen in my hand. I thank each and every one of you for allowing me to tell the stories of these eroic Yoxford Boys“.
“Così questo libro e gli altri che sicuramente seguiranno sono dedicati a te Muff, e Hibbie e Butch e Arch e Aline e Jerry, e così via e così via e così via. I vostri cari non saranno mai dimenticati finché potrò tenere una penna in mano. Ringrazio ognuno di voi per avermi permesso di raccontare le storie di questi eroici Yoxford Boys“.
In questo libro, di storie, ce ne sono tante. E tutte interessantissime. Storie di combattimenti aerei, piantate motore a quote stratosferiche e anche raso terra, lanci con il paracadute, sul mare, sulla terra inglese, sulla Francia occupata, su paesi liberati e perfino sulla Germania.
Storie di prigionia, storie di piloti che si sono lanciati su città occupate dai tedeschi, subito dopo un bombardamento o dopo una missione di mitragliamento al suolo. In questi casi il pilota veniva catturato e ucciso.
C’è una storia di queste, infatti. Ma quella città venne subito dopo riconquistata dagli alleati, venne trovato il luogo di sepoltura del pilota. I responsabili della sua uccisione, in totale dispregio dei trattati di Ginevra, vennero individuati, processati e imprigionati. Il materiale esecutore dell’omicidio venne impiccato.
Ci sono un paio di racconti sullo sbarco in Normandia.
Il primo giorno i soldati alleati uccisi furono circa diecimila.
Nemmeno un caccia tedesco si fece vedere, quel giorno.
Ma una coppia di P-51 Mustang partirono dall’Inghilterra prima dell’alba, sorvolarono il canale della Manica e penetrarono nell’interno della Francia per mitragliare a bassissima quota i treni in movimento, che probabilmente trasportavano truppe o armi.
Durante un passaggio radente su un obiettivo il leader della coppia venne colpito e qualche istante dopo si schiantò al suolo.
Il gregario rimase da solo. E’ lui che racconta la storia. E la racconta con una tale vividezza che ci sentiamo coinvolti totalmente. Si percepisce lo sconcerto per ciò che è successo, per il senso di abbandono, per la solitudine e lo sconforto. Deve tornare in Inghilterra, ma non sa bene neanche dove si trova. Era arrivato lì seguendo il leader, ha soltanto una vaga idea della prua da mantenere per tornare verso casa.
Ogni tanto qualcuno gli spara.
Sale a quota abbastanza alta da sperare di evitare i colpi della contraerea nel momento di attraversare la linea della costa. Assume una prua approssimativa e si allontana sul mare.
E’ interessante anche quello che dice delle cinquemila imbarcazioni di ogni tipo, con palloni frenati di difesa, che vede di sfuggita mentre li sorvola.
Uno spettacolo unico. E irripetibile.
Lui sa bene di essere un privilegiato, perché essere in quel punto e in quel momento gli consente di essere testimone di un fatto epocale che pochissimi possono aver visto.
E in una visione d’insieme, come non può fare nessun altro partecipante allo sbarco.
Ognuno vede vicino a sé. Vede solo ciò che lo circonda. E spesso neanche quello perché per la maggior parte del tempo ognuno deve stare riparato il più possibile, con la testa protetta, il viso a contatto con il suolo.
Lo sbarco, specialmente il primo giorno, avvenne sotto un fuoco feroce.
Molti videro solo pochi metri di acqua e di spiaggia disseminati di ostacoli e cadaveri.
Un pilota no. Lui vede tutto, per chilometri e chilometri da un orizzonte all’altro.
Privilegio di chi vola. Se non viene abbattuto.
Finalmente riesce a ritrovare l’aeroporto di Leiston e atterra.
Il racconto si conclude con un’amara considerazione: quel giorno, secondo i resoconti del primo giorno dello sbarco, il sei giugno 1944, solo un pilota del 357° perse la vita, quello del presente racconto.
Che fu anche il primo pilota di caccia a morire.
Ecco il genere di racconti che si trovano in questo interessantissimo libro. Oggi possiamo conoscere meglio cos’è stata la guerra aerea di quei giorni famosi, ma terribili, ai quali dobbiamo la libertà di adesso.
