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Scricciolo

Avevano cenato, come sempre, come ogni sera, sul tavolo di cucina con le tendine azzurre, la tv che va, una cantilena monotona e pesante, vuota come i pensieri tra loro, papà e figlia adolescente; non c’era niente da dire, solo: “Passami l’acqua per favore”, “Vuoi una mela? Un po’ di torta di ieri, è buona sai …”. Parole come acqua che scorre, scivola via in un mare di indifferenza tra Gigi e Mara, cortesie superficiali, ma sotto c’era il “mare magnum” d’incomprensioni, di guerriglie quotidiane su tutto e per tutto, da tutte e due le parti. Gigi non capiva sua figlia, un esserino strano e complicato, troppo difficile a sciogliersi, ad addolcirsi in un sorriso di complicità e comprensione; d’altra parte Mara vedeva il suo papà come un “UFO”, non c’era mai, era indaffarato per il lavoro, si vedevano alla mattina presto e a cena, era sempre nervoso, teso per la vita. “Io sono trasparente per lui, meno di zero”, pensava, e aveva incominciato a escluderlo dalle sue piccole “cose da niente”, da scuola e amici, da sogni e speranze; erano due isole deserte in mezzo al mare, tranquille solitudini alla deriva. Ci voleva un punto fermo tra loro, gli occhi sereni di una donna, di una mamma che prendesse le redini di due “cavalli di casa” imbizzarriti ma lei era volata via presto, lasciando Gigi senza parole e senza lacrime, ingrigito di colpo e senza spazio per Mara, bambina cresciuta troppo in fretta. Mara si ricordava poco di Giulia, la sua mamma, era piccolina quando era morta, rammentava la figura snella ed elegante, lo sguardo calmo ed i folti capelli ramati difficili da domare; mille volte li fermava in una spilla d’argento a forma di farfalla, ora l’indossava Mara, pensando a lei come difesa dalle insidie di una giovinezza insicura. Vivevano in città, impegni e stress lavorativi erano inchiodati nel grigiume della pianura soffocante e Giulia, appena poteva scappava via, andavano insieme nelle colline del Brenta, dove l’aria era frizzante e pulita, si distendevano tra i filari e guardavano il cielo, puro; si vedevano le nuvole, a forma di cuore, di fiore, di gatto, una fantasia ingenua e bella che faceva bene al cuore e allo spirito. Giulia diceva a Gigi: “Come sei bigio! Non guardare in giù, ma no, non ai piedi, ai problemi “sottoterra”, così non si va da nessuna parte, guarda in su, in alto, all’azzurro oltre le nuvole. Cambiare prospettiva è un inizio di novità e di rinnovamento, ti fa soltanto bene, su, respira!” Gigi si sforzava di alzare gli occhi e guardare oltre il suo lavoro che non andava, i pochi soldi che prendeva, i guai economici che l’assillavano, fissava lo sguardo verso il blu ed era innamorato di lei, perdutamente. Poi il tumore di lei, improvviso, due mesi e via, se ne andò, lasciando sospese le persone più care; capita ai vivi, invece di legarsi ancora di più, di combattere insieme, s’erano allontanati, persi in questa casa piena di ricordi e di dolore. Mara s’era rifugiata nella sua stanza, Vasco e Facebook erano il suo piccolo paradiso, Gigi, lavoro e poi lavoro, saltava anche il pranzo perché, ormai ,non c’era nessuno, la casa era vuota, vuota di lei …

Una mattina, uscendo come sempre dalla mensa aziendale, s’era acceso una sigaretta, spenta subito dopo due boccate pensando alla faccia corrucciata di sua moglie: “E’veleno, spegnila, fallo per me …”, sorrise amaro. Non ce la faceva ancora a vivere senza lei, e poi c’era Mara, sempre così “a riccio” con lui, cercava disperatamente una soluzione per sciogliere la tensione con lei, far capire a Mara che loro due erano amici, davvero, che si poteva sorreggersi insieme e ricominciare a vivere dopo le lacrime, bisognava trovare un interesse comune, far fiorire la loro distanza, ma era tanto difficile. Pensava a queste cose, guardò oltre la strada statale tra capannoni industriali e campi in periferia e vide un grande spazio aperto, un aeroporto turistico, piccoli monoplani, velivoli fatti apposta per viaggiare per brevi tratti, comunque per andar via , lasciare da parte ansie e confusione, accendere il motore e librarsi in volo, veleggiare come uccelli migratori, sciogliersi nel blu ed essere leggeri, docili fibre dell’universo intero, che bello sarebbe ! Gigi aveva rinnovato la licenza di volo ed era in grado di pilotare un aereo. Giulia era appassionata di aerei, sognava di volare sempre più su, condividendo l’amore e la gioia di essere finalmente liberi; Gigi l’accontentava amando gli occhi luminosi e belli di lei, non era importante la destinazione, l’essenziale era andare. Ogni ascesa era una parabola della loro vita, insieme sempre, e uniti. Adesso era solo, camminava solo in questa terra senza lei, incapace di volare. E c’era Mara: anche lei vagava nella nebbia dei mille perché senza trovare il sorriso quieto di sua madre, disancorata e persa. Pensò a lungo alla sua bambina così a disagio con lui, con il suo papà, e si fermò di botto, guardò le ali lucenti degli aerei nell’hangar, impazienti quasi di galoppare nel cielo. Gli venne l’idea, surreale, di volare con Mara: “Un’esperienza nuova da condividere, da assaporare noi due, insieme, come tanto tempo fa con Giulia.” Glielo disse alla sera. Mara era scettica, neanche un filo d’ entusiasmo, niente, inerte dalle novità. “Ok, andiamo, ma quanto dura questa barba? Non ne ho tanta voglia, uffa, lasciamo perdere …” Gigi insistette tanto, ma tanto che alla fine, si lasciò convincere. Il giorno dopo erano lì; un addetto li accompagnò all’hangar, qui c’era un aereo snello, compatto, dalle linee delicate ma resistente nella sua tecnologia datata. Gigi lo sapeva bene: era l’Aviamilano P19 Scricciolo, un velivolo degli anni ’60, costruito in Italia con ala e impennaggi in legno e fusoliera in tubi metallici intelati; motore quattro cilindri raffreddato ad aria con buona velocità e autonomia. “Scricciolo”, com’ era Mara, fragile per la perdita infinita ma, Gigi lo sapeva, forte e sicura negli anni che sarebbero venuti. Bastava trovare un segno, un’intesa tra loro, che fosse stabile e che durasse per sbocciare e mettere frutti. Insieme entrarono nel velivolo, l’aereo lentamente prese quota e si alzò sopra le case tetre, gli uomini pallidi e incolori, sopra l’affanno e la tristezza mite di due persone che avevano bisogno l’uno dell’altro. Gigi si ricordò delle parole di Giulia: “Guarda il blu, all’azzurro sopra le nuvole, cambia prospettiva, su, respira!”. Guardò Mara, felice tra lillipuziani fiumi, alberi, animali, tutto in miniatura, come se fosse un gioco; incontrò lo sguardo del suo papà e rise. E Gigi finalmente respirò, e contemplò l’azzurro.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§ # proprietà letteraria riservata #


