La panchina


Era lì, seduto su quella panchina da un tempo indefinito. Sempre solo, sempre in silenzio.

Il vociare dei bambini che sfogavano le energie represse dalla vita ripetitiva della periferia cittadina, sembrava non riuscire a penetrare la barriera di totale indifferenza di cui, si circondava con malcelata soddisfazione.

Capitava a volte che qualcuno di quei bambini, giovani membri di una vecchia umanità, gli ronzasse attorno, oppure facesse, per caso o con sottile malizia, rotolare un pallone fino sotto ai suoi piedi.

Una volta, caso unico, rimandò con un debole calcio, il pallone tra i piedi di una bimba, rimasta li ad aspettare, che il pallone finito, chissà per quale scherzo del destino, sotto i suoi piedi, le fosse restituito.

Quando le prime giovani mamme, arrivavano seguite dalla rumorosa nuvola di scalmanati ragazzini, lui, era già li. Al centro di quella panchina. Davanti, un ampio prato, regno incontrastato di corse, capelli scompigliati, sudore e voglia di inseguire i sogni nelle forme perfette di una sfera di plastica.

Su di un lato, pochi alberi, nei giorni assolati e caldi, offrivano ombra a qualche coppia di studenti che giocavano a innamorarsi, e sognare una vita di giorni sereni e pieni di speranze.

Lui, silenzioso era li. Ogni tanto alzava la testa, smossa dal suono di un aereo che sorvolava quella parte di periferia.

Aveva capelli bianchi e un aspetto curato, serio, austero. Un onnipresente paio di occhiali da sole nascondeva occhi e parte del viso. Un paio di occhiali ampi, scuri, quelli dei piloti americani, giovani belli e baldanzosi protagonisti dei film di qualche secolo prima.

Solo nei giorni di pioggia o nelle le rare mattinate in cui la nebbia rendeva il cielo una miscela lattiginosa e imperscrutabile, solo allora non usciva di casa, e la panchina restava sola.

Quella mattina, trovò ad attenderlo, una sgradita sorpresa.

Non realizzò subito cosa accedeva, forse perché la mente, si rifiutava di riconoscere nell’ombra, le fattezze di un essere umano seduto.

Avvicinandosi, complice la luce limpida del sole alle spalle, dovette cedere alla verità. Qualcuno si era seduto, sulla “sua” panchina.

Si fermò un attimo a qualche decina di metri di distanza. La “sua “panchina e una donna stavano sconvolgendo il suo mondo. Chi osava appropriarsi di quello spazio?  Infiltrarsi così, senza pudore, in quello che rimaneva della sua vita…

Quel pensiero lo fece vacillare. Sentì come se l’universo avesse smesso di espandersi e ora l’inerzia avesse preso il suo corpo e cercasse di trascinarlo verso terra.

Oscillò intorno alla nuova posizione cercando istintivamente di correggere questa variazione nell’assetto e di assumere un equilibrio stabile.

Nonostante gli anni, reagì efficacemente, e in un millesimo di secondo riacquisì l’equilibrio perso. La donna, seduta sulla “sua” panchina si alzò e lo raggiunse con espressione contrita tendendogli una mano per sorreggerlo ma, nel tempo impiegato a percorre lo spazio che li separava, l’anziano aveva riacquistato l’equilibrio.

La donna si ritrasse, come leggendogli nel pensiero, che le intimava di non toccarlo, poiché lui, sapeva benissimo correggere una tendenza fosse all’imbardata o all’aumento dell’angolo di assetto.

Lei accennò un sorriso imbarazzato verso quello sguardo diretto, che seppure protetto da una coppia di vecchi occhiali da pilota, sembrava parlare. Ritirandosi mormorò un timido “Mi scusi” dolce e sincero. Poi si rimise seduta sul lato della “sua “panchina.

L’uomo si guardò intorno come per accertarsi che nessun altro lo avesse visto in quella situazione, poi guardando la “sua” panchina occupata per un terzo da quella ingombrante presenza valutò rapidamente il da farsi.

Non era una sua proprietà, e in fondo lei, era arrivata prima. Il sole illuminava il cielo, quella mattina terso e pulito. Il meteo del vicino aeroporto prevedeva sereno, vento debole da sud, temperatura di 18 gradi con un punto di rugiada di 8° e un QNH di 1026 hPa, accettò di condividere lo spazio.

Quella donna lo incuriosiva, si fece forza ed esternando una assoluta noncuranza, la guardò con malcelata attenzione.

