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La fortezza in fondo al mare

Tempo di guerra, in Corsica un giovane pescatore ritornato dalla prigionia dell’Africa del Nord, vede una “Fortezza Volante” davanti all’altra “fortezza”, la Cittadella di Calvi, in pericolo di morte e salva l’equipaggio.

Ci sarà tra Ange, il pescatore, e il comandante una vera esperienza di vita.

Una foto d’epoca: formazione di Boeing B-17 Flying Fortress – Fortezza Volante – che costituivano il 381mo Gruppo in volo. Sono accompagnate da un caccia Mustang P51 (uno è visibile sullo sfondo) del 359mo Gruppo. Secondo la fonte dello scatto, certo tormentor4555 presente su Flickr, della formazione facevano parte il velivolo soprannominato: “Marsha Sue”, dismesso dopo un atteraggio pesante nel gennaio del ’45, “Patches,”, “Flak Magnet”, “Terror”, e “Trudie’s” . Chissà se si è mai appurato a quale reparto appartenesse il B17 di Calvi …

Sintetizza così, con queste poche righe, il proprio racconto una delle autrici più talentuose – lo ammettiamo senza riserva alcuna – e anche  più assidue nel partecipare al Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole”. Il suo nome? … Maria Teresa Limonta ma, per i veri amici,  semplicemente: “Mara”.

In occasione della V edizione, praticamente a ridosso della scadenza ultima di partecipazione, ecco che Mara, puntualmente, regala al Premio il suo “raccontino”, come ama chiamare tutte le sue composizioni.

La foto-cartolina che Mara ha regalato ai suoi affezionati followers. Ritrae la cittadella di Calvi che, fondata dai Romani, divenne insediamento cardine della Repubblica di Genova. Per la fedeltà dimostrata alla signoria genovese, la città ottenne dei privilegi e se ne fece un vanto al punto che il suo motto è proprio quello citato da Mara in coda al suo racconto.

In effetti si tratta di un racconto breve che, a giudicare dalle foto postate nella sua pagina personale, è nato a seguito della vacanza estiva di Mara in quell’angolo magnifico dell’Alta Corsica che ha, come perla incastonata nella costa, proprio la città fortificata di Calvi o Calvì – alla francofona – secondo il costume moderno.

Una splendida immagine di una “Fortezza Volante” in volo. Si tratta del velivolo denominato: “Menphis Belle”, il famoso B17 reso famoso dall’omonimo film di cui fu protagonista. In realtà la pellicola girata nel 1990 si concesse un po’ troppe licenze cinematografiche rispetto alla verità storica e, una volta nei cinema, provocò non pochi malesseri nei reduci ancora viventi e negli storici dell’aviazione USA. Anche il velivolo, per dovere di cronaca, è un altro B17 riadattato e verniciato come il glorioso “Menphis Belle” in quanto il bombardiere originale, a causa di una serie di vicissitudini, non sarebbe in grado di volare in sicurezza. E’ conservato, restaurato più volte, nel National Museum of the United States Air Force di Dayton – Ohio, mentre il suo clone se la spassa – si fa per dire – in manifestazioni aeree come velivolo volante o in mostra statica oltre – s’intende – ad essere stato inquadrato in lungo e largo durante le riprese del film.

Che Mara abbia visitato la presunta casa natale di Cristoforo Colombo non ne abbiamo la certezza, viceversa sappiamo per certo che sia venuta a conoscenza della presenza di un relitto aereo collocato sui fondali appena al largo dello sperone di roccia di Calvi. Ed ecco la scintilla! Perchè non parlare di quel bombardiere? Del dramma dell’equipaggio decimato dai caccia nemici? Dell’ammaraggo rocambolesco e del salvataggio provvidenziale dei pescatori locali? … fin troppo facile per Mara!

Un’altra bella immagine scattata in epoca moderna del B17 “Fortezza Volante” “Menphis Belle” con i portelloni del vano bombe semiaperti. Lo scatto mostra l’enormità di questo tipo di velivolo costruito complessivamente in 12 mila e 731 esemplari dall’industria bellica statunitense.

Ne è scaturito un racconto semplice, leggero che ha per protagonista un pescatore, Ange, anche lui reduce dalla guerra – ma nel deserto nordafricano – che non esita un istante a gettarsi tra i flutti per salvare i malcapitati aviatori.

Un racconto che si legge in un sospiro, tutto d’un fiato, che provoca il desiderio di vedere la foto-cartolina di Calvi e del B17, entrambe “fortezze”.

Ma noi faremo di più: ecco il link del video disponibile in rete proprio del relitto di Calvi: 

https://www.youtube.com/watch?v=-XsZAAN-Vxw

Tornando al racconto di Mara che dire? … se non chè è scritto con il garbo e la delicatezza ormai marchio di genuinità dell’autrice milanese. Forse troppo breve? Forse troppo poco aeronautico? Probabile, tanto che la giuria del Premio non lo ha ritenuto sufficientemente aderente allo spirito di racconto tra le nuvole tipico dei finalisti della sezione letteraria e dunque presenti nell’antologia relativa. Peccato per Mara, fortuna per noi che possiamo averlo ospite nel nostro hangar.