E’ bene conoscerla questa Storia. Mai come nel presente periodo storico ci servirebbe fare riferimento al passato per capire quanto stiamo rischiando di dover ripetere quei momenti.
Esorto, quindi, tutti coloro che sono interessati all’argomento e conoscono un po’ l’inglese, a scaricare questo libro per il Kobo e a leggerlo. Altrimenti è possibile visitare il sito web del Museo di Ida dedicato al 357° Gruppo Caccia e intitolato al Capitano Fletcher E. Adams all’indirizzo:
http://357th.idamuseums.org/omeka-1.4.2/
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
The Silver Spitfire – The legendary WWII RAF fighter pilot in his own words.
Autore: Tom Neil
Editore: Orion House – The Orion Publishing Group Ltd
Ebook ISBN: 978 0 2978 6814 9
Hardback ISBN: 978 0 2978 6813 2
Prima pubblicazione in Gran Bretagna: 2013
Prima di scrivere anche una sola sillaba di questa recensione voglio dire subito che questo è un libro perfetto per i piloti di HAG, Historical Aircraft Group. Tutti dovrebbero leggerlo, perché nell’ultimo terzo del libro, quello che riguarda la storia dello Spitfire da cui è scaturito il titolo, viene descritto un percorso che quasi tutti i piloti di HAG hanno seguito nel reperire, acquisire, riparare, ricostruire, provare e infine, vendere a qualcun altro il loro aereo d’epoca. C’è tutto, qui. Le soddisfazioni, le ansie, le burocrazie, gli stratagemmi e spesso anche i sotterfugi che ogni proprietario di aereo d’epoca conosce bene. Non mi sarei mai aspettato di poter leggere qualcosa di così interessante, ma per fortuna è accaduto.
Ne parliamo subito.
Un altro libro di Tom Neil, che considero il seguito di “Gun button to fire“, di cui potete leggere la recensione in questa pagina per VOCI DI HANGAR. Il volume arriva via etere nel mio fantastico Kobo.
Neanche a dirlo, ho cominciato subito a leggerlo.
L’autore, inglese purosangue, scrive in una maniera talmente lineare e precisa che mi dimentico di leggere un testo, ovviamente, in inglese. Pochissime sono le parole che devo cercare nel vocabolario associato al lettore digitale. Ma, devo dire, quando lo faccio scopro che questo vocabolario si è notevolmente evoluto nel corso dei frequenti aggiornamenti del sistema operativo del Kobo. Ora è più completo, pieno di esempi chiarificatori che riportano non solo la traduzione letterale, ma anche il significato idiomatico in frasi diverse.
Forse è meglio ricordare che se non si dispone di un vero lettore Kobo si possono scaricare e leggere i libri anche su un tablet. Basta cercare la relativa applicazione Kobo-reader nello Store del tablet. In questo caso, dal momento che il tablet è a colori e anche retro illuminato, non solo si legge meglio, ma le foto inserite nel libro si presentano più larghe ed eventualmente a colori. Anche quelle in bianco e nero hanno un aspetto migliore. Il mio è un tablet Samsung A6, con sistema operativo Android, non certo dell’ultima versione. Lo schermo è HD, e per questo le foto si vedono decisamente bene, ma ormai in commercio ci sono modelli di gran lunga migliori.
Così come nel libro precedente, anche in questo, Tom Neil dedica la propria opera a sua moglie.
“For my beautiful wife, the former Flight Officer Eileen Hampton, WAAF, who not only provided me with three wonderful sons but who has also loved, guided, encouraged and supported me throughout 68 years of married life“.
“Alla mia bellissima moglie, ex Ufficiale di Volo Eileen Hampton, WAAF (Women’s Auxiliary Air Force, Forza Aerea Ausiliaria Femminile), che non solo mi ha dato tre figli meravigliosi, ma mi ha pure amato, guidato, incoraggiato e supportato attraverso 68 anni di vita matrimoniale”.
In “Gun button to fire” era stata chiusa l’ultima pagina sugli eventi finali della cosiddetta Battaglia d’Inghilterra. Erano i primi mesi del 1942 e gli Stati Uniti non erano ancore entrati in guerra.
Ora, in “The Silver Spitfire” ci troviamo invece nella seconda parte del 1944: quasi tre anni di guerra più tardi.
Tom Neil ha 23 anni. Ed è già Capo Squadriglia.
