Archivi categoria: Racconti tra le Nuvole – IIª Edizione

Tutte le voci e le recensioni del secondo concorso Racconti tra le Nuvole

La prima missione di volo

Quel pomeriggio del luglio 1964 mi sembrava di vedere l’aeroporto di Boccadifalco per la prima volta. Come cambiano le cose quando si osservano da protagonisti anziché spettatori! Mi sentivo impacciato ma, al tempo stesso, non mi sfuggiva alcun particolare. L’hangar m’appariva immenso, gli aeroplani belve in agguato, e Gianni, l’istruttore, nella sua tuta sporca d’olio (o era sangue?), un feroce domatore! E il grande Icaro ad ali spiegate un’aquila pronta a ghermire i pinguini come me! Avevo l’impressione che tutti in Aero Club mi squadrassero e soppesassero. Ed ecco il mio aeroplano! Il Piper Cub J3 con motore da 65 cavalli: quanti, per la miseria! Gasparino, il meccanico, mi spiega sommariamente com’è fatto: “Quattro cilindri contrapposti, due candele per cilindro, due magneti, i posti sono in tandem, l’istruttore siede avanti e l’allievo dietro, se uno va in volo da solo deve sedersi in quello dietro, ma certo, per non spostare il baricentro, i comandi sono doppi, la barra fa muovere alettoni e timone di profondità, la pedaliera, laggiù, ruotino e timone di direzione, quella è la manovella del trim, la mano destra tiene sempre la barra e la sinistra la manetta del gas, sì questa, l’acceleratore a mano”. E, poi, l’interruttore dei magneti, la pompa del cicchetto, la manovella del trim (“ah, già, te l’ho fatta vedere!”), gli strumenti dai nomi conosciuti (bussola, contagiri) e strani (anemometro, variometro) e chissà quante altre diavolerie! Ascolto ma non ricevo. Sono confuso e spaventato. L’unica cosa che capisco è che fra poco andrò in volo e dovrò manovrare ed osservare tutta quella roba! Al diavolo, altri ci sono riusciti prima di me, gli aeroplani non sono che macchine e Icaro è solo una statua di gesso! Tu, Piper, sei cattivo? T’assicuro che saprò domarti e difendermi, con le unghie e con i denti, vedrai! In hangar c’è una stanza dove l’istruttore con due dita batte qualcosa a macchina (una vecchissima macchina da scrivere nera). Sul muro sovrastante la porta, un cartello specifica: SALA BRIEFING Finalmente qualcuno (un allievo, presumo) mi spiega che il briefing lo fa l’istruttore prima della missione; che in sala briefing si carteggia, si consulta l’AIP e si pianificano i voli. Bah, forse è meglio non fare domande! Ricordai quella volta in cui dovetti sorbirmi le lunghe dissertazioni di un marinaio che usava, con naturalezza, termini come babordo, bottazzo, boma, pozzetto, scuffia … io sono ignorante, me le dovete spiegare le cose! In effetti Gianni, l’istruttore, aveva la buona abitudine di scrivere le MIX – missioni – (da 1 a 10) che spiegavano sommariamente le missioni di volo, tratte probabilmente da un vecchio basico militare. La spiegazione che mi consegna è la MIX 1 – GEOGRAFIA DELL’AEROPORTO, scritta su un foglio di carta velina: ne stampava a macchina diverse copie, con la carta carbone, non avendo a disposizione una fotocopiatrice; quando si esaurivano, pazientemente le riscriveva. Nell’ultima guerra aveva pilotato, volando a pelo d’acqua per sfuggire ai radar inglesi, grossi velivoli da trasporto, fra la Sicilia e l’Africa; qui poi s’era fermato per fare lavoro agricolo con l’aeroplano. Volo radente, tanto per cambiare, per spargere insetticidi, diserbanti e concimi! Infine, col brevetto di istruttore e collaudatore era sbarcato a Palermo. Capace di atterrare indenne su qualunque terreno, l’aveva fatto con naturalezza ogni qualvolta il motore s’era perso un colpo. Era sceso anche a Floresta, il comune più alto della Sicilia, e ne era ripartito … Non ho più notizie di lui, da tanti anni è rientrato nella sua Trieste … chissà..! Discute con me e mi spiega, voce per voce, tutto quello che faremo in quel primo volo di circa venti minuti (eureka, è il briefing!). Ci accostiamo all’aeroplano, nel frattempo spinto fuori dall’hangar e rifornito di benzina da Totuccio, un meccanico della mia età, che è il vero artefice di tutto, mentre Gasparino, più anziano, è praticamente il capo, quello che dà gli ordini. Non c’era una CHECKLIST, la lista dei controlli da effettuarsi all’aeroplano prima del volo. In verità, mi accorgerò più tardi che di scritto non c’era nulla, a parte le MIX di Gianni ed un vecchio sgualcito AIP (Pubblicazione Informazioni Aeronautiche) che contiene, adesso lo so, le regole dell’aria, le mappe degli aeroporti, e via discorrendo. I libri di testo arriveranno più tardi. Mi sento quasi un pioniere! Facciamo un giro attorno all’aeroplano, per controllare che non ci siano rotture nell’elica di legno, che non si siano perse le coppiglie dei bulloni, che le gomme delle ruote (pardon, carrello) siano gonfie, che i tiranti di coda risuonino come le corde di un contrabbasso! Finalmente a bordo. Mi calo con difficoltà nel posto di dietro. Ci sto maledettamente scomodo. Spalliera e cuscino di crine sono duri. Non posso allungare le gambe, che mi ritrovo piegate quasi a novanta gradi. Piedi sulla pedaliera, con l’aggravante che i freni, indipendenti sulle due ruote del carrello, si devono azionare pigiando coi tacchi delle scarpe (provate, e vi accorgerete che da subito cominceranno a farvi male i polpacci!). Cicchetto, tutto escluso, e Totuccio dà qualche giro all’elica, nei due sensi. Pronto? Contatto! Gianni alza la mano sinistra per azionare l’interruttore dei magneti. Manetta al minimo. Totuccio spinge in giù, con forza, una pala dell’elica, ed il motore parte rombando. L’elica scompare e si forma come d’incanto una circonferenza di luce, un riflesso lieve dove prima stavano le estremità delle pale. Ma sono frastornato dal rumore e vibro all’unisono con tutto quanto; dal mio posto, poi, non vedo il terreno avanti al muso dell’aeroplano che sta seduto sul ruotino di coda; anche le spalle dell’istruttore mi coprono la visuale. Gianni, tuttavia, le sposta il più possibile di lato e, girando la testa verso di me, m’invita a rullare. Mi aveva già spiegato che per vedere bisogna zigzagare, andare a destra e guardare a sinistra, andare a sinistra e guardare a destra, pigiando sulla pedaliera collegata al ruotino posteriore oltre che al timone di direzione, ovviamente inefficace a bassa velocità. Unica accortezza, anticipare il movimento dei piedi per evitare che il lungo muso continui a ruotare per inerzia superando la direzione voluta. “Facile”, gli avevo detto, e Gianni sornione aveva scommesso mille lire che non ne sarei stato capace. Figuriamoci! Non si trattava di pilotare un aeroplano ma di fare muovere sul terreno una specie di triciclo con ruota sterzante posteriore! E proprio qui stava l’inghippo, in quel ruotino piccolo e saltellante, agganciato con due molle al timone di direzione. Un po’ di manetta, aumentano i giri dell’elica e i battiti del mio cuore; ci muoviamo e … cribbio (chissà se dissi cribbio!?), la coda ballonzola … spingo il piede destro e, invece che a destra, l’apparecchio va a sinistra sull’erba, contro ogni legittima aspettativa. Più m’innervosisco e più s’incasinano le cose. Mi sento perso (voglio scendereeeeeee..!), ma Gianni interviene sui comandi sostenendo che “non è tempo di andare per funghi!”. Si muove con grazia, adesso, a passo d’uomo come prescritto, va a destra (“guarda a sinistra”), va a sinistra (“guarda a destra”), e finalmente si ferma in posizione attesa. Qui, prima di entrare in pista, facciamo il controllo dei magneti: ruotiamo il selettore sul sinistro (e c’è un leggero calo di giri, perché in ciascuna camera di scoppio funziona solo una delle due candele), poi sul destro (come prima) e infine, riportato su entrambi, i giri si ristabiliscono al valore iniziale. Dimenticavo: niente radio, a quel tempo non era obbligatoria e naturalmente l’Aero Club, per risparmiare, non ne aveva. Venivamo autorizzati coi segnali luminosi di un faretto orientabile; occhio alla Torre, dunque: VERDE, possiamo andare. Allineati in pista, manetta dolcemente avanti (fa tutto naturalmente l’istruttore, io seguo, o meglio, tento di seguire la manovra), il motore mi spacca le orecchie, l’aeroplano si muove, adesso corre, barra avanti, il muso si abbassa (oh, cribbio, invece di alzarsi …), ma un momento dopo, meraviglia delle meraviglie, siamo per aria. Il terreno si allontana, i monti vicini si colorano d’azzurro, poi vedo i tetti delle case, la città (ma è Palermo? Giuro, non la riconosco!), puntiamo verso il cielo … siamo sempre più in alto, in cima al mondo. Gianni indica l’altimetro: mille piedi! Ho qualche difficoltà a convertire la misura in metri, “dividendo più o meno per tre” come da approssimative spiegazioni di Gasparino (dividendo, più, meno, per … con un solo confuso ragionamento applico le quattro operazioni insieme), per realizzare infine che siamo appena a trecento metri di quota! Mica tanti! Dove sono i diecimila del Mustang e dello Spitfire?! Provo un miscuglio di euforia e paura. Ma piano piano il rombo regolare del motore mi rassicura, non mi disturba più, ora mi fa compagnia. Sto all’erta, è vero, ma comincio a rilassarmi. Ho la sensazione di stare fermo, mentre il panorama scorre lentamente intorno a me … PATAPUMFETE … PUMFETE … RIPATAPUMFETE! Mi gira tutto, mi sento sbattuto e pesante! Che succede? Gianni, quel figlio di buona donna, ha combinato qualcosa per saggiare le mie reazioni. Fingo indifferenza e gli urlo che mi è piaciuto, anzi … mi è piaciuto assai (lo ucciderei!). “A ore 12, sotto Monte Cuccio, l’aeroporto; a ore 3 Monte Pellegrino …” e parla, parla: che vuole costui? Poi affiorano i ricordi di vecchie letture (Attento! Caccia ad ore 9!) e capisco che si sta riferendo alle lancette dell’orologio per darmi la prima lezione di orientamento (in seguito passeremo alla bussola). Rientriamo. Discesa e avvicinamento, luce VERDE, possiamo atterrare, fa tutto lui, viriamo, scendiamo ancora, sfioriamo le terrazze delle case e … plomft, tocchiamo dolcemente, all’inizio della pista, da fermi o quasi. Mi lascia i comandi per rullare fino al parcheggio e, stavolta, va meglio. Via i magneti … e mi gusto (anche Gianni, credo) qualche momento di silenzio. Bello, bello, bello! VOGLIO FARE IL PILOTA.