Grazie, Mara, per aver ricordato questa storia di guerra.


Narrativa / Breve

Inedito; ha partecipato alla V edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2017; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

I francesi la sanno lunga

gulfstream nero rossoI francesi sono nostri cugini. E gli spagnoli sono nostri fratelli. I primi sono antipatici e i secondi simpatici. Ma è proprio vero?

Il racconto è in fondo un gioco a rimpiattino, che cerca di svelare piccoli stereotipi legati alle diverse popolazioni; e grandi stereotipi che accompagnano normalmente la narrativa gialla o noir.

Il volo, e un detective con la testa tra le nuvole, diventano gli strumenti con cui scardinare le regole ferree del giallo e le atmosfere tipiche di una città come Barcellona. Così, quello che racconto è un mondo fatto soprattutto di volti, rughe, lacrime. Agonie fatta di permanenze infinite. E, ancora, quel senso di solerte abbandono che si appiccica insolente alle facce. Dolore misto a incredulità e sdegnoso rifiuto; una orgogliosa ritrosia che solo con l’inganno a se’ stesso ogni personaggio muta in una smorfia di faticosa rassegnazione. Che magari è un ghigno sardonico rivolto verso noi che ben pensiamo… Vicina ad una idea di commovente coraggio.

Dunque, gli ospiti delle pagine sono in verità ospiti della vita, e si sentono come i passeggeri nelle sale d’aspetto dei grandi aeroporti: arrivi e partenze dove, nell’attesa, ognuno si interroga con le ultime parole di commiato prima di una scelta voluta o obbligata. Ronzii fastidiosi alle orecchie ben educate. Rumori di fondo incapaci di giusta sintonia. Interferenze, scariche sonore, trasmissioni pirata su frequenze inesistenti. Resti. Rantoli. Rifiuti. Rigetti. Ribrezzi. Ripugnanze. Residui. Rospi da sputare.

Ma, accettate un consiglio da amico, fermatevi ad ascoltarli e non perdete nemmeno una pausa del loro respiro rarefatto: passerà molto e molto tempo prima che aprano di nuovo bocca.



Narrativa / Medio-breve Inedito; ha partecipato alla III edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2015; in esclusiva per “Voci di hangar”

