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Catrame


Inspirare. Espirare. Forza. Forza. Un urlo strozzato nella gola, un disperato grido verso il cielo. Mi sollevo di pochi millimetri, poi ricado, pesantemente, sulla sabbia bagnata.

Strizzo gli occhi, ansimando. Riprova, mi dico. Devi farcela. Non puoi lasciare che questo ti incateni, che ti tolga la tua libertà. Raccogli le tue forze e alzati, subito.

Cerco di riprendere il mio respiro regolare. Pochi secondi, poi inizio nuovamente a fare forza. Spingo verso l’alto con tutte le mie energie, alimentate dalla forza della disperazione. Il mio corpo si alza di un millimetro, poi di un altro, di un altro ancora, finché non arriva a un centimetro dal suolo: ma, proprio quando credo di avere compiuto il passo decisivo, ricado ancora una volta, con un impercettibile rumore sordo, sul bagnasciuga.

Abbandono il capo sulla sabbia, a occhi chiusi. So di non avere la minima possibilità di farcela, ma qualcosa, dentro di me, continua a sussurrarmi di non arrendermi, di insistere fino al mio ultimo respiro. Arrendersi significherebbe la fine, lo so bene: anche lottare, probabilmente, finirà per uccidermi, ma, quantomeno, non morirò di rassegnazione.

Le onde salate mi lambiscono, quasi volessero lavarmi: che sciocche. Non sanno che nulla potranno contro questa massa oleosa, dall’odore nauseabondo e dal colore della signora con la falce, che mi ha completamente ricoperto e annientato con il suo peso. Com’è successo? Non riesco a ricordare. So solo che, a un tratto, le mie piume bianche e grigie, delle quali andavo così orgoglioso, si sono parate a lutto, indossando una cappa pesante e soffocante che mi impedisce di alzarmi in volo, di camminare in cerca di aiuto, perfino di respirare.

Sbircio il cielo, inclinando di poco il capo: c’è aria di burrasca, oggi. Le nuvole color petrolio si addensano sopra di me, sbattute dal vento che non cessa di lambirmi, quasi volesse cercare, in una premura inutile quanto quella delle onde, di staccarmi di dosso questo mantello color disperazione. Questo tempo minaccioso tiene ben serrati in casa gli abitanti di questo piccolo borgo di mare: nessuno che si azzardi a muovere due passi su questa spiaggia spazzata dalle raffiche di vento. Non posso neppure sperare aiuto da qualche anima compassionevole, che mi raccolga e tenti di tirare via questa poltiglia dal mio manto.

E’ la fine di tutto? E’ questo il mio capolinea?

§§§

Mi chiamo … No, non ho un nome. Sono solo un gabbiano, io, e, come tutti gli animali nati liberi, non sono stato battezzato con un nome proprio. Un nome lo hanno solo quelli che popolano le favole per bambini, oppure i protagonisti dei best seller. Non abbiamo bisogno di un nome, noi gabbiani comuni, per riconoscerci quando voliamo liberi nel cielo: ci basta individuarci dall’odore e dai suoni che emettiamo, ed essere consci della nostra direzione. Avanti, sempre avanti, nel sole come nella pioggia, fra mare e cielo: questa è la nostra vita, che a molti potrebbe sembrare noiosa, ma per noi rappresenta solo la libertà più pura.

Quella che adesso mi è stata tolta da una massa oleosa.

Il primo ricordo che ho è lo sbriciolarsi di qualcosa di calcareo intorno a me, la luce intensa del sole attraverso le mie palpebre chiuse, e un pigolio sommesso dal retro del mio becco. Gli occhi li ho spalancati subito, ansioso di accogliere in me tutti quei raggi luminosi; mi sono guardato il corpo, e ho scoperto di essere ricoperto da una specie di strana peluria. Stretti intorno a me, altrettanto stupiti e irrequieti, due miei simili pigolavano, come in una gara a chi lo sapesse fare meglio e a voce più alta. Accanto a noi, una figura enorme, pacata, autorevole, ma odorosa di buono, ci guardava con aria attenta e indulgente. Istintivamente, ci siamo protesi verso di lei, che ha aperto le sue penne raccogliendoci sotto di esse, in un gesto protettivo.

Mi sono chiesto spesso se per tutti gli altri volatili l’inizio della vita sia così noioso come lo è per noi gabbiani. Non è divertente passare le ore attaccati gli uni agli altri, a becco costantemente aperto, in attesa che un altro becco più grande arrivi e lasci cadere in uno dei nostri, a turno, un vermetto o un insetto che plachi, almeno momentaneamente, la nostra fame. Ci si domanda se la propria esistenza sarà sempre così, e ci si dice che, se questo è il caso, la vita è davvero poca cosa.

Poi, un giorno, il grande gabbiano odoroso di buono mi ha fatto appoggiare le zampe sul margine della scogliera, e, con un verso acuto e preciso, mi ha detto: “Vai!”

Io ho guardato il cielo. Un’enorme strada azzurra appena velata da sottili lamine di nuvole. Una leggera brezza la percorreva, nell’aria appena spruzzata da occasionali colonie di moscerini. In lontananza, un enorme uccello d’acciaio lasciava una scia bianca, che si disperdeva via via che esso si allontanava. Tutto era così perfetto da farmi pensare di non essere degno di inserirmi in tanta bellezza. Forse il cielo non avrebbe potuto sorreggermi, io così sgraziato e pesante. Forse mi avrebbe rifiutato, scaraventandomi violentemente verso le onde azzurre.

Ho abbassato lo sguardo, e ho guardato il mare. No, mi sono detto, era un errore definirlo semplicemente “azzurro”. Era blu, verde, cobalto, smeraldo, increspato di candida trina ai comandi del vento. La sua trasparenza mi inquietava, poiché la indovinavo ingannevole come il viso innocente del falso amico che nasconde le peggiori intenzioni. Che cosa si celava dentro ai suoi incalcolabili abissi? Guardavo quella distesa infinita e non riuscivo a catalogarla come la riserva di cibo che il mio istinto avrebbe dovuto indicarmi: era piuttosto una voragine senza fondo, sabbie mobili pronte a inghiottirmi e a farmi sprofondare giù, ancora giù, sempre più giù, fino ad annientare il mio essere dentro l’ignoto e l’oblio. Nella mia giovane mente, era un mostro liquido che mi avrebbe inglobato, fagocitato in un solo attimo e per sempre.

Terrorizzato, mi sono ritratto, cercando di saltare nuovamente verso l’interno, al sicuro. In quel preciso attimo ho sentito lo schiaffo di un ventaglio di penne sulla mia schiena, e la stessa forza che avrebbe dovuto riportarmi indietro mi ha spinto in avanti, oltre il limite di quello che fino a quel momento era stato il mio rifugio: nel vuoto.   

Confesso di avere urlato, mentre il peso del mio corpo mi trascinava verso il basso a una velocità inconcepibile. Vedevo quella distesa di acqua e mistero avvicinarsi ogni secondo che passava, e in essa indovinavo già la mia fine, sciolto nel suo liquido ignoto o nelle fauci di chissà quale strana creatura degli abissi, pronta a fagocitarmi.

Poi, a pochi metri dal suo abbraccio, qualcosa è scattato. Ho guardato le creste di spuma, come sorrisi minacciosi che mi attendevano per addentarmi a morte, e mi sono ribellato. No, mi sono detto, non può finire qui. Tu non mi avrai, mare. Io sono una creatura del cielo, ed è il cielo la mia strada.

Con uno sforzo sovrumano e uno scatto repentino, mi sono girato verso l’alto. Le mie ali, fino a quel momento inerti e pesanti, hanno iniziato a muoversi con la forza e la velocità date dalla paura e dalla disperazione. Lentamente, faticosamente, ho guadagnato un centimetro per volta, fino a stabilizzarmi e poi risalire, mirando sempre più in alto, lontano dalle onde assassine. Il mio corpo, che poco prima mi era sembrato tanto pesante, aveva la leggerezza di un velo, di una impalpabile nuvola, e ora planava con grazia, percorrendo la strada del cielo come se non avesse mai fatto altro in tutta la sua breve vita.

L’azzurro un poco sfumato si stendeva davanti a me, ormai a mia completa disposizione. Inclinando tutto il corpo, ho virato per tornare un poco indietro, verso il mio vecchio nido. Il grande gabbiano mi osservava: accanto a lui, uno dei miei fratelli era appollaiato sul bordo, tremante come me pochi minuti prima. Gli ho lanciato un verso rassicurante, dicendogli di non avere paura: stava per assaporare la libertà. Il grande gabbiamo ha annuito impercettibilmente, soddisfatto di me che me ne stavo andando per sempre. Con un altro piccolo verso, ho salutato chi non avrei mai più rivisto, prima di virare nuovamente. Il sole mi stava tendendo le sue braccia: mi sono slanciato verso di lui, con un grido gioioso, il grido della vita.

§§§

Volavo da due ore, ormai, quando ho avvertito quello strano morso allo stomaco che, fino al giorno prima, mi aveva preavvisato l’arrivo di un bocconcino. Sapevo, però, che non avrei più avuto alcun aiuto in quel senso: ero cresciuto ed ero indipendente, e dovevo cavarmela da solo.

Guardare verso il mare: ecco, sì, era quella la soluzione. Ho iniziato a planare, avvicinandomi alla sua superficie, quasi sfiorando le sue increspature che, quel giorno, erano calme, pacifiche come, forse, non le avevo mai viste prima. Scrutavo. A un tratto, ho intravisto, nel bagliore del sole, un piccolo riflesso argenteo: sembrava quasi una stellina che avesse sbagliato strada e orario, finendo, in pieno giorno, fra le onde del mare. Ma era solo un pesciolino, e non chiedetemi di che razza: non ero certo un esperto, ne’, d’altronde, lo sono mai diventato. Tutto ciò che sapevo era che quella piccola scaglia d’argento aveva il potere di placare la mia fame. L’ho fissato per alcuni secondi, mentre lui, del tutto ignaro del mio interesse, guardava tranquillamente da un’altra parte: un’occasione più unica che rara. E’ stato un bene che non mi abbia guardato negli occhi: se l’avesse fatto, non so se sarei stato capace di sacrificarlo al mio appetito. Invece, non ho avuto modo ne’ tempo di provare compassione, ne’ di pensare “mors tua vita mea”. Mi sono buttato su di lui, in picchiata, sapendo di avere un breve attimo a disposizione e nessuna possibilità di sbagliare. Con uno scatto, ho aperto e chiuso il mio becco, e, nel momento in cui ho iniziato a risalire, una piccola, vibrante coda scintillava nel sole, appesa ai miei denti. Il grande gabbiano sarebbe stato fiero di me: adesso ero capace di procacciarmi il cibo da solo. Sazio e soddisfatto di me stesso, ripresi la mia strada attraverso il cielo.

§§§

Non era sempre facile. Non c’era sempre il sole. A volte il cielo si copriva di nuvole spesse, che coloravano il mondo di un’uggia che toglieva la voglia di vivere. A volte arrivava il vento, ma non la leggera brezza che favoriva il cammino: c’erano giorni in cui era impossibile combattere con le violente folate che mi rigettavano indietro e toglievano la voglia di combattere. In quei giorni non restava che trovare un riparo e aspettare, come si faceva quando la pioggia si faceva fitta e violenta. La grandine, poi, era da evitare come la peste: guai a rischiare di essere colpiti sul capo da uno di quei chicchi effimeri, eppure durissimi. Mi era gradita solo la pioggia sottile, che non fermava il mio volo ma lo contornava con quell’odore di mare che lei stessa esaltava con le sue gocce minuscole e ritmate. Il sole, però, era il mio regno. Lo salutavo con gioia al mattino, quando sorgeva da quella distesa di acqua salata, incredibilmente asciutto nel suo magico potere. Lo inseguivo per tutto il giorno, lanciandogli grida gioiose. Lo salutavo tristemente quando, al tramonto, lo vedevo rituffarsi in quel mare che, incredibilmente, non riusciva a spegnerlo. Lo sospiravo per tutta la notte, e, se mancava per qualche giorno, diventavo malinconico e sospiravo solo il suo ritorno.