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Michele Gagliani

La mia AeroNatica

Tutto cominciò con la visita di leva. Ero stato dichiarato “Idoneo 1^ Categoria” e inquadrato nei “Granatieri di Sardegna”, anche se avevo chiesto di entrare nell’Aviazione Leggera dell’Esercito o, se impossibile, in qualche reparto dell’Antiaerea: comunque, non fui arruolato perché studente universitario. In quell’occasione lessi l’avviso di un concorso per AUPC (Allievi Ufficiali Piloti di Complemento dell’Aeronautica Militare) e, allora, considerato il mio fisico atletico avendo fatto molto nuoto e scalato montagne in bicicletta, decisi di parteciparvi pur essendo convinto di non farcela poiché ritenevo i piloti militari dei Super Men! Ed io, con il mio metro e ottantatre di altezza, mi sentivo piccolo piccolo! Da ragazzino avevo fatto un volo in Aeroclub, seduto sullo strapuntino laterale di un minuscolo aereo di legno e tela, gigantesco per me, ed era nata la malattia, la sola della mia vita. A scuola raccontavo di voli fantastici, di lanci col paracadute e, insomma, raccontando balle ci credevo anch’io! Così, dopo essere stato sottoposto ad una complessa visita psicofisica presso l’IML di Napoli (l’Istituto Medico Legale dell’AM) nonché ad accurate indagini (io per fortuna non ero fascista né comunista), avvenne la mia incredibile ammissione al 34° Corso! Abitavo in Sicilia, in un paese della costa tirrenica. Mio padre mi aveva assecondato (convinto anche lui che non ce l’avrei fatta). Ma, pur se contrario a questa mia pericolosa avventura, che peraltro avrebbe interrotto gli studi universitari, vedendomi felice e raggiante mi consentì di partire, non prima di avermi fatto le raccomandazioni di rito! E dopo interminabili tragitti in treno, scesi finalmente a Lecce con la valigia piena di sogni! Giunsi (non ricordo come) all’aeroporto di Galatina, cercai con gli occhi gli aeroplani, li vidi in cielo volteggiare nella finta caccia e già mi sentivo uno di quei fortunati piloti, libero di muovermi nelle tre dimensioni! Intanto mi vestirono, mi diedero un mucchio di libri, una tuta, un casco, un letto a castello ed un armadio tutto mio! La prima notte entrarono in camerata gli allievi del 32° Corso (il 33° era riservato agli allievi piloti sottufficiali); quei simpaticoni, già piloti, erano prossimi alla partenza per altre Scuole o Reparti, dove avrebbero volato con aviogetti e plurimotori. Gli intrusi ci fecero il “culo nero” con spazzola e lucido da scarpa, in quanto eravamo Pinguini con le alucce corte che ancora non ci consentivano di volare! Io mi ero sottoposto sorridendo a quel rito, pensando che fosse propiziatorio come il cosiddetto papello ottenuto dagli Anziani al primo ingresso da matricola nell’atrio universitario. Poi, sull’attenti ma con una mano sul fondo schiena, avevo solennemente dichiarato: “E questa è la mia AeroNatica”, suscitando un coro di risate! Chi di noi si ribellò, venne immobilizzato e debitamente spazzolato più volte nelle notti successive. Il secondo giorno, mentre eravamo in sala mensa (seduti a tavoli per sei con menù) ci furono sottratti i berretti nuovi appesi in anticamera, gentilmente sostituiti dai soliti noti con altri unti e bisunti. Li ripulimmo con acqua e sapone, facendoli tornare quasi nuovi. Quando piovigginava, ci portavano a mensa in pullman. Mi sentivo in paradiso! Iniziammo con le esercitazioni in aula. Ricordo un bellissimo filmato delle nubi, realizzato da un aeroplano che ci volava accanto e sopra! Fuori si marciava. Col sergente istruttore avanti, qualche spiritoso dietro si metteva a fischiettare una marcetta (quella del film “Il Ponte sul Fiume Kwai”: fifu… fufifu… fiffi… fu…) e altri attaccavano con lui! Il sergente rallentava e, quando era dietro, si metteva a fischiare la prima fila! Non era indisciplina ma esuberanza giovanile e felicità di essere in quel posto. “Hai cominciato tu?” Nossignore, rispondevo sull’attenti. “Dimmi chi è stato”. Non lo so, Signore. “Un giro campo di corsa”! Ma … tentavo di replicare … “Due giri campo”! Perciò ubbidivo (prima che diventassero quattro) e me li facevo, anche se non ero colpevole (?), canticchiando allegramente. I guai cominciarono quando ci misero in circolo attorno ad un graduato che, marciando, dovevamo salutare giunti a tre passi da lui: le nostre teste scattavano di lato e alcuni di noi salutavamo all’americana alzando poco il braccio e ponendo la mano aperta, con inclinazione di 45°, alla visiera del berretto. Niente da fare, si doveva sollevare il gomito all’altezza della spalla ed eseguire il saluto con la mano orizzontale, allineata all’avambraccio e con le dita chiuse! Mi esercitavo davanti allo specchio e mi riusciva, tornavo in “circuito” e sbagliavo di nuovo! Un’altra difficoltà era riconoscere i gradi. Alla stazione ferroviaria di Taranto, tempo dopo, ignorai un ammiraglio e salutai solennemente un vigile urbano, che si sentì sfottuto! Finalmente quella manfrinata finì e, in libera uscita, passavo alla larga da ogni persona in divisa diversa dalla mia. C’erano anche gli allievi ufficiali dell’esercito, ma ci snobbavamo a vicenda. E però insieme frequentavamo un bar che faceva affari d’oro perché al bancone c’era Lilly, una bella ragazza, davvero in gamba, che dava corda a tutti … ma non la mollava mai! Col pullman ci portarono in un campo per sparare ai bersagli con la mitragliatrice che aveva un treppiedi bassissimo: stando seduto a gambe aperte non mi riusciva di azzeccare un colpo; così decisi, là per là, di mettermi sdraiato a pancia in giù per mirare sulla canna e, alla prima raffica, per poco non persi l’occhio destro … essendomi scordato del rinculo! Mi aveva certamente salvato la mia AeroNatica! Finalmente cessò la quarantena e ci preparammo, con ansie, paure represse, felicità e pruriti sulla pelle (composite insalate di sentimenti), a volare con quei magnifici Texan T6. All’alba i meccanici li mettevano in moto: li sentivamo dalla camerata lontana ed era musica dolcissima! Il cuore mi diceva che ce l’avrei fatta. Ma prima, a gruppi di cinque, dovemmo recarci in infermeria per essere vaccinati contro il tetano e altri malanni, credo. Ci andai di corsa (stupido!) e, appena arrivato, il medico appoggiò sul mio petto lo stetoscopio e sentì che il cuore pulsava forte, guardò le mie tonsille arrossate (all’epoca fumavo ancora, ma avevo deciso di smettere al primo volo) e sentenziò: “Tu non puoi volare, hai un’endocardite provocata da una tonsillite cronica”. Violenta pugnalata assolutamente inattesa! Mai avuto un raffreddore, un’influenza o una febbre in vita mia, a parte quella che certe mattine mi procuravo strofinando il bulbo del termometro per non andare a scuola. Così avvilito, prostrato, distrutto, affrontai (non sapendo che potevo fare ricorso ad una certa Commissione di Roma) varie assurde peripezie che qui eviterò di narrare. Per dirla in breve, tuttavia, ero sano ma non avevano bisogno di me perché (disse qualcuno) non ero raccomandato! Fra le raccomandazioni del babbo … questa non c’era! Il Comandante di Gruppo, consapevole forse di quella ingiusta condanna, guardandomi negli occhi colmi di lacrime, decise di regalarmi un volo col T6. Mi affidò ad un maresciallo istruttore (che non sapeva nulla di quella mia brutta vicenda) e, dopo il decollo, mi disse nell’interfono di prendere i comandi. Dimenticato il dolore che mi schiacciava il petto, con i piedi poggiati sulla pedaliera presi delicatamente con la mano destra la cloche e mi accorsi che era elastica: per cui non feci nulla, poiché l’aeroplano andava diritto per la sua strada! Giunti sul mare, il pilota istruttore fece lui un paio di virate strette ed io, ritrovata la rabbia nascosta in corpo, di rimando parlai nel microfono: “Tutta qua la sua acrobazia?” Piccato da quella mia insulsa dichiarazione, sparò subito un looping, poi un tonneau, ancora un looping, infine la vite: e mentre l’aeroplano girava vorticosamente in discesa, si disegnò sul parabrezza un bellissimo arcobaleno con più colori di quanto si possa immaginare. Dovemmo, con disappunto, rientrare. A terra, dopo avermi fatto mettere su un solo piede per vedere se vacillavo (ma io rimasi immobile sull’attenti), gli raccontai la triste verità. Rimase di stucco e, scusandosi (ma di che?!), si allontanò a testa bassa. Fui mandato via e tornai a casa in treno. Un viaggio allucinante. Come in trance intravidi un Monaco che mi tirava per il braccio mentre dallo sportello aperto stavo per buttarmi di sotto. Frutto della mia immaginazione? Chissà! Ero stato posto in licenza illimitata e, trascorso il periodo di ferma, m’arrivò a casa, per posta, il congedo militare! Il racconto è vero, non ho esagerato e posso dimostrarlo. Poco dopo, infatti, superai una nuova visita psicofisica allo stesso IML di Napoli e frequentai, negli anni, diverse scuole di pilotaggio conseguendo a mie spese, con sacrifici, tutti i brevetti civili fino al 3°/IFR (pilota commerciale) nonché molte abilitazioni compresa quella di pilota istruttore AG (Aviazione Generale). Ho insegnato fino al compimento dei 65 anni d’età, limite fissato dalla legge e in seguito abolito (sempre fortunato, io!). Alcuni miei ex allievi, figli di Ufficiali, da tempo sono piloti militari; mentre altri, figli di muratori e falegnami, sono piloti di linea o a loro volta istruttori. L’AG mi rimane nel cuore! L’Aeronautica Militare italiana (AMI) … proprio no! Aggiungo che fin dalla nascita del Volo da Diporto o Sportivo (VDS), faccio l’istruttore con soddisfazione in questa specialità, addestrando ancora, a ben 76 anni d’età, tanti giovani appassionati e squattrinati. E così, senza la divisa azzurra che adoravo e che l’AMI non ha voluto lasciarmi, volo ugualmente da quasi 50 anni avendo trovato nel sovrastante cielo nuvoloso squarci di più limpido azzurro … col solo aiuto della mia AeroNatica!