Nella recensione del primo libro non avevo messo in evidenza il fatto che i piloti di cui si parlava erano tutti giovanissimi. Erano ragazzini, veramente. Poco più che diciottenni, già volavano e combattevano contro ben più esperti piloti avversari.
Appena gli Stati Uniti d’America entrano in guerra l’Inghilterra si riempie letteralmente di truppe, gruppi aerei, aeroplani e mezzi di ogni tipo. E navi che saturano ogni porto.
Termina lo sforzo estremo delle squadriglie inglesi che tante perdite avevano subito nello scontro con gli aerei attaccanti tedeschi. O almeno si attenua.
Gli americani entrano in gioco e il gioco stesso prende subito un altro aspetto.
Ora non si tratta più di difendersi dagli attacchi, da qui in poi l’attacco parte dall’Inghilterra e si spinge profondamente nel territorio nemico fino a colpire il cuore della Germania. Non è più scontro nei cieli sopra Londra, che non impedisce tuttavia ai bombardieri tedeschi di distruggere interi quartieri della città di Londra, ma anche di altre città inglesi e di molti aeroporti.
Non più bombardamenti notturni da parte degli aerei britannici a qualche città tedesca, con enormi perdite di bombardieri indifesi, perché i caccia, quasi tutti Hurricane e Spitfire, non avevano l’autonomia necessaria per accompagnare i Lancaster e gli Halifax tanto lontano all’interno dell’Europa invasa dalla Germania.
Ora quest’ultima si vede improvvisamente colpita, di giorno, da enormi formazioni di possenti bombardieri, scortati da altrettanto enormi formazioni di caccia che hanno tutta l’autonomia necessaria per arrivare anch’essi sugli obiettivi, combattere contro i caccia tedeschi, tornare indietro e magari, dopo aver scortato i bombardieri al sicuro sulla Manica, tornare ancora indietro e mitragliare obiettivi di opportunità nel territorio nemico, prima di dirigere finalmente la prua verso casa.
Gli inglesi possono ora tirare un sospiro di sollievo.
Certamente continuano a combattere. Ma in modo meno cruento.
In questo libro ci sono alcuni riferimenti ai tre anni successivi al primissimo periodo di guerra. Ma l’autore si limita a dire che fu trasferito a Malta, dove pilotava un Hurricane etc. E qui aveva certamente combattuto contro tedeschi e italiani. Poi finalmente torna in patria e incontra per la prima volta gli americani.
La guerra volge al termine. Siamo nel 1944 e ci sono i preparativi per lo sbarco in Normandia e l’invasione dell’Europa continentale. Lo scopo è quello di liberare la Francia e proseguire verso i Paesi Bassi fino a penetrare in Germania e raggiungere Berlino. L’attacco alleato avveniva contemporaneamente anche da sud, con lo sbarco in Sicilia e ad Anzio. Intanto, da est, i Russi avanzavano verso Berlino.
A questo punto la stretta collaborazione tra inglesi e americani era una necessità essenziale. Tutti i problemi logistici, oltre a quelli strettamente operativi, richiedevano la più rapida ed efficace risoluzione, senza che si verificassero tensioni e attriti di nessun tipo.
Tom Neil finisce a ricoprire il ruolo di ufficiale di collegamento tra inglesi e americani. Lo assegnano al 100° Gruppo Caccia, 19° Comando Aero-tattico, 9° USAAF (Aeronautica degli Stati Uniti d’America) di stanza in un aeroporto in Inghilterra, molto vicino al suo aeroporto di appartenenza. Un viaggio davvero molto breve.
Il secondo capitolo, dal titolo: “My first americans“, è uno spasso. La descrizioni dei primi contatti con il carattere e i modi tipicamente americani, visti con occhi inglesi, è tutto da leggere.
All’inizio anche gli americani restano un po’ perplessi dal personaggio che si trovano davanti. Lo trattano con sufficienza. Lui aveva dato soltanto il suo nome, ma non il grado. Poi uno degli ufficiali comandanti finisce per chiedergli: “OK, Tom. And how d’you style yourself? Sergeant? “Lootenant” or what“?
“Ok, Tom. E cosa saresti? Sergente? Tenente o cosa?”
Notare come viene storpiata la parola tenente, che in inglese si scrive Lieutenant.