Una volta, volando sopra la spiaggia, ho sentito l’esigenza di riposarmi un poco, e mi sono posato su di uno scoglio, a poca distanza da un nonno che stava raccontando una storia al suo nipotino. Mi sono messo ad ascoltare, e ho scoperto che gli parlava di un certo Icaro, vissuto secoli prima: uno sventato giovinetto che si era avvicinato troppo al sole con ali fatte di cera, e che era stato tradito dal sole stesso, che aveva sciolto le sue ali facendolo precipitare nel vuoto. “E quindi stai attento, piccolo mio” ha concluso il nonno, “non volare troppo vicino al sole, o ti brucerai!” A sentire quelle parole, io ho scosso la testa: se il giovane Icaro aveva fatto una sciocchezza ad avvicinarsi al sole con ali di cera, io sapevo bene che il sole era mio amico, e che non avrebbe mai potuto fare altro che proteggere ed esaltare il mio volo.

Ma perché, mi chiedo adesso, quello stesso sole che ha potuto sciogliere le ali di Icaro ora non è presente per liberarmi da questa massa nera e oleosa? Perché gli amici ti voltano le spalle quando hai più bisogno di loro? Qualcosa mi dice che, anche se il sole fosse qui, potrebbe fare ben poco contro questo mostro delle tenebre, ma almeno potrebbe provarci, e accompagnarmi nei pochi minuti che mi restano. Invece, questo tempo grigio e arrabbiato non fa che fossilizzare sul mio corpo e sul mio cuore questa corazza che non mi sono scelto.

Sarebbe stato un conforto, andarmene con il sole. Invece, so già che non lo rivedrò mai più.

§§§

Non ricordo quanto siano durati i miei voli spensierati, con l’unico problema di procurarmi, ogni tanto, un poco di cibo: so solo che un giorno, di punto in bianco, la situazione è cambiata, e un’altra prospettiva mi è apparsa davanti.

L’ho riconosciuta dall’odore. Apparentemente, non mi sarebbe mai saltata all’occhio: vederla è stato come guardarmi in uno specchio, o guardare uno qualsiasi dei miei occasionali compagni di volo. Ma, quando mi si è affiancata nella mia strada di cielo, qualcosa di diverso mi ha solleticato le narici, costringendomi a variare la mia rotta. All’inizio mi sono sentito smarrito, poi ho capito: avevo riconosciuto l’odore del grande gabbiano, quell’odore di buono che non avevo più percepito da quando l’avevo salutato, prima di andarmene per sempre.

Ci siamo osservati dapprima da lontano, poi ci siamo avvicinati, inclinando il capo da un lato e dall’altro. Non c’era traccia dell’aggressività che provavo di solito, quando un mio simile mi si accostava troppo: era la prima volta che, al contrario, cercavo la vicinanza, l’interazione. In quel momento, ho sentito che il mio volo non riguardava più solo me stesso, ma che, da allora in poi, sarebbe stato diviso con un’altra entità, che mi avrebbe volato a fianco. Mi sono reso conto che una storia antica stava per ripetersi, una storia che aveva generato anche me e che attraverso di me stava per generare il futuro. Come a un segnale, ci siamo slanciati insieme verso un altopiano roccioso, poco distante: il posto ideale per costruire un nido, il mio primo nido da genitore. Un ciclo vitale stava per ripetersi, e non sarebbe stata l’ultima volta. Ne’ per me, ne’ per il mondo.

§§§

 

Quando vedevamo arrivare i pescherecci, con le loro reti sempre ingarbugliate, sapevamo di dover sostenere una dura lotta con chi veniva a privarci del nostro sostentamento.

Trovavamo umiliante doverci tuffare in picchiata sulla loro pesca, e afferrare con i nostri becchi affamati qualche pesciolino sfuggito alle maglie delle reti. L’emozione del volo sopra le onde, la precisione del planare sul pelo dell’acqua, la rapidità dello scatto con il quale il pesce finiva sotto ai nostri denti erano completamente cancellati. Ma i pescherecci depredavano il nostro mare, costringendoci a trasformare la nostra nobile pesca in un volgare ladrocinio, necessario alla nostra sopravvivenza: come loro rubavano a noi, noi rubavamo a loro, riprendendoci una piccola parte del maltolto che avevano strappato alle onde. Non ci cacciavano neppure: non avevano tempo di pensare al furto di un paio di pescetti. Questo, se possibile, ci umiliava ancora di più. Eravamo un trascurabile fastidio, nient’altro che innocui ladruncoli che non provocavano niente di più di un’alzata di spalle. Che importava, se ogni tanto uno di noi planava sulle loro reti e portava via una minuscola preda? Non era certo quello a creare un problema, per loro.

Prima ancora di vederli, riconoscevamo i pescherecci dall’odore acre che si portavano dietro. All’improvviso, uno di noi lo annusava, e, con un grido acuto, avvisava gli altri. In pochi secondi ci dirigevamo, veloci e leggeri, verso l’origine di quell’odore. Non era possibile sbagliarsi: avremmo riconosciuto ovunque quel tanfo che bruciava nella gola. Solo avvicinandoci, pian piano, sentivamo l’odore del pesce appena pescato che si mescolava a quello del carburante. Era lì che ci scagliavamo sulle nostre prede. Un attimo, e subito risalivamo gioiosi, con il nostro pasto che penzolava dal becco, e con quel sottile senso di rivincita che prova chi si è appena ripreso quello che gli spetta.

§§§

A volte la vita mi ha messo a dura prova. C’è stato un periodo difficile, in cui procurarsi il cibo era diventata una vera e propria impresa. Ci siamo dovuti adattare, e allora, sì, abbiamo ringraziato le nostre ali che ci hanno permesso di spingerci fino alla terraferma.

Abbiamo solcato l’aria spediti, con l’ultima speranza, in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa da mettere sotto i denti. La spiaggia si avvicinava a gran velocità, e i tetti delle case iniziavano a distinguersi fra gli alberi frondosi. Sapevamo, per istinto, dove cercare: dentro ai bidoni, ai cassonetti, agli angoli delle strade, ovunque gli uomini abbandonassero i resti dei loro pasti. Se fossimo stati fortunati, avremmo trovato anche quella discarica a cielo aperto di cui favoleggiavano gli anziani. Un pezzetto di pesce ormai stantio sarebbe stato una vera festa, e forse avremmo battibeccato per ore per prenderne possesso, ma qualsiasi elemento commestibile avrebbe significato la salvezza. Eravamo disposti a ingollare qualsiasi cosa gli uomini avessero disdegnato sulla loro tavola: pezzi di pane, avanzi di spaghetti con qualsiasi tipo di condimento, frutta ammuffita, tutto poteva andare bene. La fame è una brutta bestia, ti rende aggressivo e uccide la tua selettività.

Arrivati nella cittadina, abbiamo perlustrato tutte le viuzze in lungo e in largo, ma il nostro bottino è stato magro: i cassonetti erano sigillati, e appena i resti di qualche triste panino e di una porzione di patatine giacevano abbandonati all’angolo di un prato. Ce li siamo contesi con furia, rischiando di accecarci a vicenda con i nostri becchi nervosi, spinti da una fame mai provata prima.

A un tratto, il più giovane di noi ha alzato la testa: aveva sentito un odore diverso. Con un grido, si è staccato da terra, lanciandosi verso l’origine di quella nuova sensazione. Di scatto, l’abbiamo seguito, con tutta la nostra fiducia e la nostra speranza. Ben presto ci siamo accorti che aveva avuto ragione: davanti a noi, enorme, immensa, si stendeva la grande discarica. Eravamo salvi!

All’affamato, si dice, ogni cibo è grato. La gioia per quella inaspettata fortuna ci ha portati a danzare nell’aria, girando in tondo sopra quell’enorme riserva di cibo che sembrava messa lì per noi, per permetterci di vivere. Quando il nostro entusiasmo si è sfogato fino in fondo, ci siamo slanciati verso quella montagna variopinta e caotica, scansando accuratamente tutto quello di non edibile che il nostro becco incontrava. Ci siamo saziati di quel cibo disgustoso, ma che appariva dionisiaco al nostro palato che, ormai da giorni, non ne aveva più incontrato. Al colmo della gioia, ho nuovamente ringraziato le mie ali, veicolo della mia libertà e della mia speranza: se non fosse stato per loro, non avrei avuto la minima possibilità di sopravvivere. Invece, avevo vinto ancora una volta, e lo dovevo solo ed esclusivamente alla mia capacità di volare.

§§§

Perché mai, stamattina, mi sia venuta l’idea di dirigermi nuovamente verso la spiaggia, rimane un mistero per me stesso. Non ne avrei avuto alcun bisogno: il brutto periodo di carestia è passato da tempo, e il cibo, ora come ora, non ci manca. Forse è stata questa brutta giornata a farmi pensare che verso riva sarebbe stato più facile trovare un riparo. Forse è stata solo curiosità, noia, o chissà cosa. Fatto sta che, a un tratto, ho imboccato la mia strada di cielo dirigendomi proprio da questa parte.

Il grigio delle nuvole non mi spaventava: mi divertivo a sfidare il vento che cercava di ricacciarmi indietro, e non potevo sapere che il suo era quasi un avvertimento, come se avesse saputo quello che stava per succedermi e avesse cercato di evitarlo a ogni costo. Spensierato, l’ho bucato con il mio becco, attraversandolo con fare spavaldo. Quasi mi sono preso gioco di lui, che avrebbe voluto fermarmi e invece non ce la faceva, e doveva arrendersi alla potenza e alla velocità del mio volo. Felice, mi sono diretto di nuovo verso la riva, non perché avessi bisogno di tornare alla grande discarica, ma per una sottile voglia di rivedere la spiaggia.

A un tratto, nelle mie narici ho sentito nuovamente l’odore acre, quello che i pescherecci si portavano dietro quando invadevano il nostro spazio, depredandoci dei pesci. Pesci! Immediatamente, il mio pensiero è andato a quelle montagnette lucenti, intricate nelle reti, dalle quali riuscivo sempre a tirare fuori bocconcini prelibati, senza che i pescatori pensassero minimamente a disturbarmi. Nel becco ho sentito la consistenza di quei pescetti gustosi, che finivano in pochi secondi giù per la mia gola, quasi senza neppure il tempo di sentirne il sapore. Al mio pregustare quelle delizie, le mie ali sono state attraversate da un brivido.

Senza guardare ne’ pensare, mi sono lanciato in picchiata verso il punto dal quale proveniva l’odore ben noto. Mi sono buttato giù a occhi chiusi, fidandomi solo del mio istinto. Stranamente, però, l’odore del pesce fresco tardava ad arrivare e a mescolarsi con quello acre del carburante. Man mano che procedevo, quest’ultimo si faceva sempre più nauseabondo, intenso e vicino. A un tratto, mi sono reso conto che qualcosa non andava: ho aperto gli occhi, ma era già troppo tardi. Uno schiaffo nero e maleodorante me li ha richiusi in un attimo, schiantandosi sul mio corpo e trascinandomi giù, dentro al mare. Ho spinto verso l’alto con tutte le mie forze, ma, una volta arrivato in superficie, ho sentito come una tela incerata stesa su di me, appiccicata alle mie penne e alle mie piume, pesante al punto da impedirmi di alzarmi in volo, da tenermi saldamente incollato al pelo dell’acqua, completamente in balia delle onde.

Ho capito presto che dibattermi non mi avrebbe portato a niente altro che ad affondare definitivamente, e mi sono abbandonato al mare: solo lui poteva decidere di me, adesso. Mi avrebbe portato a riva o al largo, secondo il suo capriccio, e la sorte avrebbe disegnato il mio destino. Mi sono lasciato cullare dalle sue onde, sporche come me di quella massa appiccicosa, mentre i miei occhi, spalancati, guardavano il cielo, la mia strada infinita che, già lo sapevo, non sarei mai più riuscito a percorrere.

Quanto tempo è passato? Non lo so, ne ho perso la nozione. So solo che mi è sembrato infinito, fino al momento in cui la mia testa ha toccato una superficie molle e friabile, sulla quale le onde mi hanno sbattuto e ripreso più volte, spingendomi sempre più avanti, fino ad abbandonarmi. E’ stato allora che ho capito di essere arrivato qui, sulla spiaggia. E di essere perduto.