Il volto dai lineamenti delicati incorniciava occhi grandi e luminosi. Nasino, leggermente all’insù, labbra sottili e regolari. Capelli ricci, lunghi fino alle spalle, la fronte ampia.

Sedeva con le gambe unite le braccia conserte appoggiate su di queste, sembrava la rappresentazione classica di una maestrina dell’Ottocento.

Sulle gambe, quasi nascosto dalle pieghe del leggero soprabito color pesca, teneva un libro, due piccole scarpette scure, senza un filo di polvere completavano il quadro.

Si avvicinò e con un filo di voce chiese: “Mi scusi signorina, posso?”

Indicando con un cenno della testa la parte libera della panchina. La ragazza lo guardò negli occhi sfoderando un sorriso aperto e luminoso.

“Certamente!” L’anziano temette per un attimo che avesse intrapreso la strada di una conversazione non richiesta.

“Mi scusi se ho occupato il suo spazio, mi sposterò e troverò un altra panchina libera, non si preoccupi.”

Non voleva spaventarla, un turbinio di pensieri affollò la sua mente, stava andando in disorientamento spaziale. E se avesse frainteso la richiesta di restare, come una ardita avance di un vecchio solo e desideroso di parlare?

Il tempo rallentò mentre faticava a seguire i pensieri e sentimenti contrastanti gli affollavano la mente. Era terrorizzato al solo pensiero, ora si sentiva confuso…

Il mondo impazzito si rovesciò su sé stesso una volta e ancora una e ancora e ancora mentre lui, tentava di combattere contro la forza che lo schiacciava sul Martin Baker e un istante dopo cercava di strapparlo dallo stretto abitacolo del caccia per scagliarlo contro la bolla in perspex schiacciandolo come un polipo sbattuto sul molo di un porticciolo dai pescatori. Il rollio rallentò, l’orizzonte riprese progressivamente la sua posizione naturale, sentiva di farcela. Riprese il controllo dell’orizzonte.

“La prego, se vuole resti pure, non mi disturba affatto.”

Disse indicando il lato libero della panchina e con una sorta di timido sorriso concluse:

“Mi siederò per un poco, se non la disturba”

Una sensazione di calore salì dal petto, cosi violenta e improvvisa che temette per un istante fosse un principio di infarto.

Era invece il segno inconfondibile, di un’emozione dimenticata. Stava arrossendo.

Troppo tempo era passato da quando aveva parlato con qualcuno.

Faceva la spesa, chiedeva il prezzo della frutta, si faceva tagliare gli affettati, salutava il vicino di casa sul pianerottolo delle scale, ma parlare, raccontare, sentirsi parte della vita e delle emozioni di un altro essere umano, non ricordava l’ultima volta che era successo. Si sedette sul bordo della panchina, pochi centimetri più in là e sarebbe caduto sul prato. Chinò lo sguardo verso terra dalla parte opposta alla donna, per nascondere il rossore accesosi inopportunamente sul suo volto.

Stava valutando l’ipotesi di andare via e lasciare quella situazione imbarazzante quando il sibilo del Ryanair delle 08:15 da Malpensa gli fece istintivamente alzare lo sguardo.

Stabile sull’ ILS per la pista 28 destra avrebbe fra pochi secondi riportato il marker, come richiesto dal controllore di avvicinamento…

 

Seduto nella posizione di sinistra nella cabina del 737/800, gli occhi fissi all’ADI, seguiva con attenzione il procedere del velivolo sul sentiero di avvicinamento strumentale. Era perfettamente allineato con il sentiero di avvicinamento e il velivolo seguiva ubbidiente le indicazioni. Con le mani sulle manette, impostò la riduzione della spinta necessaria a ridurre la velocità a 130 nodi. Mentre molto delicatamente aumentava l’assetto per portare le ruote al contatto nel modo più delicato possibile, la striscia scura della pista diventava ogni istante più grande…

Seguì con lo sguardo il velivolo che proseguiva sul suo invisibile sentiero l’avvicinamento e, con la coda dell’occhio, notò la donna, con il suo nasino all’ insù, che seguiva la traiettoria dell’aereo. Un caso? Una semplice curiosità? Lei, poteva non sapere che il parco si trovasse proprio sotto la traiettoria di atterraggio del vicino aeroporto.

Credette di riconoscere qualcosa in quello sguardo, una luce che non era certo dettata dal caso o dallo stupore.

Lei, seguiva le linee sinuose e seducenti, dell’aereo, come un orchestrale segue la bacchetta del suo direttore.

