La prima missione di volo

cessna gialloQui l’autore è alle prese col suo primo volo da allievo pilota per il conseguimento del 1° brevetto di pilota civile, timoroso d’affrontare il Piper Cub J3, aereo scuola sì, ma in realtà … residuato bellico.

In seguito l’autore lo poté acquistare dal proprio Aeroclub, il quale ormai ne possedeva di più moderni.

 


Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

 

La mia AeroNatica

Tutto cominciò con la visita di leva. Ero stato dichiarato “Idoneo 1^ Categoria” e inquadrato nei “Granatieri di Sardegna”, anche se avevo chiesto di entrare nell’Aviazione Leggera dell’Esercito o, se impossibile, in qualche reparto dell’Antiaerea: comunque, non fui arruolato perché studente universitario. In quell’occasione lessi l’avviso di un concorso per AUPC (Allievi Ufficiali Piloti di Complemento dell’Aeronautica Militare) e, allora, considerato il mio fisico atletico avendo fatto molto nuoto e scalato montagne in bicicletta, decisi di parteciparvi pur essendo convinto di non farcela poiché ritenevo i piloti militari dei Super Men! Ed io, con il mio metro e ottantatre di altezza, mi sentivo piccolo piccolo! Da ragazzino avevo fatto un volo in Aeroclub, seduto sullo strapuntino laterale di un minuscolo aereo di legno e tela, gigantesco per me, ed era nata la malattia, la sola della mia vita. A scuola raccontavo di voli fantastici, di lanci col paracadute e, insomma, raccontando balle ci credevo anch’io! Così, dopo essere stato sottoposto ad una complessa visita psicofisica presso l’IML di Napoli (l’Istituto Medico Legale dell’AM) nonché ad accurate indagini (io per fortuna non ero fascista né comunista), avvenne la mia incredibile ammissione al 34° Corso! Abitavo in Sicilia, in un paese della costa tirrenica. Mio padre mi aveva assecondato (convinto anche lui che non ce l’avrei fatta). Ma, pur se contrario a questa mia pericolosa avventura, che peraltro avrebbe interrotto gli studi universitari, vedendomi felice e raggiante mi consentì di partire, non prima di avermi fatto le raccomandazioni di rito! E dopo interminabili tragitti in treno, scesi finalmente a Lecce con la valigia piena di sogni! Giunsi (non ricordo come) all’aeroporto di Galatina, cercai con gli occhi gli aeroplani, li vidi in cielo volteggiare nella finta caccia e già mi sentivo uno di quei fortunati piloti, libero di muovermi nelle tre dimensioni! Intanto mi vestirono, mi diedero un mucchio di libri, una tuta, un casco, un letto a castello ed un armadio tutto mio! La prima notte entrarono in camerata gli allievi del 32° Corso (il 33° era riservato agli allievi piloti sottufficiali); quei simpaticoni, già piloti, erano prossimi alla partenza per altre Scuole o Reparti, dove avrebbero volato con aviogetti e plurimotori. Gli intrusi ci fecero il “culo nero” con spazzola e lucido da scarpa, in quanto eravamo Pinguini con le alucce corte che ancora non ci consentivano di volare! Io mi ero sottoposto sorridendo a quel rito, pensando che fosse propiziatorio come il cosiddetto papello ottenuto dagli Anziani al primo ingresso da matricola nell’atrio universitario. Poi, sull’attenti ma con una mano sul fondo schiena, avevo solennemente dichiarato: “E questa è la mia AeroNatica”, suscitando un coro di risate! Chi di noi si ribellò, venne immobilizzato e debitamente spazzolato più volte nelle notti successive. Il secondo giorno, mentre eravamo in sala mensa (seduti a tavoli per sei con menù) ci furono sottratti i berretti nuovi appesi in anticamera, gentilmente sostituiti dai soliti noti con altri unti e bisunti. Li ripulimmo con acqua e sapone, facendoli tornare quasi nuovi. Quando piovigginava, ci portavano a mensa in pullman. Mi sentivo in paradiso! Iniziammo con le esercitazioni in aula. Ricordo un bellissimo filmato delle nubi, realizzato da un aeroplano che ci volava accanto e sopra! Fuori si marciava. Col sergente istruttore avanti, qualche spiritoso dietro si metteva a fischiettare una marcetta (quella del film “Il Ponte sul Fiume Kwai”: fifu… fufifu… fiffi… fu…) e altri attaccavano con lui! Il sergente rallentava e, quando era dietro, si metteva a fischiare la prima fila! Non era indisciplina ma esuberanza giovanile e felicità di essere in quel posto. “Hai cominciato tu?” Nossignore, rispondevo sull’attenti. “Dimmi chi è stato”. Non lo so, Signore. “Un giro campo di corsa”! Ma … tentavo di replicare … “Due giri campo”! Perciò ubbidivo (prima che diventassero quattro) e me li facevo, anche se non ero colpevole (?), canticchiando allegramente. I guai cominciarono quando ci misero in circolo attorno ad un graduato che, marciando, dovevamo salutare giunti a tre passi da lui: le nostre teste scattavano di lato e alcuni di noi salutavamo all’americana alzando poco il braccio e ponendo la mano aperta, con inclinazione di 45°, alla visiera del berretto. Niente da fare, si doveva sollevare il gomito all’altezza della spalla ed eseguire il saluto con la mano orizzontale, allineata all’avambraccio e con le dita chiuse! Mi esercitavo davanti allo specchio e mi riusciva, tornavo in “circuito” e sbagliavo di nuovo! Un’altra