§§§

Cerco di riprendere fiato. Devo sforzarmi un’altra volta: ce la farò, alla fine, saprò rialzarmi. Penso ancora a quel mio primo volo, alla paura che provavo all’idea di lanciarmi nel vuoto. Penso a come sono precipitato finendo quasi dentro le onde, e a come, all’ultimo secondo, ho raccolto tutte le mie forze per risalire, liberando finalmente le mie ali.

L’ho fatto allora, devo farlo adesso. Non ho scuse. Non ho alternativa. Devo solo respirare, e spingere il più possibile verso l’alto. Solo respirare. Respirare. La cosa più naturale del mondo: non ricordavo che fosse così faticosa. Respirare. Solo respirare. Solo…

Apro e chiudo il becco, ma mi manca l’aria. Il mio corpo, completamente ricoperto da questo nero oleoso, non riceve più aria. Le forze mi stanno abbandonando, e solo un filo di coscienza riesce ancora a tenere sveglia una briciola del mio essere. Mi sto arrendendo a questo grande mostro nero, iniziando a contare i secondi che ancora mi restano, immobile qui: un nero relitto che, domani, sarà gettato proprio in quella discarica che, tanto tempo fa, gli ha salvato la vita.

Gli occhi mi si stanno chiudendo: il momento è arrivato. Con un ultimo sforzo, li apro leggermente, guardando per l’ultima volta quel cielo livido che tante volte ho solcato con il mio volo. L’acqua di una lacrima scende, mentre gli dico addio.

E in quel momento, d’improvviso, un varco si apre fra le nuvole, un raggio di sole caldo squarcia il grigio che mi circonda, colpendomi in pieno e inondandomi di luce.

La nera coltre si è sciolta. Le mie piume e le mie penne hanno ritrovato il loro bianco e il loro grigio, e si librano alte, leggere. Dalla mia gola esce un grido forte, acuto.

Sto volando ancora.

 


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Cristina Giuntini

Forever young

titolo: Forever Young.  A life of adventure in air and space –  [Per sempre Young – Una vita di avventure in aria e nello spazio]

autore: John W. Young e James R. Hansen

Prefazione di: Michael Collins

editore: University Press of Florida

ISBN: 978-0-8130-4209-1

Anno di pubblicazione: 2012





Ecco un libro unico nel suo genere. Fino adesso avevo letto le biografie di molti altri astronauti, specialmente di quelli più famosi che avevano attraversato i decenni delle conquiste spaziali e della Luna. Tra quelli che avevano camminato sulla Luna, o solo le avevano girato intorno mentre gli altri due scendevano sulla superficie per operarvi, a volte per ore, altre volte per giorni, tutti o quasi avevano raccontato le stesse cose. E dopo il ritorno sulla Terra avevano affrontato vicende burrascose, come divorzi, problemi di alcool, incapacità di riadattarsi alla vita normale. Qualcuno, dopo una missione Apollo, si era ritirato dal servizio attivo e non era più tornato nello spazio, altri avevano cercato di entrare a far parte di successive missioni di pari importanza, ma poi tutti avevano finito per accettare incarichi che solo marginalmente avevano a che fare con l’esplorazione spaziale.

Una fase molto delicata del decollo dello Space Shuttle quando, raggiunta una quota già elevata e una fortissima accelerazione, i due booster (i razzi laterali che forniscono la mostruosa spinta necessaria per sfuggire alla gravità terrestre) si sganciano dal sebatoio centrale. Da notare i fumetti posti sulla sommità dei razzi laterali che consentono loro di divaricarsi allontanandosi rispetto alla traiettoria in vertiginosa salita dello Shuttle.

John Young, invece, dopo la missione Apollo 16 che lo aveva portato a camminare sul suolo lunare, ha continuato l’avventura delle missioni che hanno riguardato lo sviluppo dello Space Shuttle e della costruzione della Stazione Spaziale Internazionale (ISS).

Unico astronauta ad aver operato in tutte le missioni, Gemini, Apollo e Shuttle.

Una vita operativa dedicata interamente al volo, in ogni sua forma.

 

 

Gli Space Shuttle o STS (Space Transportation System, come piace tanto agli statunitensi, maniaci degli acronimi) furono lanciati in orbita per la prima volta il 12 aprile 1981 mentre portarono a termine la loro ultima missione il 21 luglio 2011 dopo aver effettuato 135 lanci dal Kennedy Space Center, Florida (il buon vecchio Cape Canaveral delle missioni Apollo). Dunque 30 anni di onorato servizio che non hanno risparmiato loro periodi di grande successi ed entusiasmo cui hanno fatto da contraltare periodi bui con incidenti, riduzioni drastiche di fondi, ritardi e modifiche del programma spaziale. Ad ogni modo, come nella migliore tradizione statunitense, ora gli Shuttle sopravvissuti fanno bella mostra in vari musei. Quello ritratto è l’Atlantis e si trova conservato proprio nel museo ricavato all’interno del John F. Kennedy Space Center da dove partì per l’ultima missione, appunto, del programma Space Shuttle. La statistica ci rivela che questo gigantesco aliante spaziale effettuò un totale di 33 missioni trasportando complessivamente 191 persone di equipaggio e trascorrendo nello spazio 306 giorni 14 ore 2 minuti. Non vi riveleremo il numero delle orbite che lo videro ruotare attorno alla Terra nè i milioni di chilometri percorsi … semmai potremmo ricordarvi che lanciò ben 14 satelliti e fornì un contributo fondamentale per la realizzaione della ISS, la Stazione Spaziale Internazionale. Grazie, Atlantis!

John Young, nato a San Francisco, ma cresciuto ad Orlando, in Florida, ha anche un modo chiarissimo di scrivere. In tutto il libro, piuttosto lungo, visto lo spazio temporale che copre la sua carriera, non ho trovato più di una decina di frasi idiomatiche delle quali non ho saputo interpretare appieno il significato. Le descrizioni più tecniche sono talmente chiare da trasformare la lettura in una specie di corso di materie scientifico-spaziali.

Ho imparato moltissime cose, in questo libro.

 

La prima volta in cui lo Shuttle Columbia fu lanciato verso lo spazio per poi rientrare felicemente a Terra, ai comandi c’era proprio l’autore del libro: il pilota collaudatore nonché astronauta John Watts Young. Era con lui il solo copilota Robert Crippen e la missione era la STS-1. Non c’erano altre persone a bordo né carico pagante fatto salvo l’insieme di apparati utilizzati per il controllo e la registrazione di un’infinità di parametri di volo. Si trattava infatti di una mera missione di collaudo. A differenza delle navicelle fino ad allora utilizzate della NASA, non era stato possibile testare la navetta con comandi remoti benché fossero stati effettuati diversi i voli nell’atmosfera grazie al Boeing 747 ritratto in questa foto in volo, scortato dai jet della NASA. Come previsto il Columbia atterrò in volo planato sulla pista ricavata nel lago Rogers, un bacino asciutto dove aveva (e ha tuttora sede ) la base dell’Air Force di Edwards in California, e per la prima volta nella storia dei programmi spaziali della NASA, non occorse recuperare in mezzo all’Oceano la capsula discesa sulla Terra grazie al sistema a paracadute.

La descrizione della missione Apollo 16 non ha rappresentato per me una gran novità, dato che avevo letto i libri degli altri astronauti. Il vero interesse è venuto dopo, con lo sviluppo dell’Orbiter, capace di portare un notevole carico nello spazio, decollando in verticale attaccato a grossi motori a propellente solido, perfezionare orbite intorno alla Terra ad altezze variabili per poi rientrare nell’atmosfera ed atterrare come un aereo. Anzi, come un aliante. Parliamo di quello che ha preso il nome di Space Shuttle e che ha operato per tanti anni. E che è stato protagonista di terribili incidenti con esito fatale per gli equipaggi a bordo.

Le dimensioni dello Space Shuttle sono facilmente intuibili se raffrontati a quelli di un velivolo noto come il Boeing 747 Jumbo jet o alle dimensioni “umane” del manovratore al suolo. A giudicare da questo primo piano dell’Endeavoir non si tratta proprio di una pulce. L’istantanea fu scattata presso il Kennedy Space Center nel settembre 2012 in procinto di trasferire la navetta presso il California Science Center di Los Angeles. Quel trasferimento costituisce virtualmente l’ultimo volo di uno Shuttle nell’ambito del relativo programma. Dopodichè solo musei!  Foto della NASA/Bill Ingalls

Young ha pilotato il primo Shuttle nello spazio.

Ma prima di ciò, un prototipo è stato usato per mettere a punto tutti i sistemi, le procedure ed i parametri entro i quali mantenere una macchina tanto sofisticata. Gli altri esemplari sono stati costruiti dopo che il prototipo aveva fornito tutte le indicazioni di cosa era necessario modificare. Dopo che ogni apparato era stato testato a dovere. Young e altri astronauti si sono dedicati a questo compito, utilizzando simulatori e aerei allestiti allo scopo, per mettere a punto ogni aspetto delle operazioni di volo che avrebbero riguardato gli Shuttle già in costruzione.

E per mettere a punto la tecnica di atterraggio.

Quando si parla di Space Shuttle, inevitabilmente vengono alla memoria i tanti film prodotti dall’industria cinematografica statunitensi che hanno visto quali protagoniste queste navette. La prima pellicola che ci ritorna in mente è il visionario “Moonraker – Operazione spazio” del 1979 in cui un disinvolto 007- James Bond (interpretato da un mirabile Roger Moor) scorrazza nello spazio a bordo di uno Shuttle. E così i suoi amici e nemici; tutti dotati di Shuttle come fossero gli scooter del futuro. Ma il film più pirotecnico che rammentiamo è “The core”, uscito nelle sale nel 2003 e ricco di effetti speciali notevoli. A causa di una spaventosa tempesta eletrtomagnetica, lo Shuttle Endeavour in fase di rientro nell’atmosfera, si trova a 129 miglia dal previsto luogo di atterraggio (la base di Edwards in California). Che fare? Solo grazie al sangue freddo del comandante di missione e all’intuizione del suo copilota (donna), metterà le ruote (o meglio la pancia) nel canale artificiale Los Angeles nel cuore della popolatissima Los Angeles, appunto. Un inizio di film ad altissimo tasso di adrenalina che, normalmente, vi lascerà a bocca aperta e deglutizione azzerata. Bellissima la simulazione (?) di quanto accade allo Shuttle durante il rientro in atmosfera.

Lo Shuttle, pur avendo i motori a razzo necessari alle operazioni nel vuoto spaziale, non ha alcun motore utilizzabile nell’atmosfera. E atterra, appunto, come un aliante, con tutto ciò che ne consegue. Non può, ad esempio, sbagliare l’atterraggio. Se arriva “corto”, non può dare motore per portarsi più avanti verso la pista. Se arriva “lungo”, non può riattaccare e fare un altro circuito per riportarsi in finale.

Come è per tutti gli alianti… ma le similitudini finiscono qui.

Un vero aliante ha un’efficienza (rapporto tra la quota e la distanza percorribile) intorno a 40, fino anche a 60. Da mille metri potrebbe percorrere dai 30 ai 60 km in aria calma, a circa 90 km/h.

 

 

Nella storia del programma Space Shuttle furono ufficialmente costruite sette navette. Il Challenger rimase distrutto durante il lancio del suo decimo volo nel gennaio 1986. Perirono i sette membri dell’equipaggio. Il Columbia segui la sua stessa sorte durante il suo rientro in atmosfera nel febbraio 2003. Era quello che aveva svolto i primi voli di collaudo. C’era poi il Discovery che è l’Orbiter che ha inanellato il maggior numero di voli. E’ quello ritratto in questa fotografia.Ricordiamo poi l’Atlantis, quindi l’Endeavour che fu costruito dopo la perdita del Challenger. A loro si aggiunge l’Enterprise che è stato il primo Shuttle utilizzato per sperimentarne il trasporto sul dorso del Boeing 747 e che poi ha effettuato prove di vibrazione e le verifiche delle procedure di montaggio. Non è mai andato nello spazio, tuttavia è stato donato al Museo Nazionale dell’Aria e dello Spazio di Washington. Infine c’è il Pathfinder, una sorta di clone di un vero Orbiter, identico in termini di peso, dimensioni e forma. Venne utilizzato come simulacro per verificare alcune procedure di gestione a terra.
Esiste poi anche una copia dell’Orbiter originale mai usata né per test né per missioni. Si tratta dell’Explorer.