Il velivolo prosegui il suo avvicinamento attraversando il cielo sopra di loro. La donna si voltò verso di lui accennando un sorriso, aprì il libro sulle sue ginocchia e cominciò a leggere.

Come tutti i giorni seguirono il volo delle 09:30 da Bruxelles Charleroi e subito dopo quello da Catania Fontanarossa, quindi il volo da Milano in ritardo, come quasi tutte le mattine, poi seguirono un Falcon 900, un Gulfstream e un anziano King Air.

Ad ogni passaggio, lei interrompeva la lettura ed alzava lo sguardo al cielo, seguendo la traiettoria del velivolo. Quella mattina passò più in fretta del solito. Stessi marmocchi rumorosi, stesse mamme, stessi cani, stessi padroni.

Ma lei, era differente da tutta quella umanità cosi impegnata in piccoli problemi polverosi, da non alzare mai lo sguardo al cielo.

La donna, si alzò, come fosse suonata la fine delle lezioni.

Spolverò delicatamente la panchina dove si era seduta. Rassettò le pieghe del soprabito e salutò con un sorriso splendente.

“Buona prosecuzione della sua giornata! Spero non averla disturbata troppo!”

La sensazione di calore esplose più forte della volta precedente, temette ancora che il cuore andasse in stallo.

 

La turbolenza di quel temporale spostava di continuo l’aereo mettendone a dura prova la resistenza strutturale. Il radar meteo si era ammutolito, sembrava che la paura si fosse impossessata anche dello strumento lasciandolo a decidere il da farsi da solo.

Il de-ice lavorava infaticabilmente distaccando piccoli iceberg dalle superfici delle ali, mentre le eliche lanciavano pezzi di ghiaccio sulla fusoliera provocando tonfi irregolari.

Aveva disattivato l’autopilota cercando di mantenere per quanto possibile assetto e velocità.

La pioggia, mista a grossi fiocchi di neve, sferzava il parabrezza facendogli pensare a quanta acqua avrebbero potuto ancora ingoiare le turbine prima di spegnersi.

Sarebbe stato triste non tornare a casa quella sera.

 

“Assolutamente no signorina!” esclamò sentendosi a disagio “Non mi ha disturbato, era molto che non avevo il piacere di una cosi discreta e piacevole compagnia “

Si stava sentendo come un imbranato sedicenne alla sua prima festa di liceo.

Lei sembro non sembrò imbarazzata affatto e rispose con cortesia: “Meglio così! Magari la volta prossima potremo scambiare due chiacchiere, se le farà piacere. Ora vado, buona giornata!”

Sorridendo si incamminò verso l’uscita, schivando un paio di ragazzini impegnatissimi a rincorrersi urlando come fossero cavalieri delle orde di Gengis Khan. La seguì con lo sguardo fino al limite del prato ma gli scalmanati alzarono una nuvola di polvere e lui ne perse la sagoma.

Lentamente, con la testa in mille pensieri disordinati, si avviò verso l’uscita. La mattina dopo giunse alla “sua” panchina in anticipo. Il parco non aveva ancora aperto e aspettò al cancello che un distratto impiegato comunale lo aprisse mentre lo guardava con un misto di scetticismo e compassione.

Si ritrovò solo, di certo la sconosciuta non aveva scavalcato le recinzioni pur di arrivare prima di lui, però ci aveva sperato e ci rimase piuttosto male. Si sedette al centro della “sua” panchina. Guardò l’orologio aspettando il primo volo della mattina il Ryanair delle otto e un quarto da Malpensa.

Nonostante il volo arrivasse con almeno 15 minuti di ritardo, quando il sibilo delle due turbine CFM56-3 lo annunciò, lei, non era ancora li.

Seguì la traiettoria del velivolo, che cercava di compensare il vento al traverso con il muso rivolto ad esso.

Quel vento non ci voleva, la costa frastagliata provocava una turbolenza imprevedibile e, come se non bastasse, un fitto rovescio di pioggia si era posizionato proprio sulla direzione di atterraggio. L’ intera Cornovaglia, sembrava oscillare sotto l’impatto delle onde oceaniche che si accanivano contro le scogliere scure generando montagne di schiuma bianca. Manteneva a fatica il sentiero di avvicinamento, prua al vento. “3 miglia al contatto!” Davide, seduto alla sua destra, non aveva più proferito parola da quando avevano lasciato il punto iniziale ma era ancora li, concentrato e sicuro si se.

“Chiedi l’ultimo vento e la visibilità per favore…” disse mentre lottava per mantenere stabile l’aereo sballottolato dalle raffiche di vento.