difficoltà era riconoscere i gradi. Alla stazione ferroviaria di Taranto, tempo dopo, ignorai un ammiraglio e salutai solennemente un vigile urbano, che si sentì sfottuto! Finalmente quella manfrinata finì e, in libera uscita, passavo alla larga da ogni persona in divisa diversa dalla mia. C’erano anche gli allievi ufficiali dell’esercito, ma ci snobbavamo a vicenda. E però insieme frequentavamo un bar che faceva affari d’oro perché al bancone c’era Lilly, una bella ragazza, davvero in gamba, che dava corda a tutti … ma non la mollava mai! Col pullman ci portarono in un campo per sparare ai bersagli con la mitragliatrice che aveva un treppiedi bassissimo: stando seduto a gambe aperte non mi riusciva di azzeccare un colpo; così decisi, là per là, di mettermi sdraiato a pancia in giù per mirare sulla canna e, alla prima raffica, per poco non persi l’occhio destro … essendomi scordato del rinculo! Mi aveva certamente salvato la mia AeroNatica! Finalmente cessò la quarantena e ci preparammo, con ansie, paure represse, felicità e pruriti sulla pelle (composite insalate di sentimenti), a volare con quei magnifici Texan T6. All’alba i meccanici li mettevano in moto: li sentivamo dalla camerata lontana ed era musica dolcissima! Il cuore mi diceva che ce l’avrei fatta. Ma prima, a gruppi di cinque, dovemmo recarci in infermeria per essere vaccinati contro il tetano e altri malanni, credo. Ci andai di corsa (stupido!) e, appena arrivato, il medico appoggiò sul mio petto lo stetoscopio e sentì che il cuore pulsava forte, guardò le mie tonsille arrossate (all’epoca fumavo ancora, ma avevo deciso di smettere al primo volo) e sentenziò: “Tu non puoi volare, hai un’endocardite provocata da una tonsillite cronica”. Violenta pugnalata assolutamente inattesa! Mai avuto un raffreddore, un’influenza o una febbre in vita mia, a parte quella che certe mattine mi procuravo strofinando il bulbo del termometro per non andare a scuola. Così avvilito, prostrato, distrutto, affrontai (non sapendo che potevo fare ricorso ad una certa Commissione di Roma) varie assurde peripezie che qui eviterò di narrare. Per dirla in breve, tuttavia, ero sano ma non avevano bisogno di me perché (disse qualcuno) non ero raccomandato! Fra le raccomandazioni del babbo … questa non c’era! Il Comandante di Gruppo, consapevole forse di quella ingiusta condanna, guardandomi negli occhi colmi di lacrime, decise di regalarmi un volo col T6. Mi affidò ad un maresciallo istruttore (che non sapeva nulla di quella mia brutta vicenda) e, dopo il decollo, mi disse nell’interfono di prendere i comandi. Dimenticato il dolore che mi schiacciava il petto, con i piedi poggiati sulla pedaliera presi delicatamente con la mano destra la cloche e mi accorsi che era elastica: per cui non feci nulla, poiché l’aeroplano andava diritto per la sua strada! Giunti sul mare, il pilota istruttore fece lui un paio di virate strette ed io, ritrovata la rabbia nascosta in corpo, di rimando parlai nel microfono: “Tutta qua la sua acrobazia?” Piccato da quella mia insulsa dichiarazione, sparò subito un looping, poi un tonneau, ancora un looping, infine la vite: e mentre l’aeroplano girava vorticosamente in discesa, si disegnò sul parabrezza un bellissimo arcobaleno con più colori di quanto si possa immaginare. Dovemmo, con disappunto, rientrare. A terra, dopo avermi fatto mettere su un solo piede per vedere se vacillavo (ma io rimasi immobile sull’attenti), gli raccontai la triste verità. Rimase di stucco e, scusandosi (ma di che?!), si allontanò a testa bassa. Fui mandato via e tornai a casa in treno. Un viaggio allucinante. Come in trance intravidi un Monaco che mi tirava per il braccio mentre dallo sportello aperto stavo per buttarmi di sotto. Frutto della mia immaginazione? Chissà! Ero stato posto in licenza illimitata e, trascorso il periodo di ferma, m’arrivò a casa, per posta, il congedo militare! Il racconto è vero, non ho esagerato e posso dimostrarlo. Poco dopo, infatti, superai una nuova visita psicofisica allo stesso IML di Napoli e frequentai, negli anni, diverse scuole di pilotaggio conseguendo a mie spese, con sacrifici, tutti i brevetti civili fino al 3°/IFR (pilota commerciale) nonché molte abilitazioni compresa quella di pilota istruttore AG (Aviazione Generale). Ho insegnato fino al compimento dei 65 anni d’età, limite fissato dalla legge e in seguito abolito (sempre fortunato, io!). Alcuni miei ex allievi, figli di Ufficiali, da tempo sono piloti militari; mentre altri, figli di muratori e falegnami, sono piloti di linea o a loro volta istruttori. L’AG mi rimane nel cuore! L’Aeronautica Militare italiana (AMI) … proprio no! Aggiungo che fin dalla nascita del Volo da Diporto o Sportivo (VDS), faccio l’istruttore con soddisfazione in questa specialità, addestrando ancora, a ben 76 anni d’età, tanti giovani appassionati e squattrinati. E così, senza la divisa azzurra che adoravo e che l’AMI non ha voluto lasciarmi, volo ugualmente da quasi 50 anni avendo trovato nel sovrastante cielo nuvoloso squarci di più limpido azzurro … col solo aiuto della mia AeroNatica!