Il fiore che imparò a volare

Si narra che un giorno un uomo grande, dai grandi piedi, s’inerpicò per uno scosceso sentiero, Voleva raggiungere la vetta della montagna. Certi uomini, si sa, amano raggiungere le cime, hanno il gusto della sfida. E da ogni cima raggiunta ne scorgono un’altra, ancora più alta, un po’ più lontana. Quella sarà la loro prossima meta. Il prossimo punto per guardare e scoprire se qualcuno può toccare il cielo un po’ più da vicino. Così sono certi uomini. Avanzano facendo pensare di avere una meta. Ma la meta è solamente un punto di passaggio. Il prossimo, il successivo, non è mai un arrivo. Saliva per il sentiero con passo svelto ed allenato. Era una grande uomo ed aveva piedi grandi per raggiungere cime sempre più lontane. Si fermò ad un ruscello per rinfrescarsi un poco. Era quasi mezzogiorno ed il sole picchiava a quella altezza. Si sedette su una pietra e si mise ad ascoltare il gorgoglio del torrente. A un certo punto sentì una vocina domandare: – Chi sei? – era un tono gentile, non lo fece spaventare, ma non c’era nessuno. Chi poteva essere stato a domandare? L’uomo si guardò un poco attorno, meravigliato: – Sono qui – riprese la vocina – davanti a te – L’uomo si guardò davanti: – In basso … qui … – insistette la vocina. L’uomo si chinò. Era un piccolo fiore che gli parlava – Ma tu … ma tu … – balbettò l’uomo stupito – tu parli! – riuscì finalmente ad esclamare – Certo – rispose il fiore con un tono un po’ sorpreso e risentito – non è mica una cosa tanto speciale! Tutti i fiori parlano … solo che non c’è mai abbastanza silenzio per sentirci – – Adesso puoi dirmi che sei? – riprese il fiore. – Sono un uomo, non ne hai mai visti prima d’ora? – – Si, talvolta ne ho visto qualcuno, esseri che passano, calpestano, strappano e poi vanno via. Niente di buono per quel che conosco – – Ooooh, io sono ben diverso – replicò l’uomo con tono un po’ risentito – conosco le regole della natura, so come accendere un fuoco senza far divampare l’incendio, non colgo mai i fiori se non quando è permesso, non molesto mai gli animali … – Va bene, va bene – lo interruppe il fiore – ma queste sono regole che vi siete dati voi umani. Avete mai chiesto a noi fiori di darvi le nostre? Siete sicuri, ad esempio, che cogliere i fiori nelle aree protette sia bene? E poi non ti pare strano, si dicono protette e sono proprio il posto dove noi fiori siamo i più indifesi … ma lasciamo stare, sono altri discorsi. Dove stai andando? – – Sto salendo in cima alla montagna – rispose l’uomo pieno d’orgoglio. – E perché? – domandò il fiore – Oh bella, per provarmi che ne sono capace! Per avere uno scopo, una meta. Perché dall’alto potrò guardare più lontano – concluse l’uomo. – Non ti basta quello che vedi attorno a te tutti i giorni? – gli chiese il fiore. – Quello che ho intorno? – l’uomo lo guardò interdetto – ma ti pare che se dovesse bastarmi un dio mi avrebbe dato gambe solide e piedi per potermi spostare? Parla per te piuttosto che sei legato allo stesso posto dalle tue radici e che senza di quelle moriresti certamente! – concluse fra l’ironico e l’irritato. – Ma io sto bene dove sono – rispose calmo il fiore, – conosco tutto qui attorno ed ogni giorno c’è un mondo che cambia anche se sembra uguale. Conosco ogni altro fiore, ed il trifoglio e l’erba, ed ogni insetto che passa di qui mi parla o mi saluta. Conosco l’ape che da me si nutre, ed il grillo, la cavalletta, la farfalla e il ragno. Conosco il peso della rugiada che mi fa piegare in modo gentile, perché non mi spezza mai, e il modo di soffiare del vento. So da dove sorge il sole e dove va a cadere. So quali sono i profumi dell’aria che cambiano ogni giorno ed in ogni stagione. Ho imparato a conoscere e ad amare questo mondo. Tu conosci davvero il tuo mondo? Sai dirmi se quando ti svegli scendi dal letto con il tuo piede destro o quello sinistro? – – Il piede destro o quello sinistro … che esempio cretino! – sentenziò l’uomo che davvero non lo ricordava – non posso certo fermarmi a pensare a cose tanto banali. Ho gambe solide e piedi grandi per salire su cime sempre più grandi e da lì guardare dall’alto il creato. Sono l’uomo, e pensieri tanto piccoli non mi bastano davvero -. L’uomo si alzò riprendendo il cammino verso una nuova cima. Ma un attimo dopo l’aquila arrivò spezzando col becco il fiore e cogliendolo delicatamente lo portò con sé. Dall’alto il fiore vide l’uomo con i grandi piedi e la gambe solide. Dall’alto, molto più in alto dell’uomo, il fiore guardava il mondo, imparando a conoscerlo, provando la gioia di nuovi colori, di nuovi profumi, e conoscendo nuovi amici, e l’uomo non era più davvero così grande.