“Wind from 030° 25 gusting 40 knots, rain shower, visibility 500 ceiling 300!”

In quel momento entrò in cabina lo specialista di bordo, “Sarà il caso di andare in un posto più tranquillo?” Chiese con malcelata preoccupazione mentre un altro scossone lo costringeva a tenersi forte al cielo cabina.

“A trovarlo! “rispose Davide, “ci siamo, vatti a legare…”

L’aereo uscì da quell’ultimo piovasco trovandosi la pista, allineata con il finestrino laterale del primo ufficiale.

“OK, sono sul sentiero! Mantengo 20 nodi più della velocità di avvicinamento “Esclamò più per darsi coraggio che per una vera e propria necessità di coordinazione.

“500 alle minime!” Davide cominciò a riportare le quote di avvicinamento come da procedura operativa.

“AA 2835 you are cleared to land wind 045° 30 gusting 50 knots!”

La pedaliera sembrava aver preso vita e voler sfogare della rabbia repressa. Vedeva le scogliere sovrastate dalle onde. La pista cominciò a scorrere sotto l’aereo.

“Pedale, cloche, via motore…Contatto!”

La rubiconda ragazza del parcheggio, dai capelli rosso fuoco indossava un giubbotto giallo dalla esagerata scritta fluorescente “GROUND CREW”. Li guardò con una smorfia di apprezzamento mentre scendevano dal velivolo “Good job guys!”.

Quella notte dormì male. Eppure vennero a trovarlo molti amici. Qualcuno di loro lo aveva preceduto da poco, portato via dalla nostalgia, come diceva lui, qualcuno aveva chiuso le ali, altri in realtà non le avevano mai aperte. Ma il filo comune con tutti era che erano andati avanti, e ora era rimasto solo, ad aspettare il suo volo.

All’alba lo vide arrivare. Lo riconobbe, anche se era molto più giovane di come lo avesse mai visto nella sua vita. Una luce fioca ne indicava la presenza impedendo di vederne chiaramente i tratti, ma sapeva che era lui. Sentì stringersi la gola. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che si erano visti.

Indossava una tuta da volo beige, con un folto colletto di pelliccia e in testa il cappello della Regia Aeronautica. Dimostrava forse venti anni, capelli folti, biondi come lui, non aveva mai visto, con uno spregiudicato ciuffo ribelle. Lo ricordava da sempre canuto. Gli occhi scuri, dallo sguardo acuto e penetrante, le mani, grandi, rassicuranti. La voce, forte e serena, quella voce che lo aveva accompagnato tante volte a dormire, che aveva calmato le paure, che aveva aperto le porte dei sogni con storie di volo e di aerei, di nuvole e di cieli notturni stracolmi di stelle.

“Ciao papà…” la voce uscì come un solo sottile e subito si chiuse in un singhiozzo.

Lui lo fissò negli occhi, rispondendo con un sorriso aperto: “Figlio mio. Ci ritroviamo finalmente.”

Si svegliò di soprassalto, con un senso di profonda malinconia addosso.

Cercò gli occhiali sul comodino. Erano passate da poco le sei, la luce cercava di farsi spazio tra le aperture delle tende. Ci sarebbe stata lei?

La città era già in piena frenesia da inizio giornata e lui, cercando di non essere notato più del necessario, attraversò le strade affollate. Raggiunto il cancello del parco si avviò lungo il viale polveroso, fiancheggiato da gruppi di oleandri che mostravano fieri i primi fiori vermigli. Giunse al parco giochi e dovette appoggiarsi ad una pianta per riprendere fiato. Aveva quasi corso e il cuore era balzato a mille.

Aspettò che acquisisse il suo battito usuale. Si diresse quindi con passo lento, verso la “sua” panchina. Nel mentre, scorreva l’infanzia la gioventù, gli anni in divisa, l’aquila dorata sul petto. E un qualcosa che non riusciva a ricordare.

Camminava lungo una strada, sempre la stessa. La percorreva ogni volta che cercava di ricordare. Non voleva essere su quella strada, vuota, triste, deserta. Ne sentiva l’ostilità.  Quella strada terminava contro un muro e non sapeva cosa ci fosse dietro. Più passava il tempo e più non voleva percorrerla. La scura e densa nuvola di pensieri che si stringeva intorno a lui, svanì improvvisamente.

“Buon giorno!”

Il saluto fu un’onda di calore, luce purissima, vento che spazza le nubi, la strada, il muro e tutte le domande svanirono via nella aria fresca di quella primavera.