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§ # proprietà letteraria riservata #


Michele Gagliani

La mia AeroNatica

aeroplano corsairRivive la grande avventura e disavventura dell’autore, felice d’essere vincitore del concorso per allievo ufficiale pilota in Aeronautica Militare, un sogno poi infranto prima ancora di volare da una inesistente malattia, diagnosticatagli in infermeria.

Prima d’essere rimandato a casa (dove, trascorso il periodo di “ferma”, gli fu recapitato per posta il congedo militare) ottenne dal Comandante di Gruppo il magnifico regalo di un volo col favoloso Texan T6. Riuscì poi a diventare pilota civile a spese sue!

Il titolo non è errato: si riferisce al primo episodio in cui gli allievi anziani entrarono di notte in camerata e accettò, sorridendo, la vecchia tradizione d’avere il “sedere” spazzolato con lucido da scarpe. Chi si rifiutò fu debitamente spazzolato tante altre volte ancora!


Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

 

Michele Gagliani

aquila su fondo quadratoDifficile dire se abbia trascorso più tempo in volo o a terra.

E’ Pilota Commerciale, Istruttore in Aviazione Generale e nel Volo da Diporto o Sportivo, avendo operato per circa 50 anni in varie Scuole. Ha svolto conferenze sulla sicurezza del volo negli Istituti Tecnici Aeronautici e in Aeroclub d’Italia. La Federazione Aeronautica Internazionale (FAI), gli ha conferito il Diploma Paul Tissandier, per avere organizzato importanti manifestazioni aeree ed accresciuto l’importanza del proprio Aeroclub, di cui è stato presidente. Ha scritto libri tecnici, pubblicati dall’Istituto Bibliografico Napoleone di Roma, nonché vari racconti su Riviste Aeronautiche o nelle diverse raccolte annuali del concorso letterario “Il Mio Cielo”. L’Associazione Arma Aeronautica gli ha rilasciato un attestato per aver contribuito alla divulgazione della cultura aeronautica e spaziale.

Insomma, che dire? Una vera aquila che talvolta scende a terra!

Per inviare impressioni, minaccie ed improperie all’autore:

miraga(chiocciola)libero.it


 

Nel sito sono ospitati i seguenti racconti:


La mia AeroNatica

La prima missione di volo

Lei ... Lui in Aeroclub

Cielo senza confini

Un decollo risicato

Avevo paura di volare


“Mi perdoni se la disturbo, ma ho il posto accanto al finestrino”.

Mi guarda terrorizzata, e per un attimo ho l’istinto di frugare nel mio bagaglio a mano alla ricerca del mio specchietto, per accertarmi che il krapfen al cioccolato che mi sono concessa prima di salire su questo aeromobile non abbia lasciato un bel baffo sotto al mio naso. Ma è solo un attimo: in realtà so cosa significano quelle labbra spalancate, quella postura rigida, quel colorito da panno appena uscito dalla candeggina.

Sorrido, indulgente e un poco imbarazzata, e mi rassegno a farmi sottile quanto mi è possibile, per riuscire a strisciarle davanti alle gambe e raggiungere il mio posto.

Cerco di non guardarla mentre mi siedo e mi accomodo la cintura di sicurezza. Do piuttosto un’occhiata fuori dal finestrino per scrutare i deboli spiragli che si stanno aprendo fra le nuvole di questa giornata grigia, nella quale l’unico motivo di allegria è il mio partire per la mia prossima destinazione.

Dopo pochi secondi, però, mi accorgo di non potermi dimenticare della sua presenza. Percepisco, anche senza vederli, i suoi occhi vitrei, le sue mani trasfigurate in artigli che stringono disperatamente i braccioli, il suo petto che si alza e si abbassa affannosamente. Mi chiedo se sia talmente persa nel proprio terrore da non curarsi nemmeno più di quello che le succede intorno, oppure se, nel suo non spiccicare parola, non ci sia, oltre alla paura, anche una certa sottile vergogna per il proprio atteggiamento che questa viaggiatrice esperta, che si è seduta proprio accanto a lei, potrebbe considerare stupido, infantile. D’altronde, lei non sa che il suo pensiero è completamente fuori luogo.

La guardo, cercando di non farmene accorgere. Ha gli occhi fissi nel vuoto, sembra che le manchi l’aria. Forse è il suo primo volo. Non ha ancora capito a cosa serve volare. Mi viene in mente quella vecchia canzone di Roberto Carlos: “A che serve volare, sempre volare?” Provo l’impulso di canticchiarla, ma mi sembrerebbe quasi di prendere in giro la mia anonima compagna di viaggio.

Mi decido a sorriderle, ricevendo in cambio un tirato sfoggio di denti. Sicuramente non le servirebbe a niente se in questo momento le tirassi fuori una sfilza di dati statistici su come l’aereo sia il mezzo di trasporto in assoluto più sicuro, su come gli incidenti d’auto superino di gran lunga quelli aerei e, malgrado questo, tutti usufruiscano delle automobili in continuazione, e su come, qualche anno fa, una ricerca condotta in Inghilterra abbia evidenziato che è più probabile morire per il calcio di un asino che in un incidente aereo. Ottimi argomenti, non c’è che dire, ma non credo che la interessino, ora come ora.