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Promos

La farfalla e il cervo volante

La farfalla uscì dal suo bozzolo in cui credeva di rimanere racchiusa per sempre, destinata ad osservare quello che la circondava attraverso le pareti semitrasparenti che la tenevano prigioniera. Aguzzava la vista, l’udito e la propria sensibilità, provava sempre nuovi bramosi desideri per quel mondo che non sembrava poterle essere concesso. Ah, se solo potesse… I suoi sensi si esaltavano… Ma un giorno forse aiutata da qualcosa che lei stessa non è in grado di identificare, il bozzolo che la teneva prigioniera si schiude. Vola libera verso quello che aveva sempre agognato e sembrava non poterle essere accordato. Può finalmente attingere in prima persona attraverso la sua nuova vita… E’ bella, colorata e dispensa felicità tutt’attorno; è felice. Ma non è preparata a riconoscere quello che la circonda per quello che è in realtà. Si trova adulta con la corazza di una bambina in un mondo adulto che ha costruito con il tempo le proprie difese spesse come una corazza di acciaio. E’ una preda facile. Le sembra che il mondo intorno la accolga ansioso, perché sembra abbattere le stesse difese che hanno poi inaridito tutto quanto, grazie alla sua ingenuità. Basta una carezza uno sguardo per farla sentire così importante e accettata, lei che pensava non “essere nulla”… E vola, vive, vuole assaporare tutto e si dona senza riserve, fino a dimenticarsi che la sua vita è fragile e breve, del tutto. Un cervo volante, che non godeva dagli altri della bellezza e leggerezza della farfalla, abituato dietro la sua spessa corazza a ritagliarsi una vita lottando per la sopravvivenza con le sue robuste corna che lo rendevano ancora più brutto di quanto il suo corpo monocolore già non bastasse, aveva, attraverso un percorso diverso sviluppato anch’esso una grande sensibilità. Osservava da lontano la farfalla volteggiare leggera… Lui per cui volare significava dolore ed era necessario tuttalpiù per mettersi al riparo da qualche insidia che lo minacciava, sapeva sì apprezzare il volo di quei colori nell’aria. Grazie all’ingenuità della farfalla che riusciva a trovare qualcosa di interessante in ogni cosa gratificando se stessa e alleviando così il grande dolore di un tempo presente in qualche angolo ancora dentro di lei, il cervo volante ebbe il coraggio di rivolgerle la parola. Era già l’estasi per lui. La farfalla amava ascoltarlo, acquisiva esperienza e sicurezza da lui che, a sua volta sentiva la sua vita per questo meno inutile. Il cervo s’innamorò profondamente della farfalla, ma aveva molti dubbi per quando lei si allontanava per volteggiare nell’aria attratta da un profumo o perché non si sentiva abbastanza all’altezza di sostenere la sua bellezza. Fece del suo meglio per dispensarle consigli, conferme e coraggio e proteggendola da alcuni attacchi ricevuti. C’era però ancora tanto mondo da scoprire che attirava la farfalla, sì il cervo le era stato d’aiuto e avrebbe dato la vita per lei, ma sentiva che ormai aveva già acquisito la giusta esperienza per volteggiare leggera ed arricchirsi maggiormente, senza dovere “dipendere dagli altri”…così come aveva sempre dipeso dal suo bozzolo… Non riconosceva che a volte era il vento a portarla con se, pensando al contrario di avere lei provveduto a spostarsi di sua iniziativa fino a trovare uno splendido nuovo fiore su cui posarsi. A questo contribuiva altresì il fatto che a volte riconoscesse effettivamente un pericolo in tempo e non le occorresse poi molto per tornare ad accucciarsi sotto le grandi corna del cervo volante al sicuro. Smise poi di ringraziarlo per questo, perché in fondo lei le concedeva già le sua presenza così acclamata da tutto il resto. Il bosco e i prati osservavano sorpresi ma lieti quella strana ma altrettanto naturale e così completa coppia volargli intorno. Non era usuale, ma sembrava fossero stati creati l’una per l’altro. Dalla sua spessa, a volte dura esperienza il cervo volante non avrebbe mai potuto, e in nessun modo intenzionalmente, farle del male. Amava dispensarle consigli, ma anche riceverne, attraverso la sensibilità che la farfalla possedeva capace di decifrargli sentimenti che anch’esso aveva provato ma senza riconoscerli così profondamente, che lo miglioravano per se e per gli altri. Sapeva che il dolore da lei provato nel bozzolo era stato grande ma non immaginava fosse così profondo come era stato in realtà, potendolo solamente paragonare al suo, di quando nascosto sotto una foglia su un ramo, rimaneva ad osservare la bellezza del mondo che lo circondava, che in sua presenza sembrava chiudersi a riccio. Il cervo, abituato a soddisfare i bisogni primari alla sopravvivenza, cresceva ogni giorno grazie alla farfalla, comprendendo da lei sempre nuovi e migliorativi comportamenti; le sue precedenti esperienze rendevano però più difficile questo percorso, seppure a più riprese egli avesse riscontrato benefici oggettivi da questi. Le concedeva volentieri di potersi recare ogni volta lo avesse voluto in una stanzetta segreta e ben nascosta da lui ricavata nel tronco di una grossa