Era li, seduta sullo stesso angolo della panchina, non un capello fuori posto, le gambe unite e le braccia conserte, sulle ginocchia il solito libro. Non un granello di polvere sulle piccole scarpette.

“Signorina! Sono contento di vederla. “Non avrebbe mai creduto di pronunciare quelle parole. “Grazie!”

“Grazie per cosa? “chiese la donna assumendo l’aspetto di una persona attenta alla risposta.

“Grazie di essere qui!”

Rispose pentendosi immediatamente di quello che aveva appena detto.

Lei sembrò gli avesse letto dentro e fermò la valanga dei pensieri che si stava scatenando con un’espressione di apprezzamento.

“Mi creda, so bene cosa sta provando capisco cosa significhi essere soli, sentirsi fuori posto. Anche io sono un po’ fuori posto da sempre sa!”

L’anziano abbassò un attimo lo sguardo poi indicando con la mano destra il libro che la donna aveva sulle ginocchia chiese con un filo di voce: “Posso chiederle cosa sta leggendo?”

La donna alzò il libro e lo volse verso l’anziano.

“Forever Flying, di Bob Hoover. Lo conosce?”

Era li, appoggiato al cofano dell’auto ammirando il cielo terso e luminoso. La folla si aggrappava alla recinzione dell’aeroporto sbracciandosi ad ogni velivolo che rullava per portarsi dai parcheggi alla linea di volo per iniziare la sua esibizione. Rimase quasi senza fiato quando lo Shrike Commander sfrecciò pochi metri sopra la sua testa uscendo basso alle sue spalle. Sfiorò la recinzione e per un attimo scomparve alla vista abbassandosi a filo del terreno per poi salire quasi in verticale contro il sole.

Il pubblico esplose in un boato quando, giunto all’apice della salita chiuse la manovra rovesciandosi verso terra. I motori divennero improvvisamente muti e un silenzio irreale avvolse l’aeroporto e la folla con il naso all’ insù.

Il sibilo del velivolo in accelerazione si fece sempre più alto mentre aumentava la velocità trascinato dal suo peso verso il suolo. Migliaia di occhi sempre più spalancati e mani indicavano il velivolo.

All’ultimo istante, cambiò traiettoria, sempre a motori spenti, trasformando la picchiata in un looping perfetto, poi uno slow roll in salita a 45°, virò stretto a destra portandosi all’ atterraggio.

Il touch down fu accolto con un boato dalla folla entusiasta. Il bimotore si fermò sulla pista all’altezza delle tribune centrali e a questo punto, fra lo stupore dei presenti, i motori, dati per spacciati, ripresero vita e il velivolo sfilò lentamente verso l’aerea di parcheggio tra l’ovazione della folla.

“Questo vuol dire aver manico! Ora chiudi la bocca, se non vuoi riempirla di mosche!” disse suo padre e aggiunse ridendo. “Spero solo che tu non voglia fare il pilota dimostratore!”.

“Papà! Ma è proprio quello che vorrei fare! “rispose senza togliere lo sguardo dal velivolo davanti alla recinzione a pochi metri da lui. Il pilota guardò verso quel ragazzino dall’ aria sognante con la bocca aperta e la pelle d’oca nonostante il caldo sole di quella tarda estate,  lo salutò, con un cenno della mano alla fronte…

Guardando la copertina del libro con malinconia esclamò:

“Lo sa, io l’ho visto volare! Una vita fa, uno dei pochi show in Europa a cui partecipò con il suo bimotore.” abbassò di nuovo lo sguardo, a voler tornare a quei tempi.

 “Ogni pilota alzava l’asticella. Ogni volo. Sfiorare la testa degli spettatori, radere l’erba sul bordo pista con le eliche. Questo era fare acrobazia, voleva dire impedire a chiunque di chiudere la bocca per la meraviglia e la tensione.”

Scosse la testa lentamente.

“Poi, tutto cambiò, distanze di sicurezza, spazi, quote, tutto si trasformò in nome di una sicurezza, giusta e necessaria, ma che cancellò quella parte primitiva, emozionale, quel battito accelerato del cuore.”

La donna posò il libro sulle ginocchia e prese la mano dell’anziano carezzandola delicatamente.

“Ci furono incidenti molto gravi, molte persone persero la vita. Non si poteva continuare cosi” – disse socchiudendo gli occhi.  “Volare, è libertà e gioia, non può essere dolore, paura, sofferenza o disperazione.”

Quel contatto, un’onda di piacevole calore, lo scosse fino nel più profondo della anima.