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Michele Gagliani

Avevo paura di volare


“Mi perdoni se la disturbo, ma ho il posto accanto al finestrino”.

Mi guarda terrorizzata, e per un attimo ho l’istinto di frugare nel mio bagaglio a mano alla ricerca del mio specchietto, per accertarmi che il krapfen al cioccolato che mi sono concessa prima di salire su questo aeromobile non abbia lasciato un bel baffo sotto al mio naso. Ma è solo un attimo: in realtà so cosa significano quelle labbra spalancate, quella postura rigida, quel colorito da panno appena uscito dalla candeggina.

Sorrido, indulgente e un poco imbarazzata, e mi rassegno a farmi sottile quanto mi è possibile, per riuscire a strisciarle davanti alle gambe e raggiungere il mio posto.

Cerco di non guardarla mentre mi siedo e mi accomodo la cintura di sicurezza. Do piuttosto un’occhiata fuori dal finestrino per scrutare i deboli spiragli che si stanno aprendo fra le nuvole di questa giornata grigia, nella quale l’unico motivo di allegria è il mio partire per la mia prossima destinazione.

Dopo pochi secondi, però, mi accorgo di non potermi dimenticare della sua presenza. Percepisco, anche senza vederli, i suoi occhi vitrei, le sue mani trasfigurate in artigli che stringono disperatamente i braccioli, il suo petto che si alza e si abbassa affannosamente. Mi chiedo se sia talmente persa nel proprio terrore da non curarsi nemmeno più di quello che le succede intorno, oppure se, nel suo non spiccicare parola, non ci sia, oltre alla paura, anche una certa sottile vergogna per il proprio atteggiamento che questa viaggiatrice esperta, che si è seduta proprio accanto a lei, potrebbe considerare stupido, infantile. D’altronde, lei non sa che il suo pensiero è completamente fuori luogo.

La guardo, cercando di non farmene accorgere. Ha gli occhi fissi nel vuoto, sembra che le manchi l’aria. Forse è il suo primo volo. Non ha ancora capito a cosa serve volare. Mi viene in mente quella vecchia canzone di Roberto Carlos: “A che serve volare, sempre volare?” Provo l’impulso di canticchiarla, ma mi sembrerebbe quasi di prendere in giro la mia anonima compagna di viaggio.

Mi decido a sorriderle, ricevendo in cambio un tirato sfoggio di denti. Sicuramente non le servirebbe a niente se in questo momento le tirassi fuori una sfilza di dati statistici su come l’aereo sia il mezzo di trasporto in assoluto più sicuro, su come gli incidenti d’auto superino di gran lunga quelli aerei e, malgrado questo, tutti usufruiscano delle automobili in continuazione, e su come, qualche anno fa, una ricerca condotta in Inghilterra abbia evidenziato che è più probabile morire per il calcio di un asino che in un incidente aereo. Ottimi argomenti, non c’è che dire, ma non credo che la interessino, ora come ora.

“E’ la prima volta che va a Malta?” chiedo invece, e mi devo sforzare per capire che ha annuito. “E’ un posto splendido, sa? Non assomiglia a nessun altro posto al mondo. Ha un carattere tutto proprio, che bisogna sperimentare per capire. Non è solo sole e mare. E’ una nazione vivace, varia, orgogliosa. Non vedo l’ora di decollare: vedrà, costeggeremo l’Italia, voleremo sopra all’Isola d’Elba, vedremo Napoli, la Sicilia. E’ un volo a bassa quota, le sembrerà quasi di camminare …”

Mi blocco, rendendomi conto che ho toccato un tasto delicato, parlandole del volo che stiamo per affrontare. Mi nascondo dietro a un altro sorriso imbarazzato, e taccio, stringendo fra le mani il mio libro e facendo vagare nuovamente lo sguardo fuori dal finestrino.

“Come fa?”

Sobbalzo. Non mi aspettavo che questo filo di voce uscisse dalle sue labbra. Avevo già gettato la spugna, rassegnandomi al silenzio per il resto del volo. Sono spiazzata, adesso tocca a me guardarla a bocca aperta.

“Prego?” mormoro, non convinta di avere sentito bene.

“Come fa a essere così calma. Sembra quasi che volare le piaccia.”

Esito. Cosa risponderle?

Che sì, è vero, volare mi fa sentire libera, potente, che mi fa pensare di poter raggiungere in un attimo qualsiasi angolo del mondo? Che adesso amo l’atmosfera degli aeroporti, la gente che si affretta non smettendo di camminare neppure sui tapis roulants, i mille bar che servono tutti più o meno le stesse cose, le boccette di profumo in bella mostra nelle vetrinette, le decine di giornali e libri che occhieggiano dagli espositori, i dolci dentro alle loro confezioni esclusive, che minacciano la mia salute fisica oltre che il mio portafoglio? Che la vista dal finestrino, quella cartina geografica reale, mi fa venire voglia di tuffarmi, e che quando il tempo è nuvoloso può essere ancora meglio, perché posso immaginare di nuotare in una distesa di panna montata?

Decido di tirare fuori subito il motivo principale, come un giocatore che cala l’asso guardando con occhi bramosi la posta in gioco. Solo che, nel mio caso, questa posta non riguarda me, ma la persona che ho accanto. Inspiro leggermente, sorrido.

“La meta.”

“La meta?” Non sembra capire.

“Non farebbe qualsiasi cosa pur di poter ammirare un’alba a Baku? Non le sembra che il paesaggio lunare dell’Islanda valga quattro ore da passare sospesi in aria? Non crede che lo splendore di San Pietroburgo possa mettere in secondo piano qualsiasi pericolo, reale o immaginario che sia?”

“E lei ha visitato tutti questi posti?”

“Anche altri. Purtroppo non ho un portafogli inesauribile, altrimenti avrei potuto fare molto di più”.

“Dov’è Baku?”

“Azerbaijan.”

“Azerba …” Sfoglio la rivista della compagnia aerea, trovo una cartina, punto il dito su Baku. Gli occhi della mia vicina si spalancano ancora di più.

“Come le è venuto in mente un posto simile?”

“Le occasioni della vita. Una manifestazione musicale.”

“E …”

“L’ho amata fortemente”, la prevengo. Eppure, il viaggio non è partito bene. Abbiamo dovuto fare scalo in Lettonia, a Riga, perché non c’erano altri voli disponibili. E lì, dopo cinque ore di ritardo, una gentile e troppo zelante hostess di terra non voleva imbarcarci per un problema di documenti. Non era stata bene informata.”

“E questo non l’ha gettata nel panico?”

“Sì,” rido, “all’idea di non poter partire! Dopo mesi di preparazione, quella città alla quale non avrei mai lontanamente pensato era diventata la mia più grande aspirazione. Quando mi sono seduta al mio posto in aereo, non potevo crederci! Non sono riuscita neanche a dormire, al contrario dei miei compagni di viaggio che si sono allungati sui sedili vuoti a smaltire le emozioni della giornata. Poi ha cominciato ad albeggiare, e ci siamo preparati all’atterraggio. Ho guardato fuori dal finestrino, e ho visto sotto di me una distesa di pozzi di petrolio, talmente sottili, da quella prospettiva, che sembravano costruiti con una manciata di stuzzicadenti. Sono rimasta a osservare incantata quello spettacolo così insolito, mentre la terra si avvicinava. Stavo atterrando nel Paese del Fuoco, una terra sconosciuta e quasi magica …”

Mi accorgo che la mia compagna di viaggio mi sta ascoltando rapita. Forse immagina quel paesaggio incredibile. Forse riesco a farla sognare.

Un colpo secco, il rumore di un motore che si avvia, e l’incanto è rotto. La voce della hostess dall’altoparlante ci raccomanda di allacciare le cinture di sicurezza, e l’aereo inizia a muoversi.

La mia vicina è nuovamente paralizzata dal terrore, si mimetizza dentro la poltrona cercando quasi di farsi inglobare dall’imbottitura. Vedo gocce di sudore sul suo viso. Meglio tacere, adesso. Mi rendo conto che in questo momento non ha voglia di ascoltare niente, che i miei racconti sulla bellezza dei luoghi che ho raggiunto in aereo e sui vari episodi della mia carriera di passeggero le darebbero solo fastidio. Mi mordo le labbra e chiudo gli occhi.

“Mio marito mi ha lasciata.”

Riapro gli occhi di scatto. Cosa c’entra questo, adesso? Mi giro verso di lei, vedo le lacrime che le bagnano il viso, mentre sul mio c’è una muta domanda. “Avevo giurato di non salire mai, mai su di un aereo in vita mia. Troppo pericoloso, non ne valeva la pena per una vacanza, pensavo. Quando ho conosciuto lui, avrei dovuto intuire come sarebbe andata a finire … bello, giovane, brillante, con un lavoro che lo portava in tutto il mondo. Il volo, per lui, era pane quotidiano: non poteva comprendere come io lo rifiutassi totalmente. Io, invece, sognavo tranquille vacanze a Rimini, fra piadine e pedalò. O al limite in Sardegna, lì si arriva con un traghetto, basta prenotare in tempo. Per il nostro viaggio di nozze, l’ho costretto a scegliere una crociera nel Mediterraneo. Lui ha provato timidamente a proporne una nei fiordi, ma al solo pensiero di prendere l’aereo fino a Oslo mi prendevano le crisi di nervi.”

Come se in mare non succedessero incidenti, penso, ricordando un tragico e recente episodio di cronaca.

“Per tre anni l’ho costretto a guidare fino in Puglia o a Parigi, se lui mi avesse chiesto di passare le vacanze in Cina avrei risposto che andava bene solo a condizione di andarci in auto. Madeira è rimasta solo un sogno, così come Tenerife. Dopo tre anni, un giorno ha fatto le valigie. Non ha voluto dirmi niente, ma so bene cosa è successo. Quella sua collega che lo accompagnava sempre nei viaggi di lavoro, chi altri? Adesso girano il mondo insieme.”