quercia, in cui teneva gelosamente custodito alcuni per lui cimeli della sua faticosa battaglia con la vita. L’aveva pregata solamente di fare attenzione a maneggiare alcuni di questi, come tre uova disidratate di un grosso ragno da cui era sfuggito alla morte, o, come un pezzo di corna che il tempo aveva ormai reso fragilissimo, conquistato in un attacco subito da un forte e prepotente cervo volante per strappargli il territorio, da cui era uscito vincitore con astuzia e coraggio. La farfalla pure senza esternarlo, gli era grata di questa concessione. Insieme, col tempo, la cupa corazza del cervo sembrava essersi assottigliata, le sue corna sembravano addolcite, meno pungenti e minacciose, anche volare non gli provocava più quel dolore fisico che aveva dovuto ogni volta per necessità sopportare. Una volta la farfalla entrata nella stanza segreta, dove si sentiva partecipe alla vita del cervo, mentre sognava, si fece scivolare dalle mani quel pezzo di corna che finì sulle uova del ragno. Tutto andò in mille pezzi. Non ebbe il coraggio di confessarlo al cervo, non avrebbe dovuto temere la sua reazione per tutto quello che le aveva fino ad allora dimostrato; piuttosto, volle cancellare l’accaduto per evitare, come in altre occasioni, non di sentirsi inferiore al cervo volante, ma di riconoscere a se stessa il proprio errore, che l’avrebbe ricacciata nella lotta eterna che spesso ancora infuocava dentro di lei e che lei stessa cercava di sedare con le sue stesse forze, senza rendersi conto che il grande valore che lei credeva di assegnare alle cose che la circondavano, era a volte superficiale; la sua estrema sensibilità, la sua lotta interiore, le impediva di riconoscere il valore reale di queste, così contemporaneamente a volte preferiva ritenere, credendo di comprendere sempre tutto perché era quello che perseguiva maggiormente, di essere sempre nel giusto, permettendole di giustificare ogni sua azione, pure di non ricadere nelle sensazioni provate nel bozzolo. Fu così che partecipò con stupore insieme al cervo a quella scoperta. Fu sorpresa della sua reazione; sapeva quanto lui tenesse a quelle cose: “sono sconfortato, ma non è dipeso da me e non posso in alcun modo porvi rimedio”, disse, solo un velo di tristezza avvolse il suo viso mentre raccoglieva i cocci per poi buttarli. Quel comportamento ebbe l’effetto di farla sentire ancora peggio. Ella avrebbe voluto essere come il cervo, stava già combattendo per migliorarsi, ma le sembrava di essere costantemente in ritardo o inferiore al proposito, benché il cervo cercasse in cuor suo di confermarle ogni suo nuovo traguardo raggiunto o di dimostrarle quanto fosse stata in realtà capace in diverse occasioni; lui cercava di farglielo notare, ma nonostante avesse già compiuto passi importanti che avrebbero dovuto rassicurarla, il suo stesso impegno al proposito la faceva sprofondare in un conflitto interiore sempre più grande. Ella avrebbe minimizzato tutto ad una veloce alzata di spalle, o, pianto per tre giorni. Si sentì ancora peggio, per non essere neppure riuscita a confessarlo, ma mentre lottava fra questi sentimenti, altri le impedivano di riconoscerli razionalmente per la sua stessa sopravvivenza. Ben presto il cervo volante, contrariamente al suo volere, divenne il nemico principale della stabilità della farfalla. Il suo senno, la sua esperienza, erano le stesse cose che avrebbe voluto vedere riflesse di se stessa in uno specchio, le stesse per cui lei faticosamente lottava ogni giorno con se stessa e ciò la rendeva ancora più fragile; i suoi sentimenti contrastanti sviluppati durante la permanenza nel bozzolo, iniziarono ad individuare ognuno di questi aspetti del cervo, che avrebbero potuto al contrario essere da lei usati per se stessa positivamente, come attacchi personali che il cervo le muoveva ogni giorno. Avrebbe potuto scegliere di approfittarne al meglio, ma accettarlo la avrebbe rimessa in conflitto con se stessa provocandole dolore, quel dolore di cui disperatamente cercava di sbarazzarsi; si limitò a constatare che stare insieme al cervo volante la faceva stare male come un tempo ed iniziò ad allontanarsene. La farfalla volava, pensando, se pure fra qualche dubbio,  di avere ora finalmente in pugno la propria vita, senza più il malessere che il cervo le provocava. Il vento, repentinamente rinforzatosi, continuava a trasportarla con sé, furbescamente fiero di riuscire a farle credere di esserle invece d’aiuto. La stagione delle piogge stava per prendere il posto della primavera e dell’estate fino ad ora vissute dalla farfalla. Il cervo volante tornato ad osservare i movimenti del bosco da un ramo nascosto sotto una foglia, mentre continuava a pensare alla “sua” farfalla così diversa e speciale da altre conosciute nel frattempo, ne uscì per qualche istante. Scelse una foglia più grande e più vicina al ramo sotto cui si rannicchiò. Malinconicamente riconobbe come, ancora una volta, il primo pensiero prima che a se stesso , fosse andato a lei. Stava per arrivare un temporale. Con rimpianto ricordò di non avere avuto il tempo di metterla in guardia da quell’insidia.