Si raccontarono la vita. Lei, sembrava conoscere ogni aereo citato, ogni manovra raccontata. Conosceva procedure e prestazioni di volo, il lessico del pilota.

Si interrompevano solo al passaggio degli aerei che procedevano sul sentiero di avvicinamento. Chiunque li avesse notati, avrebbe visto su entrambi lo stesso sguardo, luminoso e felice.

Parlarono dei tempi andati, quelli in cui i piloti decidevano rotta e quota da mantenere, e non si limitavano ad essere controllori di un sistema di computer. Bussola e orologio, storie di radiogoniometri e radiofari, parlarono delle lunghe tratte sul mare, dei voli notturni.

Portò le manette in avanti fino a che le lancette della potenza non raggiunsero, sfiorandola delicatamente, la linea rossa del 100 %. La lancetta dell’anemometro si spinse pigramente in avanti di pochi nodi, del resto non si poteva chiedere di più a quel bimotore, già si stava impegnando più del dovuto per farli arrivare in tempo a casa quella sera di Natale. Il vento in quota li aiutava benevolo. Guardò il collega alla sua destra con un sorriso soddisfatto. Ci sarebbero riusciti. La notte era limpida e senza luna. Lassù, un miliardo di stelle si preparavano ad una serata magica, mentre ventimila piedi più giù, le luci delle case facevano a gara con le stelle. L’aria fredda scorreva sulle superfici dalle linee morbide e affusolate producendo un sottile fruscio simile alle fusa di un grosso gatto. In fondo, pensò, non c’era un altro posto dove avrebbe voluto essere…

“Ora devo proprio andare.” Disse la donna.

“Si, capisco, spero non averla annoiata.”

“Assolutamente no, è stata una mattinata molto piacevole. Ne avremo ancora sono sicura.”

Si rassettò il soprabito, sorrise e si allontanò attraverso il prato. Lui la seguì con lo sguardo fino a quando una folata di vento alzò uno sbuffo di polvere che nascose la sua esile figura.

Non c’era nessuno intorno. Nessuna mamma, nessun bambino, nessun pallone. Alzò lo sguardo al cielo, nessun aereo. Avvertì una sensazione di freddo. Chinò la testa verso le ginocchia racchiudendola tra le mani. Aveva paura ora. Improvvisamente, un’onda di voci lo raggiunse. Alzò la testa e aprì gli occhi. Il parco era, come sempre, pieno di mamme e bambini pigolanti.

Si voltò verso il lato dove prima sedeva lei. Il sole era basso sugli alberi ma dal lato del tramonto. Si sentì confuso. Che ore erano? Sognava? Ancora un brivido freddo. Gli occhi pieni di lacrime, la gola chiusa, aveva paura di non distinguere più la realtà dal sogno.

Ricordava ogni dettaglio del suo vestito, ogni tratto del viso. Il sorriso, la voce, le scarpe, immacolate, senza un filo di polvere. Lei, sapeva cosa voleva dire lottare con le raffiche di vento in atterraggio, conosceva le sfumature del blu profondo del cielo, aveva visto i tramonti sul mare dalla cabina di un bimotore, provato la sensazione di potenza che da la spinta selvaggia del post bruciatore. Amava girare intorno alle nuvole e la sensazione di libertà quando rovesci il mondo a testa in giu. Aveva la luce di chi in quel cielo ha vissuto. Con un velo di tristezza sul cuore, si avviò verso l’uscita.

Quella notte tornò a trovarlo. Lo accolse sorridendo. Non entrò dalla porta, era semplicemente li, come solo le anime sanno fare quando vanno a trovare qualcuno. Non bussano alla porta, non spalancano finestre, ci sono e basta, e lui era lì, seduto sulla vecchia poltrona, indossando la tuta da volo, il cappello sulle ginocchia, composte come gli avevano insegnato in accademia. I capelli dal ciuffo biondo, davano un’aria di simpatica spavalderia, quella che ti aspetti dai giovani piloti da caccia.

Lo sguardo, vincente, audace, dolce, un misto di tenerezza e malinconia. Lo stesso sguardo che ricordava avere visto l’ultima volta, che si erano abbracciati. Quello sguardo che sentiva essere uguale al suo, stanco dell’essere solo, stanco del trascinarsi su di una terra che gli era sempre stata straniera.

“Sai quanto tempo ti ho aspettato, sperando che tutto non si riducesse a pochi ricordi da far sbiadire al sole? Avrei voluto che tu mi raccontassi più storie e avere più tempo da passare insieme.” disse rivolto al padre.