Dentro di me scuoto la testa. Per quanto una situazione del genere sia frustrante, non è un motivo valido per lasciare una persona che si ama. E’ ovvio che sono altre le ragioni che hanno portato suo marito ad andarsene, ma questa donna ha scaricato sulla propria paura di volare tutta la colpa del suo matrimonio così bruscamente interrotto. “Ecco perché sono qui, perché mi sono fatta forza … Ho scelto Malta perché si tratta di un volo corto, non dovrò soffrire più di tanto, e pian piano riuscirò ad abituarmi. Sa,” sorride, “gli ho mandato un selfie prima di salire sull’aereo, appena riuscirò a calmarmi gliene manderò un altro, poi un altro ancora dall’aeroporto dopo l’atterraggio, così vedrà cosa sono riuscita a fare per lui. Allora capirà quanto il mio amore sia forte, allora dovrà tornare con me …”

Quanta illusione nelle sue parole, quanti sogni campati per aria, destinati a scoppiare come bolle di sapone. Come se non lo sapessi anch’io.

“Lei non deve farlo per lui.” Lascio cadere la frase come un sasso in mezzo a noi due, lei tace, stringendo le labbra come chi si prepara ad ascoltare l’ennesima ramanzina uguale alle tante che ha già sentito.

“Suo marito, in questo momento, pur non essendone consapevole, le sta usando violenza.”

Spalanca la bocca, sta per replicare, ma la blocco.

“Sì, violenza! Lei, ora, sta facendo un gesto coraggioso, positivo e meritevole, ma non lo sta facendo di sua spontanea volontà. Lei si illude di riconquistare suo marito, senza pensare a quanto di buono questo gesto potrà significare per la sua stessa vita, perché sta vivendo in funzione di un’altra persona. E’ per se stessa che deve vincere questa paura, per vivere meglio, per aprirsi una rosa infinita di possibilità, non per ritrovarsi a sospirare il ritorno di qualcuno che l’ha abbandonata gettando via la vostra storia!”

Inspiro forte. So di avere esagerato, non avrei mai dovuto parlare così a una persona della quale non conosco neppure il nome. Chi sono io per giudicare la sua vita? La vedo che stringe i pugni, che mi guarda come se volesse farli atterrare sulle mie guance. Sta per esplodere, lo sento, è prevedibile.

“Ma chi è lei?” mi vomita addosso, inviperita. “Come si permette di giudicarmi? Cosa ne sa della mia vita? Lei che arriva tutta tranquilla e sorridente a godersi il volo X della sua esistenza, a parlarmi dei posti meravigliosi che ha visitato? Cosa ne sa di cosa ho passato io questa notte, di come ho dormito a malapena un’ora, ossessionata dall’idea di salire su questo aereo? Cosa ne sa di quanto avrei voluto gettare a terra il giornale che la hostess mi porgeva, scendere di nuovo quella scala e tornare correndo al terminal solo per riprendere un taxi fino a casa? Cosa ne sa dell’angoscia che mi sta prendendo alla gola, e che mi taglia il respiro? Lei …”

“Io ero come lei. Capisco esattamente cosa si sente. L’ho provato sulla mia pelle.”

Mi guarda con una smorfia. “Non le credo. Lei vuole solo raccontarmi storie. Vuole dimostrarsi superiore a me, umiliarmi!”

“Non ci penso neppure,” rispondo. Sono io che mi sento umiliata. “Io la capisco, perché ho passato diversi anni con addosso il terrore degli aerei. Anzi, per me è stato ancora più sconcertante e incredibile, perché mi è successo quando già volavo da anni senza nessun problema.”

Arriccia il naso. “Come sarebbe? Le è venuta paura di punto in bianco? E di punto in bianco le è anche passata?”

“Più o meno.” Alzo le spalle. “E guardi che non era un sottile timore, era paura, di quella vera.”

Stringe le labbra. “Com’è possibile?” Mi guarda. “Racconti.”

“Ma…”

“Racconti. Mi fa bene.”

“D’accordo.” Taccio per un attimo, prendo un respiro.

“E’ così: anch’io ho avuto paura di volare. Non mi è successo subito, però. Anzi, da ragazzina saltavo sugli aerei come se fossero stati autobus.”

“Ragazzina? Quando ha iniziato a volare, quindi?”

“Il mio primo volo è stato a dodici anni, per raggiungere Londra, la città che avevo sognato da quando, prima ancora di iniziare la scuola, ne avevo vista un’immagine su di un libro. Una gita scolastica a Londra, in un periodo in cui, normalmente, il massimo a cui le scolaresche potessero aspirare era Roma! Mi sembrava un sogno, e prendevo in giro il mio migliore amico che era stato tentato di rinunciare proprio a causa della sua paura dell’aereo. Paura dell’aereo? Ma quando mai! Tutti prendevano gli aerei, ogni giorno e in ogni posto del mondo! Era una cosa scontata, normale, naturale!” Sorrido.

“A dire la verità, l’aereo l’avevo immaginato molto diverso. Certo, era un famigerato volo charter, ma non mi sarei mai aspettata di trovarvi poltroncine rivestite a fiori, oltretutto alquanto sbiadite. Ed era davvero quella la cintura di sicurezza? Ma come funzionava? Mentre io saltavo da un posto all’altro per vedere tutto, e mi incollavo con il naso al finestrino, i ragazzi cercavano di nascondere dietro ai loro visi palliducci la dignità del “maschio che non ha paura di niente”. Neppure il lieve colpo che percepimmo all’atterraggio riuscì a smorzare il mio entusiasmo.”

Noto che increspa le labbra in un sorriso ironico.

“In effetti, dicono che i maschi, in realtà, siano molto più fifoni di noi donne. Forse sono solo bravi a nasconderlo.”

Guarda di nuovo nel vuoto, so che pensa a suo marito, forse sta mettendo per la prima volta in dubbio alcune delle certezze che lo riguardano.

“Ed è più tornata a Londra?”

“Mille volte. Dopo quel primo aereo, ho perso il conto dei voli che ho preso per raggiungerla. Voli di linea, voli charter, voli low cost, con atterraggio a Heathrow, a Gatwick, a Stanstead … “

“Mio Dio, mi gira la testa.” Sospira. “Magari avrà preso anche un aereo a due piani.”

Non so se voglia essere una battuta. “In realtà sì, mi è capitato anche questo. Uno straordinario volo per Mosca. Il secondo piano era più piccolo, ed era riservato ai fumatori. In effetti, quando salii a salutare la parte del nostro gruppo che aveva trovato posto là sopra, riuscii a resistere solo pochi minuti, dall’aria pesante che si respirava! Lei fuma?”

“No.”

“Ottimo. Si conservi così.”

Si rabbuia, e le parole le escono a stento. “Mio marito fuma. L’ho sempre criticato per questo. Quella … quella, fuma anche lei.”

Mi trattengo per non fare uscire una risata sarcastica. “Un notevole punto in comune, non c’è che dire” osservo.

Anche lei osserva, ha notato un bagliore al mio anulare sinistro.

“Sposata?” mi chiede.

“Sì”.

La vedo abbassare gli occhi, trattenendo le lacrime. “E il suo viaggio di nozze?”

“New York”.

“Ed era il primo volo che facevate insieme?”

“No, il primo è stato il volo per la Tunisia. Mi creda,” sorrido, “in confronto a quell’aereo sgangherato anche il charter per Londra mi appare come un volo di lusso!”

Resta un attimo in silenzio, deve assimilare tutti gli elementi. Scuote la testa.

“Mi perdoni, ma… Dopo tutte queste esperienze, tutte, come mi dice, affrontate con la massima tranquillità, come le può essere successo di avere improvvisamente una così folle paura di volare?”

“In realtà non lo so. Posso solo avanzare un’ipotesi: noi umani, anche se non lo confesseremmo mai, siamo estremamente influenzabili, soprattutto da parte di coloro che riteniamo più esperti di noi. Non consideriamo che l’esperienza non è uguale per tutti, e che la frequenza con la quale facciamo una cosa, di per sé, non ci rende più competenti degli altri. Il nervosismo di un viaggio pieno di contrattempi ha fatto il resto.”

Le sorrido. Non ha bisogno di sollecitarmi, sono pronta a raccontare e spiegare il perché di questa mia considerazione filosofica.

“Con mio marito eravamo in partenza per la Danimarca. Niente di che: 4-5 ore con cambio a Bruxelles, tutto lì. Invece, i guai sono iniziati dalla mattina, quando in aeroporto abbiamo trovato un caos incredibile e due ore di ritardo per quasi tutti i voli. La disorganizzazione degli impiegati ha fatto sì che dovessimo cambiare tre voli invece di due, giungendo a destinazione all’ora di cena. I cellulari non esistevano ancora, quindi non abbiamo potuto neppure avvisare la mia amica e suo marito, che ci attendevano stanchi e sfiduciati all’aeroporto di Copenaghen. Tutta la giornata persa in volo!”

“Non c’è che dire, una pessima esperienza. Ma cosa c’entra la paura?”

“Ero già innervosita dall’avere letto, qualche giorno prima, un articolo sensazionalistico, nel quale si riportava un colloquio avuto dal giornalista con due membri del personale di terra dell’aeroporto della mia città, che ovviamente avevano chiesto di rimanere anonimi. I due parlavano di norme di sicurezza scarsamente rispettate, di raccomandati di ferro assegnati alla torre di controllo malgrado la palese incompetenza, e concludevano dicendo “volate a vostro rischio e pericolo”. La solita robaccia da mezza lira per aggiungere cinque o sei copie alla solita tiratura, ma è proprio questa robaccia che avvelena la mente delle persone, che a parole non ci credono, ma inconsciamente immagazzinano l’informazione in un angolo del proprio cervello, per tirarla nuovamente fuori quando ne incontrano una simile da qualche altra parte.”

Spio il suo viso, per accertarmi che non sia successo anche a lei in questo momento, ma ovviamente non posso riuscire a capirlo, nè, d’altronde, potrei farci molto, se così fosse.

“Fu durante il primo volo di quel giorno, ne sono sicura. Accanto a me si sedette una ragazza di qualche anno maggiore di me. Non mi ispirava una particolare simpatia, nondimeno non le rifiutai la mia conversazione. Mi raccontò che conviveva con un ragazzo scozzese, e che solo per amore suo si era rassegnata a lasciare la sua città natale trasferendosi in un posto che non le apparteneva e che le appariva ostile. Queste parole mi suonavano stonate, e non riuscivo a concepirle, io che trovo sempre qualcosa di meraviglioso in ogni luogo che visito, e che penso che ogni Paese abbia qualcosa da offrire a chi si sforza di capirlo. Ancora meno comprendevo perché una persona che, proprio per necessità, saliva regolarmente sugli aerei, fosse così terrorizzata da presentare faccia pallida, respiro affannoso e mani contratte per tutta la durata del volo.”

Le guance della mia vicina si colorano, ma ancora una volta è fuori luogo. Non era certo a lei che mi riferivo.

“Glielo chiese, immagino.” mi dice piano.