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Maurizio

La fiamma e la falena

L’aurora faceva capolino fra le cupe nuvole di peltro e di acciaio mentre una pioggia leggera e filamentosa scendeva penetrando tra i rami intricati e ancora nudi di un boschetto di querce. Lentamente un’aria lucida e umida incominciò a fra i tronchi scuriti per poi appoggiarsi sui rovi e sui verdi ciuffi d’erba che riprendevano a vivere nella nuova primavera che sopraggiungeva con un po’ di lentezza. Il querceto si disputava lo spazio con una piccola macchia di pini che lasciava precipitare un fragoroso torrentello assediato da pallidi ranuncoli gialli che annegavano in un campo di girasoli ancora in boccio.

Un calabrone che amava trascorrere il suo tempo svolazzando sopra ai fiordalisi che qua e là spuntavano tra i ciuffi di ranuncoli ogni tanto annegati dall’acqua adamantina e fredda del torrentello, osservò affascinato una giovane falena che si mimetizzava sulla corteccia del tronco di un pino. Era diventata indistinta, e poi, nell’atto di alzarsi in volo batté le ali tanto rapidamente che esse erano diventate vaghe come le eliche di un aeroplano e poi, d’improvviso aveva spiccato il volo allontanandosi dal pino su cui era posata. Il calabrone l’aveva guardata sentendosi incantato ed affascinato dalla grazia di quelle ali, tanto che le volò a fianco e le disse: «Mi piaci così tanto che vorrei sposarti…» La falena domandò sorpresa: «E perché vorresti sposarmi?» «Perché le altre farfalle sono troppo appariscenti e non mi sono simpatiche come mi sei simpatica tu! E poi ti confesserò che la tua umiltà mi ha colpito…» Queste parole lusingarono molto la falena dalle ali color nocciola, la fecero sentire importante e bella, tuttavia scrollando il capo rispose gentilmente: «Non so se mi sarà possibile accettare…io sarei felice ed orgogliosa di diventare tua moglie, ma non so se sia il caso…» «Perché esiti?», le domandò il calabrone sbattendo le ali in un forte ronzìo. «Che cosa ti trattiene? Non ti piaccio forse?» «No! Non si tratta di questo…Credo che sarebbe opportuno se chiedessi il permesso a mia madre.» «Perché temi tanto l’autorità di tua madre? E’ forse cattiva nei tuoi confronti?» «No, non si tratta di questo…è che sono giovane e …» «Va bene, visto che sembri temere molto tua madre,» aggiunse il calabrone con piglio risoluto e deciso, «verrò io a chiedere la tua mano.» «Non so se questo potrà servire per convincerla, lei ha sempre sostenuto che non dovrei sposarmi…» «E perché mai?» La giovane falena esitò prima di rispondere, poi, interrompendo il suo volo per posarsi sopra un filo d’erba ingiallito, aggiunse d’un fiato: «Non preoccuparti, cercherò di convincerla…non preoccuparti, vedrai che ce la faremo.» «D’accordo, vorrà dire che questa sera passerò a prenderti, prima che il sole smarrisca la sua luce nell’aria frizzante della sera io sarò da te!» «Davvero?», domandò la falena soddisfatta. «Davvero verrai?» «Certamente!», concluse il calabrone volando via velocemente e lasciando la falena sorpresa e frastornata per quanto era accaduto. Si sentiva al settimo cielo per la felicità, e quando giunse al pino dove la madre soleva riposare le raccontò tutta la storia con fare allegro e spensierato. Ma la madre non si felicitò con lei, né si rallegrò per la proposta di matrimonio del calabrone, e con tono piuttosto dispiaciuto le disse: «Tu non puoi sposare quel calabrone! Lo sai che a noi falene è severamente vietato contrarre matrimonio…» «Ma perché?», domandò la piccola falena con la delusione nella voce. «A me piace quel calabrone…è così forte, robusto, deciso…Mamma, ti prego! Permettimi di sposarlo!» «Figlia mia, io vorrei che tu fossi felice, ma sai quanto volubili siamo noi falene…siamo farfalle sciocche che si lasciano incantare e tu lo sai benissimo piccola!» «Ma a te non è mai accaduto nulla!» «No, ancora no, ma potrebbe sempre succedermi…» «Non è vero, se non è accaduto nulla fino ad ora non accadrà più, e se non è capitato a te non capiterà nemmeno a me: se mi permetterai di sposare il calabrone ti giuro che non mi lascerò attrarre nè distrarre…te lo giuro mamma!», e tanto continuò a pregare, a supplicare, a implorare, che la madre si sentì costretta a dare il proprio consenso. «E va bene!», esclamò spazientita. «Quando il calabrone passerà a prenderti gli darò il mio consenso per il matrimonio e non dirò nulla del nostro segreto…però tu non dovrai mai, mai e poi mai lasciarti attrarre e ingannare da ciò che sappiamo!» «Lo giuro mamma! Lo giuro…sarò una buona moglie e lo farò felice sì, lo farò felice!», esclamò la giovane falena fermamente convinta di quel che aveva asserito. «Lo prometto…» «Non giurare e non promettere. Quante volte ti devo insegnare che le promesse e i giuramenti sono inutili? Cerca di impararlo una volta per tutte prima che io cambi idea sul tuo matrimonio…» La giovane falena non spiccicò una parola di più, e dopo che il calabrone era passato a prenderla ottenendo l’approvazione e la benedizione della madre partì per il volo nuziale. Un volo meraviglioso dentro l’aria della sera che stava imbrunendo e annegava nel crepuscolo che filtrava