“Il tempo” rispose “La nostra prigione e la nostra condanna.” accennando un gesto con la mano, come ad accarezzare l’aria.

“Papà, tutto quello che è stato, volare, amare, vivere, ne è valsa la pena?”

Non rispose, vide un sorriso triste sul volto di quel giovane pilota di una generazione scomparsa. Si tennero per mano rimanendo in silenzio. La figura lo guardò, poi abbozzò un saluto con la mano. Semplicemente un attimo dopo, non fu più li.

Il rumore della città giungeva attutito dagli infissi. Realizzò che non sapeva che ore fossero, ma a giudicare dalla luce e dal rumore che proveniva da dietro le persiane, dovevano essere passate abbondantemente le nove.

Si vestì rapidamente, quanto i mille dolori dell’età avanzata gli consentissero e si avviò, verso il parco. Giunse sul bordo del campo e vide la “sua” panchina, ancora solitaria.

Dovette fermarsi a respirare e prendere tempo. Troppo veloce e troppa emozione. Poi il cuore iniziò a rallentare e il respiro si fece più lungo e regolare. Riprese a camminare raggiungendo la “sua” panchina. Intono a lui tutti, mamme, bambini, tutti sembravano urlare. Si chiese se l’umanità fosse diventata sorda e rimpianse di non essere rimasto a casa.

Improvvisamente, dal nulla, si alzò il vento, sembrava solo un soffio, ma divenne in breve forte e deciso. Sollevò un mulinello di polvere che lo costrinse a chiudere gli occhi e sentì  il sapore  famigliare della sabbia nella gola.

Da quanto tempo era li, ai bordi di una pista sabbiosa e desolata in una ancora più desolata valle nell’ Afganistan sud occidentale. Volando lungo una strada apparentemente abbandonata a sé stessa e al caldo implacabile. Non una traccia di vita per chilometri e chilometri, lungo quel confine che si sapeva un punto di passaggio sempre molto frequentato. Confine scritto e riscritto nei secoli, con disattenzione, a volte con ferocia, spesso con disillusione, sempre con l’indifferenza per quello che un confine può significare.

Anche quello era volare, volare senza essere in volo, una sorta di recitazione. Una prestazione teatrale, necessaria ad ogni decollo, ad ogni atterraggio e durante ognuna delle lunghe ore scritte sul profilo di missione. Quella interpretazione che si richiede ad ogni pilota di velivoli a pilotaggio remoto. Si era vestiti da pilota, si parlava da pilota, si agiva sui comandi come un pilota e si vedeva, seppure su di un monitor il suolo sorvolato. Non era difficile immedesimarsi in quello che a chilometri di distanza e a diecimila piedi dal suolo stava succedendo. Si era in volo, con il proprio equipaggio, con il proprio velivolo, volando senza pensare di essere, in realtà, ad un tiro di fionda dal bar e da una bevanda fresca. Si era in volo e basta, cercando tracce, annusando pericoli, godendo del panorama. Mancava la turbolenza, mancava il sudore o il freddo, l’odore della cabina. Mancava buona parte della paura, quella che ti accompagnava nelle missioni più delicate, mancava la sensazione di non avere la terra sotto i piedi. Ma eri in volo, ancora una volta in volo…

Riaprì gli occhi tossendo leggermente e non era più solo. Lei era li, sul lato libero della “sua” panchina. Il vestito chiaro, i capelli raccolti, il libro sulle ginocchia conserte, le scarpe, senza un filo di polvere, il suo sorriso.

Rimase interdetto, gioia e stupore si sovrapposero saturando i suoi pensieri.

“Non ti avrò spaventato spero!” disse la donna sorridendo.

Notò il tono di voce differente, vicino, più intimo. Si sentì bene, nessun disagio in quell’inatteso cambio di relazione. Sapeva di potersi fidare, gli infondeva una tranquillità profonda, una sensazione di calore. Ora sapeva.

“Sei arrivata finalmente, sapevi che ti stavo aspettando da tempo.” Rispose, senza provare ora alcun imbarazzo.

Lui, quello che viveva dentro una corazza fatta per proteggerlo dalla solitudine e dalla età avanzata, sapeva finalmente, di essere libero di parlare, a quella creatura che sentiva intimamente di conoscere da sempre, e verso la quale, non nutriva timori né ritrosie.

“Hai parlato con lui, so che ti è venuto a trovare, e non è stata l’unica volta che lo ha fatto” lei disse sorridendo. 