“E’ la prima volta che va a Malta?” chiedo invece, e mi devo sforzare per capire che ha annuito. “E’ un posto splendido, sa? Non assomiglia a nessun altro posto al mondo. Ha un carattere tutto proprio, che bisogna sperimentare per capire. Non è solo sole e mare. E’ una nazione vivace, varia, orgogliosa. Non vedo l’ora di decollare: vedrà, costeggeremo l’Italia, voleremo sopra all’Isola d’Elba, vedremo Napoli, la Sicilia. E’ un volo a bassa quota, le sembrerà quasi di camminare …”

Mi blocco, rendendomi conto che ho toccato un tasto delicato, parlandole del volo che stiamo per affrontare. Mi nascondo dietro a un altro sorriso imbarazzato, e taccio, stringendo fra le mani il mio libro e facendo vagare nuovamente lo sguardo fuori dal finestrino.

“Come fa?”

Sobbalzo. Non mi aspettavo che questo filo di voce uscisse dalle sue labbra. Avevo già gettato la spugna, rassegnandomi al silenzio per il resto del volo. Sono spiazzata, adesso tocca a me guardarla a bocca aperta.

“Prego?” mormoro, non convinta di avere sentito bene.

“Come fa a essere così calma. Sembra quasi che volare le piaccia.”

Esito. Cosa risponderle?

Che sì, è vero, volare mi fa sentire libera, potente, che mi fa pensare di poter raggiungere in un attimo qualsiasi angolo del mondo? Che adesso amo l’atmosfera degli aeroporti, la gente che si affretta non smettendo di camminare neppure sui tapis roulants, i mille bar che servono tutti più o meno le stesse cose, le boccette di profumo in bella mostra nelle vetrinette, le decine di giornali e libri che occhieggiano dagli espositori, i dolci dentro alle loro confezioni esclusive, che minacciano la mia salute fisica oltre che il mio portafoglio? Che la vista dal finestrino, quella cartina geografica reale, mi fa venire voglia di tuffarmi, e che quando il tempo è nuvoloso può essere ancora meglio, perché posso immaginare di nuotare in una distesa di panna montata?

Decido di tirare fuori subito il motivo principale, come un giocatore che cala l’asso guardando con occhi bramosi la posta in gioco. Solo che, nel mio caso, questa posta non riguarda me, ma la persona che ho accanto. Inspiro leggermente, sorrido.

“La meta.”

“La meta?” Non sembra capire.

“Non farebbe qualsiasi cosa pur di poter ammirare un’alba a Baku? Non le sembra che il paesaggio lunare dell’Islanda valga quattro ore da passare sospesi in aria? Non crede che lo splendore di San Pietroburgo possa mettere in secondo piano qualsiasi pericolo, reale o immaginario che sia?”

“E lei ha visitato tutti questi posti?”

“Anche altri. Purtroppo non ho un portafogli inesauribile, altrimenti avrei potuto fare molto di più”.

“Dov’è Baku?”

“Azerbaijan.”

“Azerba …” Sfoglio la rivista della compagnia aerea, trovo una cartina, punto il dito su Baku. Gli occhi della mia vicina si spalancano ancora di più.

“Come le è venuto in mente un posto simile?”

“Le occasioni della vita. Una manifestazione musicale.”

“E …”

“L’ho amata fortemente”, la prevengo. Eppure, il viaggio non è partito bene. Abbiamo dovuto fare scalo in Lettonia, a Riga, perché non c’erano altri voli disponibili. E lì, dopo cinque ore di ritardo, una gentile e troppo zelante hostess di terra non voleva imbarcarci per un problema di documenti. Non era stata bene informata.”

“E questo non l’ha gettata nel panico?”

“Sì,” rido, “all’idea di non poter partire! Dopo mesi di preparazione, quella città alla quale non avrei mai lontanamente pensato era diventata la mia più grande aspirazione. Quando mi sono seduta al mio posto in aereo, non potevo crederci! Non sono riuscita neanche a dormire, al contrario dei miei compagni di viaggio che si sono allungati sui sedili vuoti a smaltire le emozioni della giornata. Poi ha cominciato ad albeggiare, e ci siamo preparati all’atterraggio. Ho guardato fuori dal finestrino, e ho visto sotto di me una distesa di pozzi di petrolio, talmente sottili, da quella prospettiva, che sembravano costruiti con una manciata di stuzzicadenti. Sono rimasta a osservare incantata quello spettacolo così insolito, mentre la terra si avvicinava. Stavo atterrando nel Paese del Fuoco, una terra sconosciuta e quasi magica …”

Mi accorgo che la mia compagna di viaggio mi sta ascoltando rapita. Forse immagina quel paesaggio incredibile. Forse riesco a farla sognare.

Un colpo secco, il rumore di un motore che si avvia, e l’incanto è rotto. La voce della hostess dall’altoparlante ci raccomanda di allacciare le cinture di sicurezza, e l’aereo inizia a muoversi.

La mia vicina è nuovamente paralizzata dal terrore, si mimetizza dentro la poltrona cercando quasi di farsi inglobare dall’imbottitura. Vedo gocce di sudore sul suo viso. Meglio tacere, adesso. Mi rendo conto che in questo momento non ha voglia di ascoltare niente, che i miei racconti sulla bellezza dei luoghi che ho raggiunto in aereo e sui vari episodi della mia carriera di passeggero le darebbero solo fastidio. Mi mordo le labbra e chiudo gli occhi.