Lo Shuttle ha un’efficienza di 4.2 circa. E a quasi 300 nodi, oltre cinquecento km/h. E quando tocca la pista lo fa ad una velocità di poco meno di 200 nodi.

Un aliante per modo di dire… solo perché è senza motore.

Il racconto di queste fasi di messa a punto è di un interesse immenso. Un paio di esempi fra tutti riguardano la tecnica di trasporto da una base all’altra montando lo Shuttle sopra un Boeing 747 allo scopo allestito. E l’uso di un bireattore Gulfstream II modificato, ma tanto modificato, per essere utilizzato in una configurazione che permetta di eseguire avvicinamenti ripidissimi come quelli dello Shuttle. Perfino i motori erano stati modificati in modo da poterli usare con il reverse in volo (cioè con un sistema che devia il getto dei reattori in avanti, cosa possibile, ma normalmente usato solo a terra, nella corsa di decelerazione post atterraggio).

Con questo bireattore si sono addestrati gli equipaggi di volo destinati alle future missioni dello Shuttle, Young compreso. La sigla usata per indicare questo trainer era STA ovvero Shuttle training aircraft. La sigla militare era C11. E il programma di addestramento era indicato con l’acronimo ALT, ovvero approach and landing test.

Prima di riuscire a lanciare nello spazio una macchina volante e, al contempo, una navetta spaziale così avveniristica, la NASA intraprese un programma lungo, travagliato e particolarmente oneroso che ebbe inizio già nel ’69, praticamente all’indomani del grande successo della missione Apollo 11 che permise all’umanità a mettere piede sulla Luna.
L’idea di base dello Shuttle – occorre ammetterlo – era geniale nella sua semplicità tuttavia, quando il salto tecnologico/ingegneristico è così immenso, le difficoltà che si incontrano, inevitabilmente, sono altrettanto immense.
Certamente la NASA fece enorme tesoro degli studi condotti sugli aerorazzi X-1 e X-15, divenuti famosi per aver volato a velocità e a quote per allora impensabili, per non dire “insuperabili”.
Anzitutto sperimentò l’idea di velivoli a fusoliera portante, quindi quelli con ala a delta … ma per arrivare anche solo a definire le specifiche dello Shuttle (da dare in pasto alle ditte aerospaziali) occorsero anni.
Oggi una macchina volante di nuova ideazione prima vola per alcuni mesi, al massimo qualche anno, nei computer degli studi di progettazione: se ne analizzano scrupolosamente i comportamenti e le caratteristiche di volo e si provvede alle opportune modifiche senza aver costruito praticamente nulla. Tutto virtuale, tutto simulato elettronicamente, tutto assolutamente verosimile tanto che i voli di collaudo confermeranno quasi completamente comportamenti e caratteristiche di volo previsti da progetto … ma all’epoca, era tutta un’altra storia. E poi c’era la necessità di materiali nuovi, di soluzioni tecnologicamente nuove mai sperimentate fino ad allora: una sfida immane che ricordava quella – vinta – che aveva consentito alla missione Apollo 11 di scrivere una pagina di storia. Idem per il programma Space Shuttle, nel bene e nel male.
In questa foto dai toni romantici si può vedere lo Shuttle Carrier Aircraft (il famoso 747 modificato) che trasporta lo Space Shuttle Enterprise al tramonto. Che sia stato uno scatto profetico?

Per avere un’idea di che tipo di aliante è uno Shuttle Orbiter, riporto la descrizione che ne fa l’autore stesso. Una descrizione molto precisa, visto che proviene da colui che lo ha sperimentato.

It took considerable preparation for us to get that Orbiter ready for testing. At an altitude as high as 55.000 feet, it was going to have as much a 360-degree turn over the landing field, initially at supersonic speed. Then following guidance onto the final approach, it would have to make a similar big turn while flying at 300 knots and 2500 feet and on a 20-degree glide path. The deceleration approach was to be achieved by slowly pulling the nose of the Orbiter up and getting the touchdown air speed (depending on weight) down between 185 and 205 knots”.

 

[Ci è voluta considerevole preparazione da parte nostra per approntare l’Orbiter per i test. Ad una altitudine di 55.000 piedi, si faceva una virata di 360 gradi sopra il campo di atterraggio, inizialmente a velocità supersonica. Seguendo il tratto finale di avvicinamento si doveva fare una grande virata a 300 nodi e 2500 piedi e con un angolo di discesa di 20 gradi. La decelerazione durante l’avvicinamento si doveva ottenere tirando lentamente su il muso dell’Orbiter portando la velocità di toccata – che dipende dal peso – tra 185 e 205 nodi].

Queste simulazioni venivano effettuate anche con il caccia T 38, ma solo alcune di esse.

Non è tutto qui. Le problematiche che emergevano durante i voli di collaudo richiedevano costanti interventi e modifiche. E lunghi peridi di attesa per riprendere i collaudi. E spese, ingentissime spese.

La patch della prima e dell’ultima missione del programma Space Shuttle. Oltre ai nomi dei membri dell’equipaggio, è facile notare come siano presenti in ciascun logo rispettivamente la lettera ALFA e la lettera OMEGA. La prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco. L’inizio e la fine.

La seconda parte del libro riguarda tutta la lunga sperimentazione e i primi voli nello spazio. Anche se ci sono complesse spiegazioni tecniche, non ho mai dovuto affrontare nessun calo di interesse durante la lettura. Anzi, ad ogni problema che sorgeva, descritto nella maniera magistrale tipica dell’autore, aumentava la curiosità di sapere in che modo sarebbe stata affrontata e risolta. E ci sono state anche notevoli sorprese. Aspetti sconosciuti, di cui non avevo mai sentito parlare. Le notizie che ci trasmette la televisione non sono sempre accurate.

Young era il capo dell’ufficio astronauti. Era lui a decidere la composizione degli equipaggi. E poi si doveva occupare anche della loro sicurezza. Perciò, la risoluzione dei problemi tecnici, specialmente quelli che riguardavano la sicurezza, erano uno dei suoi primi compiti. E’ sorprendente scoprire quanto le sue richieste e i suoi suggerimenti fossero incisivi e precisi. E come questi, nella maggioranza dei casi venissero ignorati. Spesso si sfiorava la catastrofe, come nel caso di certe mattonelle di materiale refrattario applicate sotto la fusoliera e le ali e che dovevano impedire alle altissime temperature, dovute al contatto con l’atmosfera nella fase di rientro, di diffondersi al resto della macchina, che altrimenti sarebbe bruciata in pochi minuti. Mattonelle che spesso si staccavano. O come certi o-ring difettosi che non furono efficacemente modificati, nonostante le ripetute richieste e nonostante fosse perfettamente chiaro che avrebbero potuto portare alla perdita dello Shuttle e del suo equipaggio, lasciando entrare flussi di gas ad altissime temperature all’interno dei sistemi meccanici dello Shuttle.

Un’altra splendida immagine che pone il risalto l’accoppiamento Space Shuttle-Jumbo jet. L’idea, in verità non era del tutto nuova nella storia dell’aviazione … ma lo era in astronautica o in cosmonautica (detto alla sovietica)

Venivano opposte questioni di spesa, soldi che non c’erano, tempi lunghi per la modifica. Ripeto, non si rischiava un incidente da poco, si rischiava la perdita della macchina con tutte le persone a bordo.

Cosa che puntualmente avvenne e comportò la perdita di due Shuttle e degli equipaggi.

Chi come me seguiva le missioni dello Shuttle negli anni ottanta-novanta-duemila ricorda sicuramente qualcosa di questi fatti. Ma non avevo mai avuto idea di quanti problemi e quante mancate tragedie si erano verificate in quelle missioni.

Il libro di Young le rivela tutte. E sono numerosissime.

Finalmente posso sapere cosa successe realmente. Young lo spiega nei minimi dettagli. Compresi i dettagli della situazione politica di quei giorni, che non è stata, manco a dirlo, estranea alle vicende.

Durante la sua lunga carriera, terminata il 31 dicembre 2004 con il pensionamento, al quale hanno fatto seguito altri anni con il programma spaziale americano, non ha mai cessato di indicare possibili problemi di sicurezza e possibili soluzioni.

Quasi tutte, però, sono state ignorate.

Quando era assistente speciale del Direttore del Johnson Space Center aveva accumulato un gran numero di documenti riguardanti la sicurezza e le possibili soluzioni.

Durante la sua carriera, con l’utilizzo dello Shuttle, ha seguito la costruzione della Stazione Spaziale Internazionale. Ed ha pilotato lui stesso l’Orbiter in un altro di questi voli, nonostante la consapevolezza dei rischi connessi.

Ma in quegli anni era emerso un nuovo problema, quello dei detriti e dei meteoriti che transitano intorno alla Terra e che possono collidere con tutto ciò che si muove in orbita. I satelliti, i veicoli spaziali e la ISS stessa sono in costante pericolo. E nessuno ha pensato ad un eventuale piano di salvataggio. L’abbandono della ISS, al momento, non può avvenire in condizioni di emergenza. Il costo di un eventuale veicolo, pronto a ricevere gli astronauti e a riportarli a terra in tempi brevissimi, è troppo elevato. Infatti non esiste.

E non dimentichiamoci che il signor Young, tra le altre, passeggiò sulla superficie lunare. Questa è la foto che lo immortale accanto alla omnipresente bandiera statunitense e al Modulo Lunare della missione Apollo 16 e che – giustamente – è stata utilizzata per la copertina della sua ottima autobiografia

Anche per questo problema Young ha dato l’allarme e ha proposto soluzioni.

Senza essere veramente ascoltato. Senza che si sia fatto nulla in proposito.

Nel leggere le molte pagine dedicate a questa realtà, tanto sottovalutata ed ignorata quanto terribilmente vera, mi sono sentito letteralmente gelare il sangue. Il problema dei meteoriti e dei detriti spaziali (la cosiddetta spazzatura spaziale) è qualcosa che diverrà ancora più evidente molto presto nei prossimi anni. Young dice che, seppure esistono i mezzi per rilevare la presenza di oggetti prossimi al nostro pianeta, non possiamo scoprirli tutti e soprattutto non abbiamo elaborato e messo in opera alcun sistema di difesa. Come dire che, nel caso di un asteroide più grande di un chilometro che dovesse impattare sulla Terra, ci coglierebbe inermi verso una minaccia capace di annientare la nostra esistenza.

Un giovane John Watts Young in posa per la foto di rito prevista per tutti gli astronauti del programma Apollo. In realtà egli aveva cominciato quale membro del programma Gemini e terminerà la carriera con il programma Space Shuttle. In effetti, all’inizio della sua carriera professionale, era stato pilota della US Navy e, prima ancora di arruolarsi, aveva studiato tecnica del volo presso il Georgia Institute of Technology laureandosi con il massimo dei voti.

Young aggiunge a tutte le problematiche che riguardano la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta Terra anche quella relativa a possibili eruzioni di super vulcani. Con le loro ceneri proiettate sull’atmosfera, ci potrebbe essere un cambiamento rapidissimo della temperatura, una terribile glaciazione che annienterebbe gran parte della vita.

L’autore in posa davanti allo Shuttle durante una cerimonia di commerazione del XXV anniversario del primo lancio della navetta. L’evento si tenne nel 2006 presso il Kennedy Space Center. Young aveva lasciato definitivamente la NASA dopo 42 anni di servizio alla splendida età di 74 anni. Nel 2012 ci ha regalato questa pregevole autobiografia mentre ci ha lasciato per sempre alla venerabile età di 87 anni a causa di una banale polmonite

E’ evidente che il futuro della razza umana non può essere mono planetaria. Urge cercare altri possibili pianeti sui quali installare delle basi permanenti, dove una nuova linea evolutiva di esseri umani possa vivere autonomamente. E urge altresì sviluppare tecnologie idonee a risolvere tutti i problemi inerenti, compresi quelli di difesa verso catastrofi potenziali che oggi possono apparire remote, ma che non lo sono. Sono vicine a casa nostra, dove viviamo ignari e tranquilli.