Maria Teresa Limonta

Riga


Riga è la capitale della Lettonia, un ex territorio dell’Unione Sovietica. E’ un piccola città, di circa 700 mila abitanti, capitale di una altrettanto piccola nazione con un territorio vasto meno di Lombardia, Piemonte e Veneto, con solo 2 milioni di abitanti, ma fiera di non essere più sotto il dominio della Russia.
E’ una città tranquilla, con poco traffico, con angoli piacevoli e interessanti da visitare; sull’I-Phone lessi: “La cucina lettone non è famosa, e probabilmente non lo sarà mai”, aspetto che avemmo modo di sperimentare e confermare.

Siamo a Riga, io e Silvio, il mio istruttore di volo strumentale (I.F.R.), perché abbiamo prenotato due voli a testa su l’L39C Albatros, l’addestratore a jet in uso in molte aeronautiche militari e il velivolo a getto, della sua categoria, più diffuso negli U.S.A., tra i privati.
Ce ne ha dato la possibilità il “Baltic Bees” (le Api del Baltico), un team acrobatico civile, del quale venni a conoscenza leggendo una loro pubblicità su una rivista trovata nel mio Aero Club.
L’L39C era il velivolo sul quale ho sempre desiderato volare, ma non c’ero mai riuscito giacché negli Stati Uniti mi era stata negata la possibilità poiché non avevo una licenza di pilota americana.

Avevo preparato con cura questi voli, in realtà, questa compagnia lettone propagandava voli acrobatici per far sperimentare, come riportato sul loro sito, “l’adrenalina” di un volo acrobatico, tuttavia né io, né il mio amico, avevamo intenzione di fare un volo acrobatico, o almeno, esclusivamente acrobatico, come due semplici passeggeri, ma volevamo provare il pilotaggio di questo velivolo ed effettuare anche qualche atterraggio. Come al solito, volevo imparare a pilotarlo, consapevole che sicuramente non bastano due voli per diventare padrone della macchina, ma ahimé, come al solito, le mie finanze non mi permettevano di più, ed ancora oggi considero quell’esperienza una “pazzia” dal punto di vista economico.

Insomma il nostro obiettivo principale era quello di fare dei touch and go, per capire la tecnica di atterraggio di questo velivolo.

Ma perché due voli?
Il primo volo, su un velivolo che non conosci, è solo un assaggio della macchina, prendi contatto con un ambiente nuovo, non sai dove sono posizionati comandi e interruttori principali, devi abituarti alla visione esterna, sicuramente diversa da quella abituale, e poi un velivolo a reazione ha comportamenti diversi e necessità di un diverso modo di pilotaggio.
Nell’L39C, come d’altra parte sul Provost, la maggiore differenza sta proprio nella gestione della spinta, il tempo di accelerazione del motore da “idle” (minimo) fino alla massima spinta è di circa 12 secondi, e di questo bisogna sempre tenerne conto, soprattutto in atterraggio o in riattaccata, giacché devi anticipare il comportamento della macchina, come si suol dire: “devi starle davanti”.

Avevo contattato per e-mail questo team e Artyom, il mio referente epistolare, mi aveva risposto che potevamo fare dei voli di addestramento, anche stando nel sedile anteriore, come da me espressamente richiesto, posto usualmente occupato dagli allievi.