“Mio marito mi ha lasciata.”

Riapro gli occhi di scatto. Cosa c’entra questo, adesso? Mi giro verso di lei, vedo le lacrime che le bagnano il viso, mentre sul mio c’è una muta domanda. “Avevo giurato di non salire mai, mai su di un aereo in vita mia. Troppo pericoloso, non ne valeva la pena per una vacanza, pensavo. Quando ho conosciuto lui, avrei dovuto intuire come sarebbe andata a finire … bello, giovane, brillante, con un lavoro che lo portava in tutto il mondo. Il volo, per lui, era pane quotidiano: non poteva comprendere come io lo rifiutassi totalmente. Io, invece, sognavo tranquille vacanze a Rimini, fra piadine e pedalò. O al limite in Sardegna, lì si arriva con un traghetto, basta prenotare in tempo. Per il nostro viaggio di nozze, l’ho costretto a scegliere una crociera nel Mediterraneo. Lui ha provato timidamente a proporne una nei fiordi, ma al solo pensiero di prendere l’aereo fino a Oslo mi prendevano le crisi di nervi.”

Come se in mare non succedessero incidenti, penso, ricordando un tragico e recente episodio di cronaca.

“Per tre anni l’ho costretto a guidare fino in Puglia o a Parigi, se lui mi avesse chiesto di passare le vacanze in Cina avrei risposto che andava bene solo a condizione di andarci in auto. Madeira è rimasta solo un sogno, così come Tenerife. Dopo tre anni, un giorno ha fatto le valigie. Non ha voluto dirmi niente, ma so bene cosa è successo. Quella sua collega che lo accompagnava sempre nei viaggi di lavoro, chi altri? Adesso girano il mondo insieme.”

Dentro di me scuoto la testa. Per quanto una situazione del genere sia frustrante, non è un motivo valido per lasciare una persona che si ama. E’ ovvio che sono altre le ragioni che hanno portato suo marito ad andarsene, ma questa donna ha scaricato sulla propria paura di volare tutta la colpa del suo matrimonio così bruscamente interrotto. “Ecco perché sono qui, perché mi sono fatta forza … Ho scelto Malta perché si tratta di un volo corto, non dovrò soffrire più di tanto, e pian piano riuscirò ad abituarmi. Sa,” sorride, “gli ho mandato un selfie prima di salire sull’aereo, appena riuscirò a calmarmi gliene manderò un altro, poi un altro ancora dall’aeroporto dopo l’atterraggio, così vedrà cosa sono riuscita a fare per lui. Allora capirà quanto il mio amore sia forte, allora dovrà tornare con me …”

Quanta illusione nelle sue parole, quanti sogni campati per aria, destinati a scoppiare come bolle di sapone. Come se non lo sapessi anch’io.

“Lei non deve farlo per lui.” Lascio cadere la frase come un sasso in mezzo a noi due, lei tace, stringendo le labbra come chi si prepara ad ascoltare l’ennesima ramanzina uguale alle tante che ha già sentito.

“Suo marito, in questo momento, pur non essendone consapevole, le sta usando violenza.”

Spalanca la bocca, sta per replicare, ma la blocco.

“Sì, violenza! Lei, ora, sta facendo un gesto coraggioso, positivo e meritevole, ma non lo sta facendo di sua spontanea volontà. Lei si illude di riconquistare suo marito, senza pensare a quanto di buono questo gesto potrà significare per la sua stessa vita, perché sta vivendo in funzione di un’altra persona. E’ per se stessa che deve vincere questa paura, per vivere meglio, per aprirsi una rosa infinita di possibilità, non per ritrovarsi a sospirare il ritorno di qualcuno che l’ha abbandonata gettando via la vostra storia!”

Inspiro forte. So di avere esagerato, non avrei mai dovuto parlare così a una persona della quale non conosco neppure il nome. Chi sono io per giudicare la sua vita? La vedo che stringe i pugni, che mi guarda come se volesse farli atterrare sulle mie guance. Sta per esplodere, lo sento, è prevedibile.

“Ma chi è lei?” mi vomita addosso, inviperita. “Come si permette di giudicarmi? Cosa ne sa della mia vita? Lei che arriva tutta tranquilla e sorridente a godersi il volo X della sua esistenza, a parlarmi dei posti meravigliosi che ha visitato? Cosa ne sa di cosa ho passato io questa notte, di come ho dormito a malapena un’ora, ossessionata dall’idea di salire su questo aereo? Cosa ne sa di quanto avrei voluto gettare a terra il giornale che la hostess mi porgeva, scendere di nuovo quella scala e tornare correndo al terminal solo per riprendere un taxi fino a casa? Cosa ne sa dell’angoscia che mi sta prendendo alla gola, e che mi taglia il respiro? Lei …”

“Io ero come lei. Capisco esattamente cosa si sente. L’ho provato sulla mia pelle.”

Mi guarda con una smorfia. “Non le credo. Lei vuole solo raccontarmi storie. Vuole dimostrarsi superiore a me, umiliarmi!”