E lui risponde, con tono noncurante: “Well, I’m a sort of “lootenant”, except that I’m called Squadron Leader“.
“Beh, sono una specie di tenente, solo che sono un capo squadriglia”.
Non dimentichiamo che il nostro autore ha circa ventitré anni.
“Squadron Leader? What’s that, Tom?”
“Squadron Leader? Che cos’è, Tom?”
“Well, in the RAF, I fly fighter aircraft and lead a squadron. I’m a sort of major“.
“Bene, nella RAF, piloto aerei da caccia e comando una squadriglia. Sono una specie di maggiore”.
La reazione degli ufficiali americani fu di incredula meraviglia. Ma il tono semi derisorio terminò istantaneamente.
“Major! No kiddin! You a major? Then, boy! You don’t look old enaugh to be even a “lootenant”.
“Maggiore! Non scherziamo! Tu un maggiore! Allora, ragazzo! Non sembri abbastanza grande da essere nemmeno un lootenant”.
Sempre con la “strana” pronuncia della parola lieutenant.
Questa conversazione avvenne in una mensa, dove Tom era andato per fare colazione. Dopo aver saputo con chi avevano a che fare lo fecero sedere al tavolo, dove di solito si sedeva lo staff del comandante e gli portarono un mare di cose da mangiare.
E questo è solo un esempio degli ameni episodi descritti nel libro.
La fama di Tom Neil fece presto ad arrivare in quel reparto. al punto che ormai lo consideravano per quello che era: un asso.
Infatti, dato che appena lì fuori c’era un P47, il grosso caccia americano dal grande muso, chiamato colloquialmente “la bottiglia del latte” per via della forma tozza, Neil ebbe solo il tempo di chiedere informazioni su quell’aereo. Immediatamente lo invitarono a salire al posto di pilotaggio, gli spiegarono tutto il cruscotto e lo esortarono a provarlo in volo.
Lui fece molte domande ed ebbe tutte le risposte. Ma in conclusione, prima di lasciarlo andare gli dissero semplicemente:
“Keep everything in the green“. -“Tieni tutto nel verde”.
E qui, per piloti come noi, che siamo eredi proprio del metodo americano e abbiamo assimilato da sempre i loro standard, non c’è niente di cui stupirsi. Ad ogni volo, per quanto mi riguarda, ho sempre a che fare con la necessità di tenere tutto nel verde. E’ normale.
Ma non lo era per Neil, il quale probabilmente, sugli strumenti del cruscotto degli aerei inglesi, non aveva mai visto nessun settore bianco, verde, giallo o rosso, almeno in quegli anni.
E’ interessantissimo leggere il suo pensiero, a questa esortazione:
“In the green? To me, a new expression. I then saw that almost every instrument was marked with little coloured lines indicating the proper range of operating temperatures and pressures. What a super idea! I was absolutely in favour and have been ever since. Surprisingly, it was something the RAF, in my time away, never adopted“.
“Nel verde? Per me, un’espressione nuova. Allora vidi che quasi ogni strumento era marcato con piccole linee colorate indicanti la giusta escursione delle temperature e pressioni di esercizio. Che super idea! Ero assolutamente in favore di un simile sistema e lo sono sempre rimasto, da allora. Sorprendentemente, era qualcosa che la RAF, in quei tempi, non aveva mai adottato”.
Neil non spreca molte parole per descrivere la preparazione che precedette quel primo volo su un aereo tanto diverso da quelli ai quali era abituato. Il P47 era monoposto e non c’era modo di fare prima qualche doppio comando. Ma ho letto in tanti altri libri come gli americani affrontavano e risolvevano il problema, anche se oggi una tale pratica ci può risultare incredibile.
Però, a ben vedere, la faccenda è piuttosto logica, efficace e fa risparmiare un sacco di tempo.
Loro mettevano in atto una procedura che chiamavano “cockpit orientation“. – “Orientamento nel posto di pilotaggio“.
L’idea si basa sul fatto che tutti gli aerei, dal più piccolo al più grande, volano allo stesso modo. Un pilota sa volare. Punto.