Con queste premesse e garanzie, ci imbarcammo a Roma, agli inizi di ottobre 2010, sul volo di linea Air Baltic, alla volta di Riga dove, inoltre, c’era ad aspettarci una mia amica russa, che ci avrebbe fatto da interprete.
Pur non essendo più nella Russia, tutti parlano anche il russo, lingua peraltro utilizzata anche in televisione tuttavia, lungo le strade, notai che non esisteva alcuna indicazione o iscrizione in cirillico, anche se la maggior parte dei giornali e dei quotidiani erano stampati in cirillico.

Il giorno seguente, Artyom, pilota anche lui del team, ci venne a prendere al nostro albergo per portarci all’aeroporto di Tukums, sede delle “Baltic Bees”.
Mi meravigliò la sua giovane età, forse compresa tra i 25 ed i 28 anni. Mi aspettavo un pilota più maturo giacché l’età, in questi casi, è sinonimo di esperienza e dà la garanzia di molti anni passati volando e istruendo e quindi di molte ore di volo all’attivo, ma solo dopo capimmo perché quel pilota, così giovane, facesse parte del team.
La spiegazione fu molto semplice e allo stesso tempo scioccante: il padre era il proprietario non solo del team, ma anche dell’aeroporto su cui agiva questa pattuglia di L39C.

Raggiungemmo Tukums, che è a circa 60 km. da Riga, dopo circa un’ora di viaggio, attraverso strade senza curve e costeggiate da imponenti foreste di conifere .
Tukums era un tempo, un aeroporto militare dell’Aviazione Sovietica.

Il cielo rimase sempre sereno, anche se il primo giorno, complice il vento che spirava a 12 nodi, la temperatura non era così gradevole.

Il “briefing” pre-volo fu fatto in modo molto amichevole, alla presenza di tutti i piloti del team; ci chiesero quante ore di volo avessimo e cosa volessimo fare e quello che sarebbe stato il nostro pilota, Anatolij, ci avvisò che, qualora ci fossimo sentiti male durante le manovre acrobatiche, avremmo dovuto dire, via interfono, tre volte “finished” o “stop” .
Rimasi un po’ interdetto e spiegai subito le mie intenzioni: “It doesn’t interest me aerobatics!” ma le mie intenzioni e quelle del mio amico, come ebbi modo di verificare, caddero nel vuoto.
Firmammo un foglio, scritto in cirillico, che la mia amica ci tradusse, e sul quale, dichiaravamo di essere in buona salute, consapevoli di ciò che andavamo a fare ecc. ecc.; in realtà, sul loro sito, c’era scritto che un dottore visitava i loro clienti, prima del volo, per accertarne le condizioni fisiche, ma a noi nulla di tutto questo fu fatto. In fondo non ci interessava.
E giunse il momento di andare in linea di volo.

Ci avviammo verso gli aeroplani: erano quattro, la loro linea era bella e piacevole, veri aerei militari, caratteristica accentuata dai posti in tandem, oserei dire, con malcelata soddisfazione dei veri jet fighters; l’unica cosa che, confesso, non mi è mai piaciuta molto, era la loro colorazione. Infatti erano dipinti con geometrie e colori che ricordavano un’ape, quindi più da fumetto che da “military trainer”. Mi chiesero un parere su questo e, onestamente, confessai che mi sarebbe piaciuta di più una livrea con disegni geometrici che avessero sottolineato le linee filati del velivolo … ma mi risposero che avevano volutamente scelto una colorazione, quanto più possibile , lontana dall’avere una parvenza militare.

La Lettonia, non ha una aviazione militare, se non una manciata di elicotteri.
In lontananza erano visibili dei Mig 21, utilizzati quando la Lettonia era inglobata nell’Unione Sovietica, ormai in disuso, destinati al Museo dell’Aviazione in costruzione sull’aeroporto.

Faccio un passo indietro.
La mia preparazione a questo volo, come già detto, era partita molti anni prima, infatti quando volevo pilotarlo negli U.S.A., acquistai l’add-on, cioè un programma aggiuntivo per Flight Simulator 2002, per potermi allenare e capire come il velivolo si comportasse. Chiaramente, con i limiti di un simulatore quale FS 2002.
Erano anni che non usavo più quel programma, così lo rispolverai ed iniziai i miei voli virtuali di addestramento.
Cercai, prima di tutto, di familiarizzarmi con i comandi in cabina, quella anteriore ovviamente, credo l’unica disponibile, memorizzando la sequenza di messa in moto.
Dopo mi allenai ad eseguire gli atterraggi facendo attenzione a mantenere le velocità riportate sul manuale, incluso nel CD dell’add-on stesso.
Da internet scaricai i resoconti di alcuni piloti che avevano volato su questo velivolo, trovai le fotografie dell’interno della cabina di pilotaggio, scoprendo che su Flight Simulator era stata riprodotta molto fedelmente, scaricai anche alcune procedure di emergenza, prima fra tutte, quella di eiezione con il seggiolino, arrivando piano piano a fare una conoscenza, comunque superficiale, di questa macchina; ma per saperne di più avrei dovuto acquistare i manuali, quelli veri … ma costavano molto e non me la sentii.
Tuttavia tutto questo mi sarebbe stato comunque utile, poiché ci fu detto poco o nulla sulle procedure, ma di questo parlerò in seguito.