“Non ci penso neppure,” rispondo. Sono io che mi sento umiliata. “Io la capisco, perché ho passato diversi anni con addosso il terrore degli aerei. Anzi, per me è stato ancora più sconcertante e incredibile, perché mi è successo quando già volavo da anni senza nessun problema.”

Arriccia il naso. “Come sarebbe? Le è venuta paura di punto in bianco? E di punto in bianco le è anche passata?”

“Più o meno.” Alzo le spalle. “E guardi che non era un sottile timore, era paura, di quella vera.”

Stringe le labbra. “Com’è possibile?” Mi guarda. “Racconti.”

“Ma…”

“Racconti. Mi fa bene.”

“D’accordo.” Taccio per un attimo, prendo un respiro.

“E’ così: anch’io ho avuto paura di volare. Non mi è successo subito, però. Anzi, da ragazzina saltavo sugli aerei come se fossero stati autobus.”

“Ragazzina? Quando ha iniziato a volare, quindi?”

“Il mio primo volo è stato a dodici anni, per raggiungere Londra, la città che avevo sognato da quando, prima ancora di iniziare la scuola, ne avevo vista un’immagine su di un libro. Una gita scolastica a Londra, in un periodo in cui, normalmente, il massimo a cui le scolaresche potessero aspirare era Roma! Mi sembrava un sogno, e prendevo in giro il mio migliore amico che era stato tentato di rinunciare proprio a causa della sua paura dell’aereo. Paura dell’aereo? Ma quando mai! Tutti prendevano gli aerei, ogni giorno e in ogni posto del mondo! Era una cosa scontata, normale, naturale!” Sorrido.

“A dire la verità, l’aereo l’avevo immaginato molto diverso. Certo, era un famigerato volo charter, ma non mi sarei mai aspettata di trovarvi poltroncine rivestite a fiori, oltretutto alquanto sbiadite. Ed era davvero quella la cintura di sicurezza? Ma come funzionava? Mentre io saltavo da un posto all’altro per vedere tutto, e mi incollavo con il naso al finestrino, i ragazzi cercavano di nascondere dietro ai loro visi palliducci la dignità del “maschio che non ha paura di niente”. Neppure il lieve colpo che percepimmo all’atterraggio riuscì a smorzare il mio entusiasmo.”

Noto che increspa le labbra in un sorriso ironico.

“In effetti, dicono che i maschi, in realtà, siano molto più fifoni di noi donne. Forse sono solo bravi a nasconderlo.”

Guarda di nuovo nel vuoto, so che pensa a suo marito, forse sta mettendo per la prima volta in dubbio alcune delle certezze che lo riguardano.

“Ed è più tornata a Londra?”

“Mille volte. Dopo quel primo aereo, ho perso il conto dei voli che ho preso per raggiungerla. Voli di linea, voli charter, voli low cost, con atterraggio a Heathrow, a Gatwick, a Stanstead … “

“Mio Dio, mi gira la testa.” Sospira. “Magari avrà preso anche un aereo a due piani.”

Non so se voglia essere una battuta. “In realtà sì, mi è capitato anche questo. Uno straordinario volo per Mosca. Il secondo piano era più piccolo, ed era riservato ai fumatori. In effetti, quando salii a salutare la parte del nostro gruppo che aveva trovato posto là sopra, riuscii a resistere solo pochi minuti, dall’aria pesante che si respirava! Lei fuma?”

“No.”

“Ottimo. Si conservi così.”

Si rabbuia, e le parole le escono a stento. “Mio marito fuma. L’ho sempre criticato per questo. Quella … quella, fuma anche lei.”

Mi trattengo per non fare uscire una risata sarcastica. “Un notevole punto in comune, non c’è che dire” osservo.

Anche lei osserva, ha notato un bagliore al mio anulare sinistro.

“Sposata?” mi chiede.

“Sì”.

La vedo abbassare gli occhi, trattenendo le lacrime. “E il suo viaggio di nozze?”

“New York”.

“Ed era il primo volo che facevate insieme?”

“No, il primo è stato il volo per la Tunisia. Mi creda,” sorrido, “in confronto a quell’aereo sgangherato anche il charter per Londra mi appare come un volo di lusso!”

Resta un attimo in silenzio, deve assimilare tutti gli elementi. Scuote la testa.

“Mi perdoni, ma… Dopo tutte queste esperienze, tutte, come mi dice, affrontate con la massima tranquillità, come le può essere successo di avere improvvisamente una così folle paura di volare?”

“In realtà non lo so. Posso solo avanzare un’ipotesi: noi umani, anche se non lo confesseremmo mai, siamo estremamente influenzabili, soprattutto da parte di coloro che riteniamo più esperti di noi. Non consideriamo che l’esperienza non è uguale per tutti, e che la frequenza con la quale facciamo una cosa, di per sé, non ci rende più competenti degli altri. Il nervosismo di un viaggio pieno di contrattempi ha fatto il resto.”

Le sorrido. Non ha bisogno di sollecitarmi, sono pronta a raccontare e spiegare il perché di questa mia considerazione filosofica.

“Con mio marito eravamo in partenza per la Danimarca. Niente di che: 4-5 ore con cambio a Bruxelles, tutto lì. Invece, i guai sono iniziati dalla mattina, quando in aeroporto abbiamo trovato un caos incredibile e due ore di ritardo per quasi tutti i voli. La disorganizzazione degli impiegati ha fatto sì che dovessimo cambiare tre voli invece di due, giungendo a destinazione all’ora di cena. I cellulari non esistevano ancora, quindi non abbiamo potuto neppure avvisare la mia amica e suo marito, che ci attendevano stanchi e sfiduciati all’aeroporto di Copenaghen. Tutta la giornata persa in volo!”