Quello che gli serve e che può non sapere è la collocazione degli strumenti, dei vari comandi (sebbene la cloche, la pedaliera e la manetta stiano sempre nello stesso posto, più o meno), dei bottoni e degli interruttori. Poi ci sono le procedure di utilizzo del carrello e dei flaps e le velocità alle quali certi sistemi si possono azionare.
Quindi, il pilota viene posto a bordo e ivi lasciato per ore. Gli viene spiegato tutto ciò che ha a disposizione, viene istruito a tutte le sequenze di movimento, a toccare ogni comando non appena questo gli viene nominato.
Quando tutto risulta acquisito, il pilota viene bendato. E si ricomincia daccapo l’addestramento, solo che ora il pilota deve fare tutto senza neanche poter vedere.
Quando è pronto, non ci sono più molte difficoltà da superare.
Il decollo è piuttosto facile. Una volta in volo, per circa un’ora, si possono fare tutte le manovre necessarie a prendere confidenza con il carattere della macchina.
E quando viene all’atterraggio, il pilota ha già un’ora di esperienza su quel nuovo aereo.
Tuttavia, proprio l’atterraggio, è forse la fase in cui deve davvero stare parecchio attento.
Metodi antichi. Oggi sarebbero impensabili. Ma per alcuni aerei che esistono solo nella versione monoposto, come certi aerei acrobatici moderni, o alcuni alianti, ancora si opera in questo modo (fase bendata esclusa).
Neil scopre subito la natura degli americani. Gente dura, chiassosa, apparentemente poco rispettosa delle gerarchie, tranne quando davvero serve, ma anche gente avversa a troppe burocrazie. Vuoi provare il P47? O il P 51? Nessun problema. Ordini vengono emessi affinché l’aereo interessato sia messo in linea (In linea: altro modo di dire sconosciuto in Inghilterra, che Neil scopre qui, in ambiente americano), le persone giuste vengono incaricate e rese disponibili per lo scopo e questo è tutto.
Tutto bene anche nelle relazioni con il comandante , Il colonnello “Tex” Sanders, un nome molto famoso all’epoca.
Sanders ha un P51 a lui assegnato, con il quale può andare dove serve e dove vuole.
E Sanders autorizza Neil a fare uso di quel caccia come desidera. Tanto, a lui serve poco.
E’ interessante leggere il racconto del primo volo che un pilota britannico come lui si trova a fare sul meraviglioso Mustang P 51.
Nel 100th Fighter Wing Neil ha ormai consolidato la propria autorevolezza e gli americani lo trattano alla pari. Nessuna riserva. Può davvero fare quello che vuole.
“As a young RAF officer of 23, who had been flying a fighter aircraft for almost four years, I had infinitely more war experience than the other 30-odd officers and senior NCOs who worked with and around me during those early months, despite the many “rubber” medal ribbons some of them wore on their uniforms. Aware that I had flown throughout the Battle of Britain, in the siege of Malta and more recently in the bitter duels that had taken place over the Englih Channel, they viewed me with perhaps exaggerated respect, tolerating my strange remarks and habits and always acquiescing my whims, whether or not they agreed with them. In short, everyone – including colonel “Tex” Sanders – dealt with me gererously and very circumspectly and, not to put fine a point on it, I took advantage of their good nature“.
“Come giovane ufficiale della RAF di ventitré anni, che aveva pilotato caccia per quasi quattro anni, avevo infinitamente più esperienza di guerra degli altri ufficiali di 30 e più anni e degli anziani ufficiali di complemento che lavoravano con me e intorno a me durante quei primi mesi, nonostante il nastro di medaglie “di gomma” che alcuni di loro avevano sulle uniformi. Sapendo che avevo operato attraverso la Battaglia d’Inghilterra, nell’assedio (italiano) di Malta e più recentemente negli amari duelli che ebbero luogo sopra il Canale della Manica, mi consideravano forse con un rispetto esagerato, tollerando le mie strane osservazioni e abitudini e sempre tollerando i miei capricci, sia che fossero d’accordo o meno con essi. Per farla corta, ognuno , compreso il colonnello “Tex” Sanders – trattò con me in maniera generosa e circospetta e, per non mettere un punto troppo sottile su questo, approfittai della loro buona natura”.
Eccome, se ne approfittò.