Il primo a volare fu Silvio; accanto al suo velivolo, intanto io scattavo alcune foto per immortalare quello che, per noi, era un evento importante.
Raggiungere il posto di pilotaggio che purtroppo, contrariamente alle promesse e alle attese, si rivelò essere il posteriore, è facile: sulla fiancata sinistra del velivolo, infatti esiste un predellino ripiegabile a scomparsa e altri due punti, perfettamente invisibili, perché mascherati da pannelli a molla che si richiudono una volta che il piede viene estratto; dall’ultimo appoggio poi, si mette il piede destro sul seggiolino, e quindi ci si cala nell’abitacolo,. E comunque i ground crews ci aiutavano anche in questa operazione.
Durante il breve briefing, alcuni piloti indossarono la tuta anti-g, e tutti avevano la combinazione di volo ignifuga di colore azzurro; a noi ci fu data una semplice giacchetta che veniva indossata con il solo scopo di proteggere i nostri abiti dallo sfregamento delle fibbie delle cinture che ci legavano al seggiolino, sfregamento causato dalle sollecitazioni subite durante l’esecuzione delle manovre acrobatiche.
Una volta seduto, Silvio indossò il casco, e fu aiutato a legarsi; il pilota, nel seggiolino anteriore aveva anche la maschera per l’ossigeno.
I tettucci furono chiusi, ed iniziò la sequenza di accensione.
L’L39 è completamente autonomo, infatti è dotato di APU (auxiliary power unit – unità ausiliaria di energia); una volta messa in moto, dopo alcuni secondi, quando si accende una luce di avviso sul “warning panel”, si aziona il pulsante di avviamento, e parte anche il motore vero e proprio.
L’APU ha un sibilo gradevole, ma quando il motore parte, fa sentire la differente sonorità e, a questo punto, l’APU si spegne automaticamente.
Dopo una manciata di minuti, iniziò il colloquio a gesti tra pilota e operatore a terra, posizionato di fronte al velivolo, a circa 4-5 metri, che ha il compito di verificare che le superfici comandate dal pilota, che dall’abitacolo non sono visibili, funzionino a dovere; il ground crew comanda, con un gesto della mano, o con le braccia, o con tutti e due, l’estrazione dei flaps alla prima tacca, 25 gradi, e la seguente retrazione, poi l’estrazione degli stessi a 44 gradi, seconda tacca, e per ultima l’estrazione degli aerofreni, posizionati sul ventre del velivolo.
Infine ci si muove, il motore sale di giri e, proporzionalmente, anche il suo rumore, tuttavia ripensando allo stesso momento, quando a Caselle si muoveva il Tornado, o il 104, qui la terra non ha tremato.

Fa abbastanza freddo, siamo quindi invitati ad andare in torre, da dove possiamo , quando in vista, seguire il volo del mio amico. C’è molta acrobazia, anche se è un touch and go.

Dopo 20 minuti, e dopo aver effettuato un basso passaggio, concluso da una momentanea apertura a destra, in leggera cabrata, seguita subito da un tonneau a sinistra, il velivolo atterra.
Vado incontro a Silvio: è felice, anche se il suo viso è piuttosto bianco; mi confessa infatti che lui l’acrobazia l’ha sempre sopportata male, e che durante un looping ha anche sperimentato, per un attimo, la visione nera. La cosa mi preoccupa un po’, poiché mi domando come il mio fisico reagirà, quando toccherà a me.

Il mio turno inizia dopo un’ora circa, tempo durante il quale Artyom effettua un volo di addestramento acrobatico, con un istruttore seduto dietro.

Sono le 14 circa, quando prendo posto sul velivolo, uno degli istruttori mi aiuta a legarmi, ed a calzare il casco e m’insegna come eiettarmi: avrei dovuto afferrare le due maniglie posizionate fra le gambe, comprimere entrambe le impugnature, schiacciando così le leve ivi affogate, azione che esegui istintivamente, con sgomento dell’istruttore, giacché il seggiolino era armato, quindi bisognava tirare in alto le maniglie, cosa che naturalmente non eseguii. Mi fa anche vedere come abbassare la visiera del casco prima di iniziare la sequenza di eiezione.

Abbassato il tettuccio, lo chiusi utilizzando l’apposita maniglia, azione conosciuta e simulata su Flight simulator 2002.

Avevamo concordato che il pilota mi avrebbe dato i comandi, avvisandomi via radio, con:“you have the control” e li avrebbe ripresi con: “ I have the control”.