nell’intricato intreccio delle querce che li sovrastavano. Al mattino seguente, mentre le ghiandaie cantavano e la timida luce dell’aurora avanzava fendendo le nuvole argentate, il calabrone e la giovane falena ripresero il dolce volo interrotto la sera precedente perché la notte era calata d’improvviso sopra il loro piccolo mondo costringendoli al riposo. I fiori dei prati rallegravano il volo degli sposi spalancando le loro corolle e il calabrone, con fare orgoglioso e sapiente, raccontava alla falena storie di api, di formiche, di farfalle variopinte e di vespe sue parenti. E volavano felici e spensierati nell’aria limpida della vallata che ogni tanto veniva percorsa da leggeri soffi di vento, mentre lo sposo insegnava alla sposa il nome dei fiori che incontravano lungo il loro viaggio: le indicò il bianco dei petali di margherita, il giallo solare dei ranuncoli, il viola slavato dell’erica che stava appassendo, e il contrastante violetto acceso e splendente delle mammole che sprofondavano dentro ai folti ciuffi d’erba bagnati di rugiada. Dopo aver volato insieme per ore ed aver visitato campi di velluto verde ripresero la via del ritorno. Giunti al loro luogo natale il calabrone incominciò a costruire un nuovo nido. La falena si sistemò provvisoriamente sulla corteccia di un pino che si ergeva a pochi metri da una casa disabitata i cui muri esposti a nord erano ricoperti di muschio e di vecchissima edera dalle foglie consunte e leggermente ingiallite. Il nido che il calabrone stava costruendo piaceva molto alla falena che pensava tra sé e sé: «Come sarò felice!», ingenuamente convinta di riuscire a sfuggire alla propria sorte. «Saremo sempre felici io e lui…sempre, sempre, sempre!» Con l’animo che traboccava di speranza incominciò a sistemare il nido in modo da renderlo più accogliente possibile; il calabrone era soddisfatto della collocazione che aveva trovato anche se avrebbe preferito andare ad abitare nei pressi della città, però la falena lo aveva pregato di non condurla a vivere in un luogo rumoroso e pieno di confusione che è tipica degli uomini, e lui, poiché l’amava infinitamente, l’aveva accontentata in tutto e per tutto. L’amava, ed amandola non desiderava altro che la sua felicità. In quella primavera gli sposi si dilettarono a volare sopra macchie di susini in fiore che dominavano giovani noccioli dalle infiorescenze pendule, lungo corsi di ruscelletti bordati da primule gialle che parevano topazi, e dentro la loro acqua fredda i ciuffi di miosotide si lasciavano frustare dalla forza della corrente che sembrava volerli strappare dalla terra. Anche nell’estate del loro matrimonio tutto proseguì magnificamente, e volando sopra il loro piccolo mondo, il calabrone non perdeva mai l’occasione di insegnare qualcosa alla sua giovane falena: le indicava il rosso sangue dei papaveri che occhieggiavano dagli umbrertosi e dorati campi di grano nei quali pareva essere sprofondato il sole, le mostrava l’azzurro del cielo specchiato nei fiordalisi e negli amorini, la fragilità dei soffioni i cui frutti sottili simili ad acheni, sormontati da un pappo piumoso a forma di ombrello, si staccavano con estrema facilità ad un lievissimo soffio di vento per poi restare sospesi in aria e vagare come farfalle, le narrò che gli uomini, scherzosamente, dicevano che sarebbe stato un bugiardo colui che non sarebbe riuscito a staccare dal ricettacolo tutti i frutti che vi si sarebbero trovati. La falena, quando non trascorreva tutto il suo tempo in volo con il calabrone si occupava delle faccende di casa e non mancava mai di fare visita alla madre per dimostrarle che era una falena saggia poiché aveva scelto di abitare in un luogo isolato e di conseguenza lontano da ogni tentazione che avrebbe potuto distrarla e ingannarla: «Vedi mamma,» era solita dire, «io voglio bene al calabrone e non lo farò mai soffrire…non farò nulla che possa dispiacergli!» Sua madre l’ascoltava con l’animo oppresso da brutti presentimenti anche se nel sentire i buoni propositi che la giovane figlia dimostrava di coltivare non avrebbe dovuto coltivare nessun dubbio e nessun timore. Ma ciò che preoccupava la madre era la consapevolezza di sapere che nessuno può sfuggire al proprio destino per quanto impegno possa mettere nella fuga, ed in virtù di questa sua convinzione non scordava mai di raccomandare alla figlia di stare all’erta, di prestare una particolare attenzione ai pericoli ed alle tentazioni poiché avrebbero potuto intralciare il cammino della sua vita quando meno se lo sarebbe aspettata, ma la giovane falena, con la cocciutaggine e la testardaggine tipiche dell’età, le rispondeva sempre: «A me non accadrà nulla di brutto perché so badare a me stessa!» Al che la madre aggiungeva accorata: «Non scordare il nostro segreto!» «Va bene mamma, non lo scorderò…non ci sono pericoli dove ho fatto costruire il nido al calabrone…non crucciarti perché io mi so destreggiare…» E la madre, restando poi da sola, sospirava forte pensando: «Ah, se davvero fosse così…» Dicendo che il nido del calabrone era stato costruito lontano dai pericoli, la falena aveva detto la verità alla madre. Ciò che aveva