“Ha senso chiederti da quanto tempo lo conosci? “

“Da sempre, come da sempre conosco te e tutti quelli che sono venuti prima, quelli che ho seguito dall’inizio del loro tempo. So che hai capito.”

“Le scarpe…” disse l’uomo indicando i piedi piccoli e proporzionati della donna.

“Le scarpe? “rispose lei assumendo un’espressione fra il divertito e il sorpreso.

“Le scarpe si, senza mai un granello di polvere, chi cammina sulla terra, non può non sporcarsi di polvere. Solo chi non è di questa terra ne resta sempre pulito.”

Lei sorrise di nuovo e rispose :“Da quanto tempo, se di tempo si può parlare, mi stavi aspettando? “

“Da sempre, sapevo saresti venuta a trovarmi, era solo una questione di tempo, e ora che il mio tempo è passato, anzi direi ora che il mio tempo è volato, sei qui, e so che questo tempo non è passato invano. Ho avuto tutto quello che volevo e ora sono felice. Sai, ho capito che il mio tempo stava arrivando quando i vecchi amici hanno cominciato a venire a trovarmi. Ho riscoperto una serenità che credevo non potesse esistere.” Disse guardandola fisso negli occhi.

“Ti ho sempre seguito con amore, nei momenti più difficili, quando ti sentivi perso o solo, o disperato, io ero li un passo dietro di te. Il mio compito era suggerire, e tu, hai seguito quei suggerimenti, e ho anche imparato molto da tutti voi.”

“Imparato da noi? Cosa? “

“Ad apprezzare quanto possa essere meraviglioso volare per chi non ha le ali. Ho imparato ad appassionarmi alle vostre passioni.”

Si presero per mano, tenendole strette, e rimasero in silenzio. Mille immagini cominciarono a scorrere nella sua mente. Volti, parole, sentimenti, luoghi. La trama della sua vita, senza alcuna traccia di tristezza, senza nessuna nostalgia, solo una sensazione di infinita tranquillità.

Alzò gli occhi al cielo vide le nuvole bianche sparse in un mare di blu. Si volse guardandola negli occhi grandi e profondi, e vide le scie degli aerei dipingere linee ordinate nel cielo. Vide il sole al tramonto su mari color dell’oro, vide le montagne coperte di neve e ghiacciai infiniti, vide le nuvole più in basso.

Senza mai lasciargli le mani lei si alzò lentamente, invitandolo a seguirla. Luis si alzò e la vide spiegare le ali grandi e luminose.

“Sei pronto a ricominciare? “disse l’angelo.

“Sono pronto! “rispose sorridendo

“Stammi vicino, sarà più bello del tuo primo volo.”

E, tenendosi per mano, salirono verso quel blu punteggiato dei bianchi batuffoli. Vide la “sua” panchina, il parco contornato dai palazzi scuri, le campagne intorno alla città e poi il mare, il mondo verde e blu, tutto il creato e le stelle.

§§§§

La bambina si avvicinò al vecchio seduto sulla panchina. Lo guardava curiosa in silenzio, forse si sarebbe accorto di lei e della palla rimasta sotto la “sua” panchina. Si fece coraggio e si avvicinò allungando il piede per recuperare il pallone. Il vecchio non si mosse.

La mamma la chiamò con un tono che non ammetteva ritardi, e la bimba corse verso di lei con la palla in mano.

“Cosa facevi vicino a quel signore? Non lo avrai disturbato?”

“No mamma, credo stia dormendo mamma. Sai mamma, penso che stesse facendo un sogno bellissimo!”

“E questo cosa te lo farebbe pensare?”  Chiese la mamma sorridendo dolcemente.

“Sorride mamma, sorride come fosse tanto felice”.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Roberto Malaguti

 

Un commento su “La panchina”

  1. Può un racconto di colpo ridimensionare il nostro mondo fatto di improrogabili urgenze? Può ridisegnare in un momento la scaletta delle nostre priorità? Può ricondurci alla nostra sostanza fatta di provvisorietà? Sì, se il racconto è "La panchina" di Roberto Malaguti: pieno di ricordi malinconici, pieno di cieli solcati, eppure ancora più pieno di speranza, come quella che infonde l'angelo che soavemente un giorno ti verrà a prendere per mano per accompagnarti in un non-luogo dove ti attende un padre più giovane di te, e chissà quanti altri amici riconciliati con la caducità della vita terrena.
    Bravo l'autore del racconto. Delicato, pieno di tenerezza e altrettanto struggente, il commento che lo presenta...però, oh, occhio alla pulizia delle scarpe di chi ti siede accanto!

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