Ci muovemmo, e percorrendo un breve raccordo, entrammo in pista per effettuare il contro pista; d’altra parte nessun altro traffico si era presentato sull’aeroporto, eccetto un velivolo monomotore ad elica, atterrato per fare rifornimento. E’ da notare che il serbatoio, che erogava sia la benzina avio quanto il kerosene Jet A1, non era interrato, ma era un lungo cilindro metallico bene in vista, di circa 3 metri di diametro.
Il contro pista fu effettuato a velocità insolitamente sostenuta, non ne capii il motivo, se non nel secondo volo, quando ebbi i comandi anche durante il rullaggio.
Siamo pronti, allineati per pista 14, lunga 2.500 metri, in cemento. Tengo la cloche con leggerezza, il velivolo è frenato. Il freno è alquanto insolito per noi, è infatti una leva del tipo di quelle per le biciclette o delle moto, posizionata sulla cloche. Ma io questo già lo avevo studiato.
Il motore sale di giri, e, come già sottolineato, impiega da 10” ai 12”, per raggiungere la massima spinta, che si ha quando sull’indicatore dei giri, la lancetta degli N1, cioè i giri dell’albero di alta pressione, raggiunge l’indicazione del 106% .
Il mio pilota rilascia i freni, ed il velivolo inizia la corsa di decollo con una accelerazione di poco superiore a quella di un velivolo di linea.
So che la rotazione deve avvenire intorno ai 170-180 km/h (l’anemometro era tarato in km/h), campo peraltro evidenziato sullo strumento da un sottile arco giallo,ed avviene dopo un corsa non troppo lunga, forse meno di 1000m, ma è una rotazione molto soft.
Subito dopo il distacco, il velivolo assume un assetto di una salita molto poco pronunciata, in attesa di raggiungere i 250 km/h, mentre il carrello viene retratto.
“You have the control”, ora l’aereo è mio, seguendo le istruzioni, inizio una virata a sinistra in salita, devo raggiungere i 6000 piedi.
Si sale che è una bellezza, a 350 km/h, saliamo a circa 2500-3000 piedi al minuto, mi stupisce infatti la velocità con cui si muove la lancetta dell’altimetro, ed in breve raggiungo i 6000 piedi.
Le prestazioni dell’L39 sono molto più elevate di quelle sperimentate sul Provost, primo jet su cui avevo volato in Inghilterra, qualche anno prima.
Raggiunta quindi la quota di 6000 piedi, mi fa effettuare delle virate a 30,45 e 60 gradi; le prime due mi vengono non c’è male, infatti guadagno “solo” 100 piedi, invece quella a 60° non mi piace, sarà i G che qui si sentono subito, sarà che non ho punti di riferimento familiari, sarà che forse sono una se…a, fatto sta che in una virata ho guadagnato 500 piedi: che somarooo!!
L’istruttore per farmi capire che ho io i comandi, mi fa ripetutamente vedere entrambe le mani.
Riprende i comandi, mi spiega come si fa un tonneau, e poi lo esegue, una volta fatto si accerta con l’interfono, se per me è tutto ok, confermo, e mi invita a provarlo.
Come da istruzioni, faccio assumere al velivolo un assetto cabrato di 20 gradi, poi, con una veloce e decisa progressione porto la cloche a sinistra, durante la fase di rimessa dalla posizione capovolta, spingo sulla cloche stessa per non perdere quota, come mi è stato insegnato di fare durante le lezioni di acrobazia sul CAP 10.
Fatto!
Sono soddisfatto di me stesso: è stato facile, e credo di averlo stupito, infatti a terra mi chiederà se ho già fatto acrobazia.
Riprende i comandi e via per un looping. Accidenti, i G si sentono e soprattutto durano a lungo. Tuttavia li sopporto bene e la temuta visione nera non c’è stata.
Ora provo io: picchio il velivolo perché la manovra va iniziata a 650 km/h, e poi su, su … su, tiro sulla cloche, volgo lo sguardo e la testa in alto, a cercare la terra, quando sto per raggiungere la sommità del looping ma il casco e l’appoggia testa del seggiolino mi limitano però il movimento.

Sulla sommità alleggerisco la pressione sulla cloche per un attimo, e poi ricomincio a tirare, rilasciando un po’, ancora per un attimo a ¾ del giro.
Ripeto la manovra altre 2 volte. Il mio pilota, si accerta sempre che tutta vada bene, ma è sempre tutto ok per me.
Prende i comandi e si posiziona in volo rovescio; non mi è mai piaciuta questa posizione, inoltre le mie cinghie non sono molto strette, ed i piedi sono per aria a 20 cm. dalla pedaliera. Ma non mi scompongo, ho infatti letto che, contrariamente al CAP 10, l’L39 non può volare in rovescio per più di 30”, per non incorrere in problemi di lubrificazione.
Presto, infatti, dopo pochi secondi, riprendiamo il normale assetto.

Stiamo per terminare il volo,e mi avverte che farà un basso passaggio.
Con una leggera, ma decisa picchiata, ci portiamo verso la pista 32; la velocità cresce, la pista si avvicina sempre più velocemente, ed è sempre più vicina, uuuhhhaooo … che bello!!!
La percorriamo per ¾ della lunghezza a circa 3-5 metri dal suolo, poi effettua un’apertura a destra cabrando, in cui incasso un po’ di G, seguita subito da un veloce tonneau a sinistra.
Sicuramente un sottovento poco ortodosso, ma mi è piaciuto.
Nella manovra abbiamo guadagnato sufficiente quota per eseguire una virata base.
Estrae gli aerofreni quindi il carrello,ora siamo in finale, da dietro si vede bene, ma sicuramente non come dal sedile anteriore. Studio come fa l’atterraggio, dopo una corsa che mi è sembrata breve, rulliamo verso il parcheggio, e per oggi abbiamo finito.

La sera, io e Silvio stabiliamo cosa chiedere il giorno seguente; per il secondo volo, entrambi siamo d’accordo di non ripetere più alcuna acrobazia, ma vogliamo imparare ad usare la manetta e a fare circuiti e atterraggi e, se possibile, ci piacerebbe eseguire uno stallo.
Siamo comunque soddisfatti, ma soprattutto l’L39 si è dimostrato veramente un bellissimo velivolo, e anche facile nell’euforia e, con un pizzico di presunzione, siamo convinti che con 3 o 4 missioni e adeguati briefing e de-briefing, saremmo in grado di portare a termine, positivamente, il passaggio macchina.

La mattina dopo, alle 9 siamo nuovamente in viaggio per Tukums.
Questa volta il nostro pilota sarà Alexander e il briefing è più lungo e dettagliato, giacché siamo noi a parlare, e a stabilire cosa vogliamo fare; chiariamo subito, ancora una volta, che non vogliamo fare acrobazie, ma solo circuiti, ci vengono quindi elencate le velocità e le quote caratteristiche di un circuito, dati che scrivo sul mio cosciale, e che oggi porterò con me in volo.
I piloti lettoni parlano tra loro, e la mia amica russa, mi riferisce che stanno dicendo che, per fare quello che chiediamo, occorrono più di 20 minuti, ma in realtà noi avevamo concordato prezzo e attività per 30 minuti ogni volo.

La richiesta di eseguire uno stallo, non fu accolta dal nostro istruttore .
Oggi sarò io il primo.

Nel rullaggio vedo che il pilota usa frequentemente la pedaliera, sempre con movimenti ampi; ne conosco il motivo, perché letto sui rapporti di volo, scaricati da internet. Il ruotino anteriore del velivolo, libero di girare, non è collegato alla pedaliera e, come già detto, il freno, idraulico, è a comando manuale per cui per curvare, tenendo presente che il timone diventa efficace a 40 nodi (ricordare che qui non c’è l’elica), è necessario spingere fino a fondo corsa la pedaliera, verso il lato in cui si vuole andare, e modulare la sterzata, utilizzando il freno.
Effettuo io il contro pista, cercando di mantenerlo sulla “centre line”: mi risulta abbastanza facile, ed ora capisco anche perché, ieri, il pilota ha rullato in velocità. Così poteva avere l’aiuto del timone di direzione, che diventa efficiente, superati i 70 km/h.
Correggo la traiettoria, intervenendo leggermente sulla leva dei freni e sulla pedaliera; il mio istruttore effettua il 180 gradi ed io mi allineo, con qualche difficoltà, al centro della pista. Infatti è molto importante iniziare la corsa, con il ruotino perfettamente allineato, al fine di evitare di correggere, da subito, la traiettoria intervenendo sui freni.
Porto lentamente la manetta tutta avanti, controllando la lancetta che indica la spinta e allo stesso tempo, tengo la mano sul freno. Raggiunta la spinta al 106%, chiedo via radio se possiamo andare, anche se nel frattempo avevo sentito il pilota chiedere alla torre, in inglese, l’autorizzazione al decollo. Ottenuto l’ok dal mio pilota/istruttore rilascio completamente il freno e, con un sobbalzo in avanti, iniziamo la corsa di decollo.
Sono io a tenere il velivolo, perché non sento alcun input esercitato dal posto anteriore.
L’aereo fila via dritto, anche perché c’è quasi calma di vento. Come il precedente volo, la rotazione è molto piccola e bisogna mantenere il velivolo prossimo al volo livellato per fargli acquistare velocità, retraggo il carrello posizionando in alto la leva di comando, e questo sarà causa di apprensione, cosa peraltro da me scoperta, soltanto tornato a terra.
Raggiungo velocemente la quota circuito di 1500 piedi, ora la manetta è posizionata per una spinta pari all’85% e ripeto, come avevo richiesto durante il briefing, la virata con inclinazione di 60 gradi, aumentando un po’ la spinta fino al 90%. Questa volta la virata riesce un po’ meglio, non è stata perfetta, però migliore di quella di ieri.
Riprendiamo il circuito standard e mantengo una velocità di circa 330 km/h; al traverso della testata, come concordato, abbasso il carrello, che funge anche da aerofreno, tuttavia c’è parecchia foschia e perdo di vista la pista, seguo però le istruzioni del mio istruttore, ed eseguo la virata base, mentre lui si preoccupa di estendere i flaps alla I tacca; posiziono la manetta all’80% della spinta e, a metà base, inizio a scendere con un rateo compreso tra i 2 ed 3 metri al secondo. Infatti, contrariamente, ai variometri abitualmente montati sui velivoli occidentali, che indicano le centinaia di piedi al minuto, questo a bordo del L39 da’ le indicazioni in metri/secondo.
Durante la virata finale, rivedo la pista, comunicandolo all’istruttore, mi stupisce la facilità con cui riesco a mantenere un rateo di discesa costante di 3 metri/secondo.
La manetta rimane sempre posizionata per dare una spinta dell80%, e questo è voluto perché, con questo settaggio, portare il motore al massimo in caso di riattaccata, è molto più veloce.
La velocità in finale deve essere tra 260 e 300 km/h.
Sento qualche intervento correttivo del mio istruttore, soprattutto durante la flare finale, inoltre, pilotare da dietro per me, “pilota della domenica”, e cacciatore frustrato, non è il massimo.
Appena tocchiamo, eseguo il comando del mio pilota, di fare un altro decollo, e spingo la manetta gradualmente al massimo; do un’occhiata all’anemometro: potrei già iniziare la rotazione, ma la spinta non ha ancora raggiunto il valore richiesto e il velivolo è in decelerazione. Dopo qualche secondo però, anche la spinta raggiunge il massimo, lascio accelerare ancora un po’ il velivolo, e raggiunta la velocità di rotazione, ruoto ed abbandono la terra.
Retraggo il carrello, dopo aver prima frenato le ruote, come mia abitudine; ripeto il sottovento mantenendo questa volta sempre in vista la pista, al traverso della testata. Controllata la velocità, chiedo ad Alexander, sempre in inglese, l’autorizzazione ad estrarre il carrello, senza ottenere risposta, ripeto la domanda, ma anche questa volta senza alcun esito, penso: “forse vuole fare un altro circuito, o chissà”.
Ormai non possiamo più effettuare un atterraggio, il pilota mi dice qualcosa, ma non capisco, ripete per più volte, ma proprio non capisco cosa mi vuole dire. Intanto siamo di nuovo in sottovento; raggiunto il traverso della testata, chiedo anche ora il permesso di abbassare il carrello, e anche questa volta non ottengo risposta. Controllo la velocità, 300 km/h, abbasso il carrello, “se sbaglio” penso “ lui può correggermi” , ma in realtà continuiamo con la procedura di atterraggio.
Atterriamo, rulliamo verso il parcheggio; mi dispiace, perché ho finito i miei voli su questa stupenda macchina. Ne valeva proprio la pena.
Si apre il tettuccio il mio amico mi viene incontro, e da lontano mi dice: “Stavi per avere un’emergenza carrello”, non capisco, si avvicina, e mentre mi sciolgo dalle cinture e tolgo il casco mi spiega cosa è successo.
Nella manovra di retrazione del carrello, una volta portata la leva in alto, avrei dovuto riposizionarla al centro, come per esempio facevo volando sul Piper PA24, giacché sull’L39C, se la posizione della leva non è riposizionata al centro, dal posto anteriore non è possibile abbassare il carrello. Ora capisco cosa mi diceva quando io non riuscivo a capire.
“Ca….o” penso, “perché non ci hanno detto una cosa così importante?”. I briefing sono state la parte carente di questa esperienza.
Tuttavia l’istruttore, prima di abbandonare il velivolo, mi stringe la mano, e mi fa i complimenti. Chiaramente, ritengo, solo di cortesia, ma non mi rimane nessun senso di colpa o vergogna: nessuno mi aveva avvertito, ed io ho seguito esattamente quello che c’era stato detto di fare in circuito.
Silvio decolla poco dopo, una foto con tutti i piloti suggella la fine della nostra esperienza di volo con i Baltic Bees.

Conclusione: il velivolo è eccellente, ha prestazioni che fino ad oggi ho sempre sognato in un aereo, ed è anche di facile pilotaggio, rimane il rammarico di non aver pilotato dal posto anteriore, e che questa esperienza probabilmente sarà irripetibile.
Lasciamo Tukums con la convinzione che i Baltic Bees sono orientati solo a voli acrobatici, hanno poca, o nulla esperienza nello gestire piloti che non vogliano solo provare “l’adrenalina”, ma sicuramente hanno imparato qualcosa anche loro, e spero che migliorino la qualità dei loro briefing.

Da adesso in poi, siamo solo dei comuni turisti in Lettonia.




§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§
# proprietà letteraria riservata #


Marco Longo

 

Tornado

aeroplano tunnoeE’ il racconto della sua esperienza (memorabile e per alcuni versi, traumatica) relativa alla selezione per entrare a lavorare in Aeritalia.

Anche questo racconto, come quello intitolato: “Un figlio come passeggero”, selezionato e pubblicato nell’antologia del premio letterario “Penna Alata”,  è stato tratto da un libro inedito in cui ha raccolto e ricordato le sue esperienze in campo aeronautico.

“Tornado” ha invece partecipato alla II edizione del  Premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014, senza però essere dichiarato finalista.


Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

Tornado

Alla fine del 1981, finalmente mi laureai in Ingegneria Meccanica, chiudendo un lungo e pesante periodo della mia vita.

Lo studio, prettamente teorico e matematico, non si addiceva al mio carattere e fui ben contento di lasciarmi dietro le spalle il periodo universitario.

A quel tempo già lavoravo in una società della mia città ma volevo perseguire il mio obiettivo che era quello di poter lavorare in un’industria aeronautica, feci quindi tutta una serie di domande d’assunzione, indirizzate esclusivamente ad aziende del settore.

La prima a convocarmi fu la SIAI-Marchetti che, a quel tempo, cercava ingegneri da inviare in Libia come istruttori di terra, degli allievi piloti libici, che si addestravano sui SIAI 260. Quella fu la prima volta che ebbi modo di varcare l’ingresso della storica ditta, lo avrei fatto altre due volte, una da ingegnere dell’Aeritalia, l’ultima per un nuovo colloquio di assunzione.

Tutto era datato, dai capannoni ai pavimenti, ai quadri sulle pareti. Si respirava un antico sapore di cose aeronautiche ormai andate ma che avevano a lungo soggiornato in quegli spazi.

La seconda ditta a chiamarmi fu l’Aeritalia, oggi Alenia Aeronautica, e prima ancora, Fiat Aviazione, da cui erano usciti aerei famosi, quasi tutti firmati dall’ing. Gabrielli, come il G55, il G91 e il G222, solo per citarne alcuni; fu anche il mio primo contatto con Torino.

Al colloquio mi arrabbiai subito giacché non ero stato avvisato che la selezione sarebbe durata 3 giorni e non mi ero organizzato, né economicamente, né logisticamente per un soggiorno di tale durata, non avevo infatti portato con me alcun indumento di ricambio. Visto il mio sconcerto, l’organizzatore della selezione mi disse che avrebbe fatto in modo che il mio iter selettivo durasse solo 2 giorni, ravvicinando gli incontri previsti.

La sera trovai una stanza in un albergo nei pressi della stazione di Porta Nuova e ricordo che rimasi stupito dal gran via vai di gente, anche abbastanza chiassosa, durante la notte; in seguito mi fu detto che quell’albergo era molto frequentato dalle prostitute e relativi clienti; mi colpì, fra l’altro, che la padrona, dopo avermi accompagnato a vedere la stanza, mi salutò accompagnando il saluto da un colpetto alla mia spalla, saluto che mi apparve alquanto insolito e cordiale.

A sostenere la selezione eravamo in sette; ci avevano riunito in una sala con un bel tavolo ovale in legno molto grande che riempiva quasi tutta la sala; alle pareti foto storiche di velivoli dell’epoca gloriosa della Fiat aviazione. Eravamo tutti giovani ingegneri neo laureati, io ero quello che veniva da più lontano, gli altri avevano con loro copia della tesi di laurea, io non l’avevo. Ci chiamarono uno per volta, quando fu il mio turno, entrai come avevano già fatto coloro che mi avevano preceduto, in una stanza abbastanza piccola, in cui sedevano, attorno ad un tavolo, tre ingegneri della Ditta che formavano la commissione esaminatrice dal punto di vista tecnico-professionale. Mi domandarono se avessi portato la tesi, risposi che nessuno mi aveva avvisato di farlo, rimasero alquanto stupiti ma non ritennero la cosa così importante e mi chiesero l’argomento della mia tesi, argomento di carattere prettamente aeronautico, giacché avevo discusso una tesi di laurea su un progetto di un turbofan a calettamento variabile. Mi interrogarono su questo argomento, e rimasi piacevolmente stupito nel constatare la loro competenza, e devo confessare che questo colloquio-interrogazione fu decisamente più difficile, ma anche di maggior soddisfazione, della discussione della tesi di laurea stessa.

Alla fine del colloquio furono soddisfatti e nel pomeriggio fui avvisato che avrei incontrato quello che poi sarebbe diventato il mio capo. Lo incontrai nella stessa saletta della mattina, eravamo solo noi due . Il colloquio fu abbastanza generico e cordiale, teso ad evidenziare per quale settore ero effettivamente più portato, anche se, già dalla mattina, era evidente la mia propensione per un incarico in produzione.

Il mio interlocutore era il Responsabile degli stabilimenti di Caselle, e mi illustrò le varie attività svolte in quelle sedi, quella che più mi attrasse, e per la quale espressi la mia preferenza, era avere un posto al campo volo, ma mi disse che era impossibile per un giovane ingegnere, inesperto, entrare in quella sede giudicata difficile, perché lì, mi disse con testuali parole: “Sono tutti baffoni”, espressione colorita, che poi seppi significare, che chi lavorava al campo volo era tutta gente molto esperta.

Durante il colloquio questo anziano ingegnere, mi chiese in vari momenti, se una volta assunto, anche i miei sarebbero saliti a Torino. La cosa mi seccò enormemente, giacché capii di essere anche considerato il “terun” che cerca lavoro al Nord, quando invece io già lavoravo da prima di laurearmi, guadagnando significativamente più di quanto loro mi stessero offrendo e dentro di me decisi che lo avrei mandato a quel paese se me lo avesse chiesto un’altra volta, rinunciando così al posto di lavoro.

Fortunatamente non avvenne. Il colloquio continuò poi nella sua auto, poiché mi portò negli stabilimenti di Caselle Nord, che sarebbero stati la mia sede finale di lavoro. I capannoni erano vuoti perché eravamo oltre l’orario di lavoro, mi porto al “flusso”, l’hangar familiarmente così chiamato perché vi si svolgevano i tests di flusso dei serbatoi del Tornado. Quando aprì la porta dell’hangar tutti i miei sogni sembrarono avverarsi, tutti gli anni di studio faticoso trovavano infine una giusta ricompensa: di fronte a me troneggiava, in tutta la sua maestosità e potenza, un Tornado, penso che mi comparve un sorriso di ammirazione e soddisfazione che andava da un orecchio all’altro.

Dopo un po’ ci salutammo, anche perché era imminente il mio volo di ritorno a casa, dicendomi che avrebbe dato parere positivo per la mia assunzione. Assunzione che avvenne il 3 Marzo 1982.

Alla gioia per il successo avuto, si sommava il dispiacere per allontanarmi dalla mia città, dai miei genitori e, in poche parole, da tutto quanto fino ad allora era una sicurezza e una certezza. Ed era la prima volta che mi succedeva di staccarmi da queste cose, infatti quando partii per Torino, non sapevo dove avrei dormito la sera. I miei anni torinesi furono anni difficili ma di crescita, sia dal punto di vista umano che professionale. Me ne andai dopo circa tre anni perché, purtroppo, è difficile conciliare lavoro e passione ma, soprattutto, lo stipendio era realmente insoddisfacente.

Quattro anni dopo essermene andato, ebbi modo d’incontrare, durante il Salone Aeronautico de Le Bourget, a Parigi, il sig. Morbelli, capo-reparto del campo volo, il massimo dei famosi “baffoni”, e persona da me ammirata e stimata. Egli mi confidò: “Sapessi con quale insistenza abbiamo chiesto che tu fossi trasferito al Campo Volo … ma non ce lo hanno mai approvato”. Non si rese conto di avermi fatto un grande complimento, anche se masticai amaro.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Marco Longo