“Non c’è che dire, una pessima esperienza. Ma cosa c’entra la paura?”

“Ero già innervosita dall’avere letto, qualche giorno prima, un articolo sensazionalistico, nel quale si riportava un colloquio avuto dal giornalista con due membri del personale di terra dell’aeroporto della mia città, che ovviamente avevano chiesto di rimanere anonimi. I due parlavano di norme di sicurezza scarsamente rispettate, di raccomandati di ferro assegnati alla torre di controllo malgrado la palese incompetenza, e concludevano dicendo “volate a vostro rischio e pericolo”. La solita robaccia da mezza lira per aggiungere cinque o sei copie alla solita tiratura, ma è proprio questa robaccia che avvelena la mente delle persone, che a parole non ci credono, ma inconsciamente immagazzinano l’informazione in un angolo del proprio cervello, per tirarla nuovamente fuori quando ne incontrano una simile da qualche altra parte.”

Spio il suo viso, per accertarmi che non sia successo anche a lei in questo momento, ma ovviamente non posso riuscire a capirlo, nè, d’altronde, potrei farci molto, se così fosse.

“Fu durante il primo volo di quel giorno, ne sono sicura. Accanto a me si sedette una ragazza di qualche anno maggiore di me. Non mi ispirava una particolare simpatia, nondimeno non le rifiutai la mia conversazione. Mi raccontò che conviveva con un ragazzo scozzese, e che solo per amore suo si era rassegnata a lasciare la sua città natale trasferendosi in un posto che non le apparteneva e che le appariva ostile. Queste parole mi suonavano stonate, e non riuscivo a concepirle, io che trovo sempre qualcosa di meraviglioso in ogni luogo che visito, e che penso che ogni Paese abbia qualcosa da offrire a chi si sforza di capirlo. Ancora meno comprendevo perché una persona che, proprio per necessità, saliva regolarmente sugli aerei, fosse così terrorizzata da presentare faccia pallida, respiro affannoso e mani contratte per tutta la durata del volo.”

Le guance della mia vicina si colorano, ma ancora una volta è fuori luogo. Non era certo a lei che mi riferivo.

“Glielo chiese, immagino.” mi dice piano.

“Certamente. E la sua risposta fu che, proprio perché volava spessissimo, ne aveva viste tante e tante da essere terrorizzata, e da pensare, ogni volta che saliva su di un aereo, che fosse probabile non arrivare a destinazione.” Ho un moto di sconforto, nel ricordarlo. “Un pensiero completamente irrazionale e basato sulla più totale assenza di elementi pratici. Malgrado questo, però, proprio per quel meccanismo che le spiegavo prima, dentro di me iniziò a farsi strada il terrore. Se questa ragazza così esperta ne parla così, se anche in quell’articolo dicevano così, allora deve essere vero, allora siamo degli incoscienti a volare con questa tranquillità, allora il pericolo è reale!” Questo pensavo, e ormai l’ingranaggio si era messo in moto: non poteva essere riportato indietro.”

“E quanto è durata questa sua paura?”

“Tre, quattro anni circa. Anni nei quali, comunque, ho volato anche abbastanza spesso.”

“Mi perdoni, ma è da non credere!”

“Sa,” rido leggermente, “non ci credevano neppure i miei genitori. L’anno seguente, con mio marito, siamo venuti in vacanza proprio a Malta. Quando mia madre ha saputo della mia paura di volare, cosa per me inaudita, è rimasta terrorizzata: era convinta che si trattasse di un presentimento, perché non avevo mai manifestato niente del genere prima!”

“Posso capire sua madre …” osserva tristemente. “Ma come ha vinto la sua paura? Ha preso ansiolitici per obbligarsi a volare?”

“Per carità! No davvero. Non lo faccia mai,” dico, guardandola severamente, “si affidi solo a se stessa. L’unico modo per superare la paura è stringere i denti e non smettere di volare.”

“Non sta funzionando, per me …”

“Gliel’ho detto, non lo sta facendo per se stessa. E’ per questo che non funziona, per quanto lei possa amare ancora suo marito.”

“Cosa mi consiglia?”

“Non so dare consigli … Posso solo finire il mio racconto. Malta, Maiorca, sono stati due voli corti che ho sopportato stringendo i denti, in fondo erano tragitti brevi e, nella mia immaginazione, poco rischiosi. Poi, per un paio d’anni, abbiamo trascorso le vacanze in luoghi raggiungibili in auto, insieme ad altre coppie, con la possibilità di dividere le spese del viaggio. Così il volo era accantonato in un angolino della mia mente, fermo lì, a non dare fastidio, perché non mi serviva! Ma,” proseguo, “non faccia questo errore. Se si entra in questa logica, è facile perdere completamente il coraggio di riprovarci: in fondo si possono fare ottime vacanze anche in auto! Anch’io mi stavo adagiando sulla comodità di non dover affrontare le mie paure: chi mi obbligava, in fondo? Ma alla fine, per fortuna, la mia sete di esperienze e Paesi nuovi ha preso il sopravvento. E forse, chissà, c’è entrato anche un pizzico di magia, o magari solo l’illusione della nostra mente che ci permette di leggere segni del destino in ogni manifestazione della vita.”