“Certamente. E la sua risposta fu che, proprio perché volava spessissimo, ne aveva viste tante e tante da essere terrorizzata, e da pensare, ogni volta che saliva su di un aereo, che fosse probabile non arrivare a destinazione.” Ho un moto di sconforto, nel ricordarlo. “Un pensiero completamente irrazionale e basato sulla più totale assenza di elementi pratici. Malgrado questo, però, proprio per quel meccanismo che le spiegavo prima, dentro di me iniziò a farsi strada il terrore. Se questa ragazza così esperta ne parla così, se anche in quell’articolo dicevano così, allora deve essere vero, allora siamo degli incoscienti a volare con questa tranquillità, allora il pericolo è reale!” Questo pensavo, e ormai l’ingranaggio si era messo in moto: non poteva essere riportato indietro.”

“E quanto è durata questa sua paura?”

“Tre, quattro anni circa. Anni nei quali, comunque, ho volato anche abbastanza spesso.”

“Mi perdoni, ma è da non credere!”

“Sa,” rido leggermente, “non ci credevano neppure i miei genitori. L’anno seguente, con mio marito, siamo venuti in vacanza proprio a Malta. Quando mia madre ha saputo della mia paura di volare, cosa per me inaudita, è rimasta terrorizzata: era convinta che si trattasse di un presentimento, perché non avevo mai manifestato niente del genere prima!”

“Posso capire sua madre …” osserva tristemente. “Ma come ha vinto la sua paura? Ha preso ansiolitici per obbligarsi a volare?”

“Per carità! No davvero. Non lo faccia mai,” dico, guardandola severamente, “si affidi solo a se stessa. L’unico modo per superare la paura è stringere i denti e non smettere di volare.”

“Non sta funzionando, per me …”

“Gliel’ho detto, non lo sta facendo per se stessa. E’ per questo che non funziona, per quanto lei possa amare ancora suo marito.”

“Cosa mi consiglia?”

“Non so dare consigli … Posso solo finire il mio racconto. Malta, Maiorca, sono stati due voli corti che ho sopportato stringendo i denti, in fondo erano tragitti brevi e, nella mia immaginazione, poco rischiosi. Poi, per un paio d’anni, abbiamo trascorso le vacanze in luoghi raggiungibili in auto, insieme ad altre coppie, con la possibilità di dividere le spese del viaggio. Così il volo era accantonato in un angolino della mia mente, fermo lì, a non dare fastidio, perché non mi serviva! Ma,” proseguo, “non faccia questo errore. Se si entra in questa logica, è facile perdere completamente il coraggio di riprovarci: in fondo si possono fare ottime vacanze anche in auto! Anch’io mi stavo adagiando sulla comodità di non dover affrontare le mie paure: chi mi obbligava, in fondo? Ma alla fine, per fortuna, la mia sete di esperienze e Paesi nuovi ha preso il sopravvento. E forse, chissà, c’è entrato anche un pizzico di magia, o magari solo l’illusione della nostra mente che ci permette di leggere segni del destino in ogni manifestazione della vita.”

Non parla, aspetta solo che io prenda fiato per continuare a raccontare. Non la deludo.

“Quell’anno, improvvisamente, mi ero fissata di voler visitare Cipro. Un volo di quattro ore, senza contare i voli di avvicinamento a Roma. Mio marito era scettico, pensava che non avrei retto, non capiva perché volessi costringermi a una tortura del genere. Ma io, come al solito, ero presa dalla curiosità, volevo vedere quel Paese diviso, ascoltare la sua storia, parlare con la gente, vivere la sua realtà, almeno nei limiti concessi a una turista. Un giorno ero in auto con mio marito, quando, nel cielo, vidi una nuvola dalla forma complicata. Non credevo ai miei occhi: era esattamente la forma di un aereo che si dirigeva verso un’isola, che assomigliava incredibilmente all’isola di Cipro! A quel punto, la decisione era presa. All’ennesima rimostranza di mio marito, risposi semplicemente, ma decisamente, che non avevo intenzione di farmi tagliare le gambe da una paura sciocca e per niente razionale. Discorso chiuso, con lui e con me stessa. Hai paura, mi dissi? Beh, arrangiati! Non ho tempo di stare dietro alle tue sciocchezze!”

“Non può essere stato così facile!”

“Infatti non lo è stato. La notte prima della partenza non ho dormito neppure un minuto. Avevo solo voglia di piangere, e non potevo neppure svegliare mio marito che dormiva beato accanto a me, altrimenti mi avrebbe dato della pazza. Non avevo scelta, dovevo stringere i denti e partire. Del volo non ricordo altro che la musica greca che ascoltavo in cuffia, e la folata di vento caldo che mi ha accolta una volta toccato il suolo cipriota: un’onda rovente che mi ha ricacciato in gola il sospiro di sollievo che stavo tirando!”

“E quindi ha passato tutta la vacanza a tormentarsi all’idea del volo di ritorno.”

“In realtà non l’avrei fatto. Cipro mi offriva talmente tanti stimoli da non avere tempo di riflettere. C’erano da visitare i mosaici e i siti archeologici, da mangiare i loukoumades appena cotti in quel camper lungo la strada, da passare dal mare alla piscina dieci volte al giorno, da rincorrere i lucertoloni che sfrecciavano tra i lettini più impauriti di noi, da strafogarsi di improbabili cocktails analcolici a base di gelato e coca cola, da mangiare il meze, da impazzire di musica greca. Non avrei avuto neppure modo di pensarci, se non fosse successa una tragedia.”

Mi fermo un attimo e inspiro. Questa è la parte più difficile per me da raccontare e per lei da sopportare, ma non avrebbe senso nasconderla. Se verità deve essere, che sia.

“Eravamo in gita in un sito archeologico, quando un componente del gruppo, controllando il suo smartphone, ha annunciato che un aereo partito da Cipro e diretto in Russia si era schiantato contro una montagna, volando a quota eccessivamente bassa. La nostra guida ha avuto quasi un malore, credendo che suo marito si trovasse su quel volo: per sua fortuna, non era così. Al nostro rientro in hotel, le immagini della tragedia, ovviamente spettacolarizzate al punto giusto, avevano già riempito tutti i palinsesti televisivi.” Scuoto la testa. “Non capivamo il greco, ma c’era poco da capire. Per giorni e giorni quelle immagini ci hanno inseguiti ovunque andassimo, e non serviva evitare di accendere il televisore della nostra camera: bastava entrare in un locale, osservare i titoli dei giornali, anche passare semplicemente accanto a una casa con la finestra aperta, per trovarsele davanti. Sa,” proseguo in un soffio, “la mattina della gita avevo notato che una numerosa famiglia di russi stava lasciando l’hotel. Lei era una donna bellissima, con lunghi capelli biondi, un marito piuttosto più anziano e due o tre figli; se non sbaglio c’era anche la madre, o la suocera, con loro. Non ho mai smesso di chiedermi se anche loro fossero su quell’aereo. Non lo saprò mai.” Al pensiero, una volta di più mi si chiude la gola.

La mia vicina si è coperta il volto con le mani. Due secondi, poi se le passa tra i capelli. “Come ha fatto ad andare avanti,” mi chiede, “a sopportare l’idea di dover prendere di nuovo un aereo?”

Evito di guardarla.

“Non lo so,” rispondo. “L’ho semplicemente fatto. Al rientro, poco prima dell’atterraggio, mi sono girata verso mio marito e gli ho detto: sono guarita.”

“Non ha mai più avuto paura?”

“Mai più. E ho coronato un altro sogno: vedere l’Islanda. Ma me ne restano ancora: Giappone, India, Cina, Giordania, tanti altri.”

Ancora un annuncio della hostess. Ci guardiamo stupite: stiamo per atterrare!

“Così presto?” mi chiede la mia vicina. Annuisco.

“Cosa si mangia a Malta?”

“Imqarret, pastizzi, timpana… Ma perché me lo chiede?”

“Non so, ho fame.” E finalmente sorride. “Chissà, forse sono sulla buona strada.”

“Sulla buona strada per cosa?” Ma so già cosa risponderà. Infatti il suo sorriso si fa più luminoso.

“Forse sto guarendo.”

Sorrido anch’io. “Allora, un kinnie drink non ce lo toglie nessuno.”



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Cristina Giuntini

Scricciolo

Avevano cenato, come sempre, come ogni sera, sul tavolo di cucina con le tendine azzurre, la tv che va, una cantilena monotona e pesante, vuota come i pensieri tra loro, papà e figlia adolescente; non c’era niente da dire, solo: “Passami l’acqua per favore”, “Vuoi una mela? Un po’ di torta di ieri, è buona sai …”. Parole come acqua che scorre, scivola via in un mare di indifferenza tra Gigi e Mara, cortesie superficiali, ma sotto c’era il “mare magnum” d’incomprensioni, di guerriglie quotidiane su tutto e per tutto, da tutte e due le parti. Gigi non capiva sua figlia, un esserino strano e complicato, troppo difficile a sciogliersi, ad addolcirsi in un sorriso di complicità e comprensione; d’altra parte Mara vedeva il suo papà come un “UFO”, non c’era mai, era indaffarato per il lavoro, si vedevano alla mattina presto e a cena, era sempre nervoso, teso per la vita. “Io sono trasparente per lui, meno di zero”, pensava, e aveva incominciato a escluderlo dalle sue piccole “cose da niente”, da scuola e amici, da sogni e speranze; erano due isole deserte in mezzo al mare, tranquille solitudini alla deriva. Ci voleva un punto fermo tra loro, gli occhi sereni di una donna, di una mamma che prendesse le redini di due “cavalli di casa” imbizzarriti ma lei era volata via presto, lasciando Gigi senza parole e senza lacrime, ingrigito di colpo e senza spazio per Mara, bambina cresciuta troppo in fretta. Mara si ricordava poco di Giulia, la sua mamma, era piccolina quando era morta, rammentava la figura snella ed elegante, lo sguardo calmo ed i folti capelli ramati difficili da domare; mille volte li fermava in una spilla d’argento a forma di farfalla, ora l’indossava Mara, pensando a lei come difesa dalle insidie di una giovinezza insicura. Vivevano in città, impegni e stress lavorativi erano inchiodati nel grigiume della pianura soffocante e Giulia, appena poteva scappava via, andavano insieme nelle colline del Brenta, dove l’aria era frizzante e pulita, si distendevano tra i filari e guardavano il cielo, puro; si vedevano le nuvole, a forma di cuore, di fiore, di gatto, una fantasia ingenua e bella che faceva bene al cuore e allo spirito. Giulia diceva a Gigi: “Come sei bigio! Non guardare in giù, ma no, non ai piedi, ai problemi “sottoterra”, così non si va da nessuna parte, guarda in su, in alto, all’azzurro oltre le nuvole. Cambiare prospettiva è un inizio di novità e di rinnovamento, ti fa soltanto bene, su, respira!” Gigi si sforzava di alzare gli occhi e guardare oltre il suo lavoro che non andava, i pochi soldi che prendeva, i guai economici che l’assillavano, fissava lo sguardo verso il blu ed era innamorato di lei, perdutamente. Poi il tumore di lei, improvviso, due mesi e via, se ne andò, lasciando sospese le persone più care; capita ai vivi, invece di legarsi ancora di più, di combattere insieme, s’erano allontanati, persi in questa casa piena di ricordi e di dolore. Mara s’era rifugiata nella sua stanza, Vasco e Facebook erano il suo piccolo paradiso, Gigi, lavoro e poi lavoro, saltava anche il pranzo perché, ormai ,non c’era nessuno, la casa era vuota, vuota di lei …