Si pensa ad un ritorno sulla Luna, ma soprattutto all’esplorazione e alla colonizzazione di Marte e non solo.

Come dice Young: “The massage is clear. Single-planet species don’t last… The potential of catastrophe is serious _ and close to home… But who in NASA has been putting the development of these technologies on a high-priority basis?

[Il messaggio è chiaro. Le specie che vivono su un solo pianeta non durano… Il potenziale di una catastrofe è serio _ e prossimo alla nostra casa. Ma chi alla NASA ha messo lo sviluppo di queste tecnologie sulla base di una priorità alta?].

Certe tecnologie dovrebbero essere in cima alla lista delle priorità, dovrebbe essere fatto ogni sforzo, anche economico, per diffondere la consapevolezza, la volontà e la capacità di difenderci.

Ma, se mi guardo intorno, devo convenire con Young, nessuno sembra preoccuparsene affatto.

Young ci ha lasciato all’inizio dell’anno 2018.

E ha lasciato anche una moltitudine di problemi ancora aperti ed insoluti.



Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





 

Claudio di Blasio

Nato a Fermo (AP) nel ’54, dopo la maturità scientifica ha conseguito presso l’Aeroclub di Arezzo il brevetto di Pilota di Aeroplano (I e II grado).

Nel’79 ha frequentato la Scuola Allievi Sottufficiali dei Carabinieri rimanendo effettivo presso la predetta Scuola con il grado di Vice Brigadiere in qualità di Comandante di Squadra e Istruttore militare di guida. Selezionato per il Servizio Aereo consegue il brevetto di Specialista Militare di Elicottero presso le Scuole A.M.

Dopo aver fatto parte per circa 30 anni degli equipaggi fissi di volo nell’Arma, ha lasciato il servizio attivo nel 2013 con la qualifica di Luogotenente  nella Riserva.

Abilitato quale pilota e tecnico di volo su 12 diversi tipi tra aerei ed elicotteri, ha totalizzato oltre 2.300 ore di volo.

Ha frequentato numerosi corsi di qualificazione professionale ed ha conseguito la Laurea in Scienza dell’Amministrazione e quella Magistrale in Giurisprudenza.

Oltre a un elogio scritto per le operazioni di soccorso in favore delle popolazioni colpite durante l’alluvione in Piemonte e Valle d’Aosta nell’Ottobre 2000, è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica, della Medaglia d’Oro al Merito per lunga Attività di Volo e della Medaglia Mauriziana al Merito di 10 lustri di meritevole servizio.

E’ un vero e proprio veterano del premio RACCONTI TRA LE NUVOLE:  ha partecipato alla III , IV, V edizione del Premio classificandosi rispettivamente il IX, VI e XVII posto. Si è gettato senza paracadute anche nella VI edizione … ma il suo atterraggio non è stato dei più felici in quanto il suo racconto non è rientrato tra i 20 racconti finalisti. Vorrà dire che si rifarà nelle prossime edizioni.

Ha pubblicato inoltre, nel 2015 il libro autobiografico intitolato “La mia parte di cielo” e nel 2018 il  suo secondo volume dal titolo “Ali di fantasia”. Confidiamo di leggere prossimamente il suo terzo libro.

 

Per inviare impressioni, minaccie ed improperie all’autore:

cladibla (chiocciola) alice.it

 


 

Nel sito sono ospitati i seguenti racconti:

 

Alta velocità

L’edizione 2018 del Premio fotografico/letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE è da considerarsi, senza ombra di smentita, una tra le più “toste” tenutasi fino ad ora. Racconti di altissimo qualità, ben sviluppati e di notevole originalità l’hanno contraddistinta; dunque rientrare nella rosa dei 20 finalisti (rivelatisi poi 22 se si considerano gli ex equo) ha costituito di per sé un notevole successo.

Qualcuno si domanderà come il fotografo sia riuscito a realizzare questa istantanea che, se scattata in volo, avrebbe qualcosa di letteralmente miracoloso. Ebbene, a ben guardare l’immagine, questo ipotetico qualcuno si renderà conto che lo scatto, per quanto splendido per inquadratura, luminosità e originalità, è avvenuto utilizzando uno “Spillone” impiegato quale “gate guardian”. In verità, osservando questa fotografia, chiunque ammetterà che mai nomignolo è stato così azzeccato. Perchè questa è l’impressione che sia ha: un enorme spillo che penetra il cielo. Evviva lo “Spillone”!

“Consideratevi tutti primi!” ha dichiarato l’editore durante la cerimonia di premiazione di quella VI edizione, a conferma della bontà dei testi premiati dalla giuria.

“D’altra parte” gli ha fatto da contraltare il segretario del Premio, “una classifica andava stilata, seppure discutibile o non rispondente a propri gusti personali”.

Uno degli esclusi da questa benedetta/maledetta classifica è proprio il nostro Claudio di Blasio. Utilizziamo l’aggettivo possessivo “nostro” perché con Claudio abbiamo instaurato ormai un rapporto parallelo che ha visto crescere assieme il Premio, edizione dopo edizione, e, di pari passo, le sue esperienze narrative/editoriali.

Inutile precisare che Claudio ha partecipato a diverse edizioni del Premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE sebbene con risultati alterni ma, ad ogni modo, si può considerare un affezionato frequentatore di questa iniziativa che, più di ogni altra, ben si addice al suo narrare squisitamente aeronautico.

Lo Starfighter (letteralmente: “cacciatore delle stelle”) è stato radiato dal servizio nel 2004 dall’Aeronautica Militare italiana, ultima forza armata al mondo ad utilizzarlo per scopi operativi e di prima linea. Godeva di grande reputazione presso i reparti da caccia e, in miisura minore, anche presso quelli che lo utilizzavano (snanturandolo non poco), quale cacciabombardiere. Il nomignolo “Spillone” è la dimostrazione dell’affetto che i piloti italiani nutrivano per questo velivolo benchè le rigide norme di impiego innescassero spesso, se non osservate, situazioni di pericolo talvolta mortali. Il verificardsi sempre più frequente di incidenti e la vetustà delle cellule (benchè rinnovate radicalmente o manutenute con notevole dispendio di risorse economiche) combinate all’avvento di nuovi velivoli (come l’Eurofighter) e ai mutati scenari geopolitici, indussero anche l’Aeronautica italiana a radiarli dal servizio giusto appunto dopo 46 anni di onorato servizio operativo (da che fu utilizzato per la prima volta dall’USAF) o la bellezza di 50 anni dalla data del suo primo volo di collaudo.

Lo stile di Claudio, delineatosi racconto dopo racconto, si è ormai consolidato e anche in quest’ultimo suo testo, “Alta velocità”, non si smentisce. Non smentisce il suo raccontare con dovizia di particolari senza però scendere troppo nel tecnico, non tradisce il suo dipanare la trama con la linearità che non lascia spazio a figure retoriche o a colpi di scena imprevedibili, non viene meno al suo modo di descrivere le persone che poco hanno di inventato e che potremmo realmente incontrare nei reparti di volo operativi.

Una macchina volante come lo “Spillone” non può non adornare l’ingresso di un aeroporto militare in qualità di “gate guardian” come pure non può non adornare un museo dell’aria degno di questo nome.

Insomma: Claudio è una certezza e i suoi racconti sono pressoché inconfondibili. Talvolta questo può essere una fortuna, talvolta una iattura. Perché se è vero che la lettura dei suoi testi è piacevole e scorrevolissima, dall’altra non possiamo e non dobbiamo attenderci dei picchi narrativi, dei sussulti nell’intreccio o delle descrizioni approfondite dei personaggi; rare le riflessioni interiori, scarne le descrizioni dei luoghi. La narrazione di Claudio è tutto movimento, aviazione allo stato puro con scenari di volo a gogò con qualche momento di vita a terra. Che poi, in fin dei conti è proprio quella che conducono o che vorrebbero praticare la maggior parte dei piloti nati con le ali addosso.

Certamente, da un autore con all’attivo due romanzi pubblicati (“Il mio cielo” e “Ali di fantasia” di cui vi abbiamo dato conto nella sezione MANUALI DI VOLO del nostro sito) ci attendiamo di più di un semplice esercizio di stile personale. Specie se, a detta del nostro servizio di intelligence, ne ha un terzo in via di elaborazione,

Il vigoroso esubero di spinta del mitico motore General Electric J79 (dotato di postbruciatore) che ha equipaggiato l’F104 sin dalla prima versione, lo ha reso per decenni il velivolo di intercettazione per antonomasia. Capace di decollare e di salire praticamente in verticale, riusciva a raggiungere rapidamente lo scramble e a identificarlo in men che non si dica con grande soddisfazioni dei piloti e del comando della difesa aerea. Ai piloti piaceva molto il colpo nella schiena che, al decollo, confermava l’inizio della corsa di rullaggio e, benchè la piccola ala trapezia fosse molto più adatta all’alta velocità che al combattimento manovrato, lo Starfifghter possedeva anche una certa manovrabilità … o almeno la dimostrava se pilotato dai quei “manicacci” dei cacciatori italiani. In questo scatto del nostro Giorgio Levorato il magnifico colpo d’occhio del cruscotto del 104.

Tornando a questo racconto, il protagonista assoluto è, da un lato, Roberto, un giovane pilota militare italiano di stanza alla base di Grosseto e, dall’altra, lo “Spillone”, nomignolo che fu affettuosamente attribuito al Lockeed F104 Starfighter per via della sua forma di razzo con le ali che ricorda la forma, appunto, di uno spillo.

L’apertura dell’episodio vede Roberto in uno stato di profonda prostrazione a seguito di un incidente mortale che ha visto coinvolto un suo compagno di corso durante la fase di atterraggio di un 104 causato da un’errata gestione della macchina.

La vita di un pilota con le stellette però non conosce pause ed ecco che Roberto verrà messo a dura prova da un volo addestrativo con implicito esame da parte di un pilota veterano dopodiché lo attenderà una vera missione operativa di intercettazione (in gergo: scramble) nel corso della quale egli vivrà un’esperienza indelebile come può esserlo solo l’eiezione dall’abitacolo.

Non vi sveleremo di più se non che, nel racconto, incontreremo un’affascinante ragazza con cui Roberto …

Questo il contenuto in breve del racconto. Qualora ne vogliate sapere di più, ecco come l’autore lo sintetizza:

Roberto è un giovane pilota in addestramento presso il XX Gruppo del 4° Stormo, la celebre base maremmana, fucina dei futuri piloti del leggendario F-104 Starfighter.

         Le giornate sono segnate da intense e continue missioni e una triste mattina Edoardo, suo compagno di studi in Accademia, perde la vita in un tragico incidente durante la fase di atterraggio. Il giovane pilota accusa molto la perdita dell’amico e cerca di distrarsi passeggiando la sera sul lungomare. Molti gli interrogativi ed i dubbi che affollano la sua mente: – Ne varrà la pena? Chi ce lo fa fare? –

Poco dopo la cerimonia funebre incontra la figlia del suo Capo velivolo, conosciuta proprio assieme a Edoardo al circolo della base. Assieme scambiano poche parole confortandosi davanti a una tazza di cioccolata calda e lasciandosi senza alcun appuntamento.

         Le missioni si susseguono fino a giungere a quelle di carattere operativo: le intercettazioni. Un vecchio istruttore lo sfida sprezzante ma Roberto dimostra di avere le doti e le capacità per diventare un ottimo intercettore. Poco prima di essere destinato alla base di Cameri, Roberto accetta l’invito a cena da parte di Lorenzo, il proprio Capo velivolo. Al termine della serata la figlia lo accompagna all’auto e s’intrattengono in una piacevole conversazione che termina con un saluto, un abbraccio e un bacio affettuoso. Tra i due ragazzi nasce un forte sentimento anche se il giovane pilota deve partire per la nuova destinazione.