preferito nasconderle senza alcun motivo apparente, era invece l’esistenza di quel pino quasi addossato ad una vecchia casa, sul quale lei amava sostare. Improvvisamente, nello scorcio di un cupreo pomeriggio di fine estate, dentro una stanza di quella costruzione diroccata ed impolverata, comparve un tenue chiarore vacillante, oscillante ed irregolare. La falena che proprio in quel momento si era posata sul tronco del pino, restò immobile, attonita e sorpresa, nell’osservare quella sorgente di luce che tremava. Un violento brivido le sferzò il corpo, lo sgomento le incatenò la mente e spaventata ritornò al proprio nido dove fece il possibile, ed anche l’impossibile, per mascherare e nascondere la sua ansia al calabrone. Ma poiché lui l’amava e l’adorava, si accorse subito che lei non era come sempre, che qualcosa la turbava e la preoccupava; spinto da una premurosa sollecitudine le domandò: «Che cosa è accaduto oggi mentre sono stato al querceto?» «Perché mi fai questa domanda?», chiese lei con fare nervoso ed irritato. «Che cosa temi che accada in questo luogo tanto isolato? Niente, niente di niente di niente!» Quella risposta troppo precipitosa, non servì a tranquillizzare il calabrone che seguitò ad essere preoccupato per la sua giovane sposa. Intanto, ogni sera il bagliore tremolante continuava a rischiarare quella finestra incorniciata dal muschio umido mentre la falena si incantava ad osservarla, preda di un violento batticuore fino al momento in cui, non riuscendo più a trattenere la curiosità si avventurò sul davanzale attraversato da vecchi rami di edera ingiallita e vide nella stanza, un vecchio comodino sopra al quale era stata appoggiata una candela che gocciolava…e ardeva bruciando con una fiamma vaga e debole che a tratti si impennava oscillando come se fosse stata preda di un violento spasimo. La falena avrebbe desiderato immensamente entrare in quella stanza, ma la finestra era chiusa e sigillata dall’intrico dell’edera consunta. Il calabrone, che non conosceva il segreto delle falene, non poteva avere nessun sospetto sul conto della sua giovane sposa, non poteva immaginare la forte e tempestosa attrazione che lei sentiva verso quella sorgente di luce, ed ignaro, permetteva che tutte le sere al tramonto si recasse sul davanzale di quella finestra. Ed ogni sera di più, di più, di più la falena si sentiva dominata, stregata ed affascinata da quel fioco lume tremolante che le appariva triste e malinconico come lo era lei. Piano piano, con il morire dei giorni, si convinse che quella fiammella sarebbe stata felice di conoscerla, e che se l’avesse avuta al suo fianco avrebbe arso e bruciato con più forza e vigore. Col sopraggiungere delle prime foschie autunnali la falena era tanto cambiata, deperita e intristita che il povero calabrone non sapeva più che cosa dire né cosa fare per non vederla patire come in quell’ultimo periodo. Gli alberi stavano perdendo le foglie che, secche e vizze, si lasciavano trasportare in aria dai mulinelli dl vento, mentre la falena continuava a desiderare quella luce fioca, e nei crepuscoli arborei andava a guardarla e ad ammirarla. La candela, dimenticata accesa da qualcuno che era entrato in quella casa disabitata, si stava consumando e la falena non riusciva a rassegnarsi di non poter avvicinarsi a lei. La fatalità decretò che la pressione dei rami di edera, e l’umido del muschio scivoloso, riuscissero a far marcire il legno del telaio di quella vecchia finestra che lasciò cadere il vetro. Fu così che la falena in quella sera umida e nebbiosa riuscì ad entrare nella stanza dove ardeva la candela dalla fiammella oscillante; vedendola così da vicino si commosse e la desiderò in modo intenso e spasmodico. Si sentiva felice come mai lo era stata con il calabrone. Osservava con estatico rapimento quella tremula fiammella e le volteggiava intorno. E volava, volava, volava intorno a quel lume pur sentendosi stanca e sfinita. L’oscurità stava bagnando di nebbia tutto il bosco rendendolo indistinto, vago ed irreale mentre in lontananza si sentiva la voce disperata del calabrone che cercava la sua sposa. La chiamava con un tono intriso di dolore disperato mentre lei continuava a volteggiare attorno alla candela, era incapace di fermarsi e ad ogni giro diminuiva la circonferenza del suo appassionato volo. Non badava alla fiammella che le si avvicinava perché era ciò che desiderava: a lei bastava restarle accanto, vicino, tanto vicino da sentirne il calore. E proseguì nel suo volo impazzito fino al momento fatale in cui riuscì ad unirsi al suo amato fuoco ed a morire in lui. Intanto, mentre la nebbia filtrava tra gli umidi rami delle querce e le ghiandaie si ribellavano al silenzio ovattato del crepuscolo autunnale, il calabrone seguitava a chiamare e a cercare con ostinata e mortale disperazione il suo amore di falena. La cercò fino a quando, esausto e sfinito dal primo rigore d’autunno, precipitò a terra agonizzante ed una foglia di quercia, arruffata e vizza ma ammorbidita dall’umido della nebbia, lo accolse in un caldo abbraccio.


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Papera volante animata
Alìda Casagande