In quasi metà del libro si parla di come l’autore svolgeva il suo ruolo di ufficiale di collegamento, facendo ampio uso di aerei statunitensi di ogni tipo, compresi alcuni grossi bimotori, ma anche di piccoli monomotori, uno dei quali ben conosciuto nei nostri aeroclub, specialmente dove si pratica volo a vela: lo Stinson L 5.
Con questi aerei faceva addirittura voli di piacere, oppure voli di collaudo o voli officina, portando a bordo un certo numero di specialisti o passeggeri vari che lo richiedevano.
Alcuni di questi passeggeri, addirittura salivano furtivamente, senza farsi scorgere.
Ma in uno di questi voli ci fu un’avaria che costrinse Neil a rimanere in volo a lungo, in attesa di capire come risolvere il problema. E allora questi clandestini spuntarono sulla porta della cabina di pilotaggio, guardando dentro con le facce pallide e preoccupate. Così Neil venne a conoscenza di avere a bordo più persone di quanto sapesse. E che a farli salire era stato uno dei motoristi, anch’egli a bordo, senza avvisare il comandante.
E se una stranezza del genere, che da noi non potrebbe avvenire, può sorprendere, ce ne sono altre, ancora più incredibili.
Nel collaudare questi grossi aerei, Neil non aveva un secondo pilota. O meglio, ne aveva uno, ma non era un pilota come lui. Era un medico chirurgo, il dottor Patterson.
Si proprio così. Il medico del 100th Fighter Wing, appassionato di volo, chiedeva di continuo di poter volare. E, figuriamoci, tutti erano ben felici di accontentarlo. Era riuscito a frequentare la stessa scuola di pilotaggio attraverso la quale erano passati tutti. Anche gli istruttori erano ben felici di insegnargli a volare.
Poi era riuscito ad addestrarsi ulteriormente e infine aveva volato abbastanza anche sui caccia statunitensi, compreso il P 51 Mustang. E secondo la mentalità americana, quando chiedeva di fare un volo, gli tiravano fuori subito un aereo e lo lasciavano andare.
Neil si era trovato a tenerlo in considerazione allo stesso modo. Avevano finito per diventare amici e andava a chiamarlo ogni volta che aveva bisogno di un copilota. Ma, per precauzione, si portava a bordo anche due esperti specialisti, che certamente sapevano meglio di lui dove, all’occorrenza, andavano messe le mani.
Come ho detto, mentalità americana.
E deve essere anche piuttosto contagiosa, perché Neil, alla richiesta del medico di fare un giro anche con lo Spitfire, acconsentì. Per precauzione gli fece un bel briefing, per ricordargli la disposizione dei comandi e i parametri di volo.
Il medico mise in moto e cominciò il rullaggio.
Dal modo come si muoveva al suolo per raggiungere la pista e dal tempo troppo lungo che il medico – pilota impiegò per fare la prova motore e decollare, un’idea cominciò ad affacciarsi alla mente di Neil. Sembrava che il suo amico non avesse mai volato sullo Spitfire.
Il volo doveva durare una mezz’oretta. Ma dopo un’ora non era ancora tornato.
Poi finalmente lo Spitfire apparve a bassissima quota e sorvolò il campo. Fece il circuito in maniera incerta, si presentò all’atterraggio in maniera errata e dovette fare un altro giro. Ma alla fine atterrò.
Nella concitata discussione che seguì il ritorno del medico venne fuori che si era perso e aveva faticato non poco a ritrovare l’aeroporto.
“Il vostro dannato paese è tutto uguale. Tutto squadrato e simmetrico. Ci sono pochi punti di riferimento“,
disse.
E, si, effettivamente non aveva mai volato su uno Spitfire. Proprio per questo aveva chiesto di provarlo.
A proposito di Spitfire, Quando arriva quello argentato di cui si accenna nel titolo? Ho letto due terzi di libro senza quasi poter smettere e ancora non se ne parla.
Ma poi, nel quindicesimo di venti capitoli, intitolato “Enter the Spitfire“, eccolo qua.
Fino a questo punto avevo seguito l’autore in una marea di avventure di ogni tipo, comprese le vicende che riguardavano la conoscenza di una ragazza, una WAAF, cioè un ufficiale donna che svolgeva un ruolo ausiliario nell’Aeronautica inglese. Si trattava di una specie di controllore di volo.
Questa ragazza diventerà sua moglie.