Non parla, aspetta solo che io prenda fiato per continuare a raccontare. Non la deludo.

“Quell’anno, improvvisamente, mi ero fissata di voler visitare Cipro. Un volo di quattro ore, senza contare i voli di avvicinamento a Roma. Mio marito era scettico, pensava che non avrei retto, non capiva perché volessi costringermi a una tortura del genere. Ma io, come al solito, ero presa dalla curiosità, volevo vedere quel Paese diviso, ascoltare la sua storia, parlare con la gente, vivere la sua realtà, almeno nei limiti concessi a una turista. Un giorno ero in auto con mio marito, quando, nel cielo, vidi una nuvola dalla forma complicata. Non credevo ai miei occhi: era esattamente la forma di un aereo che si dirigeva verso un’isola, che assomigliava incredibilmente all’isola di Cipro! A quel punto, la decisione era presa. All’ennesima rimostranza di mio marito, risposi semplicemente, ma decisamente, che non avevo intenzione di farmi tagliare le gambe da una paura sciocca e per niente razionale. Discorso chiuso, con lui e con me stessa. Hai paura, mi dissi? Beh, arrangiati! Non ho tempo di stare dietro alle tue sciocchezze!”

“Non può essere stato così facile!”

“Infatti non lo è stato. La notte prima della partenza non ho dormito neppure un minuto. Avevo solo voglia di piangere, e non potevo neppure svegliare mio marito che dormiva beato accanto a me, altrimenti mi avrebbe dato della pazza. Non avevo scelta, dovevo stringere i denti e partire. Del volo non ricordo altro che la musica greca che ascoltavo in cuffia, e la folata di vento caldo che mi ha accolta una volta toccato il suolo cipriota: un’onda rovente che mi ha ricacciato in gola il sospiro di sollievo che stavo tirando!”

“E quindi ha passato tutta la vacanza a tormentarsi all’idea del volo di ritorno.”

“In realtà non l’avrei fatto. Cipro mi offriva talmente tanti stimoli da non avere tempo di riflettere. C’erano da visitare i mosaici e i siti archeologici, da mangiare i loukoumades appena cotti in quel camper lungo la strada, da passare dal mare alla piscina dieci volte al giorno, da rincorrere i lucertoloni che sfrecciavano tra i lettini più impauriti di noi, da strafogarsi di improbabili cocktails analcolici a base di gelato e coca cola, da mangiare il meze, da impazzire di musica greca. Non avrei avuto neppure modo di pensarci, se non fosse successa una tragedia.”

Mi fermo un attimo e inspiro. Questa è la parte più difficile per me da raccontare e per lei da sopportare, ma non avrebbe senso nasconderla. Se verità deve essere, che sia.

“Eravamo in gita in un sito archeologico, quando un componente del gruppo, controllando il suo smartphone, ha annunciato che un aereo partito da Cipro e diretto in Russia si era schiantato contro una montagna, volando a quota eccessivamente bassa. La nostra guida ha avuto quasi un malore, credendo che suo marito si trovasse su quel volo: per sua fortuna, non era così. Al nostro rientro in hotel, le immagini della tragedia, ovviamente spettacolarizzate al punto giusto, avevano già riempito tutti i palinsesti televisivi.” Scuoto la testa. “Non capivamo il greco, ma c’era poco da capire. Per giorni e giorni quelle immagini ci hanno inseguiti ovunque andassimo, e non serviva evitare di accendere il televisore della nostra camera: bastava entrare in un locale, osservare i titoli dei giornali, anche passare semplicemente accanto a una casa con la finestra aperta, per trovarsele davanti. Sa,” proseguo in un soffio, “la mattina della gita avevo notato che una numerosa famiglia di russi stava lasciando l’hotel. Lei era una donna bellissima, con lunghi capelli biondi, un marito piuttosto più anziano e due o tre figli; se non sbaglio c’era anche la madre, o la suocera, con loro. Non ho mai smesso di chiedermi se anche loro fossero su quell’aereo. Non lo saprò mai.” Al pensiero, una volta di più mi si chiude la gola.

La mia vicina si è coperta il volto con le mani. Due secondi, poi se le passa tra i capelli. “Come ha fatto ad andare avanti,” mi chiede, “a sopportare l’idea di dover prendere di nuovo un aereo?”

Evito di guardarla.

“Non lo so,” rispondo. “L’ho semplicemente fatto. Al rientro, poco prima dell’atterraggio, mi sono girata verso mio marito e gli ho detto: sono guarita.”

“Non ha mai più avuto paura?”

“Mai più. E ho coronato un altro sogno: vedere l’Islanda. Ma me ne restano ancora: Giappone, India, Cina, Giordania, tanti altri.”

Ancora un annuncio della hostess. Ci guardiamo stupite: stiamo per atterrare!

“Così presto?” mi chiede la mia vicina. Annuisco.

“Cosa si mangia a Malta?”

“Imqarret, pastizzi, timpana… Ma perché me lo chiede?”

“Non so, ho fame.” E finalmente sorride. “Chissà, forse sono sulla buona strada.”

“Sulla buona strada per cosa?” Ma so già cosa risponderà. Infatti il suo sorriso si fa più luminoso.

“Forse sto guarendo.”

Sorrido anch’io. “Allora, un kinnie drink non ce lo toglie nessuno.”



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§


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Cristina Giuntini