Una mattina, uscendo come sempre dalla mensa aziendale, s’era acceso una sigaretta, spenta subito dopo due boccate pensando alla faccia corrucciata di sua moglie: “E’veleno, spegnila, fallo per me …”, sorrise amaro. Non ce la faceva ancora a vivere senza lei, e poi c’era Mara, sempre così “a riccio” con lui, cercava disperatamente una soluzione per sciogliere la tensione con lei, far capire a Mara che loro due erano amici, davvero, che si poteva sorreggersi insieme e ricominciare a vivere dopo le lacrime, bisognava trovare un interesse comune, far fiorire la loro distanza, ma era tanto difficile. Pensava a queste cose, guardò oltre la strada statale tra capannoni industriali e campi in periferia e vide un grande spazio aperto, un aeroporto turistico, piccoli monoplani, velivoli fatti apposta per viaggiare per brevi tratti, comunque per andar via , lasciare da parte ansie e confusione, accendere il motore e librarsi in volo, veleggiare come uccelli migratori, sciogliersi nel blu ed essere leggeri, docili fibre dell’universo intero, che bello sarebbe ! Gigi aveva rinnovato la licenza di volo ed era in grado di pilotare un aereo. Giulia era appassionata di aerei, sognava di volare sempre più su, condividendo l’amore e la gioia di essere finalmente liberi; Gigi l’accontentava amando gli occhi luminosi e belli di lei, non era importante la destinazione, l’essenziale era andare. Ogni ascesa era una parabola della loro vita, insieme sempre, e uniti. Adesso era solo, camminava solo in questa terra senza lei, incapace di volare. E c’era Mara: anche lei vagava nella nebbia dei mille perché senza trovare il sorriso quieto di sua madre, disancorata e persa. Pensò a lungo alla sua bambina così a disagio con lui, con il suo papà, e si fermò di botto, guardò le ali lucenti degli aerei nell’hangar, impazienti quasi di galoppare nel cielo. Gli venne l’idea, surreale, di volare con Mara: “Un’esperienza nuova da condividere, da assaporare noi due, insieme, come tanto tempo fa con Giulia.” Glielo disse alla sera. Mara era scettica, neanche un filo d’ entusiasmo, niente, inerte dalle novità. “Ok, andiamo, ma quanto dura questa barba? Non ne ho tanta voglia, uffa, lasciamo perdere …” Gigi insistette tanto, ma tanto che alla fine, si lasciò convincere. Il giorno dopo erano lì; un addetto li accompagnò all’hangar, qui c’era un aereo snello, compatto, dalle linee delicate ma resistente nella sua tecnologia datata. Gigi lo sapeva bene: era l’Aviamilano P19 Scricciolo, un velivolo degli anni ’60, costruito in Italia con ala e impennaggi in legno e fusoliera in tubi metallici intelati; motore quattro cilindri raffreddato ad aria con buona velocità e autonomia. “Scricciolo”, com’ era Mara, fragile per la perdita infinita ma, Gigi lo sapeva, forte e sicura negli anni che sarebbero venuti. Bastava trovare un segno, un’intesa tra loro, che fosse stabile e che durasse per sbocciare e mettere frutti. Insieme entrarono nel velivolo, l’aereo lentamente prese quota e si alzò sopra le case tetre, gli uomini pallidi e incolori, sopra l’affanno e la tristezza mite di due persone che avevano bisogno l’uno dell’altro. Gigi si ricordò delle parole di Giulia: “Guarda il blu, all’azzurro sopra le nuvole, cambia prospettiva, su, respira!”. Guardò Mara, felice tra lillipuziani fiumi, alberi, animali, tutto in miniatura, come se fosse un gioco; incontrò lo sguardo del suo papà e rise. E Gigi finalmente respirò, e contemplò l’azzurro.


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Maria Teresa Limonta

Riga


Riga è la capitale della Lettonia, un ex territorio dell’Unione Sovietica. E’ un piccola città, di circa 700 mila abitanti, capitale di una altrettanto piccola nazione con un territorio vasto meno di Lombardia, Piemonte e Veneto, con solo 2 milioni di abitanti, ma fiera di non essere più sotto il dominio della Russia.
E’ una città tranquilla, con poco traffico, con angoli piacevoli e interessanti da visitare; sull’I-Phone lessi: “La cucina lettone non è famosa, e probabilmente non lo sarà mai”, aspetto che avemmo modo di sperimentare e confermare.

Siamo a Riga, io e Silvio, il mio istruttore di volo strumentale (I.F.R.), perché abbiamo prenotato due voli a testa su l’L39C Albatros, l’addestratore a jet in uso in molte aeronautiche militari e il velivolo a getto, della sua categoria, più diffuso negli U.S.A., tra i privati.
Ce ne ha dato la possibilità il “Baltic Bees” (le Api del Baltico), un team acrobatico civile, del quale venni a conoscenza leggendo una loro pubblicità su una rivista trovata nel mio Aero Club.
L’L39C era il velivolo sul quale ho sempre desiderato volare, ma non c’ero mai riuscito giacché negli Stati Uniti mi era stata negata la possibilità poiché non avevo una licenza di pilota americana.

Avevo preparato con cura questi voli, in realtà, questa compagnia lettone propagandava voli acrobatici per far sperimentare, come riportato sul loro sito, “l’adrenalina” di un volo acrobatico, tuttavia né io, né il mio amico, avevamo intenzione di fare un volo acrobatico, o almeno, esclusivamente acrobatico, come due semplici passeggeri, ma volevamo provare il pilotaggio di questo velivolo ed effettuare anche qualche atterraggio. Come al solito, volevo imparare a pilotarlo, consapevole che sicuramente non bastano due voli per diventare padrone della macchina, ma ahimé, come al solito, le mie finanze non mi permettevano di più, ed ancora oggi considero quell’esperienza una “pazzia” dal punto di vista economico.

Insomma il nostro obiettivo principale era quello di fare dei touch and go, per capire la tecnica di atterraggio di questo velivolo.

Ma perché due voli?
Il primo volo, su un velivolo che non conosci, è solo un assaggio della macchina, prendi contatto con un ambiente nuovo, non sai dove sono posizionati comandi e interruttori principali, devi abituarti alla visione esterna, sicuramente diversa da quella abituale, e poi un velivolo a reazione ha comportamenti diversi e necessità di un diverso modo di pilotaggio.
Nell’L39C, come d’altra parte sul Provost, la maggiore differenza sta proprio nella gestione della spinta, il tempo di accelerazione del motore da “idle” (minimo) fino alla massima spinta è di circa 12 secondi, e di questo bisogna sempre tenerne conto, soprattutto in atterraggio o in riattaccata, giacché devi anticipare il comportamento della macchina, come si suol dire: “devi starle davanti”.

Avevo contattato per e-mail questo team e Artyom, il mio referente epistolare, mi aveva risposto che potevamo fare dei voli di addestramento, anche stando nel sedile anteriore, come da me espressamente richiesto, posto usualmente occupato dagli allievi.

Con queste premesse e garanzie, ci imbarcammo a Roma, agli inizi di ottobre 2010, sul volo di linea Air Baltic, alla volta di Riga dove, inoltre, c’era ad aspettarci una mia amica russa, che ci avrebbe fatto da interprete.
Pur non essendo più nella Russia, tutti parlano anche il russo, lingua peraltro utilizzata anche in televisione tuttavia, lungo le strade, notai che non esisteva alcuna indicazione o iscrizione in cirillico, anche se la maggior parte dei giornali e dei quotidiani erano stampati in cirillico.

Il giorno seguente, Artyom, pilota anche lui del team, ci venne a prendere al nostro albergo per portarci all’aeroporto di Tukums, sede delle “Baltic Bees”.
Mi meravigliò la sua giovane età, forse compresa tra i 25 ed i 28 anni. Mi aspettavo un pilota più maturo giacché l’età, in questi casi, è sinonimo di esperienza e dà la garanzia di molti anni passati volando e istruendo e quindi di molte ore di volo all’attivo, ma solo dopo capimmo perché quel pilota, così giovane, facesse parte del team.
La spiegazione fu molto semplice e allo stesso tempo scioccante: il padre era il proprietario non solo del team, ma anche dell’aeroporto su cui agiva questa pattuglia di L39C.

Raggiungemmo Tukums, che è a circa 60 km. da Riga, dopo circa un’ora di viaggio, attraverso strade senza curve e costeggiate da imponenti foreste di conifere .
Tukums era un tempo, un aeroporto militare dell’Aviazione Sovietica.

Il cielo rimase sempre sereno, anche se il primo giorno, complice il vento che spirava a 12 nodi, la temperatura non era così gradevole.

Il “briefing” pre-volo fu fatto in modo molto amichevole, alla presenza di tutti i piloti del team; ci chiesero quante ore di volo avessimo e cosa volessimo fare e quello che sarebbe stato il nostro pilota, Anatolij, ci avvisò che, qualora ci fossimo sentiti male durante le manovre acrobatiche, avremmo dovuto dire, via interfono, tre volte “finished” o “stop” .
Rimasi un po’ interdetto e spiegai subito le mie intenzioni: “It doesn’t interest me aerobatics!” ma le mie intenzioni e quelle del mio amico, come ebbi modo di verificare, caddero nel vuoto.
Firmammo un foglio, scritto in cirillico, che la mia amica ci tradusse, e sul quale, dichiaravamo di essere in buona salute, consapevoli di ciò che andavamo a fare ecc. ecc.; in realtà, sul loro sito, c’era scritto che un dottore visitava i loro clienti, prima del volo, per accertarne le condizioni fisiche, ma a noi nulla di tutto questo fu fatto. In fondo non ci interessava.
E giunse il momento di andare in linea di volo.