E durante i mesi del 1944 e anche del 1945 Neil si era trovato ad operare in Francia, dopo lo sbarco in Normandia (di cui si parla abbastanza nel libro). Seguendo le vicende della liberazione della Francia, il 100th Fighter Wing veniva spostato da un aeroporto francese all’altro, appena i tedeschi lo abbandonavano.
In uno di questi trasferimenti, in un aeroporto non molto distante dalla città di Le Mans, appena arrivato, Neil stava cercando un locale in cui scaricare il suo equipaggiamento e in cui soggiornare. C’erano alcuni caccia P 47 parcheggiati in un punto dell’aeroporto e qualche altro aereo americano.
Ma, in mezzo a loro, cosa vede?
Uno Spitfire.
Incuriosito si avvicina e scopre che questo Spitfire, un vecchio modello IX-B, appariva piuttosto malconcio. Tuttavia si adopera subito ad ispezionarlo e metterlo in moto. Poi cerca la documentazione di bordo per scoprirne la provenienza e il reparto di appartenenza.
Non trova nulla. Niente documenti, niente informazioni. Perfino il numero di serie era stato abraso dalla scalcinata colorazione mimetica.
Essendo lui un inglese, sperduto sul suolo della Francia, provava una sorta di sentimento di solidarietà per quell’aereo, inglese anch’esso.
Sulla fusoliera era riportato solo il nominativo: 3W-K, che indicava l’appartenenza ad una squadriglia alleata e quindi non della RAF.
Neil chiese se qualcuno sapesse quando l’aereo era arrivato e se qualcuno lo avesse visto atterrare.
Gli dissero che era atterrato poco tempo prima, il pilota aveva una divisa blu, ma era straniero e non parlava neanche bene l’inglese. Se ne era andato immediatamente con un aereo da trasporto, forse un Anson. E non aveva detto nulla su chi era, dove andava, né se sarebbe tornato a riprenderlo, ma di sicuro non lo avrebbe fatto, perché appena atterrato aveva inveito verso l’aereo, blaterando di non volerne più sapere.
Neil capisce che forse può prendere possesso della macchina.
Chiama subito alcuni specialisti. Ma incontra dei problemi, perché gli americani non hanno nulla che possa servire ad un aereo britannico. Perfino la batteria è diversa. Gli inglesi usano quella a 12 volt. Gli americani quella a 24.
Comunque fanno tutto il possibile e infine, il giorno seguente, Neil è pronto a provare il vecchi Spit in volo.
In tutto il volo prova durò una mezz’ora, sorvolando le città francesi di Rennes e Nantes.
Nella settimana seguente volò ancora per circa un’ora. Poi parcheggiò l’aereo al solito posto, aspettandosi che prima o poi non lo avrebbe più visto perché qualcuno era tornato a riprenderselo.
Invece no. Dopo altro considerevole tempo lo Spitfire era ancora lì. Solo e triste come un cane abbandonato.
Neil aveva già un pensiero, in fondo alla mente. Quello di appropriarsi del povero Spitfire, di farlo restaurare e di servirsene come mezzo di trasporto per ogni sua necessità operativa.
“Spitfires, like bad debits, tend to linger in the mind… I took a further hour off to fly it a second time – to keep its morale up, so to speak – and was surprised to see it several days later, still as silent and so lonely as ever, sitting on its hardstanding. Clearly, the owner was not too keen on having it back“.
“Gli Spitfire, come i brutti debiti, tendono a indugiare nella mente… mi presi un’altra ora libera per volarci una seconda volta – per tenergli su il morale, per così dire – e fui sorpreso di vederlo alcuni giorni dopo, ancora silenzioso e solitario, seduto sul suo carrello. Chiaramente, il proprietario non aveva nessuna fretta di averlo indietro”.
Passa tutto il mese di Agosto e Neil vola con altri aerei, compreso il P 51. Ma lo Spitfire era ancora lì. E anche l’idea di prenderlo era ancora lì.
Il 26 agosto 1944 il 100th Fighter Wing ricevette l’ordine di trasferirsi a Le Mans, a 80 miglia di distanza. Tutti cominciarono a impacchettare i loro equipaggiamenti e a caricarli sui camion.