Tornando al tema che non si tratta di un vero museo dell’aria se non  presente uno “Spillone”, al Museo storico dell’Aeronautica Militare Italiana di Vigna di Valle (Roma), ad esempio, è conservato un esemplare assai  particolare. Fu l’unico velivolo F-104G italiano costruito negli Stati Uniti ed il primo ad essere stato consegnato all’Aeronautica Militare nel ’62. Un vero pezzo unico!

         Il nuovo Reparto di assegnazione è un ottimo ambiente, in particolare per la cordialità e l’affiatamento tra i componenti. Il giorno successivo al suo arrivo, Roberto è assegnato a un volo in formazione con il Comandante, il quale si complimenta vivamente per la sua impeccabile esecuzione delle manovre.

         Una sera, durante una missione di scramble simulato per la valutazione dello Stormo in ambito Nato, a causa delle pessime condizioni atmosferiche, lo Spillone di Roberto e quello di un suo collega entrano in collisione. Momenti tragici, durante i quali il protagonista esce indenne dal lancio con il seggiolino eiettabile e cerca disperatamente di conoscere le sorti dell’altro pilota. Dopo il contatto con il suolo, in una risaia, infangato e bagnato raggiunge una casa colonica ove viene accolto dal contadino e da sua moglie, gente semplice che si presta a fornire aiuto allo sventurato e a metterlo in contatto con la propria base. Purtroppo la sorte non è stata benevola con il collega che alcune ore dopo viene trovato sotto i resti del proprio caccia.

Trascorsa una breve convalescenza Roberto riprende l’attività di volo con lo Spillone. Tra loro è nato un particolare rapporto e certamente non lo tradirà più.

 

In definitiva, si tratta di un racconto da leggere ad alta velocità come il titolo che reca e che lascia ben sperare gli ammiratori di Claudio per i suoi racconti futuri, romanzi compresi.


Narrativa / Medio – Lungo Inedito;

Ha partecipato alla VI edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2018;

 

In esclusiva per “Voci di hangar”

 


Alta velocità


Fin dalle prime luci dell’alba il sibilo dei velivoli TF-104G e il fragore dei loro post-bruciatori avevano lacerato il cielo della Maremma.

La sfera rossastra del sole, declinando all’orizzonte dietro un alone di foschia, cedeva lentamente spazio alle ombre della sera, illuminando di luce surreale le sagome affusolate degli Spilloni parcheggiati sulla oramai silenziosa linea di volo della base grossetana.

Poco più a Ovest le onde del mare, sospinte da un freddo vento di libeccio, rotolavano spumeggiando sull’immensa distesa color cobalto per poi infrangersi sulla spiaggia, a quell’ora deserta.

Roberto, un giovane pilota in addestramento presso il XX Gruppo, era uscito dalla base a bordo della propria auto, girovagando lungo la costa senza una meta. Raggiunta Marina di Grosseto, stava passeggiando sul lungomare, a quell’ora semibuio. L’aria fresca e l’intenso profumo della salsedine solleticavano le sue narici.

Provava molta tristezza per la perdita di un caro amico, un ragazzo come lui. Alcune settimane prima, Edoardo, compagno di studi in Accademia, al quale era molto legato, aveva perso la vita in un tragico incidente. Il suo F-104, durante la fase di atterraggio, a pochi metri di quota e non molto distante dalla recinzione aeroportuale, si era improvvisamente rovesciato, impedendogli il lancio con il seggiolino eiettabile.

Roberto si soffermò a pensare nella solitudine di quel paesaggio mentre gli ultimi riflessi del tramonto brillavano nei suoi occhi.

– Non è giusto morire così! Rischiare la vita per una passione … ne vale proprio la pena? … mah! – questi i dubbi e gli interrogativi che affollavano la sua mente mentre osservava i fantasiosi disegni descritti dalla schiuma sulla sabbia.  

Alzò il bavero del giubbotto prima di risalire infreddolito in auto:

– Le condizioni meteo stanno cambiando. – disse tra sé e sé. Tornava spesso alla sua mente il ricordo di quella triste mattina.

Si trovava sulla linea di volo, scambiando due chiacchiere con il crew chief poco prima di recarsi in volo, senza far caso al continuo susseguirsi di atterraggi e decolli. Proprio Lorenzo, il Capo velivolo, si era accorto che qualcosa di terribile stava accadendo:

– Acc … guarda! – urlò strattonandolo per un gomito e indicando l’aereo che inesorabilmente si avvitava per poi schiantarsi al suolo.

– Noo … ma … è l’aereo di Edoardo! – urlò Roberto, portando disperatamente le mani sulla testa.

Molte le ipotesi su quel terribile incidente ma solo una fu la più attendibile. Si suppose che il pilota, giunto in finale con eccessiva velocità, avesse ridotto la potenza del turbogetto. Scendendo sotto il regime minimo che avrebbe consentito l’efficienza del jet flap, si era generata una forte dissimmetria di portanza sulle corte semi-ali, tanto da imprimere la rotazione del velivolo sull’asse longitudinale.

A quell’agghiacciante scena seguirono alcuni giorni più tardi i solenni funerali, cerimonie alle quali nessuno vorrebbe mai partecipare!

Squilli di tromba, onori militari e tante lacrime, salate come quel mare che brontolava là, sulla costa.

Terminato il rito funebre, tra la folla ancora presente nella piazza davanti alla chiesa, Roberto notò una ragazza, il cui viso minuto sembrò familiare. La sua figura longilinea e i lunghi capelli neri non passavano certo inosservati.

– … ma quella è Stefania, la figlia del mio amico Capo tecnico! … certo, che sciocco … l’ho conosciuta al circolo della base proprio una sera assieme al povero Edoardo! – ripeté tra sé e sé, sicuro che le avrebbe fatto piacere scambiare due chiacchiere.

Si era avvicinato per salutarla.

– Ciao Roberto! Come stai … mi dispiace! – gli aveva sussurrato Stefania stringendogli la mano. I suoi occhi da cerbiatta erano velati da una profonda tristezza per la prematura e inspiegabile scomparsa del loro amico. Avevano parlato a lungo quella sera, davanti a una tazza di cioccolata calda per scaldarsi e cercare di scacciare il dolore che gravava come un macigno dentro di loro.

– Da vari anni frequento con la mia famiglia il circolo della base e ho conosciuto molti di voi. Sono affascinata ma al tempo stesso timorosa per l’attività che svolgete. Anche mio padre, che rimane per ore sulla linea di volo, prova ansia e preoccupazione quando qualche pilota tarda all’atterraggio o purtroppo non rientra! – gli confidò la ragazza.

– Capisco e ti ringrazio per la considerazione che provi nei nostri confronti! E’ il nostro lavoro, purtroppo … ma lo amiamo! – le rispose Roberto appoggiando la tazza sul tavolo e guardandola negli occhi, azzurri come il cielo.

Avrebbero continuato a parlare per tutta la sera. Si lasciarono con un semplice – a presto – senza fissare alcun appuntamento.

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L’attività di volo proseguiva senza soste, contribuendo a sollevare il morale del giovane pilota, sempre più conquistato dall’esuberante velocità dello Spillone.

Le missioni ad alta quota lo inebriavano, offrendo alla sua vista incantevoli scenari, riservati a pochi privilegiati e che inevitabilmente lo portavano a riflettere sulla natura del creato. I voli a bassa quota, dove era richiesta una forte rapidità decisionale, invece, gli offrivano una notevole carica di adrenalina.

Volare tra le valli a oltre quattrocento nodi, mentre il paesaggio scorreva veloce poco al di sotto, era elettrizzante.

Ogni volta che si apprestava all’atterraggio, non poteva certo dimenticare quanto accaduto al povero Edoardo:

– Maledetto testone … non ricordavi quante volte gli istruttori ci avevano raccomandato di mantenere i giri della turbina sopra l’ottantatré per cento? – si era trovato spesso a ripetere ad alta voce sotto la maschera dell’ossigeno, quasi come l’amico fosse presente.

Il programma per la transizione sul leggendario Starfighter prevedeva anche l’esecuzione di alcune missioni d’intercettazione.                 L’allievo, sotto la guida di un operatore “guida caccia”, eseguendo le procedure previste, avrebbe dovuto identificare un altro velivolo, decollato in precedenza.  

Mario, un anziano e baffuto istruttore, lo attendeva quella mattina presso la Sala Operativa del Reparto. Non vi era una grande simpatia tra i due. Lui, un omaccione con migliaia di ore di volo su quel missile con le ali, si gongolava davanti agli allievi. Roberto aveva volato con lui un paio di volte, ma non gradiva la sua arroganza.

– Oggi giocheremo a nascondino tra le nubi … vedremo se riuscirai a beccarmi! – gli aveva detto, sfidandolo con atteggiamento spavaldo.

– Vedremo … – aveva subito ribattuto il giovane pilota, visibilmente infastidito.

 Prima di recarsi alla sala equipaggiamenti per la vestizione Mario, sempre tracotante, si rivolse a lui:

– Allievo, non conosci le buone maniere? Non vuoi offrire un caffè al tuo anziano istruttore? –

Roberto cercò per quanto possibile, di essere accomodante:

– Ci mancherebbe … certo, andiamo pure! –

Si avviarono verso il circolo del Gruppo attraversando alcuni vialetti ai lati dei quali la natura si stava risvegliando con i colori e i profumi intensi della primavera. Sorseggiarono rapidamente un caffè senza ulteriori commenti e si recarono quindi in sala vestizione.

La base aveva abbandonato il torpore notturno ed era iniziato il frenetico via vai di uomini e mezzi. Il ruggito di alcuni caccia che si stavano levando in volo lacerava l’aria fresca del primo mattino.

Infagottati nella tuta anti-g e nel giubbotto Secumar, presero i caschi e si avviarono al mezzo che li avrebbe condotti sulla linea di volo.

L’aviere autista, molto loquace, aveva una certa confidenza con il vecchio pilota e iniziò lo scambio di qualche battuta tra loro. Roberto rimase silenzioso, concentrato sulla missione che stava per intraprendere, mentre Mario non smetteva di far battutacce nei confronti dei “pivelli”, come lui etichettava gli allievi. Giunti in prossimità dei velivoli assegnati, l’istruttore scese dalla navetta:

– Ci vedremo lassù … ammesso che tu riesca a trovarmi, pivello! – e dopo aver sbattuto la porta del pulmino, si avviò al proprio Spillone per eseguire i controlli pre-volo.

L’allievo lo guardò senza proferire parola. Cercò di rimanere calmo, senza accettare altre provocazioni. Vicino all’aereo lo accolse sorridendo Lorenzo, l’anziano crew-chief che aveva assistito alla scena:

– Non se la prenda … è il solito sbruffone! – commentò, cercando di sminuire l’accaduto per tirar su il morale del ragazzo e proseguì:

– La saluta mia figlia Stefania! Mi ha riferito di averla incontrata! Venga a trovarci … sarò lieto di averla a cena una di queste sere! –

– Grazie per l’invito, Maresciallo. Verrò con piacere! – rispose il giovane pilota con un certo interesse, dando un amichevole colpetto sulla spalla del Sottufficiale.

Mario nel frattempo era decollato, sparendo immediatamente nell’immensità del cielo e lasciandosi alle spalle il fragore del post-bruciatore.

Roberto salì i gradini della scaletta sistemandosi nell’angusta cabina dello Spillone, coadiuvato dal tecnico che con cura meticolosa lo assicurò alle cinghie del seggiolino Martin Baker.

Si sentiva sicuro, per nulla intimorito dalle provocazioni dell’anziano istruttore. Calzato il casco e i guanti, dopo i consueti controlli interni, facendo ruotare l’indice destro alzato, attivò con la mano sinistra il pulsante di avviamento.

Il brontolio del gruppo elettrogeno Atlas, che di lì a poco avrebbe pompato aria nella turbina dello Spillone, divenne un rumore forte e persistente. Portata la manetta su idle, la lancetta del contagiri prese vita.

Il pilota scandiva con le cinque dita il raggiungimento dei vari parametri fino al fatidico regime del cinquanta per cento, momento in cui con un rapido gesto della mano verso il basso, ordinò di “tagliare” l’aria.

Dopo il guizzo iniziale della temperatura, l’EGT si stabilizzò sui normali valori attorno ai quattrocento gradi.

Roberto accese gli apparati, la piattaforma inerziale e una volta allineata, portò il selettore su NAV. Tutto era pronto … poteva andare!

– Grosseto torre da Leo due-nove … chiede autorizzazione al rullaggio … passo! – proferì con voce squillante sotto la maschera.

– Leo due-nove da Grosseto torre, è autorizzato al rullaggio e al successivo decollo … pista in uso due-uno … calma di vento, passo! –

Il pilota scoccò due colpi di mike per accusare la ricevuta comunicazione e spinse in avanti dolcemente la manetta.

Il sibilo del “104” divenne sempre più lacerante mentre si muoveva sulle vie di raccordo della base.

Giunto al punto attesa, eseguì gli ultimi controlli, quindi dopo un rapido sguardo al di fuori, lentamente si allineò sulla testata del lungo nastro d’asfalto.

Freni tirati, manetta su military quindi all’idle per eseguire lo slam motore, poi di nuovo su military.

Immobile come un felino prima di lanciarsi sulla preda, così il jet, schiacciato sotto la spinta del J79, sembrava attendere impaziente il rilascio dei freni.

Alcuni secondi dopo lo Spillone, sobbalzando con un guizzo, iniziò la rapida corsa. Roberto portò la manetta a sinistra e tutta in avanti per raggiungere la posizione di AB e Full.

Il poderoso “calcio nel sedere” ancora una volta si fece sentire, incollando il pilota allo schienale. I tabelloni indicanti le distanze, posti ai lati della pista, sfilavano sempre più veloci. Il nastro d’asfalto, all’apparenza sempre più stretto, stava sparendo come fosse inghiottito dalle prese d’aria: 150 … 160 … 180 nodi … la sua mano destra tirò dolcemente la cloche alzando così il muso dell’aereo.

Era in volo e la velocità in rapido aumento. Portò rapidamente la leva del carrello e quella dei flap in posizione up.

Roberto lasciò quella terra, un tempo regno dei butteri, dirigendo verso l’azzurro.

Eseguita un’ampia virata sul mare, la torre lo invitò a prendere  contatto con il radar “guida caccia” di Poggio Ballone.

– Leo due-nove da Quercia radar, salga al livello di volo due-sette-zero con prua zero-sei-zero! – lo istruì la metallica voce dell’operatore.

Lui, quel giovane pilota, stava sfrecciando a oltre quattrocento nodi lassù, inebriandosi dell’azzurro sempre più intenso.

La curvatura della terra divenne nettamente percettibile a tal punto da poter distinguere le due coste della penisola.

Sull’Appennino alcune formazioni nuvolose si stagliavano verso l’alto, mentre sopra il canopy, il cielo color indaco si mostrava nella sua immensità.

Roberto seguiva le costanti indicazioni dell’operatore “guida caccia” che lo avrebbero condotto fino a intercettare il velivolo di Mario.

Quanti pensieri gli frullavano per la testa!

– Sarà così semplice beccarlo o s’inventerà qualche stratagemma? – mormorò ad alta voce nella solitudine della cabina.

L’operatore “guida caccia” continuava a fornirgli le indicazioni di prua. A un tratto, volgendo lo sguardo sullo schermo del radar di bordo, Roberto notò una macchia: era il suo obiettivo. Alcune decine di miglia li separavano e iniziò a scrutare l’orizzonte davanti a lui.

Cercò di ridurre la velocità con qualche colpo di aerofreno proprio mentre gli sembrò di scorgere un piccolo punto in lontananza:

– Eccolo laggiù … si è proprio lui! – sbottò.

Stava per schiacciare il mike sulla cloche per comunicare all’operatore radar il famoso tally-ho, come sono soliti gli inglesi nella caccia alla volpe e che in gergo significa “l’ho in vista”, quando quel punto improvvisamente svanì tra alcuni batuffoli biancastri.

Roberto ebbe un sussulto, sgranò gli occhi scrutando il cielo attorno a lui.

– Dov’è finito quel figlio di … si sta prendendo gioco di me! – urlò sotto la maschera. Frazioni di secondo!

L’allievo inconsciamente aveva capito la manovra evasiva di Mario e con coraggio spinse la cloche tutta a destra, facendo rovesciare lo Spillone. Si lanciò in picchiata, descrivendo mezzo looping verso quel manto biancastro di nubi all’apparenza impenetrabile!

– Ho capito il tuo tranello, ma ti farò vedere chi sono … non un pivello come credi! – mormorò.

Mario era sparito alla sua visuale forando il manto di nubi al di sotto e magari sarebbe riapparso alle sue spalle.

La tuta anti-g si era gonfiata sotto l’effetto dell’accelerazione, mentre le lancette dell’altimetro roteavano vertiginosamente indicando la quota sempre più bassa.

Il mare lattescente delle nubi lo inghiottì e un chiarore biancastro circondò il plexiglass della cabina.

Inchiodato al seggiolino dall’accelerazione, Roberto esercitava una continua pressione sulla cloche per portarsi in volo orizzontale sotto quel manto immacolato. Si rese conto che stava rischiando molto.

Via radio dopo qualche attimo di silenzio, fu transitato sulla frequenza di Bracco radar, competente in quella zona di territorio.

Attimi interminabili. Poi il paesaggio tosco-romagnolo apparve alla sua vista. I rilievi montuosi, cosparsi di foreste e di fitta vegetazione, scorrevano laggiù ma fortunatamente era ancora a quota di sicurezza.

Ancora una volta il suo sguardo scrutò il terreno sottostante:

– Dove sei? – urlò rabbiosamente mentre con la mano sinistra spingeva la manetta tutta in avanti per sfruttare la potenza del post-bruciatore.

Un rapido sguardo agli specchietti ma del rivale nessuna traccia. Trascorsero alcuni minuti che sembrarono un’eternità.

Roberto stava percorrendo inconsciamente la stessa rotta di Mario a qualche migliaio di piedi dai rilievi. Improvvisamente scorse la sagoma dello Spillone antagonista.

Era a poche miglia, alcune centinaia di piedi sotto di lui. Si portò rapidamente alla sua quota, inquadrandolo sul collimatore e urlando:

Tally-ho … Bracco radar dal Leo due-nove … tally-ho!  –

Mario continuava a tacere in frequenza. La voce dell’operatore si fece sentire:

– Leo due-nove e Leo tre-quattro da Bracco radar missione terminata, proseguite per rotta … quota seimila piedi! –

Roberto aveva affiancato l’aereo dell’astuto istruttore che meravigliato, lo stava osservando.

Il giovane pilota adesso sorrideva sotto la maschera:

– Chissà che cosa starà pensando? Sarà livido di collera! – mormorò.

– Ci vediamo a terra! – gli disse Mario via radio, abbozzando un saluto con un cenno della mano.

Le verdi colline toscane, punteggiate dalle tonalità scure dei cipressi, sfilarono sotto la fusoliera dei due caccia per far posto ben presto alla pianeggiante Maremma.

Continuarono l’avvicinamento sotto un tiepido sole mentre il monte Amiata, alla loro sinistra, svettava nell’azzurro del cielo come un silente spettatore. La torre li autorizzò all’atterraggio sulla pista due-uno. Dopo l’apertura sul cielo campo, Mario fu il primo a porsi in finale, seguito a pochi secondi da Roberto.

Lo sbocciare dei due para-freno, seguiti dal consueto strattone delle cinghie, segnò la fine della missione. Sulla linea di volo li attendevano i rispettivi crew chief. Il sibilo lacerante dei turbogetti prima dell’arresto echeggiò nell’aria, pervasa dall’effluvio di cherosene. I due piloti scesero rapidamente la scaletta mentre le palette delle turbine, tintinnando, compivano gli ultimi giri.

Lorenzo vedendoli rientrare assieme, aveva intuito che la missione era terminata con esito positivo e, accostando la scaletta, gli disse:

– Bravo Comandante, gli ha dato una bella lezione! –

– Ho fatto del mio meglio! – rispose, togliendosi i guanti.

Madidi di sudore e con il volto segnato dalla maschera, i due piloti si soffermarono tra i loro jet.

– Oggi ho capito che non sei più un pivello! – esclamò Mario porgendo la mano a Roberto. E aggiunse:

– Da domani … sarò io a doverti offrire il caffè! –

La lezione era servita e da quel giorno l’anziano istruttore non si rivolse più al giovane pilota con i suoi epiteti.

Roberto non solo aveva fornito prova di coraggio, ma aveva dimostrato di avere gli attributi per diventare un ottimo intercettore!

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Si avvicinava il termine del periodo di addestramento sul velivolo F-104 e di lì a poco gli allievi avrebbero raggiunto i Reparti operativi.

Un pomeriggio, rientrato dall’ennesima missione, mentre Lorenzo era indaffarato attorno al suo velivolo, si soffermò a guardare quell’uomo umile e laborioso.

Pensò di mantener fede alla promessa fatta.

– Salve, Lorenzo … prima di partire, una di queste sere verrò a trovarla e rimarrò a cena da Lei! –

– Con vero piacere … per me va bene anche stasera … se è d’accordo, avviso mia moglie! – e si salutarono dopo aver scambiato due chiacchiere come vecchi amici.

Poco prima di cena Roberto si presentò a casa del Maresciallo con un mazzo di fiori e da buon veneto, non dimenticò di portare con sé dell’ottimo prosecco.

Fu accolto sulla porta di casa da Stefania, ben curata e in abbigliamento elegante. Non sembrava più la ragazzina che lui aveva visto un paio di volte, ma una vera donna, sensuale e intrigante. I loro sguardi s’incrociarono per qualche istante e il suo sorriso ammaliò il giovane pilota.

Anche Anna, la moglie di Lorenzo, era molto cordiale e di bella presenza tanto da sembrare la sorella maggiore di Stefania. L’ottima tavola e la gradevole compagnia fecero volare le poche ore durante le quali i due ragazzi continuarono a lanciarsi degli sguardi.

Si era fatto tardi e Roberto salutò gli astanti.

– Ti accompagno fino all’auto! – disse la ragazza, cogliendolo di sorpresa. Rimasero più di un’ora a parlare vicini al portone d’ingresso della palazzina e si scambiarono i numeri di telefono.

Poco prima di salire in auto, stava per salutarla quando si lasciò andare, abbracciandola. Lei gli cinse le braccia al collo baciandolo con passione. Roberto rimase per qualche istante colpito e un po’ titubante, ma non si sottrasse a quel bacio passionale che li coinvolse per alcuni minuti.

S’incontrarono nei giorni seguenti e capirono che tra loro c’era una forte intesa.

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Giunse purtroppo il giorno della partenza. Roberto era stato assegnato al XXI Gruppo Caccia del 53° Stormo di Cameri.

Accolse la notizia con un velo di tristezza. Adesso che aveva trovato l’amore sarebbe dovuto partire! Aveva comunque raggiunto il suo scopo: era finalmente abilitato al “104”! Avrebbe gradito rimanere al 4° Stormo per essere così, vicino alla ragazza.

Anche Stefania era triste, seppur consapevole fin dall’inizio che non sarebbe stata una relazione facile.

Lorenzo, sorridente come sempre, lo salutò al termine dell’ultima missione, abbracciandolo come fosse stato un figlio: aveva capito che tra la sua Stefania e quel giovane pilota c’era del tenero.

Roberto raggiunse la sua nuova sede in una giornata nebbiosa, percorrendo la pianura novarese costellata di canali, tra filari di pioppi e ampi campi di risaie.

Fraternizzò subito con i colleghi del nuovo Reparto che lo accolsero con molta cordialità. Il Comandante, un giovane Colonnello, si mostrò essere una persona affabile, molto gentile e scherzoso, un vero padre di famiglia.

Il giorno successivo al suo arrivo si trovò assegnato a una missione di addestramento proprio con lui nel ruolo di leader. Lo attese con ansia nella Sala Operativa, aspettando le sue istruzioni per pianificare la missione.

Impegnato tra le pratiche e il telefono che squillava in continuazione, il Capo si fece attendere a lungo. Si presentò infine scusandosi per il ritardo, fornendogli le indicazioni sull’attività che avrebbero svolto. Roberto pianificò scrupolosamente il volo non volendo certo far brutta figura con il proprio Comandante.

Dopo la vestizione si avviarono verso la linea di volo ove le due “Tigri”, così il loro nominativo radio, erano allineate e pronte per essere domate.

La giornata era tiepida e il cielo pulito da una leggera bava di vento.

Eseguita la procedura di avviamento, chiusero i canopy e seguendo le istruzioni della torre, diressero lentamente verso la testata pista tre-cinque. Ottenuta l’autorizzazione, avvenne il decollo, a pochi secondi di distanza l’uno dall’altro. Il Comandante ridusse la velocità per consentire al gregario di eseguire il ricongiungimento.

A oltre quattrocento nodi la verde campagna sfilava al di sotto. Avanti a loro le acque del lago Maggiore scintillavano sotto i raggi del sole mentre in lontananza le granitiche Alpi, ammantate di nevi perenni e immacolate, svettando sopra una leggera foschia, formavano una barriera apparentemente insormontabile.

Non c’era il tempo per soffermarsi a osservare quella meraviglia della natura e Roberto stava “mordendo” l’ala del suo leader. Seguiva con lo sguardo il sottile profilo di quella semi-ala che non stava ferma, a pochi metri dal suo velivolo.

Il Capo formazione via radio scandiva gli ordini delle varie manovre che avrebbero compiuto:

– Andiamo su ed eseguiamo alcune virate! –

Salirono in quota, lassù dove il cielo assume i colori più accesi e l’aria è più rarefatta, lontani dall’impercettibile alone di foschia che di solito avvolge la terra.

Un sottile rivolo di sudore, scendendo da sotto il casco inumidì le sue guance, facendo scivolare la maschera che prontamente aggiustò.

Compiute alcune virate con vari assetti, il Colonnello si spinse in affondata per poi pennellare un looping.

Roberto lo seguì e, sotto la potente spinta del post-bruciatore, puntò verso il cielo sempre più blu. Guadagnarono rapidamente oltre diecimila piedi. La sua mano destra eseguiva continui movimenti con la cloche per rimanere incollato all’altro Spillone.

Sotto la maschera il respiro divenne affannoso per lo sforzo e la concentrazione.

All’apice della figura scesero sempre più veloci verso la terra che si stava ingrandendo a vista d’occhio mentre la tuta anti-g faceva sentire i suoi effetti sull’addome e sulle gambe.

Livellarono le ali a circa diecimila piedi per poi cimentarsi in un tonneau. Laggiù, fuori dal canopy, la terra e il cielo si stavano rincorrendo velocemente.

– Bravo … niente male … rientriamo! – echeggiò in cuffia la voce calma del leader, restituendogli un po’ di tranquillità.

Poco dopo seguì il dolce contatto sull’asfalto della pista, segnata dagli infiniti graffi neri degli pneumatici.

– Complimenti, un ottimo inizio, vieni al bar … ti offro il caffè – esordì sorridendo il leader, appena sceso dalla scaletta!

– Grazie Comandante! – rispose, felice per aver conquistato la sua fiducia.

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Se pur distante dalla sua Stefania, l’ambiente sereno che aveva trovato, contribuì a mitigare la lontananza dalla ragazza che comunque raggiungeva durante i fine settimana.

Una maledetta sera Roberto stava svolgendo il proprio turno d’allarme assieme a Carlo, un giovane pilota giunto al Reparto alcuni mesi dopo il suo arrivo e con il quale aveva stabilito un sincero rapporto di amicizia.

Le condizioni meteo non erano ottimali. La base e la pianura Padana erano avvolte da una densa foschia mentre un’estesa e spessa coltre nuvolosa gravava a quote relativamente basse.

In quel periodo erano in atto alcune simulazioni di scramble, esercitazioni che sono svolte periodicamente per valutare i tempi di reazione dei vari Reparti in ambito NATO.

Le possenti volte degli shelter custodivano nella loro penombra i velivoli F-104 d’allarme, illuminati dalla flebile luce delle lampade alogene. Nel silenzio che regnava all’interno, si respirava profumo di cielo, di avventure ad alta quota … un frammisto di vapori di cherosene e di olio.

 Gli equipaggi di turno, piloti e tecnici, stavano preparando una frugale cena nei locali attigui.

– Con una serata così non c’è di meglio che una buona pastasciutta … matriciana o carbonara? – chiese Roberto.

– Vada per la carbonara! – aveva subito replicato Carlo.

Non avevano terminato di cenare che scattò il segnale di allarme.

Si precipitarono correndo verso gli shelter, raggiunti i quali i piloti indossarono le tute anti-g e i Secumar, lasciati appesi ai tubi di Pitot dei rispettivi velivoli. Salirono rapidamente a bordo, mentre gli specialisti portavano a regime i gruppi elettrogeni Atlas.

Il sibilo dei potenti J79 lacerò l’aria fino a divenire un ruggito allo scoccare del semaforo verde che ne autorizzava l’uscita dai ricoveri.

Scomparvero alla vista, inghiottiti dalla foschia, tra le minute luci delle vie di raccordo che conducevano alla pista. Qualche attimo di silenzio. Poi il fragore delle turbine al massimo dei giri.

Riapparvero mentre correvano veloci su quel manto d’asfalto tra le risaie, lasciandosi dietro il frastuono e la lunga scia di fuoco dei loro post-bruciatori. A bordo dei due missili con le ali la concentrazione era massima. In sequenza tirarono all’indietro la cloche.

Le luci della pista svanirono, ingoiate dal buio della notte. Anche il mondo era sparito, non vi erano più le luci delle case e delle città. Erano soli in quell’aria infida e lattescente.

Il verde flash intermittente della luce di navigazione, posta sulla semi-ala destra del jet di Roberto costituiva l’unico riferimento per Carlo che stava “mordendo” l’ala del leader.

Lasciate le comunicazioni con la torre, stavano volando verso l’ignoto. Di lì a poco la voce dell’operatore radar fornì loro la prua da seguire e il livello di volo da raggiungere.

I minuti all’interno delle nubi stavano diventando interminabili.

– Tra poco saremo fuori … vedremo le stelle! – esclamò pensieroso Roberto.

Non finì di dire quella frase che udì un forte colpo scuotere il suo Spillone. Subito dopo il cockpit s’illuminò di luci rosse e color ambra lampeggianti mentre il persistente segnale acustico d’allarme echeggiava in cuffia.

– Acc … che sta accadendo? – sbottò sotto la maschera.

Il velivolo vibrava, si scuoteva come un animale ferito, variava continuamente l’assetto, facendogli sbattere la testa ai lati della cabina. A nulla valsero i tentativi per contrastare i movimenti incontrollati dell’aereo. Erano entrati in collisione e stava precipitando.

Attimi terribili! In frazioni di secondo rivide tanti flash della sua vita, le persone care. Stefania!

Cercò di alzare le mani per afferrare le due maniglie di espulsione poste sopra la testa, ma una forza invisibile glielo impedì. Sotto l’effetto dell’accelerazione erano ben pochi i movimenti che riusciva a compiere.

Fissò la leva di espulsione, giallo-nera, posta tra le sue gambe, quella leva che tutti i piloti guardano e a volte accarezzano ma che nessuno vorrebbe mai tirare.

Era uscito dalle nubi ed ebbe la percezione di vedere qualche luce sul terreno sottostante ma … doveva lanciarsi.

Abbassata la visiera del casco, con fare deciso tirò la leva di espulsione.

In sequenza esplosero le cariche di rilascio del canopy e quella posta sotto il sedile. Nello stesso istante le giarrettiere e i cavi di retrazione delle gambe incollarono i suoi polpacci al sedile per evitare che queste fossero amputate durante l’uscita dalla cabina.

Una forte spinta lo scaraventò verso l’alto mentre un mostro invisibile sembrava volergli strappare il casco e la maschera. Poi più nulla: era svenuto!

Il fruscio e lo schiocco del paracadute che si apriva riempiendosi d’aria, seguiti da un brusco strattone, lo fecero riprendere. Alzò gli occhi al cielo e sopra di lui intravide la calotta di seta completamente estesa. La velocità di caduta era molto più rallentata.

Guardò verso terra: tutto era buio.

– Mio Dio … dove andrò a finire? – si chiese. Volse lo sguardo alla sua destra e in lontananza scorse le fiamme altissime che si levavano da quello che probabilmente era il suo jet. Pensò al collega con il quale non era riuscito a comunicare:

– Carlo … dove sarà … si sarà lanciato? –

Riuscì a scorgere non molto lontano alcune luci soffuse.

– Una casa … sembrano le luci di un’abitazione … speriamo che sotto non vi siano alberi! – ripeté ad alta voce.

Il seggiolino si era sganciato automaticamente mentre il pacco di sopravvivenza era rimasto agganciato poco sotto i suoi glutei. A breve avrebbe toccato terra ma non riusciva a percepire la reale distanza che lo separava dal suolo. Si preparò comunque all’impatto unendo i piedi.

L’acqua stagnante di un’ampia risaia attutì la sua caduta e si trovò a terra, completamente bagnato. Fortunatamente non spirava un alito di vento e la calotta del paracadute subito si afflosciò evitando così di essere trascinato. Attese alcuni secondi per essere certo di non aver subito lesioni agli arti e alla schiena.

– Per fortuna … non mi sono rotto nulla! – esclamò sganciando l’imbracatura ed estraendo da una tasca della tuta una piccola torcia d’emergenza.

A fatica riuscì a uscire da quel pantano, raggiungendo un piccolo viottolo tra le risaie. Volse lo sguardo in direzione dell’unica luce più vicina nel buio della notte.

– Sì … è una casa colonica, non mi ero sbagliato! – mormorò dirigendo verso il cascinale per chiedere aiuto.

Un anziano agricoltore venne ad aprirgli la porta, rimanendo sorpreso. Vedendolo bagnato e infangato con quella strana tuta addosso, non sapeva se avesse di fronte un essere umano o un marziano.

Roberto dopo essersi presentato, spiegò quanto gli era accaduto e chiese di poter utilizzare il telefono per avvisare la base.

L’umile e premurosa moglie del contadino, udendo quanto occorso, nel frattempo tolse una bottiglia dalla madia:

– Beva, si riprenda … le farà bene! – lo invitò, porgendogli un bicchierino di grappa.

– Grazie, signora … gradirei un po’ d’acqua! – rispose declinando gentilmente l’offerta. Telefonò alla base comunicando di star bene e chiese notizie di Carlo.

– Sappiamo che il suo velivolo è precipitato ad alcune miglia dal tuo ma del pilota non abbiamo alcuna notizia. – rispose la gelida voce dell’Ufficiale di turno alla Sala Operativa.

Roberto fu pervaso da una profonda angoscia.

All’arrivo dell’autoambulanza che lo avrebbe trasportato per accertamenti al più vicino ospedale, ebbe parole di ringraziamento per la famiglia che lo aveva ospitato. La rude e callosa mano del contadino strinse la sua con un gesto di genuina amicizia.

Fortunatamente per lui i controlli medici non evidenziarono alcun trauma e fu dimesso il giorno seguente, raggiunto da Stefania che nel frattempo si era precipitata con l’auto verso la base.

La sorte fu crudele per il povero Carlo che non era riuscito a eiettarsi. Il suo corpo fu trovato straziato sotto i rottami del proprio caccia.

– … nel nostro lavoro può accadere di tutto! – ripeteva alla sua Stefania che amorevolmente gli aveva proposto di cambiare attività.

Una breve convalescenza trascorsa sull’Argentario in compagnia della ragazza, lo rinfrancò nel corpo e nello spirito.

Rientrato al Reparto, l’indomani era di nuovo sulla linea di volo in procinto d’intraprendere una nuova missione. Per nulla intimorito, si avvicinò allo Spillone assegnato. Esaminò il libretto del velivolo e dopo i controlli vi appose la firma. Appoggiò le mani sull’affusolato muso del jet sussurrando:

                – Ti tratterò bene come sempre, ma tu … non mi farai più brutti scherzi … vero? – e salì la scaletta.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Claudio di Blasio