Ci avviammo verso gli aeroplani: erano quattro, la loro linea era bella e piacevole, veri aerei militari, caratteristica accentuata dai posti in tandem, oserei dire, con malcelata soddisfazione dei veri jet fighters; l’unica cosa che, confesso, non mi è mai piaciuta molto, era la loro colorazione. Infatti erano dipinti con geometrie e colori che ricordavano un’ape, quindi più da fumetto che da “military trainer”. Mi chiesero un parere su questo e, onestamente, confessai che mi sarebbe piaciuta di più una livrea con disegni geometrici che avessero sottolineato le linee filati del velivolo … ma mi risposero che avevano volutamente scelto una colorazione, quanto più possibile , lontana dall’avere una parvenza militare.

La Lettonia, non ha una aviazione militare, se non una manciata di elicotteri.
In lontananza erano visibili dei Mig 21, utilizzati quando la Lettonia era inglobata nell’Unione Sovietica, ormai in disuso, destinati al Museo dell’Aviazione in costruzione sull’aeroporto.

Faccio un passo indietro.
La mia preparazione a questo volo, come già detto, era partita molti anni prima, infatti quando volevo pilotarlo negli U.S.A., acquistai l’add-on, cioè un programma aggiuntivo per Flight Simulator 2002, per potermi allenare e capire come il velivolo si comportasse. Chiaramente, con i limiti di un simulatore quale FS 2002.
Erano anni che non usavo più quel programma, così lo rispolverai ed iniziai i miei voli virtuali di addestramento.
Cercai, prima di tutto, di familiarizzarmi con i comandi in cabina, quella anteriore ovviamente, credo l’unica disponibile, memorizzando la sequenza di messa in moto.
Dopo mi allenai ad eseguire gli atterraggi facendo attenzione a mantenere le velocità riportate sul manuale, incluso nel CD dell’add-on stesso.
Da internet scaricai i resoconti di alcuni piloti che avevano volato su questo velivolo, trovai le fotografie dell’interno della cabina di pilotaggio, scoprendo che su Flight Simulator era stata riprodotta molto fedelmente, scaricai anche alcune procedure di emergenza, prima fra tutte, quella di eiezione con il seggiolino, arrivando piano piano a fare una conoscenza, comunque superficiale, di questa macchina; ma per saperne di più avrei dovuto acquistare i manuali, quelli veri … ma costavano molto e non me la sentii.
Tuttavia tutto questo mi sarebbe stato comunque utile, poiché ci fu detto poco o nulla sulle procedure, ma di questo parlerò in seguito.

Il primo a volare fu Silvio; accanto al suo velivolo, intanto io scattavo alcune foto per immortalare quello che, per noi, era un evento importante.
Raggiungere il posto di pilotaggio che purtroppo, contrariamente alle promesse e alle attese, si rivelò essere il posteriore, è facile: sulla fiancata sinistra del velivolo, infatti esiste un predellino ripiegabile a scomparsa e altri due punti, perfettamente invisibili, perché mascherati da pannelli a molla che si richiudono una volta che il piede viene estratto; dall’ultimo appoggio poi, si mette il piede destro sul seggiolino, e quindi ci si cala nell’abitacolo,. E comunque i ground crews ci aiutavano anche in questa operazione.
Durante il breve briefing, alcuni piloti indossarono la tuta anti-g, e tutti avevano la combinazione di volo ignifuga di colore azzurro; a noi ci fu data una semplice giacchetta che veniva indossata con il solo scopo di proteggere i nostri abiti dallo sfregamento delle fibbie delle cinture che ci legavano al seggiolino, sfregamento causato dalle sollecitazioni subite durante l’esecuzione delle manovre acrobatiche.
Una volta seduto, Silvio indossò il casco, e fu aiutato a legarsi; il pilota, nel seggiolino anteriore aveva anche la maschera per l’ossigeno.
I tettucci furono chiusi, ed iniziò la sequenza di accensione.
L’L39 è completamente autonomo, infatti è dotato di APU (auxiliary power unit – unità ausiliaria di energia); una volta messa in moto, dopo alcuni secondi, quando si accende una luce di avviso sul “warning panel”, si aziona il pulsante di avviamento, e parte anche il motore vero e proprio.
L’APU ha un sibilo gradevole, ma quando il motore parte, fa sentire la differente sonorità e, a questo punto, l’APU si spegne automaticamente.
Dopo una manciata di minuti, iniziò il colloquio a gesti tra pilota e operatore a terra, posizionato di fronte al velivolo, a circa 4-5 metri, che ha il compito di verificare che le superfici comandate dal pilota, che dall’abitacolo non sono visibili, funzionino a dovere; il ground crew comanda, con un gesto della mano, o con le braccia, o con tutti e due, l’estrazione dei flaps alla prima tacca, 25 gradi, e la seguente retrazione, poi l’estrazione degli stessi a 44 gradi, seconda tacca, e per ultima l’estrazione degli aerofreni, posizionati sul ventre del velivolo.
Infine ci si muove, il motore sale di giri e, proporzionalmente, anche il suo rumore, tuttavia ripensando allo stesso momento, quando a Caselle si muoveva il Tornado, o il 104, qui la terra non ha tremato.

Fa abbastanza freddo, siamo quindi invitati ad andare in torre, da dove possiamo , quando in vista, seguire il volo del mio amico. C’è molta acrobazia, anche se è un touch and go.

Dopo 20 minuti, e dopo aver effettuato un basso passaggio, concluso da una momentanea apertura a destra, in leggera cabrata, seguita subito da un tonneau a sinistra, il velivolo atterra.
Vado incontro a Silvio: è felice, anche se il suo viso è piuttosto bianco; mi confessa infatti che lui l’acrobazia l’ha sempre sopportata male, e che durante un looping ha anche sperimentato, per un attimo, la visione nera. La cosa mi preoccupa un po’, poiché mi domando come il mio fisico reagirà, quando toccherà a me.

Il mio turno inizia dopo un’ora circa, tempo durante il quale Artyom effettua un volo di addestramento acrobatico, con un istruttore seduto dietro.

Sono le 14 circa, quando prendo posto sul velivolo, uno degli istruttori mi aiuta a legarmi, ed a calzare il casco e m’insegna come eiettarmi: avrei dovuto afferrare le due maniglie posizionate fra le gambe, comprimere entrambe le impugnature, schiacciando così le leve ivi affogate, azione che esegui istintivamente, con sgomento dell’istruttore, giacché il seggiolino era armato, quindi bisognava tirare in alto le maniglie, cosa che naturalmente non eseguii. Mi fa anche vedere come abbassare la visiera del casco prima di iniziare la sequenza di eiezione.

Abbassato il tettuccio, lo chiusi utilizzando l’apposita maniglia, azione conosciuta e simulata su Flight simulator 2002.

Avevamo concordato che il pilota mi avrebbe dato i comandi, avvisandomi via radio, con:“you have the control” e li avrebbe ripresi con: “ I have the control”.

Ci muovemmo, e percorrendo un breve raccordo, entrammo in pista per effettuare il contro pista; d’altra parte nessun altro traffico si era presentato sull’aeroporto, eccetto un velivolo monomotore ad elica, atterrato per fare rifornimento. E’ da notare che il serbatoio, che erogava sia la benzina avio quanto il kerosene Jet A1, non era interrato, ma era un lungo cilindro metallico bene in vista, di circa 3 metri di diametro.
Il contro pista fu effettuato a velocità insolitamente sostenuta, non ne capii il motivo, se non nel secondo volo, quando ebbi i comandi anche durante il rullaggio.
Siamo pronti, allineati per pista 14, lunga 2.500 metri, in cemento. Tengo la cloche con leggerezza, il velivolo è frenato. Il freno è alquanto insolito per noi, è infatti una leva del tipo di quelle per le biciclette o delle moto, posizionata sulla cloche. Ma io questo già lo avevo studiato.
Il motore sale di giri, e, come già sottolineato, impiega da 10” ai 12”, per raggiungere la massima spinta, che si ha quando sull’indicatore dei giri, la lancetta degli N1, cioè i giri dell’albero di alta pressione, raggiunge l’indicazione del 106% .
Il mio pilota rilascia i freni, ed il velivolo inizia la corsa di decollo con una accelerazione di poco superiore a quella di un velivolo di linea.
So che la rotazione deve avvenire intorno ai 170-180 km/h (l’anemometro era tarato in km/h), campo peraltro evidenziato sullo strumento da un sottile arco giallo,ed avviene dopo un corsa non troppo lunga, forse meno di 1000m, ma è una rotazione molto soft.
Subito dopo il distacco, il velivolo assume un assetto di una salita molto poco pronunciata, in attesa di raggiungere i 250 km/h, mentre il carrello viene retratto.
“You have the control”, ora l’aereo è mio, seguendo le istruzioni, inizio una virata a sinistra in salita, devo raggiungere i 6000 piedi.
Si sale che è una bellezza, a 350 km/h, saliamo a circa 2500-3000 piedi al minuto, mi stupisce infatti la velocità con cui si muove la lancetta dell’altimetro, ed in breve raggiungo i 6000 piedi.
Le prestazioni dell’L39 sono molto più elevate di quelle sperimentate sul Provost, primo jet su cui avevo volato in Inghilterra, qualche anno prima.
Raggiunta quindi la quota di 6000 piedi, mi fa effettuare delle virate a 30,45 e 60 gradi; le prime due mi vengono non c’è male, infatti guadagno “solo” 100 piedi, invece quella a 60° non mi piace, sarà i G che qui si sentono subito, sarà che non ho punti di riferimento familiari, sarà che forse sono una se…a, fatto sta che in una virata ho guadagnato 500 piedi: che somarooo!!
L’istruttore per farmi capire che ho io i comandi, mi fa ripetutamente vedere entrambe le mani.
Riprende i comandi, mi spiega come si fa un tonneau, e poi lo esegue, una volta fatto si accerta con l’interfono, se per me è tutto ok, confermo, e mi invita a provarlo.
Come da istruzioni, faccio assumere al velivolo un assetto cabrato di 20 gradi, poi, con una veloce e decisa progressione porto la cloche a sinistra, durante la fase di rimessa dalla posizione capovolta, spingo sulla cloche stessa per non perdere quota, come mi è stato insegnato di fare durante le lezioni di acrobazia sul CAP 10.
Fatto!
Sono soddisfatto di me stesso: è stato facile, e credo di averlo stupito, infatti a terra mi chiederà se ho già fatto acrobazia.
Riprende i comandi e via per un looping. Accidenti, i G si sentono e soprattutto durano a lungo. Tuttavia li sopporto bene e la temuta visione nera non c’è stata.
Ora provo io: picchio il velivolo perché la manovra va iniziata a 650 km/h, e poi su, su … su, tiro sulla cloche, volgo lo sguardo e la testa in alto, a cercare la terra, quando sto per raggiungere la sommità del looping ma il casco e l’appoggia testa del seggiolino mi limitano però il movimento.

Sulla sommità alleggerisco la pressione sulla cloche per un attimo, e poi ricomincio a tirare, rilasciando un po’, ancora per un attimo a ¾ del giro.
Ripeto la manovra altre 2 volte. Il mio pilota, si accerta sempre che tutta vada bene, ma è sempre tutto ok per me.
Prende i comandi e si posiziona in volo rovescio; non mi è mai piaciuta questa posizione, inoltre le mie cinghie non sono molto strette, ed i piedi sono per aria a 20 cm. dalla pedaliera. Ma non mi scompongo, ho infatti letto che, contrariamente al CAP 10, l’L39 non può volare in rovescio per più di 30”, per non incorrere in problemi di lubrificazione.
Presto, infatti, dopo pochi secondi, riprendiamo il normale assetto.

Stiamo per terminare il volo,e mi avverte che farà un basso passaggio.
Con una leggera, ma decisa picchiata, ci portiamo verso la pista 32; la velocità cresce, la pista si avvicina sempre più velocemente, ed è sempre più vicina, uuuhhhaooo … che bello!!!
La percorriamo per ¾ della lunghezza a circa 3-5 metri dal suolo, poi effettua un’apertura a destra cabrando, in cui incasso un po’ di G, seguita subito da un veloce tonneau a sinistra.
Sicuramente un sottovento poco ortodosso, ma mi è piaciuto.
Nella manovra abbiamo guadagnato sufficiente quota per eseguire una virata base.
Estrae gli aerofreni quindi il carrello,ora siamo in finale, da dietro si vede bene, ma sicuramente non come dal sedile anteriore. Studio come fa l’atterraggio, dopo una corsa che mi è sembrata breve, rulliamo verso il parcheggio, e per oggi abbiamo finito.

La sera, io e Silvio stabiliamo cosa chiedere il giorno seguente; per il secondo volo, entrambi siamo d’accordo di non ripetere più alcuna acrobazia, ma vogliamo imparare ad usare la manetta e a fare circuiti e atterraggi e, se possibile, ci piacerebbe eseguire uno stallo.
Siamo comunque soddisfatti, ma soprattutto l’L39 si è dimostrato veramente un bellissimo velivolo, e anche facile nell’euforia e, con un pizzico di presunzione, siamo convinti che con 3 o 4 missioni e adeguati briefing e de-briefing, saremmo in grado di portare a termine, positivamente, il passaggio macchina.

La mattina dopo, alle 9 siamo nuovamente in viaggio per Tukums.
Questa volta il nostro pilota sarà Alexander e il briefing è più lungo e dettagliato, giacché siamo noi a parlare, e a stabilire cosa vogliamo fare; chiariamo subito, ancora una volta, che non vogliamo fare acrobazie, ma solo circuiti, ci vengono quindi elencate le velocità e le quote caratteristiche di un circuito, dati che scrivo sul mio cosciale, e che oggi porterò con me in volo.
I piloti lettoni parlano tra loro, e la mia amica russa, mi riferisce che stanno dicendo che, per fare quello che chiediamo, occorrono più di 20 minuti, ma in realtà noi avevamo concordato prezzo e attività per 30 minuti ogni volo.

La richiesta di eseguire uno stallo, non fu accolta dal nostro istruttore .
Oggi sarò io il primo.

Nel rullaggio vedo che il pilota usa frequentemente la pedaliera, sempre con movimenti ampi; ne conosco il motivo, perché letto sui rapporti di volo, scaricati da internet. Il ruotino anteriore del velivolo, libero di girare, non è collegato alla pedaliera e, come già detto, il freno, idraulico, è a comando manuale per cui per curvare, tenendo presente che il timone diventa efficace a 40 nodi (ricordare che qui non c’è l’elica), è necessario spingere fino a fondo corsa la pedaliera, verso il lato in cui si vuole andare, e modulare la sterzata, utilizzando il freno.
Effettuo io il contro pista, cercando di mantenerlo sulla “centre line”: mi risulta abbastanza facile, ed ora capisco anche perché, ieri, il pilota ha rullato in velocità. Così poteva avere l’aiuto del timone di direzione, che diventa efficiente, superati i 70 km/h.
Correggo la traiettoria, intervenendo leggermente sulla leva dei freni e sulla pedaliera; il mio istruttore effettua il 180 gradi ed io mi allineo, con qualche difficoltà, al centro della pista. Infatti è molto importante iniziare la corsa, con il ruotino perfettamente allineato, al fine di evitare di correggere, da subito, la traiettoria intervenendo sui freni.
Porto lentamente la manetta tutta avanti, controllando la lancetta che indica la spinta e allo stesso tempo, tengo la mano sul freno. Raggiunta la spinta al 106%, chiedo via radio se possiamo andare, anche se nel frattempo avevo sentito il pilota chiedere alla torre, in inglese, l’autorizzazione al decollo. Ottenuto l’ok dal mio pilota/istruttore rilascio completamente il freno e, con un sobbalzo in avanti, iniziamo la corsa di decollo.
Sono io a tenere il velivolo, perché non sento alcun input esercitato dal posto anteriore.
L’aereo fila via dritto, anche perché c’è quasi calma di vento. Come il precedente volo, la rotazione è molto piccola e bisogna mantenere il velivolo prossimo al volo livellato per fargli acquistare velocità, retraggo il carrello posizionando in alto la leva di comando, e questo sarà causa di apprensione, cosa peraltro da me scoperta, soltanto tornato a terra.
Raggiungo velocemente la quota circuito di 1500 piedi, ora la manetta è posizionata per una spinta pari all’85% e ripeto, come avevo richiesto durante il briefing, la virata con inclinazione di 60 gradi, aumentando un po’ la spinta fino al 90%. Questa volta la virata riesce un po’ meglio, non è stata perfetta, però migliore di quella di ieri.
Riprendiamo il circuito standard e mantengo una velocità di circa 330 km/h; al traverso della testata, come concordato, abbasso il carrello, che funge anche da aerofreno, tuttavia c’è parecchia foschia e perdo di vista la pista, seguo però le istruzioni del mio istruttore, ed eseguo la virata base, mentre lui si preoccupa di estendere i flaps alla I tacca; posiziono la manetta all’80% della spinta e, a metà base, inizio a scendere con un rateo compreso tra i 2 ed 3 metri al secondo. Infatti, contrariamente, ai variometri abitualmente montati sui velivoli occidentali, che indicano le centinaia di piedi al minuto, questo a bordo del L39 da’ le indicazioni in metri/secondo.
Durante la virata finale, rivedo la pista, comunicandolo all’istruttore, mi stupisce la facilità con cui riesco a mantenere un rateo di discesa costante di 3 metri/secondo.
La manetta rimane sempre posizionata per dare una spinta dell80%, e questo è voluto perché, con questo settaggio, portare il motore al massimo in caso di riattaccata, è molto più veloce.
La velocità in finale deve essere tra 260 e 300 km/h.
Sento qualche intervento correttivo del mio istruttore, soprattutto durante la flare finale, inoltre, pilotare da dietro per me, “pilota della domenica”, e cacciatore frustrato, non è il massimo.
Appena tocchiamo, eseguo il comando del mio pilota, di fare un altro decollo, e spingo la manetta gradualmente al massimo; do un’occhiata all’anemometro: potrei già iniziare la rotazione, ma la spinta non ha ancora raggiunto il valore richiesto e il velivolo è in decelerazione. Dopo qualche secondo però, anche la spinta raggiunge il massimo, lascio accelerare ancora un po’ il velivolo, e raggiunta la velocità di rotazione, ruoto ed abbandono la terra.
Retraggo il carrello, dopo aver prima frenato le ruote, come mia abitudine; ripeto il sottovento mantenendo questa volta sempre in vista la pista, al traverso della testata. Controllata la velocità, chiedo ad Alexander, sempre in inglese, l’autorizzazione ad estrarre il carrello, senza ottenere risposta, ripeto la domanda, ma anche questa volta senza alcun esito, penso: “forse vuole fare un altro circuito, o chissà”.
Ormai non possiamo più effettuare un atterraggio, il pilota mi dice qualcosa, ma non capisco, ripete per più volte, ma proprio non capisco cosa mi vuole dire. Intanto siamo di nuovo in sottovento; raggiunto il traverso della testata, chiedo anche ora il permesso di abbassare il carrello, e anche questa volta non ottengo risposta. Controllo la velocità, 300 km/h, abbasso il carrello, “se sbaglio” penso “ lui può correggermi” , ma in realtà continuiamo con la procedura di atterraggio.
Atterriamo, rulliamo verso il parcheggio; mi dispiace, perché ho finito i miei voli su questa stupenda macchina. Ne valeva proprio la pena.
Si apre il tettuccio il mio amico mi viene incontro, e da lontano mi dice: “Stavi per avere un’emergenza carrello”, non capisco, si avvicina, e mentre mi sciolgo dalle cinture e tolgo il casco mi spiega cosa è successo.
Nella manovra di retrazione del carrello, una volta portata la leva in alto, avrei dovuto riposizionarla al centro, come per esempio facevo volando sul Piper PA24, giacché sull’L39C, se la posizione della leva non è riposizionata al centro, dal posto anteriore non è possibile abbassare il carrello. Ora capisco cosa mi diceva quando io non riuscivo a capire.
“Ca….o” penso, “perché non ci hanno detto una cosa così importante?”. I briefing sono state la parte carente di questa esperienza.
Tuttavia l’istruttore, prima di abbandonare il velivolo, mi stringe la mano, e mi fa i complimenti. Chiaramente, ritengo, solo di cortesia, ma non mi rimane nessun senso di colpa o vergogna: nessuno mi aveva avvertito, ed io ho seguito esattamente quello che c’era stato detto di fare in circuito.
Silvio decolla poco dopo, una foto con tutti i piloti suggella la fine della nostra esperienza di volo con i Baltic Bees.

Conclusione: il velivolo è eccellente, ha prestazioni che fino ad oggi ho sempre sognato in un aereo, ed è anche di facile pilotaggio, rimane il rammarico di non aver pilotato dal posto anteriore, e che questa esperienza probabilmente sarà irripetibile.
Lasciamo Tukums con la convinzione che i Baltic Bees sono orientati solo a voli acrobatici, hanno poca, o nulla esperienza nello gestire piloti che non vogliano solo provare “l’adrenalina”, ma sicuramente hanno imparato qualcosa anche loro, e spero che migliorino la qualità dei loro briefing.

Da adesso in poi, siamo solo dei comuni turisti in Lettonia.




§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§
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Marco Longo