Lo Spitfire era ancora là. Presto l’aeroporto sarebbe rimasto abbandonato e Neil già vedeva l’unica possibile fine dell’aereo: vandalizzato e ridotto a un rottame dai francesi residenti nei dintorni.
Un pensiero terribile e insostenibile.
Non ci mise molto a prendere una drastica decisione.
“It took me all of five seconds to make up my mind… I would take the Spitfire to Le Mans“.
“Impiegai cinque secondi a decidere… lo avrei preso e portato a Le Mans”.
Trovò una matita e una penna e scrisse un avviso che attaccò alla parete della baracca della torre di controllo.
“To whom it may concern. Have taken Spitfire 3W-K to Le Mans. Pick it up there“.
“A chi può essere interessato. Ho portato lo Spitfire 3W-K a Le Mans. Venga a prenderlo là”.
E firmò con il suo nome.
L’aeroporto di Le Mans non era niente di buono. Appena evacuato dai tedeschi, era pieno di relitti, aerei bruciati, mezzi di ogni genere abbandonati in giro, rottami ovunque.
Lo Spitfire andava portato via anche da lì.
Ma ora tutti avevano cominciato a considerare quell’aereo come di proprietà di Neil. E proprio i suoi meccanici presero a fargli pressioni affinché decidesse cosa fare dello Spitfire.
“Squadron Leader, they said, you are gonna have to do something about this heap“.
“Comandante, gli dissero, ti tocca fare qualcosa per questo affare”.
Ok. L’aereo fu controllato, rifornito, messo in moto. Neil salì a bordo e decollò per l’Inghilterra.
Il volo non fu proprio tranquillo. L’apprensione per le condizioni del motore si alleviò soltanto quando, attraversato il canale della Manica, l’isola di Wight passò rapidamente sotto la rotta verso la madre patria del glorioso Spitfire.
Bene. Da qui in poi comincia quel percorso che ogni pilota di HAG sarebbe ben felice di leggere.
E poiché non ho alcuna intensione di rovinare il piacere della lettura a nessuno, tantomeno ad un amico pilota appassionato di aerei d’epoca, termino qui il racconto degli avvenimenti successivi.
Ma, giusto per non troncare il filo degli eventi tanto bruscamente, diciamo che nel momento in cui Neil superava la linea della costa britannica, un certo Bert, specialista aeronautico inglese, vero mago della riparazione, manutenzione e restauro di ogni tipo di aereo, la persona che ogni proprietario di aereo d’epoca vorrebbe conoscere e avere per amico, aspettava a terra l’arrivo dello Spitfire per accoglierlo a braccia aperte.
Bert rimise a nuovo il glorioso Spit. E tra gli interventi che fece sulla fusoliera dell’aereo, per prima cosa tolse tutta la vernice mimetica fino a lasciare solo la superficie metallica.
Per questo, d’ora in poi, si parla di Spitfire argentato, come suggerisce il titolo del libro.
The Silver Spitfire, appunto.
Neil lo usò per un anno ancora come aereo executive, per spostarsi ovunque, per motivi di servizio e anche per motivi personali. Lo usò addirittura per andare a trovare la sua fidanzata ovunque lei venisse trasferita nella Francia liberata.
E lo ruppe, perfino. Più di una volta. Ma sempre Bert, allertato immediatamente, arrivava. Sostituiva motore, parti di fusoliera, carrello… Lo Spitfire tornava efficiente e perfetto più di prima.
Si. Bert era un mago. E fu la garanzia di sopravvivenza dello Spit per più di un anno.
Come finisce questa storia?
Questo proprio non lo posso dire. Altrimenti, davvero, rovinerei la sorpresa.
Diciamo che nel corso del tempo venne fuori che il possesso dello Spitfire diventò un problema. Non era esattamente legale averlo, né usarlo.
Ma era divenuto difficile anche disfarsene.
Una storia tutta da leggere.
Alla fine si venne a sapere a chi era appartenuto l’aereo prima che Neil lo ritrovasse?
Eh, questo è un altro punto forte del racconto. Il mistero, che ci lascia senza respiro, dura a lungo.
Fino, addirittura a non molti anni fa.
Ma anche questa è una parte talmente sorprendente che bisogna proprio leggerla dalle parole di Tom Neil.
Recensione a cura di Evandro A. Detti (Brutus Flyer)
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR