Vive e lavora a Vercelli dove insegna letteratura italiana nelle scuole medie e superiori.
Ha iniziato a volare nel 2009 e da allora ha visitato l’Asia sei volte.
Presta la sua opera di volontariato presso scuole e comunità del sub-continente indiano e ha inventato un modo di viaggiare che coniuga solidarietà e cultura, meditazione e turismo.
Nel tempo libero legge molto e scrive racconti e poesie.
I suoi autori preferiti sono: Tiziano Terzani, Giuseppe Tucci, il Dalai Lama e Gandhi.
Appassionata di filosofie e religioni orientali, ama i film di Bollywood e i piatti esotici, anche se non sa cucinare assolutamente nulla.
Cura una rubrica sulla storia della canapa per una rivista italiana e da due anni collabora con il Centro culturale Hare Krishna di Torino.
Ha partecipato alla VIII edizione del premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE.
Per inviare impressioni, minacce ed improperi all’autrice:
Ho sentito parlare di lei ogni qual volta rientrava da un viaggio, quando le portava chili d’incenso, stoffe colorate e statuine di Budda. Chiara pubblicava le foto su Facebook dei regali ricevuti, corredate da tanti cuoricini di ringraziamento. Oggi ho l’occasione di sentire dal vivo le sue esperienze.
Dopo i convenevoli, mentre sorseggiamo un thè al gelsomino Barbara comincia la sua narrazione.
“Ho iniziato a volare tardi nel 2009 all’età di 34 anni. Un viaggio di nove ore più lo scalo”.
“Coraggiosa”, non mi trattengo, devo subito commentare.
Chiara mi lancia un’occhiataccia, come a dire che ha appena iniziato e già l’interrompo. Ma Barbara non si discosta, sorride e riprende il discorso.
“Sono andata in India, partendo da Milano e passando per Francoforte. La prima tratta è andata bene, ero così impegnata a guardarmi intorno che il tempo, è proprio il caso di dirlo: è volato. L’aeroporto tedesco è immenso, mi ci è voluta un’ora e mezza prima di trovare il gate per imbarcarmi alla volta di Bangalore. Tuttavia salita a bordo, subito dopo il “crew take off”, sono scoppiata a piangere, un pianto a dirotto, dirompente, un po’ celato per non farmi vedere o sentire dagli altri passeggeri, fortuna che ero seduta in fondo. Singhiozzavo e non riuscivo più a smettere, un misto di paura, quasi terrore, ma anche di stupore e agitazione si era impossessato di me”.
“Poverina”, mi lascio sfuggire. Ma la mia nuova amica prende fiato e ricomincia.
“Stavo lasciando a terra tutte le sofferenze di quel periodo. Un lavoro dove non venivo accettata, la laurea ancora lontana, se poi ci aggiungiamo il timore per gli attacchi terroristici. Insomma, avevo molte ragioni per sfogarmi e lasciarmi ogni cosa alle spalle. Questo è stato il mio battesimo dell’aria”.
“Le premesse ci sono tutte”, aggiungo io, per ascoltare il resto.
Chiara mi guarda e mi dice: “Ora viene il bello: il rito scaramantico”.
Barbara sorseggia il suo thè, si lascia andare sul divano e prosegue il suo racconto.
“Da quel primo viaggio alla scoperta di me stessa, tra volontariato e meditazione, cultura e turismo, ne sono seguiti altri nel Sud-est asiatico. Chennai, Bangkok, Kathmandu e Singapore. Ho cambiato compagnia aerea però e, di conseguenza, anche scalo, ora passo sopra il cielo di Dubai. E come ti ha anticipato Chiara, dalla seconda volta ho iniziato a compiere un rito prima di salire sull’aeromobile. Mi lascio superare dalle persone sulla mia sinistra, mi avvicino piano piano e accosto la testa alla carlinga. È così liscia, calda, morbida, di quel bianco immacolato. Entro in contatto col velivolo e gli sussurro: portaci a destinazione”.
“Immagino che le hostess e gli stewards ti guardino un po’ straniti, ma chissà quante ne vedono e ne sentono, mi sa che la tua consuetudine dev’essere la meno strana.”
“Infatti. Nessuno mi ha mai detto nulla. Arrivo poi al mio posto e aspetto, trepidante, il momento più bello di tutta la crociera: il decollo. Quando l’apparecchio gira e rigira sulla pista e poi gira ancora, che sembra che uno ci debba arrivare in quel modo in Asia, ecco che si posiziona diritto, qualche secondo d’attesa, punta la lunga lingua d’asfalto davanti a sé e, prende sempre più velocità, vedo tutto dal monitor, con un occhio sbircio fuori e sento la schiena che preme con vigore contro il sedile, trattengo il fiato, le orecchie si tappano, trema ogni cosa, è una sensazione così forte, eccitante, elettrizzante, unica, che vale tutto il costo del biglietto”.
“Caspita è così coinvolgente che mi sono vista proiettata in un film. Ma ti prego continua.”
“Finalmente l’aereo si stacca da terra, apro gli occhi, guardo fuori dall’oblò, gli edifici, gli hangar si allontanano, sento un sorriso stampato sulla faccia. Sono sollevata e penso che in Formula 1 sia più o meno la stessa cosa: la pista, l’alta velocità. Solo che sei da solo sulla monoposto, non hai la responsabilità di tutta quella gente.
Purtroppo quella sensazione fantastica che mi ha accompagnata nei vari viaggi, devo essere sincera, l’ultima volta non l’ho sentita. Cioè: è stata di minor intensità. La risposta credo che stia nei nuovi modelli d’aereo, proprio per evitare di essere schiacciati al sedile o magari sta nella bravura dei piloti”
“Può esser”, dico io, “ma che importa, lasciamo queste cose agli esperti. Io non ho mai viaggiato in aereo, sono tutta orecchi”.
“Dopo lo stacco da terra arriva un altro evento, quello magico per la sua solennità, si aspetta che l’aereo si stabilizzi, che venga portato in quota, o almeno credo si dica così, c’è silenzio a bordo, gli assistenti di volo seduti che tengono tutto sotto controllo, che nessuno si alzi o abbia bisogno, è un frangente talmente catartico che nessuno osa proferire parola. Ma appena la lucina delle cinture di sicurezza s’illumina e diventa verde, si sente un “cla clak cla clak” frenetico, a ripetizione, i membri dell’equipaggio si alzano, iniziano il turno e si scatena l’inferno. Tutti che chiamano, tutti che chiedono qualcosa, chi corre in bagno, chi prende qualcosa dalla cappelliera. E ogni volta resto a bocca aperta: ma se siamo appena partiti, ma se fino a un secondo fa non fiatavate, adesso avete tutte queste esigenze?”.
“Questa parte è molto divertente”, dice Chiara.
“E tu invece che fai?” le domando controllando l’ora sul cellulare.
“Io mi godo il panorama se è giorno, mentre se è notte cerco di appisolarmi, oppure leggo il menù e aspetto il mio pasto. Non guardo la tv, non smanetto col computer, non ascolto musica. Guardo gli altri: un crogiuolo di persone di ogni cultura ed età. Noto i loro abiti e ascolto, se sono vicini, i loro discorsi. Mi piacciono quei suoni così diversi dall’italiano.
Ho così tanti pensieri nella testa che non so neanche da che parte cominciare: un breve riassunto dell’anno scolastico appena trascorso e che mi ha fatto meritare di essere lì oppure cosa devo fare nelle prossime 24 ore? In genere tutte e due le cose, quindi, mentalmente passo in rassegna tutti gli spostamenti che dovrò fare prima di arrivare a destinazione. Controllo gli orari del prossimo volo, metto in ordine i biglietti, verifico di avere ogni cosa a portata di mano: macchina fotografica, passaporto, taccuino per gli appunti, felpa, porta occhiali”.
“Beh, non ti annoi, nonostante tutte quelle ore di volo”
“È così. E dopo quattro ore circa, arriva un altro dei miei momenti preferiti.
È notte fonda quando sorvoliamo la penisola arabica, c’è silenzio, mi alzo e vado dal portellone dove c’è un oblò un po’ più grande, non c’è nessuno seduto nei pressi e non intralcio il passaggio dello staff. Mi affaccio e guardo il firmamento di sotto. Così lo chiamo io, e per me è una delle cose più belle che possano esistere. È tutto buio, nero, tetro, c’è solo qualche lucina che irrompe nell’oscurità, è di qualche lampione o di qualche abitazione. Per questo sembra l’universo in terra. Le luci assomigliano alle stelle, vicine e lontane nell’immensità scura del cielo notturno. Poi quando si sorvola qualche villaggio allora le luci sono più concentrate e man mano che ci si allontana si fanno sempre via via più rade. Poi buio completo. Ma a breve cominciano a ricomparire, come lucciole d’estate, ecco che da lì a poco giunge un villaggio o se si tratta di un centro abitato più grande si vedono bene anche le strade nitide, illuminate, una piazza, uno slargo. Chissà che paese sarà. Non c’è nessuno in giro. Si vedrebbe un’auto in movimento. Invece, niente. Eppure non è tanto tardi, magari vige il coprifuoco da quelle parti o sono villaggi di pastori e contadini che rincasano presto e non escono la sera”.
Domani passo dall’agenzia a prendere un catalogo, penso fra me e me, ho fatto proprio bene a venire qui oggi.
“Complimenti” aggiunge Chiara “scaldo dell’altro thè, qualcuno ne vuole?”
“Sì grazie” annuisce Barbara “pensavo di annoiarvi con le mie descrizioni da viaggiatrice nostalgica. Mi piace osservare e memorizzare i particolari.
Dovete sapere però che le cose cambiano, quando si arriva a Dubai, l’illuminazione aumenta e anche le strade. A quel punto sono seduta e mi godo lo spettacolo: quel chiaro scuro arancione e nero, i grattacieli che si stagliano verso l’alto, le petroliere nel mare calmo, le auto tutte in fila in quel dedalo di incroci e rotatorie”
“Ma non chiudi occhio per tutto il tempo?” chiedo incuriosita.
“Cerco di dormire, ma non è facile. Ho troppa adrenalina in corpo, mista ad ansia e preoccupazioni, non riesco a rilassarmi. Mi son sempre chiesta come facciano gli altri a riposare beati e, a russare pure!”.
“Ah, caspita, mi spiace”, rispondo io.
“Ho sentito tutto, anche se ero di là”, aggiunge Chiara; appena arrivata dalla cucina con una teiera colma.
“Quindi c’è la discesa, non tanto del velivolo, non spetta certo a me; intendo, quando tocca ai passeggeri scendere dall’aereo. Piego la copertina che mi hanno dato, cerco di fare ordine, richiudo il vassoio, reclamo un cesto o un sacchetto per la spazzatura e recupero il bagaglio a mano.
Passando davanti ai sedili della business class non posso fare a meno di guardare il disordine che hanno lasciato, sembra una discarica. Non che l’economy fosse meglio. Calzini spaiati che emergono fra i sedili, lattine rovesciate, scatoline di cioccolatini semi aperte, avanzi di cibo, cartacce ovunque, monitor accesi, film che continuano da soli. Scuoto la testa e sorrido all’equipaggio, elargisco strette di mano, mi congedo e ringrazio dei servizi offerti e, a malincuore mi avvio all’uscita.
Mentre calpesto la moquette blu, guardo fuori dalle grandi vetrate: carrelli pieni di valigie sfrecciano sulla pista, uomini col gilet giallo scaricano altri bagagli, aerei pronti a partire, c’è un gran fermento là fuori. La parte più facile è finita”.
The Silver Spitfire – The legendary WWII RAF fighter pilot in his own words.
Autore: Tom Neil
Editore: Orion House – The Orion Publishing Group Ltd
Ebook ISBN: 978 0 2978 6814 9
Hardback ISBN: 978 0 2978 6813 2
Prima pubblicazione in Gran Bretagna: 2013
Prima di scrivere anche una sola sillaba di questa recensione voglio dire subito che questo è un libro perfetto per i piloti di HAG, Historical Aircraft Group. Tutti dovrebbero leggerlo, perché nell’ultimo terzo del libro, quello che riguarda la storia dello Spitfire da cui è scaturito il titolo, viene descritto un percorso che quasi tutti i piloti di HAG hanno seguito nel reperire, acquisire, riparare, ricostruire, provare e infine, vendere a qualcun altro il loro aereo d’epoca. C’è tutto, qui. Le soddisfazioni, le ansie, le burocrazie, gli stratagemmi e spesso anche i sotterfugi che ogni proprietario di aereo d’epoca conosce bene. Non mi sarei mai aspettato di poter leggere qualcosa di così interessante, ma per fortuna è accaduto.
Ne parliamo subito.
“Mai, nella storia degli umani conflitti, così tanti hanno dovuto tanto a così pochi”. Fu con questo elogio assai stringato che l’allora primo ministro Winston Churchill sintetizzò in una semplice battuta (divenuta poi memorabile) il sentimento di riconoscenza che tutti i britannici nutrivano nei confronti dei piloti del Fighter Command (Comando caccia) della Royal Air Force (l’Aeronautica militare britannica). In effetti essi arginarono a mo’ di diga di sbarramento l’impetuosa ondata di attacchi della Luftwaffe (l’Aeronautica militare tedesca) dimostrando che le forze tedesche non erano invincibili (come aveva lasciato intendere con l’invasione fulminante della Polonia, della Francia, Belgio, ecc ecc.) e ipotecando l’esito della II Guerra Mondiale. La Battaglia d’Inghilterra ebbe avvio nell’estate del 1940 e fu solo una delle tante battaglie consumatesi nei vari fronti ma gli effetti saranno praticamente salvifici per gli Alleati. Quando vincere una battaglia può significare davvero vincere la guerra. – foto proveniente da www.flickr.com –
Un altro libro di Tom Neil, che considero il seguito di “Gun button to fire“, di cui potete leggere la recensione in questa pagina per VOCI DI HANGAR. Il volume arriva via etere nel mio fantastico Kobo.
Neanche a dirlo, ho cominciato subito a leggerlo.
L’autore, inglese purosangue, scrive in una maniera talmente lineare e precisa che mi dimentico di leggere un testo, ovviamente, in inglese. Pochissime sono le parole che devo cercare nel vocabolario associato al lettore digitale. Ma, devo dire, quando lo faccio scopro che questo vocabolario si è notevolmente evoluto nel corso dei frequenti aggiornamenti del sistema operativo del Kobo. Ora è più completo, pieno di esempi chiarificatori che riportano non solo la traduzione letterale, ma anche il significato idiomatico in frasi diverse.
Un pilota si appresta ad indossare il paracadute prima di infilarsi a bordo del suo Spitfire. Un contributo determinante nella vittoria della Battaglia d’Inghilterra, fatto salvo i piloti del Fighter Command, va sicuramente attribuito all’Air Marshal sir Hugh Dowding. Egli, già nel 1931, era stato incaricato dello sviluppo tecnico della RAF, successivamente dell’organizzazione logistica del Fighter Command (Comando caccia) e infine gli fu affidato l’oneroso compito di guidare proprio il Fighter Command durante la Battaglia d’Inghilterra. La storia testimonia che lo fece in modo illuminato ed equilibrato con il risultato che sappiamo. Il suo merito, in particolare, fu quello di di aver avuto il coraggio di avvicendare gli ormai superati biplani della RAF con i più moderni caccia monoplani quali Spitfire e Hurricane che – lo ricordiamo – furono proposti dagli ingegneri e dalle aziende aeronautiche britanniche a fronte di specifiche quanto mai lungimiranti dell’ Air Ministry. Non meno fondamentale per la vittoria della Battaglia d’Inghilterra fu l’adozione del sistema di avvistamento remoto (quello che più semlicemente verrà chiamato RADAR) che il Maresciallo dell’aria sir Dowding sostenne fortissimamente. In Gran Bretagna, egli viene considerato alla stregua di sir Nelson o sir Wellington, entrambi grandi personalità che risolsero felicemente alcuni momenti assai critici nella storia britannica. E sir Dowding nun fu loro meno. – foto proveniente da www.flickr.com –
Forse è meglio ricordare che se non si dispone di un vero lettore Kobo si possono scaricare e leggere i libri anche su un tablet. Basta cercare la relativa applicazione Kobo-reader nello Store del tablet. In questo caso, dal momento che il tablet è a colori e anche retro illuminato, non solo si legge meglio, ma le foto inserite nel libro si presentano più larghe ed eventualmente a colori. Anche quelle in bianco e nero hanno un aspetto migliore. Il mio è un tablet Samsung A6, con sistema operativo Android, non certo dell’ultima versione. Lo schermo è HD, e per questo le foto si vedono decisamente bene, ma ormai in commercio ci sono modelli di gran lunga migliori.
Così come nel libro precedente, anche in questo, Tom Neil dedica la propria opera a sua moglie.
“For my beautiful wife, the former Flight Officer Eileen Hampton, WAAF, who not only provided me with three wonderful sons but who has also loved, guided, encouraged and supported me throughout 68 years of married life“.
“Alla mia bellissima moglie, ex Ufficiale di Volo Eileen Hampton, WAAF (Women’s Auxiliary Air Force, Forza Aerea Ausiliaria Femminile), che non solo mi ha dato tre figli meravigliosi, ma mi ha pure amato, guidato, incoraggiato e supportato attraverso 68 anni di vita matrimoniale”.
In “Gun button to fire” era stata chiusa l’ultima pagina sugli eventi finali della cosiddetta Battaglia d’Inghilterra. Erano i primi mesi del 1942 e gli Stati Uniti non erano ancore entrati in guerra.
Ora, in “The Silver Spitfire” ci troviamo invece nella seconda parte del 1944: quasi tre anni di guerra più tardi.
Tom Neil ha 23 anni. Ed è già Capo Squadriglia.
La classica formazione degli Squadron (stormi) britannici durante la Battaglia d’Inghilterra. Contrariamente a quanto accadde per il nostro Macchi Castoldi MC 79 (ancora a oggi detentore del record di velocità per idrovolanti con motori a pistoni), le ricerche e le soluzioni tecniche adottate dai britannici negli idrocorsa partecipanti alla Coppa Schneider ebbero delle ricadute sugli aeroplani per uso militare, primi tra tutti il Supermarine Spitfire. Nello specifico intendiamo l’ingegnere aeronautico sir Reginald Joseph Mitchell, progettista dello Spitfire ma anche degli idrocorsa Supermarine S.5, S.6 e l’S6.B che vinsero per tre edizioni di seguito la Coppa Schneider. Ironia della sorte, Mitchell non fu testimone dei successi della sua creatura volante giacchè nel 1937, a soli 42 anni, morì di cancro dopo aver combatttuto a lungo la sua malattia. Lasciò il testimone, in qualità di Chief Designer, a Joseph Smith, che si prese carico di proseguire l’ulteriore sviluppo dello Spitfire. E fu uno sviluppo davvero vertiginoso, viceversa il coevo Hawker Hurricane terminò presto il suo sviluppo.
Nella recensione del primo libro non avevo messo in evidenza il fatto che i piloti di cui si parlava erano tutti giovanissimi. Erano ragazzini, veramente. Poco più che diciottenni, già volavano e combattevano contro ben più esperti piloti avversari.
Appena gli Stati Uniti d’America entrano in guerra l’Inghilterra si riempie letteralmente di truppe, gruppi aerei, aeroplani e mezzi di ogni tipo. E navi che saturano ogni porto.
Termina lo sforzo estremo delle squadriglie inglesi che tante perdite avevano subito nello scontro con gli aerei attaccanti tedeschi. O almeno si attenua.
Gli americani entrano in gioco e il gioco stesso prende subito un altro aspetto.
Ora non si tratta più di difendersi dagli attacchi, da qui in poi l’attacco parte dall’Inghilterra e si spinge profondamente nel territorio nemico fino a colpire il cuore della Germania. Non è più scontro nei cieli sopra Londra, che non impedisce tuttavia ai bombardieri tedeschi di distruggere interi quartieri della città di Londra, ma anche di altre città inglesi e di molti aeroporti.
Non più bombardamenti notturni da parte degli aerei britannici a qualche città tedesca, con enormi perdite di bombardieri indifesi, perché i caccia, quasi tutti Hurricane e Spitfire, non avevano l’autonomia necessaria per accompagnare i Lancaster e gli Halifax tanto lontano all’interno dell’Europa invasa dalla Germania.
Una splendida immagine di uno Spitfire privo di vernice e comunque abbagliante nel suo scintillante alluminio lucido – foto proveniente da www.flickr.com –
Ora quest’ultima si vede improvvisamente colpita, di giorno, da enormi formazioni di possenti bombardieri, scortati da altrettanto enormi formazioni di caccia che hanno tutta l’autonomia necessaria per arrivare anch’essi sugli obiettivi, combattere contro i caccia tedeschi, tornare indietro e magari, dopo aver scortato i bombardieri al sicuro sulla Manica, tornare ancora indietro e mitragliare obiettivi di opportunità nel territorio nemico, prima di dirigere finalmente la prua verso casa.
Gli inglesi possono ora tirare un sospiro di sollievo.
Certamente continuano a combattere. Ma in modo meno cruento.
In questo libro ci sono alcuni riferimenti ai tre anni successivi al primissimo periodo di guerra. Ma l’autore si limita a dire che fu trasferito a Malta, dove pilotava un Hurricane etc. E qui aveva certamente combattuto contro tedeschi e italiani. Poi finalmente torna in patria e incontra per la prima volta gli americani.
La storia dello Spitfire – alquanto singolare, non c’è che dire – si colloca nel solco di quel luogo comune secondo il quale dalla delusione più cocente può scaturire il successo più grande. Il velivolo precursore dello Spitfire era infatti una macchina pressochè fallimentarte benchè introducesse alcune novità di grande pregio tecnico (il motore a raffreddamento evaporativo, l’ala monoplana parzialmente metallica con la forma ad ala di gabbiano rovesciato) ma davvero poco efficaci in termini di rispondenza ai requisti stabiliti. In effetti, il Supermarine Type 224 – questo il numero identificativo del velivolo – era nato dalla matita sapiente dell’ing. R.J Mitchell per rispondere a una specifica emessa dall’Air Ministry (il Ministero dell’Aviazione) per un caccia diurno e notturno tuttavia, a fronte delle sua scarse prestazioni, gli fu preferito il ben più talentuoso quanto convenzionale Gloster Gladiator (biplano e con motore radiale). Il progetto di sir Mitchell era stato stroncata in quanto oggettivamente scadente. Egli però non si perse d’animo e, per far fronte a una successiva specifica dell’Air Ministry che chiedeva un altro aereo con abitacolo coperto, carrello retrattile ed un armamento di 8 mitragliatrici, disegnò il Type 300. Esso – neanche a dirlo – nasceva sulla scorta delle esperienze (soprattutto negative) maturate con il suo predecessore ma con migliorie radicali che riguardavano la pianta dell’ala, il piano di coda, il motore, la cabina, l’armamento … praticamente si trattava proprio di un altro velivolo. Ad ogni modo da qui nacque il Type 300. Il suo nome divenne poi “Spitfire”. Il mito venne poco dopo – foto proveniente da www.flickr.com -.
La guerra volge al termine. Siamo nel 1944 e ci sono i preparativi per lo sbarco in Normandia e l’invasione dell’Europa continentale. Lo scopo è quello di liberare la Francia e proseguire verso i Paesi Bassi fino a penetrare in Germania e raggiungere Berlino. L’attacco alleato avveniva contemporaneamente anche da sud, con lo sbarco in Sicilia e ad Anzio. Intanto, da est, i Russi avanzavano verso Berlino.
A questo punto la stretta collaborazione tra inglesi e americani era una necessità essenziale. Tutti i problemi logistici, oltre a quelli strettamente operativi, richiedevano la più rapida ed efficace risoluzione, senza che si verificassero tensioni e attriti di nessun tipo.
Tom Neil finisce a ricoprire il ruolo di ufficiale di collegamento tra inglesi e americani. Lo assegnano al 100° Gruppo Caccia, 19° Comando Aero-tattico, 9° USAAF (Aeronautica degli Stati Uniti d’America) di stanza in un aeroporto in Inghilterra, molto vicino al suo aeroporto di appartenenza. Un viaggio davvero molto breve.
Il secondo capitolo, dal titolo: “My first americans“, è uno spasso. La descrizioni dei primi contatti con il carattere e i modi tipicamente americani, visti con occhi inglesi, è tutto da leggere.
All’inizio anche gli americani restano un po’ perplessi dal personaggio che si trovano davanti. Lo trattano con sufficienza. Lui aveva dato soltanto il suo nome, ma non il grado. Poi uno degli ufficiali comandanti finisce per chiedergli: “OK, Tom. And how d’you style yourself? Sergeant? “Lootenant” or what“?
“Ok, Tom. E cosa saresti? Sergente? Tenente o cosa?”
Notare come viene storpiata la parola tenente, che in inglese si scrive Lieutenant.
E lui risponde, con tono noncurante: “Well, I’m a sort of “lootenant”, except that I’m called Squadron Leader“.
“Beh, sono una specie di tenente, solo che sono un capo squadriglia”.
Non dimentichiamo che il nostro autore ha circa ventitré anni.
“Squadron Leader? What’s that, Tom?”
“Squadron Leader? Che cos’è, Tom?”
“Well, in the RAF, I fly fighter aircraft and lead a squadron. I’m a sort of major“.
“Bene, nella RAF, piloto aerei da caccia e comando una squadriglia. Sono una specie di maggiore”.
La reazione degli ufficiali americani fu di incredula meraviglia. Ma il tono semi derisorio terminò istantaneamente.
“Major! No kiddin! You a major? Then, boy! You don’t look old enaugh to be even a “lootenant”.
“Maggiore! Non scherziamo! Tu un maggiore! Allora, ragazzo! Non sembri abbastanza grande da essere nemmeno un lootenant”.
Sempre con la “strana” pronuncia della parola lieutenant.
La IV di copertina del bel libro di Tom Neil. Il prolifico autore (ha dato alle stampe ben dieci volumi) ci ha raccontato con il suo impeccabile aplomb tutto britannico le vicende di cui fu protagonista o comunque testimone nel corso della II Guerra Mondiale consegnandoci un prezioso resoconto che oggi, a distanza di tanti anni, costituisce un vero e proprio documento storico.
Questa conversazione avvenne in una mensa, dove Tom era andato per fare colazione. Dopo aver saputo con chi avevano a che fare lo fecero sedere al tavolo, dove di solito si sedeva lo staff del comandante e gli portarono un mare di cose da mangiare.
E questo è solo un esempio degli ameni episodi descritti nel libro.
La fama di Tom Neil fece presto ad arrivare in quel reparto. al punto che ormai lo consideravano per quello che era: un asso.
Infatti, dato che appena lì fuori c’era un P47, il grosso caccia americano dal grande muso, chiamato colloquialmente “la bottiglia del latte” per via della forma tozza, Neil ebbe solo il tempo di chiedere informazioni su quell’aereo. Immediatamente lo invitarono a salire al posto di pilotaggio, gli spiegarono tutto il cruscotto e lo esortarono a provarlo in volo.
Lui fece molte domande ed ebbe tutte le risposte. Ma in conclusione, prima di lasciarlo andare gli dissero semplicemente:
“Keep everything in the green“. -“Tieni tutto nel verde”.
E qui, per piloti come noi, che siamo eredi proprio del metodo americano e abbiamo assimilato da sempre i loro standard, non c’è niente di cui stupirsi. Ad ogni volo, per quanto mi riguarda, ho sempre a che fare con la necessità di tenere tutto nel verde. E’ normale.
Ma non lo era per Neil, il quale probabilmente, sugli strumenti del cruscotto degli aerei inglesi, non aveva mai visto nessun settore bianco, verde, giallo o rosso, almeno in quegli anni.
La livrea desertica – piuttosto appariscente nei cieli britannici – di questo Spitfire ci lascia presumere l’esemplare fu utilizzato sul fronte nordafricano – foto proveniente da www.flick.com –
E’ interessantissimo leggere il suo pensiero, a questa esortazione:
“In the green? To me, a new expression. I then saw that almost every instrument was marked with little coloured lines indicating the proper range of operating temperatures and pressures. What a super idea! I was absolutely in favour and have been ever since. Surprisingly, it was something the RAF, in my time away, never adopted“.
“Nel verde? Per me, un’espressione nuova. Allora vidi che quasi ogni strumento era marcato con piccole linee colorate indicanti la giusta escursione delle temperature e pressioni di esercizio. Che super idea! Ero assolutamente in favore di un simile sistema e lo sono sempre rimasto, da allora. Sorprendentemente, era qualcosa che la RAF, in quei tempi, non aveva mai adottato”.
Due Spitfire con le classiche bande d’invasione dello sbarco in Normandia ripresi da dietro in rullaggio rende l’idea di cosa potesse vedere il pilota all’intero dell’abitacolo: ben poco per non dire nulla se non sporgendosi lateralmente. Sulla potenza erogata dal motore preferiamo invece stendere un velo pietosissimo giacchè, ad oggi, i velivoli civili con motori alternativi a combustione interna che volano per diporto hanno potenze pressochè ridicole rispetto a quello degli Spitfire della foto. – foto proveniente da www.flickr.com –
Neil non spreca molte parole per descrivere la preparazione che precedette quel primo volo su un aereo tanto diverso da quelli ai quali era abituato. Il P47 era monoposto e non c’era modo di fare prima qualche doppio comando. Ma ho letto in tanti altri libri come gli americani affrontavano e risolvevano il problema, anche se oggi una tale pratica ci può risultare incredibile.
Però, a ben vedere, la faccenda è piuttosto logica, efficace e fa risparmiare un sacco di tempo.
Loro mettevano in atto una procedura che chiamavano “cockpit orientation“. – “Orientamento nel posto di pilotaggio“.
L’idea si basa sul fatto che tutti gli aerei, dal più piccolo al più grande, volano allo stesso modo. Un pilota sa volare. Punto.
Quello che gli serve e che può non sapere è la collocazione degli strumenti, dei vari comandi (sebbene la cloche, la pedaliera e la manetta stiano sempre nello stesso posto, più o meno), dei bottoni e degli interruttori. Poi ci sono le procedure di utilizzo del carrello e dei flaps e le velocità alle quali certi sistemi si possono azionare.
Quindi, il pilota viene posto a bordo e ivi lasciato per ore. Gli viene spiegato tutto ciò che ha a disposizione, viene istruito a tutte le sequenze di movimento, a toccare ogni comando non appena questo gli viene nominato.
Quando tutto risulta acquisito, il pilota viene bendato. E si ricomincia daccapo l’addestramento, solo che ora il pilota deve fare tutto senza neanche poter vedere.
Quando è pronto, non ci sono più molte difficoltà da superare.
Il decollo è piuttosto facile. Una volta in volo, per circa un’ora, si possono fare tutte le manovre necessarie a prendere confidenza con il carattere della macchina.
E quando viene all’atterraggio, il pilota ha già un’ora di esperienza su quel nuovo aereo.
Sebbene gli Spitfire entrarono in forza anche presso la Regia Aeronautica e poi anche nella rinata Aeronautica Militare italiana (volando fino alla metà degli anni ’50), ci piace ricordarlo più poeticamente come il velivolo della Battaglia d’Inghilterra per antonomasia. Ed è appunto a quel periodo che vuole ispirarsi questo scatto moderno nel quale, oltre all’omnipresente “Sputafuoco”, fanno bella mostra di loro due piloti britannici teatralmente intenti a scambiare due chiacchiere prima di decollare su allarme per una missione di caccia notturna. In realtà – da una lunga nota dell’autore della fotografia – apprendiamo che quello ritratto è una vera rarità in quanto è l’unico Supermarine Spitfire Mk XI al momento aeronavigabile. In forza al 16°mo Squadron della RAF nel periodo 1944-45, esso prese parte a ben 40 missioni sull’Europa occupata. Inoltre è divenuto addirittura il soggetto di un libro intitolato “Spitfire in blue”. Mitragliato da un Messerschmitt Me 262 nel 1945, ha raggiunto oggi il ragguardevole traguardo delle 500 ore di volo, ivi comprese quelle svolte in servizio a beneficio della RAF – foto proveniente da www.flickr.com –
Tuttavia, proprio l’atterraggio, è forse la fase in cui deve davvero stare parecchio attento.
Metodi antichi. Oggi sarebbero impensabili. Ma per alcuni aerei che esistono solo nella versione monoposto, come certi aerei acrobatici moderni, o alcuni alianti, ancora si opera in questo modo (fase bendata esclusa).
Neil scopre subito la natura degli americani. Gente dura, chiassosa, apparentemente poco rispettosa delle gerarchie, tranne quando davvero serve, ma anche gente avversa a troppe burocrazie. Vuoi provare il P47? O il P 51? Nessun problema. Ordini vengono emessi affinché l’aereo interessato sia messo in linea (In linea: altro modo di dire sconosciuto in Inghilterra, che Neil scopre qui, in ambiente americano), le persone giuste vengono incaricate e rese disponibili per lo scopo e questo è tutto.
Tutto bene anche nelle relazioni con il comandante , Il colonnello “Tex” Sanders, un nome molto famoso all’epoca.
Sanders ha un P51 a lui assegnato, con il quale può andare dove serve e dove vuole.
E Sanders autorizza Neil a fare uso di quel caccia come desidera. Tanto, a lui serve poco.
Dovendo curare la veste visiva della recensione di questo libro di Tom Neil, la Redazione si è messa alla ricerca di foto che potessero ritrarre – impossibile se non impensabile – uno Spitfire privo di livrea, ossia non verniciato, semmai in alluminio lucido. Ebbene ci siamo imbattuti dapprima in questa splendida foto e subito dopo nel sito web ad esso dedicato. La buonanima di Tom Neil ne sarebbe stato entusiasta, ne siami certi. E noi assieme a lui. In effetti si tratta di un velivolo che, ai comandi di due piloti britannici, ha compiuto nel 2019 il giro del mondo in un’impresa che – secondo indiscrezioni giornalistiche – è costata non meno di tre milioni di euro. Naturalmente l’operazione ha preso avvio anzitutto con il restauro radicale di uno Spitfire, così radicale che al termine delle lavorazioni era nuovo come uscito di fabbrica il giorno prima. Vi suggeriamo perciò di visitare il sito www.silverspitfire.com per godere della vista di altre fotografie e leggere nel dettaglio il racconto di questa impresa, specie se non siete stati tra i pochi fortunati che a Pescara e a Padova (ove ha fatto scalo per il suo sorvolo in territorio italino) non l’hanno potuto ammirare con i propri occhi – foto proveniente da www.flickr.com –
E’ interessante leggere il racconto del primo volo che un pilota britannico come lui si trova a fare sul meraviglioso Mustang P 51.
Nel 100th Fighter Wing Neil ha ormai consolidato la propria autorevolezza e gli americani lo trattano alla pari. Nessuna riserva. Può davvero fare quello che vuole.
“As a young RAF officer of 23, who had been flying a fighter aircraft for almost four years, I had infinitely more war experience than the other 30-odd officers and senior NCOs who worked with and around me during those early months, despite the many “rubber” medal ribbons some of them wore on their uniforms. Aware that I had flown throughout the Battle of Britain, in the siege of Malta and more recently in the bitter duels that had taken place over the Englih Channel, they viewed me with perhaps exaggerated respect, tolerating my strange remarks and habits and always acquiescing my whims, whether or not they agreed with them. In short, everyone – including colonel “Tex” Sanders – dealt with me gererously and very circumspectly and, not to put fine a point on it, I took advantage of their good nature“.
“Come giovane ufficiale della RAF di ventitré anni, che aveva pilotato caccia per quasi quattro anni, avevo infinitamente più esperienza di guerra degli altri ufficiali di 30 e più anni e degli anziani ufficiali di complemento che lavoravano con me e intorno a me durante quei primi mesi, nonostante il nastro di medaglie “di gomma” che alcuni di loro avevano sulle uniformi. Sapendo che avevo operato attraverso la Battaglia d’Inghilterra, nell’assedio (italiano) di Malta e più recentemente negli amari duelli che ebbero luogo sopra il Canale della Manica, mi consideravano forse con un rispetto esagerato, tollerando le mie strane osservazioni e abitudini e sempre tollerando i miei capricci, sia che fossero d’accordo o meno con essi. Per farla corta, ognuno , compreso il colonnello “Tex” Sanders – trattò con me in maniera generosa e circospetta e, per non mettere un punto troppo sottile su questo, approfittai della loro buona natura”.
Eccome, se ne approfittò.
La bontà ingegneristica dello Spitfire è testimoniata dalla serie quasi infinita di modifiche e migliorie cui fu soggetto a partire da progetto iniziale. Questo famoso velivolo può vantare infatti l’insuperabile primato di essere stato costruito già ben prima dell’inizio del conflitto mondiale, di essere costruito in grandi numeri durante il conflitto nonché di vedere consegnati gli ultimi esemplari di serie ben dopo il conflitto. Nel corso di quegli anni subì la trasformazione dell’apparato propulsivo (che raddoppiò di potenza), l’irrobustimento del carrello, l’ingrandimento dei piani coda, l’allungamento appuntito dell’ala o il suo accorciamento con l’ala tronca a seconda della versione per i voli rispettivamente ad alta o a bassa quota, l’aumento delle pale dell’elica (da due fino a cinque), l’allungamento della fusoliera, l’aumento della capacità e del numero di serbatoi … e via discorrendo. In pratica, mettendo idealmente a confronto il prototipo Mk I e l’ultimo prodotto MK24, ci troveremmo di fronte a due velivoli pressoché diversi accomunati solo dal nome di “sputafuoco”. Agli amanti dei dati statistici farà piacere sapere che, tolti gli esemplari per uso navale – i Seafire, appunto – furono costruiti ben 20’334 esemplari di Spitfire – foto proveniente da www.flickr.com –
In quasi metà del libro si parla di come l’autore svolgeva il suo ruolo di ufficiale di collegamento, facendo ampio uso di aerei statunitensi di ogni tipo, compresi alcuni grossi bimotori, ma anche di piccoli monomotori, uno dei quali ben conosciuto nei nostri aeroclub, specialmente dove si pratica volo a vela: lo Stinson L 5.
Con questi aerei faceva addirittura voli di piacere, oppure voli di collaudo o voli officina, portando a bordo un certo numero di specialisti o passeggeri vari che lo richiedevano.
Alcuni di questi passeggeri, addirittura salivano furtivamente, senza farsi scorgere.
Ma in uno di questi voli ci fu un’avaria che costrinse Neil a rimanere in volo a lungo, in attesa di capire come risolvere il problema. E allora questi clandestini spuntarono sulla porta della cabina di pilotaggio, guardando dentro con le facce pallide e preoccupate. Così Neil venne a conoscenza di avere a bordo più persone di quanto sapesse. E che a farli salire era stato uno dei motoristi, anch’egli a bordo, senza avvisare il comandante.
Un’immagine alquanto audace di uno Spitfire con torre di controllo sullo sfondo. Uno degli altri elementi determinanti che consentirono alla RAF di avere la meglio sulla Luftwaffe fu il sistema di comando e coordinamento delle forze aeree facente capo al Quartier generale della difesa aerea dislocato a Bentley Priory nonchè alla rete di collegamento con i Comandi dei vari Squadron e, soprattutto, alla linea di avvistamento basata sui radar costieri combinata ad una capillare distribuzione di osservatori in carne e ossa – foto proveniente da www.flickr.com –
E se una stranezza del genere, che da noi non potrebbe avvenire, può sorprendere, ce ne sono altre, ancora più incredibili.
Nel collaudare questi grossi aerei, Neil non aveva un secondo pilota. O meglio, ne aveva uno, ma non era un pilota come lui. Era un medico chirurgo, il dottor Patterson.
Si proprio così. Il medico del 100th Fighter Wing, appassionato di volo, chiedeva di continuo di poter volare. E, figuriamoci, tutti erano ben felici di accontentarlo. Era riuscito a frequentare la stessa scuola di pilotaggio attraverso la quale erano passati tutti. Anche gli istruttori erano ben felici di insegnargli a volare.
Poi era riuscito ad addestrarsi ulteriormente e infine aveva volato abbastanza anche sui caccia statunitensi, compreso il P 51 Mustang. E secondo la mentalità americana, quando chiedeva di fare un volo, gli tiravano fuori subito un aereo e lo lasciavano andare.
Neil si era trovato a tenerlo in considerazione allo stesso modo. Avevano finito per diventare amici e andava a chiamarlo ogni volta che aveva bisogno di un copilota. Ma, per precauzione, si portava a bordo anche due esperti specialisti, che certamente sapevano meglio di lui dove, all’occorrenza, andavano messe le mani.
Come ho detto, mentalità americana.
E deve essere anche piuttosto contagiosa, perché Neil, alla richiesta del medico di fare un giro anche con lo Spitfire, acconsentì. Per precauzione gli fece un bel briefing, per ricordargli la disposizione dei comandi e i parametri di volo.
Il medico mise in moto e cominciò il rullaggio.
Dal modo come si muoveva al suolo per raggiungere la pista e dal tempo troppo lungo che il medico – pilota impiegò per fare la prova motore e decollare, un’idea cominciò ad affacciarsi alla mente di Neil. Sembrava che il suo amico non avesse mai volato sullo Spitfire.
Il volo doveva durare una mezz’oretta. Ma dopo un’ora non era ancora tornato.
Poi finalmente lo Spitfire apparve a bassissima quota e sorvolò il campo. Fece il circuito in maniera incerta, si presentò all’atterraggio in maniera errata e dovette fare un altro giro. Ma alla fine atterrò.
Nella concitata discussione che seguì il ritorno del medico venne fuori che si era perso e aveva faticato non poco a ritrovare l’aeroporto.
“Il vostro dannato paese è tutto uguale. Tutto squadrato e simmetrico. Ci sono pochi punti di riferimento“,
disse.
E, si, effettivamente non aveva mai volato su uno Spitfire. Proprio per questo aveva chiesto di provarlo.
Quasi tutti ignorano che, a fronte dei successi mietuti, fu realizzata anche una versione imbarcata dello Spitfire denominata Seafire. I primi esperimenti di “navalizzazione” avvennero già nel 1941 a bordo della portaerei Illustrios ricorrendo a degli Spitfire Mk V sui quali era stato installato il gancio di arresto. Sebbene si fosse dimostrato troppo delicato, con autonomia limitata, troppo sofisticato per un uso così ruvido sulle portaerei, gli appontaggi come i lanci con la catapulta ebbero successo e furono così costruite diverse versioni di Seafire, comprese quelle con le ali pieghevoli che, ovviametne appesantirono un poco i velivoli e ridussero la resistenza torsionale dell’ala ma li resero più facilmente stivabili sotto il ponte di volo. Questi velivoli parteciparono attivamente allo sbarco in Sicilia, all’invasione in Nord Africa orientale e furono addirittura il nerbo principale della copertura aerea durane lo sbarco di Salerno. Erano presenti anche durante lo sbarco in Normandia. Lo scatto riprende invece uno Spitfire Mk V in decollo dalla portaerei USS Wasp con l’obiettivo di raggiungere Malta dove avrebbe dovuto rimpinguare la difesa aerea dell’isola. Inutile dire che si sarebbe tratttato di una missione senza ritorno giacchè non era contemplato il volo di rientro e l’appontaggio – foto proveniente da www.flickr.com –
A proposito di Spitfire, Quando arriva quello argentato di cui si accenna nel titolo? Ho letto due terzi di libro senza quasi poter smettere e ancora non se ne parla.
Ma poi, nel quindicesimo di venti capitoli, intitolato “Enter the Spitfire“, eccolo qua.
Fino a questo punto avevo seguito l’autore in una marea di avventure di ogni tipo, comprese le vicende che riguardavano la conoscenza di una ragazza, una WAAF, cioè un ufficiale donna che svolgeva un ruolo ausiliario nell’Aeronautica inglese. Si trattava di una specie di controllore di volo.
Questa ragazza diventerà sua moglie.
E durante i mesi del 1944 e anche del 1945 Neil si era trovato ad operare in Francia, dopo lo sbarco in Normandia (di cui si parla abbastanza nel libro). Seguendo le vicende della liberazione della Francia, il 100th Fighter Wing veniva spostato da un aeroporto francese all’altro, appena i tedeschi lo abbandonavano.
In uno di questi trasferimenti, in un aeroporto non molto distante dalla città di Le Mans, appena arrivato, Neil stava cercando un locale in cui scaricare il suo equipaggiamento e in cui soggiornare. C’erano alcuni caccia P 47 parcheggiati in un punto dell’aeroporto e qualche altro aereo americano.
Ma, in mezzo a loro, cosa vede?
Uno Spitfire.
Incuriosito si avvicina e scopre che questo Spitfire, un vecchio modello IX-B, appariva piuttosto malconcio. Tuttavia si adopera subito ad ispezionarlo e metterlo in moto. Poi cerca la documentazione di bordo per scoprirne la provenienza e il reparto di appartenenza.
Non trova nulla. Niente documenti, niente informazioni. Perfino il numero di serie era stato abraso dalla scalcinata colorazione mimetica.
Essendo lui un inglese, sperduto sul suolo della Francia, provava una sorta di sentimento di solidarietà per quell’aereo, inglese anch’esso.
Sulla fusoliera era riportato solo il nominativo: 3W-K, che indicava l’appartenenza ad una squadriglia alleata e quindi non della RAF.
L’autore del libro e sua moglie il giorno del loro matrimonio – foto proveniente da Beccles & Bungay Journal (Tributes paid to heroic Battle of Britain fighter pilot Tom Neil contenente la notizia della scomparsa di sir Tom Neil dopo una vita a dir poco singolare.)
Neil chiese se qualcuno sapesse quando l’aereo era arrivato e se qualcuno lo avesse visto atterrare.
Gli dissero che era atterrato poco tempo prima, il pilota aveva una divisa blu, ma era straniero e non parlava neanche bene l’inglese. Se ne era andato immediatamente con un aereo da trasporto, forse un Anson. E non aveva detto nulla su chi era, dove andava, né se sarebbe tornato a riprenderlo, ma di sicuro non lo avrebbe fatto, perché appena atterrato aveva inveito verso l’aereo, blaterando di non volerne più sapere.
Neil capisce che forse può prendere possesso della macchina.
Chiama subito alcuni specialisti. Ma incontra dei problemi, perché gli americani non hanno nulla che possa servire ad un aereo britannico. Perfino la batteria è diversa. Gli inglesi usano quella a 12 volt. Gli americani quella a 24.
Comunque fanno tutto il possibile e infine, il giorno seguente, Neil è pronto a provare il vecchi Spit in volo.
In tutto il volo prova durò una mezz’ora, sorvolando le città francesi di Rennes e Nantes.
La fotografia è stata scattata nel corso dell’agosto 2020 presso l’aeroporto Old Warden situato a Biggleswade nello Bedfordshire in Gran Bretagna. Si tratta di un Supermarine Spitfire LF Mk VC costruito a Yeovil nel Suomerset e fornito al 310°mo Squadron basato a Exeter nel 1942. – foto proveniente da www.flickr.com –
Nella settimana seguente volò ancora per circa un’ora. Poi parcheggiò l’aereo al solito posto, aspettandosi che prima o poi non lo avrebbe più visto perché qualcuno era tornato a riprenderselo.
Invece no. Dopo altro considerevole tempo lo Spitfire era ancora lì. Solo e triste come un cane abbandonato.
Neil aveva già un pensiero, in fondo alla mente. Quello di appropriarsi del povero Spitfire, di farlo restaurare e di servirsene come mezzo di trasporto per ogni sua necessità operativa.
“Spitfires, like bad debits, tend to linger in the mind… I took a further hour off to fly it a second time – to keep its morale up, so to speak – and was surprised to see it several days later, still as silent and so lonely as ever, sitting on its hardstanding. Clearly, the owner was not too keen on having it back“.
“Gli Spitfire, come i brutti debiti, tendono a indugiare nella mente… mi presi un’altra ora libera per volarci una seconda volta – per tenergli su il morale, per così dire – e fui sorpreso di vederlo alcuni giorni dopo, ancora silenzioso e solitario, seduto sul suo carrello. Chiaramente, il proprietario non aveva nessuna fretta di averlo indietro”.
C’è modo e modo per fare bella mostra di sè … ma quello ritratto in questi due scatti è un modo a dir poco singolare. Il luogo è il Kelvingrove Art Gallery & Museum di Glasgow e quello appeso è un Supermarine Spitfire Mk F.XXI – foto proveniente da www.flickr.com –
Passa tutto il mese di Agosto e Neil vola con altri aerei, compreso il P 51. Ma lo Spitfire era ancora lì. E anche l’idea di prenderlo era ancora lì.
Il 26 agosto 1944 il 100th Fighter Wing ricevette l’ordine di trasferirsi a Le Mans, a 80 miglia di distanza. Tutti cominciarono a impacchettare i loro equipaggiamenti e a caricarli sui camion.
Lo Spitfire era ancora là. Presto l’aeroporto sarebbe rimasto abbandonato e Neil già vedeva l’unica possibile fine dell’aereo: vandalizzato e ridotto a un rottame dai francesi residenti nei dintorni.
Un pensiero terribile e insostenibile.
Non ci mise molto a prendere una drastica decisione.
“It took me all of five seconds to make up my mind… I would take the Spitfire to Le Mans“.
“Impiegai cinque secondi a decidere… lo avrei preso e portato a Le Mans”.
Trovò una matita e una penna e scrisse un avviso che attaccò alla parete della baracca della torre di controllo.
“To whom it may concern. Have taken Spitfire 3W-K to Le Mans. Pick it up there“.
“A chi può essere interessato. Ho portato lo Spitfire 3W-K a Le Mans. Venga a prenderlo là”.
E firmò con il suo nome.
L’aeroporto di Le Mans non era niente di buono. Appena evacuato dai tedeschi, era pieno di relitti, aerei bruciati, mezzi di ogni genere abbandonati in giro, rottami ovunque.
Lo Spitfire andava portato via anche da lì.
Ma ora tutti avevano cominciato a considerare quell’aereo come di proprietà di Neil. E proprio i suoi meccanici presero a fargli pressioni affinché decidesse cosa fare dello Spitfire.
“Squadron Leader, they said, you are gonna have to do something about this heap“.
“Comandante, gli dissero, ti tocca fare qualcosa per questo affare”.
Ok. L’aereo fu controllato, rifornito, messo in moto. Neil salì a bordo e decollò per l’Inghilterra.
Il volo non fu proprio tranquillo. L’apprensione per le condizioni del motore si alleviò soltanto quando, attraversato il canale della Manica, l’isola di Wight passò rapidamente sotto la rotta verso la madre patria del glorioso Spitfire.
Bene. Da qui in poi comincia quel percorso che ogni pilota di HAG sarebbe ben felice di leggere.
E poiché non ho alcuna intensione di rovinare il piacere della lettura a nessuno, tantomeno ad un amico pilota appassionato di aerei d’epoca, termino qui il racconto degli avvenimenti successivi.
Ma, giusto per non troncare il filo degli eventi tanto bruscamente, diciamo che nel momento in cui Neil superava la linea della costa britannica, un certo Bert, specialista aeronautico inglese, vero mago della riparazione, manutenzione e restauro di ogni tipo di aereo, la persona che ogni proprietario di aereo d’epoca vorrebbe conoscere e avere per amico, aspettava a terra l’arrivo dello Spitfire per accoglierlo a braccia aperte.
Bert rimise a nuovo il glorioso Spit. E tra gli interventi che fece sulla fusoliera dell’aereo, per prima cosa tolse tutta la vernice mimetica fino a lasciare solo la superficie metallica.
Per questo, d’ora in poi, si parla di Spitfire argentato, come suggerisce il titolo del libro.
The Silver Spitfire, appunto.
Neil lo usò per un anno ancora come aereo executive, per spostarsi ovunque, per motivi di servizio e anche per motivi personali. Lo usò addirittura per andare a trovare la sua fidanzata ovunque lei venisse trasferita nella Francia liberata.
E lo ruppe, perfino. Più di una volta. Ma sempre Bert, allertato immediatamente, arrivava. Sostituiva motore, parti di fusoliera, carrello… Lo Spitfire tornava efficiente e perfetto più di prima.
Ci piace chiudere la recensione di questo libro con una foto che ritrae sorridente l’autore seppure in età assai avanzata.
Si. Bert era un mago. E fu la garanzia di sopravvivenza dello Spit per più di un anno.
Come finisce questa storia?
Questo proprio non lo posso dire. Altrimenti, davvero, rovinerei la sorpresa.
Diciamo che nel corso del tempo venne fuori che il possesso dello Spitfire diventò un problema. Non era esattamente legale averlo, né usarlo.
Ma era divenuto difficile anche disfarsene.
Una storia tutta da leggere.
Alla fine si venne a sapere a chi era appartenuto l’aereo prima che Neil lo ritrovasse?
Eh, questo è un altro punto forte del racconto. Il mistero, che ci lascia senza respiro, dura a lungo.
Fino, addirittura a non molti anni fa.
Ma anche questa è una parte talmente sorprendente che bisogna proprio leggerla dalle parole di Tom Neil.
Recensione a cura di Evandro A. Detti (Brutus Flyer)
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Al di la della pronuncia (non si sa mai se quella corretta sia Sàlgari o Salgàri ma parrebbe buona la seconda), siamo certi che in età infantile o al massimo adolescenziale abbiate letto almeno un libro del ciclo dei pirati della Malesi o del ciclo dei pirati delle Antille. E corretto? Confessate!
Il Britten -Norman Trislander è il velivolo protagonista delle avventure di sir MC Carthy. Evoluzione migliorativa del più convenzionale Britten-Norman BN-2 Islander, è stato costruito complessivamente in 85 esemplari a partire dal 1971 ma la sua produzione è cessata dopo che l’azienda è stata assorbita dalla Pilatus negli anni ’80. Da diversi anni è in programma una seconda generazione di Trislander ma, al momento, rimane probabilmente solo un bel progetto in attesa di tempi migliori . O di cieli migliori? – foto proveniente da www.flickr.com –
Chi vi scrive non ha invece alcun timore ad ammettere che rispolvera volentieri le imprese di Sandokan, di Tremal-Naik o del Corsaro Nero e che, non più tardi di alcuni mesi orsono, ha scovato addirittura un audiolibro tratto da un romanzo di Emilio Salgari. Il titolo? Semplice: “Le meraviglie del 2000”. Un ascolto molto illuminante, specie se consumato in pieno lock down.
Ma torniamo al nostro autore veronese, universalmente riconosciuto come il re della narrativa d’avventura, ingiustamente definita “per ragazzi”. Ebbene occorre ricordare a chi non ne conosce i tratti biografici, che il nostro Salgari non visitò mai i luoghi così magistralmente descritti né partecipò mai alle traversate o alle scorribande per i quattro angoli del pianeta che sono spesso presenti nei suoi romanzi. Egli visse tutto con la fantasia, chino sullo scrittoio della sua modestissima abitazione e nelle austere sale delle biblioteche che frequentò quasi quotidianamente.
Affermare che il Trislander sia alquanto singolare come velivolo è oltremodo eufemistico. Anche perchè, fatto salvo per alcuni i grandi velivoli commerciali che sono dotati di un terzo motore alla base della deriva (leggasi: il Dassault 900, il Lockeed L1110 Tristar, il Mc Donnell Douglas MD 11, il DC10, ecc ecc), l’architettura del Trislander non è proprio così ortodossa tanto che non conosce uguali nel settore degl executive dotati di motori alternativi a combustione interna. Praricamente è unico nel suo genere … – foto proveniente da www.flickr.com –
Non viaggiò mai in luoghi esotici e non incontrò mai qualcuno che potesse somigliare – anche lontanamente – ai personaggi che così vividamente ritratti troviamo nei suoi scritti. Salgari inventò tutto da fermo, lui statico e il suo mondo di eroi che gli turbinava tutto attorno.
Questa è la vista di cui sarebbe possibile godere dalla cabina di pilotaggio di un Trislander in procedura di avvicinamento ad Alderney, una delle Isole del Canale della Manica così chiamata dai britannici mentre i francesi la chiamano Aurigny. Si tratta di una piccola isola di circa 15 chilometri quadrati vicina più alla costa francese che a quella britannca. Ha circa 2500 abitanti. Un’isoletta sperduta – penserete – e invece si tratta di un paradiso fiscale inserito a pieno titolo nella lista nera dei luoghi deputati alle frodi fiscali. Dunque frequentata, eccome, da uomini d’affari o sedicenti tali. Da qui la necessità di una linea aerea con voli regolari. Chissà se dispongono di un vano speciale per il trasporto delle valigette!? – foto proveniente da www.flickr.com –
Qualcosa del genere deve essere capitato anche a Bruno Bolognesi che, seduto nella sua abitazione di Esanatoglia e con l’ausilio del suo fido pc, ha creato quel turbinio di avventure che hanno per protagonista il suo comandante Alan Mc Carthy.
Il Trislander è considerato un velivolo da trasporto commerciale per uso regionale. I suoi tre motori gli consentono infatti il decollo e l’atterraggio in circa 500 metri e un’autonomia di circa 1600 km. E’ in grado di trasportare 18 persone a bordo mentre il suo carrello fisso assai robusto gli consente di operare anche da superfici semipreparate. E’ maneggevole a bassa velocità, robusto e con un buon carico utile unito ad un livello di rumorosità ragionevole. Non ultimo un certa economicità di gestione. – foto proveniente da www.flickr.com –
Ovviamente tutto in chiave moderna.
Dunque non lo troveremo sulla tolda di un praho (tipica nave usata dai pescatori e dai pirati malesi) bensì ai comandi del suo Brittan-Norman Trislander (singolare trimotore britannico), non con indosso il turbante degli uomini del Borneo bensì con i Ray-Ban Aviator che gli proteggono gli occhi. E non ci sarà neppure il muscoloso malese seminudo dalla pelle olivastra che si muove con fare flessuoso tra la fitta vegetazione della jungla, no. Qui troverete un flemmatico pilota dal tipico aplomb britannico eppure capace di decisioni fulminanti e con un fegataccio che nulla avrebbe da invidiare allo Yanez de Gomera di salgariana memoria.
Non c’è immagine migliore di quella dal basso per apprezzare la bontà di forme del Britten Norman Trislander – foto proveniente da www.flickr.com –
Ma andiamo con ordine.
Il racconto ha due livelli narrativi: il presente con i due personaggi protagonisti e il variegato passato avventuroso di Mr MC Carthy. Alla staticità di un tavolo di un bar di una tranquilla cittadina britannica si alternano le avventure di questo pensionato sui generis. E’ il racconto di un’intera notte perché sono le confessioni di un settantenne alla fine della sua carriera di pilota militare e civile che ne ha viste e ne ha fatte in vita sua. Il suo interlocutore è un giovane giornalista di una rivista specializzata di aviazione curioso quanto basta. E ne sentiremo delle belle.
Ancora una bella immagine di un Trislander in rullaggio verso l’area di parcheggio di un aeroporto toccato dalla linea aerea che collega diverse città della Gran Bretagna con Aurigny. In risalto la notevole apertura alare che consente a questo velivolo non certo “smilzo” di decollare e atterrare in spazi relativamente brevi. – foto proveniente da www.flickr.com –
Di più non possiamo aggiungere – altrimenti finirebbe la sorpresa – ma possiamo certamente anticiparvi che non mancheranno le invenzioni folgoranti, seducenti personaggi femminili, gesti di altruismo e atti di bontà come li trovereste nei romanzi di Salgari.
L’autore così sintetizza il contenuto del suo racconto:
Volare, librarsi nel cielo con un artifizio meccanico a tre eliche, rimbalzando tra l’emisfero Boreale e quello Australe, rincorrendo o anticipando albe e tramonti, come ha fatto il Comandante Alan Mc Carthy nella sua lunga e rocambolesca carriera, non è cosa da tutti.
Robert Sinclair, con una sua intervista al Comandante, ha raccolto il succo dolce-amaro della sua storia, sospesa ad un’altezza intermedia, dove è ancora possibile riconoscere i dettagli delle case e quasi, quasi gli umori di coloro che le abitano.
Noi aggiungiamo che, come Salgari, il buon Bolognesi ha inventato luoghi, situazioni, personaggi e riferimenti verosimili dando vita ad un racconto piacevole e, per alcuni versi, avvincente.
Qualora ce ne fosse stata necessità, l’occhio impietoso del fotografo, ha esaltato un particolare che non passa certo inosservato: la coda e la deriva motorizzata di questi tre Trislander al parcheggio nell’aeroporto di Manila. – foto proveniente da www.flickr.com –
Certo al nostro servizio di intelligence non è sfuggito il dettaglio che il Trislander non ha mai fatto parte delle British Armed Forces (l’equivalente delle nostre Forze Armate) o che nel mondo aeronautico piace ricordare che un motore Lycoming O-540 ha 260 roboanti cavalli e non degli asettici 195 chilowatt di potenza. Ma non per questo gliene vogliamo, anzi … siamo sinceramente dispiaciuti che il racconto non abbia raggiunto la fase finale del premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE, forse tradito dalla sua lunghezza (di una notte) o dalla minuziosa ricostruzione ambientale che ha distratto la giuria del Premio.
Se nel 1974 vi foste affacciati dalla terrazza dell’aerostazione dell’aeroporto di Glasgow, area passeggeri, ebbene avreste visto questo Trislander muoversi nel parcheggio. Poco dopo, per i soliti motivi di sicurezza, la terrazza fu chiusa e così, ad oggi, ci rimane solo questo scatto. – proveniente da www.flickr.com –
Certo non ci spiacerebbe indossare i panni del giornalista e intervistare noi il sedicente pilota Bruno Bolognesi, magari seduti ai tavoli di una graziosa pasticceria italiana posta lungo le vie del suo stupendo borgo medievale marchigiano. Magari ci potrebbe svelare quanto c’è di fantasioso nel suo personaggio, a chi si è ispirato, come è scattata la molla della storia che ci ha regalato … Emilio Salgari? No, davvero?
Ma, fatto salvo per questa nostra insana curiosità, dobbiamo ammettere che troviamo questo racconto come assolutamente godibile sebbene la formula del lungo monologo del protagonista rischi facilmente di risultare banale … ma non tra le sapienti dita dell’autore che l’ha felicemente amministrata e dunque ha digitato una vicenda che mantiene sempre alta la curiosità del lettore. In questo testo la noia non trova appiglio.
Certamente il racconto è relativamente lungo ma è scritto con dovizia di particolari, reali o inventati che siano ma comunque credibili mentre i personaggi sono tratteggiati in modo encomiabile.
In definitiva un racconto da leggere e apprezzare tanto che, al termine, sognerete di diventare anche voi un po’ Alan MC Carthy … magari nella prossima vita, eh?
Narrativa / Lungo
Inedito
Ha partecipato alla VIII edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole” – 2020
Un uomo sulla settantina se ne stava seduto a sorseggiare la sua pinta di birra in uno dei tanti locali disseminati sulla Oxford Street a Southampton. Era un ottobre stranamente gentile, il clima temperato invogliava gli avventori a frequentare, fino a tarda ora, i tavolini dei bar e dei club affacciati sul braccio di mare che separa la terra ferma dall’Isola di Wight.
La sera, con le sue ali nere, aveva scurito il mare e spento lo strillare dei gabbiani. Alan Mc Carthy scopriva il polso sinistro tirando in su la manica del giubbotto di pelle, per dare un’occhiata al quadrante del suo Hamilton w10 che marcava le otto spaccate.
La persona che aspettava da un po’ non s’era ancora fatta viva; nel frattempo una giovane cameriera di origine creola, con il suo surplus di sorriso, s’era avvicinata al suo tavolino chiedendogli se avesse bisogno di qualcos’altro. L’uomo annui ordinando una fried lake bass, tipico piatto a base di pesce fresco con uova e pan grattato, il tutto fritto in olio di semi.
Quel breve tratto di strada, dritta come un fuso, brulicava di ristoranti che disperdevano nell’aria odori di terre lontane, contaminazioni di una cucina inglese che sapeva di Nepal e di India, col sottofondo di una musica retrò che usciva dal – Pop World –, un Club disposto all’inizio della via.
“Mister Mc Carthy, Mister Mc Carthy… mi scuso per il ritardo, ma la mia vecchia Austin mi ha lasciato a piedi a poco più di un miglio da qui”, farfugliò il giovane che si era presentato davanti al tavolo, sul quale Alan stava cenando; l’uomo, alquanto sorpreso nel vedere quel tipo, chiuso malamente in un trench color kaki, lo squadrò da capo a piedi e gli fece cenno con un dito di accomodarsi sulla sedia di fronte a lui. Il giornalista, trafelato per la corsa, appoggiò i suoi taccuini su un lato del tavolino ed allungò la mano destra per approcciare alle presentazioni: “Sono Robert Sinclair della rivista “Aviation Magazines” e sono qui per l’intervista…”, subito dopo l’atteso ospite si appoggiò allo schienale della seggiola asciugandosi la fronte imperlata di sudore con un clinex. “Avete cenato Mr. Sinclair?” gli si rivolse Mc Carthy. L’uomo col trench gli rimbalzò un “no”, ma dall’espressione del volto, trapelava chiaramente che quell’invito lui, lo avrebbe accettato volentieri.
Poco dopo la cameriera gli servì una porzione abbondante di fish and chips, che Robert mangiò avidamente, dopodiché si predispose per ottemperare al motivo per cui si era recato a far visita al comandante Alan Mc Carthy, ovverosia: procurarsi un’intervista esclusiva per il suo tabloid.
Il reporter estrasse dal fondo della tasca il suo voice recorder, lo pose in mezzo al tavolo, lo accese e, rivolgendosi al suo interlocutore, gli disse: “Eccoci qua, da dove incominciamo”? – “Giovanotto” gli rispose Alan, “non perdiamo tempo.”.
“Una volta avrei affermato che il tempo è denaro, ma ora, che sono in pensione, dico che il mio tempo è ancora più prezioso. Ed è per questo che non vorrei, come dire, sprecarlo inutilmente.”, gli rispose guardandolo dritto, dritto negli occhi, quasi a volergli tirar fuori le domande dalla bocca.
L’intervistatore spulciò brevemente il taccuino e andò alla domanda: “Mr. Mc Carthy lei è ormai considerato una celebrità nell’ambiente aeronautico della Gran Bretagna e non solo, soprattutto in relazione alle sue missioni svolte in luoghi più o meno remoti del globo, compresi i territori del Commonwealth britannico, volando sulla sua appendice alata per antonomasia: il Britten Norman BN-ZA MK III-2, famoso per i tre motori ad elica a due pale, dislocati su entrambe le ali e sul timone di coda del piccolo aeromobile dal naso appuntito, ben noto per la sua originalità”.
L’ex pilota, seduto dall’altra parte del tavolino, dava l’impressione di non aver percepito la domanda formulatagli dal giovane intervistatore, come si fosse lasciato distrarre dal caotico movimento di persone che si avvicendavano tra i tavoli del pub e dall’andirivieni di cameriere fasciate da divise colorate, come hostess in servizio sugli aerei di linea; qualche istante dopo Alan riallineò lo sguardo collimandolo su quello del suo interlocutore e, dopo aver sorbito un altro sorso della sua Plassey bionda rispose: “Bando alle formalità, si fa prima a chiamare l’ aeromobile coll’appellativo che meglio lo caratterizza e cioè: Trislander, il trimotore più versatile e originale che abbia mai pilotato. Un piccolo velivolo; una sorta di minibus dei cieli ad ala alta a sbalzo e a carrello fisso, spinto da tre motori a sei pistoncini piatti Lycoming 0-540, capaci di erogare una potenza di 195 kW ciascuno. Bastano poco più di cinquecento quarantasei yarde per spiccare il volo e quattrocento novantacinque per atterrare su qualsiasi pista, che sia tradizionale in cemento, asfalto o in terra battuta. Più volte, in situazioni di emergenza, è capitato di atterrare bruscamente su spazi erbosi coltivati, tra le ire di qualche contadino, rischiando quel che è giusto, perbacco!”.
Robert, abbozzando un sorriso tirato, dovuto forse all’eccitazione del momento, gli chiese: “Mr. Alan mi dica, la sua formazione è civile o militare? Il suo primo brevetto dove e quando lo ha acquisito?”.
L’ex ufficiale tirò fuori dal taschino un pacchetto di Lucky Strike e fece cenno di offrirne una al giornalista che, dopo un attimo di esitazione, farfugliò: “La ringrazio signore, ma non fumo”. – “Di qualcosa bisogna pur morire, non crede giovanotto?”, disse Mc Carthy con una punta di sarcasmo tipicamente irlandese; accese la sigaretta, da cui trasse una lunga boccata di fumo e, quando la nuvola azzurrognola si diradò, l’uomo continuò dicendo: “Una bella domanda stringata, sintetica nella formulazione, ma che richiederebbe molto tempo per soddisfarla appieno ragazzo,cercherò di spulciare ugualmente nel mio disordinato armadio dei ricordi per trarne qualcosa che possa essere utile a soddisfare la sua curiosità di pennivendolo.”.
Cominciamo dal principio: Sono entrato al Royal Air Force College Cranwell, vicino Sleaford, che avevo poco più di diciott’anni, uno sbarbatello insomma e, dopo un periodo di ferma per l’addestramento, mi hanno spedito a Cipro, dove ho acquisito il brevetto di terzo livello, in forza alla base aerea britannica di Dhekelia, vicino alla città di Larnaca…” Alan tirò un’altra boccata di fumo dalla sigaretta, poi, sospirando, si concesse qualche pennellata di colore per abbellire il discorso: “Larnaca. Bella città, belle ragazze dai capelli neri e dalle forme generose, sedute sui divani bianchi a bordo piscina del Sentido Sandy Beach, a mangiare fette di cocomero fra un tuffo e l’altro.
L’intervistatore, preso dal suo ruolo, formulò al volo un’altra domanda dicendo: “Cipro? Beh… penso sia stato, comunque, un inizio difficile, dato il contesto politico che si era venuto a creare nell’isola, dopo che, nel mille novecento settantaquattro, la Turchia invase la parte nord del territorio, tagliando di fatto a metà anche la città di Nicosia che, a tutt’oggi, è l’unica Capitale europea divisa dal filo spinato e vigilata dai caschi blu dell’ONU…” – “Stop! Okay, okay”, ribatté Mc Carthy, facendo un gesto con entrambe le mani al suo interlocutore: “abbiamo capito che lei conosce la storia, e questo ci fa piacere, ma mi conceda gentilmente di portare sino in fondo il discorso”. Robert annuì facendo cenno col pollice all’insù, dando così modo ad Alan di proseguire il discorso.
“Tralasciando le avventure domenicali, non appena conseguito il brevetto,” proseguì l’ex pilota “il Comando della Base mi affidò un Britten Norman Trislander con le insegne della British Armed, con il quale avrei scarrozzato qua e là per l’isola alti ufficiali, diplomatici e funzionari delle Nazioni Unite, il tutto fino al mille novecento ottantacinque, quando appesi al chiodo l’uniforme per fare altro nella vita. Allora Cipro era, ed è tutt’ora spaccata in due come una mela: due sovranità, una turca a nord e una greca a sud; due popoli che non si capiscono, due valute, due culture divise dalla cosiddetta “LINEA VERDE”, un muro lungo più di quarant’ anni.
Tante volte ho sorvolato a bassa quota quella linea di filo spinato che punteggia il cielo azzurro, e il check point di Ledra Street, delimitato dai bidoni bianchi e celesti delle forze ONU che pattugliano la zona cuscinetto a cui lei si è riferito. Ho volato su Nicosia, città circolare antichissima circondata da mura possenti, il Teatro Greco di Famagosta, ma anche sui ruderi delle case distrutte dalle cannonate lungo quella linea surrettizia di confine, con ancora i sacchi di sabbia ammassati su quel che rimane delle porte e delle finestre delle case distrutte.”.
Il giornalista, consapevole che non gli sarebbe stato possibile tenere a lungo inchiodato su una sedia il suo estemporaneo interlocutore con un ping pong serrato tra domande e risposte, pensò allora di impostare la sua “intervista” più come una chiacchierata informale, lasciando all’ “attore” la gestione del suo palcoscenico là, dove ha recitato la sua vita movimentata, ricca di succosi aneddoti.
La strategia messa in atto dal giornalista si rivelò giusta, tant’è che l’ex comandante, senza che gli fossero rivolte altre domande, riprese la trama cipriota del suo racconto affermando:“ Quella giornata di fine aprile dell’ottantadue avevo decollato dall’aeroporto della base di Dhekelia di primo mattino per andare a recuperare un alto esponente del governo inglese in missione a Nicosia; la pista era una lunga striscia grigiastra che puntava dritta sulla linea dell’orizzonte che cuciva il mare al cielo.
La check list era stata completata con successo, un ultimo scambio con la torre di controllo e i tre motori del “Tris” iniziarono a ronzare come grossi calabroni; prima di dare gas, con i trimmer throttl, dovevo solo ricordarmi di far ritrarre il piccolo carrello che sostiene il peso della carlinga, proprio sotto il timone di coda, abbassando la levetta del tail rim…”.
Il giornalista, alzando l’indice della mano destra, come di solito si fa per catturare l’attenzione di un cameriere, o meglio, di un cameriera, dava l’impressione di voler intervenire nella discussione, ma questa sua intenzione venne amichevolmente stoppata sul nascere da Mc Carthy, che gli si rivolse dicendo: “Lo so, lo so!” sogghignò, “lei mi dirà che cosa c’è di speciale in una situazione di routine come quella dei preparativi a un decollo, per giunta effettuata centinaia di volte. Mhh…? Okay, vengo al punto: una volta raggiunta la quota stabilita di 10.000 piedi, con i miei 185 galloni di kerosene assicurati nel serbatoio, che avrebbero potuto garantirmi oltre 1.000 miglia di autonomia, viaggiavo tranquillo sui 250 Km orari sulla rotta per Nicosia, concordata con le Nazioni Unite.
Venti minuti più tardi atterravo in un campo erboso lungo un miglio, opportunamente predisposto dall’ONU per missioni diplomatiche riguardanti le tensioni tra Greco e Turco ciprioti, gli occupanti antagonisti che si disputano la sovranità sull’isola.
L’area di parcheggio era posta sul lato ovest della pista, a ridosso della linea di confine. Avrei dovuto attendere là, nella zona cuscinetto, il funzionario britannico; intanto scesi a dare un occhio all’aeromobile. Il sole, già di primo mattino, picchiava forte e faceva tremare l’aria tutt’intorno…” L’ex pilota, appoggiando gli avanbracci al ciglio del tavolo, sospese per un attimo il discorso e si sporse in avanti avvicinandosi lentamente verso il giornalista, aggiungendo: “Da quell’aria tremolante si erano materializzate all’improvviso due figure che si avvicinavano velocemente verso di me; mi abbassai sotto la pancia della carlinga e, dall’altra parte, vidi comparire un ragazzo e una ragazza trafelati che si tenevano per mano e che mi guardavano come fossi un marziano in procinto di rapirli, tanto erano spaventati. Girarono attorno all’aereo e mi si avvicinarono, dopodiché la ragazza prese coraggio e, in lingua inglese, cercò di spiegarmi in poche parole la situazione in cui si trovavano, dopo che avevano deciso di fuggire dall’isola, per andare lontano, da qualsiasi parte del mondo, dove il loro amore non venisse ostacolato da pregiudizi tribali, di appartenenza o, peggio ancora, dalle ferite causate da guerre, conflitti assurdi che dividono popoli, famiglie e che dispensano odio verso l’altro”. – “Ma perché volevano scappare…e da chi?”, domandò Robert. “Ci stavo arrivando ragazzo”, bofonchiò Alan, riprendendo da dove era stato interrotto: “la ragazza era in un evidente stato di agitazione e, dopo essersi rivolta verso il compagno, disse che lui era turco cipriota, si chiamava Deniz e proveniva dalla parte nord di Nicosia, che loro chiamano col nome di Kuzey, e lei invece era Alike e viveva nella parte greca della capitale.
“Non persi tempo”, proseguì Alan, “li feci salire a bordo, li invitai a prendere posto su due strapuntini in coda alla cabina, e lì mi raccontarono le loro vicissitudini, a cominciare da quando si erano conosciuti in un convegno internazionale organizzato dalle Nazioni Unite: l’inizio dei loro guai; il vedersi ogni tanto di nascosto, sopportare l’ostilità delle famiglie, i grossi rischi, eccetera. Fino a quando decisero che era giunta l’ora di darci un taglio. Scappare!”.
Robert rimase ad ascoltare senza fiatare, difatti Alan non lo deluse, fornendogli uno scoop di quelli da sbattere in prima pagina, perché gli rivelò il modo rocambolesco in cui, in quella stessa notte, i due giovani riuscirono a saltare i rispettivi confini, fatti di sacchi di sabbia e di chilometri di filo spinato, e ritrovarsi nel punto stabilito nella “terra di mezzo”. Una sorta di limbo dal quale spiccare il volo verso l’agognata felicità.
“Hai presente un deltaplano? Quell’accrocco volante che galleggia nell’aria sfruttando le correnti ascensionali, sul quale è appeso, infilato in un sacco, un moderno Icaro”? Disse l’ex pilota, rivolgendosi all’intervistatore che lo ascoltava a bocca aperta. “Beh.”, prosegui: “il giovane ha spiccato il volo, appeso a quel fazzoletto di stoffa, si è buttato da un’altura sferzata dai venti, nelle vicinanze di casa sua e all’imbrunire, complice una foschia densa e un residuo vento ascensionale, è riuscito ad arrivare fin là, dopo essersi schiantato tra gli ulivi di una piantagione, che era già buio.”.
“E quale altra diavoleria ha adottato la ragazza per onorare l’appuntamento?”, gli domandò Robert. “Nessun marchingegno, solo furbizia, sangue freddo e buone gambe”, rispose Alan, lanciando in aria cerchietti di fumo dalla bocca.
La fine della storia arrivò, dopo che la cameriera creola aveva servito due bicchierini di Heering Cherry Original ghiacciato; un brindisi al coraggio di Deniz che aveva sfidato la gravità, come anche ad Alike, che si era presa gioco delle guardie di confine, facendosi passare per un’addetta alle pulizie dei cessi. “E il funzionario inglese cosa pensò quando vide quei due ragazzi raggomitolati in fondo alla cabina del Trislander?” chiese il reporter. “Niente di che, bevve anche lui, nel senso che credette in pieno ad una banale scusa appositamente confezionata, di cui al momento non ho memoria. Portai il muso aguzzo dell’aereo verso sud sud-est, gas a manetta e, dopo una breve e barcollante corsa sull’erba, l’aereo staccò nel rumore assordante dei motori, puntando dritto sulla Base di Dhekelia, dove la polizia prese in carico il diplomatico e pure i due ragazzi che, mi risulta abbiano trovato la loro strada in Irlanda, dove avrebbero cercato di costruirsi una nuova vita.”.
La notte, nel frattempo, si era assestata sulle venti tre, almeno così segnava l’orologio dell’ex comandante che disse: “Fine della storia direbbe lei? Certo che no! C’è molto altro, ma pare sia un po’ tardi per continuare, non crede?”, sbottò Alan rivolgendosi all’intervistatore. “Vuole concedermi un’altra mezz’ora del suo prezioso tempo Mr. Alan, o preferisce “atterrare” anzitempo, per dirla nel gergo aereonautico?”, si sentì rispondere.
Nel frattempo, un banglà dall’aria gentile, girava fra i clienti del locale e proferiva rose scarlatte, sperando che qualche signore ne acquistasse una per donarla alla sua patner.
Robert chiamò il venditore indiano, invitandolo ad avvicinarsi al suo tavolo e, in un non men che non si dica, acquistò un fiore depositandolo sul pianale della sedia rimasta vuota, poi fece cenno alla cameriera creola di portare altri due cherry. La ragazza, poco dopo, servì il liquore al tavolo e Robert la sorprese, regalandole la sua rosa cellophanata. La giovane arrossì e ringraziando se ne andò. “Bel gesto ragazzo, è così che si fa. Un brindisi alla faccia tosta!”, disse Alan alzando il calice.
“Da dove riprendiamo Mr. Alan?” chiese il giornalista. “Nuova Zelanda. Cinque anni di servizio confinato sulla North Island, a mezz’ora di volo da Auckland, a scarrozzare turisti, esploratori, amanti della natura e dello shopping e perfino astrofili alla ricerca delle stelle nei “Cieli Scuri” di Aotea; tutti a bordo di un altro B&N – Trislander, dal muso cromato con la livrea rossa della “Island Air Charter”.
Mi viene ancora da ridere se ripenso a quel piccolo aeroporto di Claris, su quell’isoletta al di là del Golfo di Aurukaki, dove non era possibile rifornirsi di carburante; dovevi accertarti preventivamente che il “Tris” decollasse a pancia piena da Auckland.
Non di rado attendevo i clienti nel piccolo villaggio di Aotea, vicino l’aeroporto. Abitavo, si fa per dire, all’interno di un camping, in una casetta fatta di legno, dalla porta rotonda come quella delle favole, ospite di una gentile signora di nome Yolo, una “nativa” dalla pelle dorata e lo sguardo suadente.
Tre voli al giorno, sedici passeggeri che pagavano il biglietto direttamente a bordo, ai quali fornivo cuffie da indossare nella fase del decollo, tanto era il rumore causato dai tre motori al massimo dei giri. Se c’era vento poteva rivelarsi un giro accidentato, ma i passeggeri stringevano i denti, pur di ammirare dall’alto la spiaggia di Okupu, dove c’è l’icona della Nuova Zelanda: il gigantesco albero chiamato Pòhutakawa, che a dicembre esplode di rosso, diventando l’Albero di Natale della Nazione.
Mettiamoci pure qualche atterraggio rocambolesco sui fazzoletti erbosi ai bordi di Gisborne, la prima città al mondo a vedere l’alba del nuovo giorno, e magari accompagnare i turisti a farsi un bell’ hamburger di cozze alla baracca di Swallow.”.
Alan si fermò per un attimo accennando ad una breve risata, poi riprese a dire: “Ricordo quel giorno, dove il pappagallo kakapo, che tenevo con me in casa, sobbalzò per la chiamata ricevuta alla radio dalla torre di controllo. Dovevo andare a prendere il professor Hidding all’ University of Auckland, presso il dipartimento di Genetica Molecolare. Per l’occasione indossai il pullover blu di ordinanza nuovo di zecca, con tanto di spalline ornate da quattro luccicanti galloni dorati.
Per farla breve, atterrai un’ora dopo la chiamata, al Terminal per i voli interni e, rullando sulla pista di calcestruzzo, mi ero portato davanti al – gate – assegnato; c’era un gran movimento di persone intorno al Professore, che avevo conosciuto in altre occasioni. Il segnalatore mi comunicava di spegnere i motori all’istante. Ciò fatto scesi dalla cabina, apri il portello di accesso ai passeggeri e vidi lo scienziato avvicinarsi con un animale al guinzaglio che, a ben vedere, non era per niente un cane, bensì una pecora dal folto mantello e dall’aria impaurita, per giunta. Si era venuta a creare una situazione comica e nello stesso tempo surreale, perché la bestia non aveva nessuna intensione di imbarcarsi, e Hidding che la tirava con il guinzaglio e due suoi assistenti che la spingevano da dietro. Dopo un po’ eravamo pronti a partire: motori al massimo e, raggiunta la V1, il decollo. Rabbioso come sempre.
L’animale era in uno stato di agitazione latente e si guardava attorno con i suoi occhi rossastri; il Professore lo teneva a bada col guinzaglio, sussurrandogli qualcosa all’orecchio. A un certo punto la pecora si divincolò e, in preda al panico più assoluto, saltò sullo strapuntino del secondo pilota e si attaccò al volantino. L’aeromobile andò in picchiata, facendo sbattere il muso al passeggero sul margine della poltroncina del pilota. Feci i numeri per riprendere il controllo del velivolo e contemporaneamente avere la meglio sulla pecora. Poco prima di atterrare a Claris, Hidding mi svelò il nome dell’animale: “Pretty”, la pecora che aveva clonato in laboratorio e che doveva condurre in una fattoria dell’isola per studiarne, in gran segreto, i comportamenti. Morale, ancora oggi non saprei distinguere chi tra i due fosse l’elemento più bizzarro.”.
La mezzanotte, nel frattempo, aveva aggiunto un altro numero al calendario, ma la gente continuava ad andare e venire, le ragazze sparecchiavano e riapparecchiavano per accogliere i nottambuli della movida. Il giornalista si fece portare dei salatini e due calici di vino bianco d’Alsazia dalla solita cameriera, che gli ammiccò un sorriso; Alan, strizzando l’occhiolino, concesse al giovane un’ulteriore proroga alla fine dell’intervista.
“E che mi dice del suo successivo trasferimento nell’isola caraibica di Montserrat, dove mi risulta abbia effettuato un servizio di Taxi Plane e altro ancora per alcuni anni, proprio in quelle isole dell’arcipelago a nord del Venezuela?”, chiese il giornalista.
La risposta arrivò puntuale e precisa come sempre: “Come lei certamente saprà” continuò Alan “Monserratfa parte anch’essa del Commonwealth; questo sputo di isola, dal 1623 fu il rifugio degli irlandesi cattolici cacciati dall’Inghilterra per motivi di religione; del resto anche nel sottoscritto scorre sangue irlandese, non si sente dall’accento?”. Robert scosse il capo in segno affermativo e lo invitò ad andare avanti. “Ho lavorato come pilota su un altro BN-ZA MK III-2, come lei ama definirlo, in collaborazione con la Royal Montserrat Defence: un manipolo di militari inglesi volontari in stazza sull’isola, con il compito di polizia. Ci ho trascorso un periodo che va dal mille novecento novanta al mille novecento novantotto, un anno dopo la tremenda eruzione del vulcano Soufrière Hills, che distrusse due terzi dell’isola, compresa la sua Capitale Plymouth, che ancora oggi è sepolta sotto diversi metri di cenere.
Avevo come Base l’aeroporto di Osborne nel villaggio di Gerald’s, da cui decollavo giornalmente portando una quindicina di passeggeri che si spostavano tra la Dominica, Guadalupa e Antigua, e con qualche puntatina anche sull’isola di Puerto Rico, come quella volta che ci andai a recuperare il famoso gruppo musicale “The Police”, per trasferirli agli Air Studios di Plymouth per la registrazione di un disco.
Quell’ora di volo non la dimenticherò mai, quando tolsi per qualche secondo la radio-cuffia e canticchiai un brano dell’Album “Sinchroniticy” insieme a Sting, che poi mi autorizzò a chiamarlo con il suo vero nome: Matthew Sumner. Che tempi!”.
Alan, ad un certo punto smise di parlare e tirò fuori, da sotto la camicia, una catenina con appeso un medaglione e, mettendolo bene in mostra, disse mestamente a Robert: “Vede? Qui è raffigurato Saint Patrick protettore degli irlandesi” e, dopo aver esibita l’altra faccia, continuò dicendo: “qua è incisa una data tragica e dolorosa “25-07-1997”, a ricordare la seconda tremenda eruzione del vulcano che semi distrusse “l’Isola di Smeraldo”, così era chiamata precedentemente; poi invece gli venne affibbiato un appellativo ben diverso: “La Pompei dei Caraibi”, con le sue venti tre vittime e i tanti feriti.
Ricordo che già nei primi giorni di luglio”, disse l’ex comandante, “c’erano state le prime avvisaglie, con sciami di scosse sismiche.
Dalla cima del vulcano un pennacchio di fumo denso filava alto nel cielo. La popolazione venne posta in allerta e si predispose una sorta di piano d’ emergenza, sia logistico che medico.
Sulla carlinga del “Tris” fu disegnata una vistosa croce rossa inscritta in un cerchio dal fondo bianco; vennero smontati due terzi dei sedili passeggeri per fare posto ad alcune barelle e qualche dispositivo medico d’emergenza.
Anche i collegamenti tra le isole vennero ridotti, e nei giorni a seguire fu un susseguirsi di ricognizioni aeree, con a bordo geologi e personale militare. Il mio Trislander venne messo veramente a dura prova da decolli e atterraggi in stretta sequenza.
Spesse volte la parte terminale della fusoliera andava in surriscaldamento, nonostante il sistema di refrigerazione, progettato nell’aereo, fosse regolarmente in funzione, per sopperire al calore sviluppato dal terzo motore posto davanti al timone di coda…”. –
“Ci prendiamo il tempo di una birra Comandante?”, disse Robert; la cameriera creola, nel frattempo, aveva portato al tavolo le birre chieste dal giornalista e si era trovata ad ascoltare, suo malgrado, una parte delle vicende raccontate su Montserrat. La ragazza appoggiò i due boccali sul tavolo e, con un leggero inchino, si dileguò nella penombra della sala.
Intorno a quei due personaggi, seduti vicino a un tavolo tondo che sorseggiavano birra a piccoli sorsi, la notte si era consolidata, approcciando con discrezione al nuovo giorno. Click, il giornalista riaccese il suo voice recorder e formulò un’altra domanda all’ex Comandante: “Il suo spirito di avventura lo ha condotto da un capo all’altro del mondo, pilotando lo stesso tipo di aeromobile, adattandolo, di volta in volta, alle necessità del momento e…” l’ex pilota, con un gesto della mano, interruppe l’intervistatore, invitandolo ad ascoltare il prosieguo di quella storia per metà tragica e, al contempo esaltante. “Mi scuso per l’interruzione” disse con voce rotta dall’emozione Alan, “ma preferirei soffermarmi a ricordare alcuni eventi tragici che accaddero quel 25 luglio del novantasette, quando il vulcano eruttò facendo tremare la terra e il cielo si rabbuiò per quindici interminabili minuti.
Cenere e lapilli incandescenti piovevano dappertutto compreso il campo dove mi trovavo con l’aereo già pronto alla partenza. Il tempo di far salire a bordo un ingegnere dei pompieri e un medico, che avevano ricevuto un messaggio di emergenza, poi diedi lo starter ai tre motori e, dopo un breve rullaggio, su quel che era rimasto della pista, decollammo.
Su, verso l’oscurità. E i blocchi di pomice che battevano sulla carlinga e sul parabrezza del velivolo. Dieci minuti dopo scendemmo di quota portandoci a circa mille cinquecento piedi, a sorvolare una fattoria che stava prendendo fuoco.
Dovevo atterrare ad ogni costo, per tentare di salvare vite umane. Questo era l’imperativo! Buio, cenere che surriscaldava i motori, e le lancette dei termometri che si avvicinavano pericolosamente al fondo scala. L’aria che iniziava ad essere irrespirabile.
Laggiù! Indicò l’ingegnere; virammo bruscamente sulla destra e, in picchiata, scendemmo a pochi metri dal suolo, in prossimità del casolare in fiamme. Mi girai per un attimo a guardare i miei compagni, quasi a cercare da loro il modo in cui prendere terra senza sfracellarsi.
Un minuto più tardi atterrammo su un campo di cotone vicino la fattoria; all’impatto, dal carrello si udì un botto, dovuto allo scoppio di due dei quattro pneumatici anteriori. Il piccolo aereo arrancava sulla piantagione, da sembrare una ballerina zoppa.
Portai il “Tris” nei pressi della casa, dove alcune capre terrorizzate saltavano sopra tizzoni ardenti; restai in cabina con i motori accesi. Il flusso delle eliche spostava nugoli di cenere grigiastra.
Furono minuti concitati. Avevo saldamente in mano i comandi, freni attivati e motori quasi al massimo. Tutto vibrava e la fusoliera sembrava volersi schiantare da un momento all’altro. Poco tempo dopo i due miei colleghi fecero salire a bordo una signora con una bambina entrambe ferite, e con i volti anneriti dal fumo. Capimmo, da qualche gesto della donna, che si trattava di una madre con sua figlia.
Mollato il freno, spinsi i tre pomelli verdi delle pompe carburante, girai il muso dell’aereo a cento ottanta gradi e, dopo molte peripezie, raccomandandomi a San Patrizio, diedi il massimo della potenza e il velivolo finalmente si staccò dall’inferno. Volavamo a vista, si fa per dire, verso nord- ovest in direzione della cittadina di Brades (la futura Capitale di Montserrat); la bambina piangeva e tutti si prodigavano a rassicurarla e a tenerla ben al caldo sull’improvvisata lettiga. Anche il sottoscritto, seppur impegnato nella difficile trasvolata, cercò un modo per distrarre la ragazzina chiedendo attraverso l’altoparlante di bordo, come si chiamasse e quanti anni avesse. “Clarisse, mi chiamo Clarisse” ebbe la forza di rispondere la bambina. E questo mi rincuorò.
Atterrammo su un campo da golf a St. Peter’s nella Belham Valley, dove ci attendeva un’ambulanza. Presi la bambina in braccio e la condussi all’auto medica, dove sua madre la attendeva piangendo; prima che la portiera si chiudesse e l’auto partisse per il “Davy Hill Medical Centre”, presi la manina della bimba e, con una carezza, le dissi ciao. Questo è quanto.”, chiosò Alan, alzandosi in piedi, dando l’idea di volersene andare. Robert fece di conseguenza e si offrì di pagare il conto, che andò a regolare al banco, dove la ragazza creola che li aveva serviti, gli dispensò un bel sorriso.
Le luci dei locali via, via si spegnevano; il rumore cupo del mare accompagnava i due uomini sulla Oxford Street semi deserta, il comandante si offrì di dare un passaggio al suo intervistatore, visto che la sua auto era rimasta in panne.
Quello che i due si dissero all’interno della macchina, in quel tratto di strada che separava la Oxford dall’abitazione di Robert Sinclair, non ci è dato sapere. Si può immaginare che Alan Mc Carthy, con una breve, quanto generica appendice all’intervista, abbia voluto ribadire che tutto ciò che riteneva importante da raccontare, lo aveva riferito in “quella chiacchierata tra amici” in un Pub della Oxford Street, tralasciando, probabilmente, l’ultimo periodo della sua carriera consumato sopra cieli grigi della Manica, al comando di un BN-ZA MK III-2, questa volta con una livrea gialla e con le insegne della compagnia Aurigny, in rotta sulle Blue Island a trasportare pendolari, impiegati e uomini di affari sulle Isole del Canale.
Non sappiamo nemmeno se Alan abbia accennato al suo intervistatore, della telefonata che aveva ricevuto, giorni prima, da un Dirigente della Britten Norman, con la quale lo avevano invitato nell’ Isola di White per ritirare un “Premio alla Carriera”, in merito alle sue avventure celesti intraprese con il suo mitico Trislander, qua e là per il mondo.
Sappiamo solo che la cerimonia avvenne in pompa magna alla vigilia di Natale del duemila quindici, proprio nella fabbrica di aerei della B&N, con la stampa, la TV e parecchi invitati, tra i quali: Robert Sinclair, il suo intervistatore, Clarisse, che era diventata, nel frattempo, la sua ragazza e che si era rivelata come la bambina creola che Alan aveva portato in salvo nell’isola di Montserrat, anni prima; c’erano anche un uomo e una donna: Deniz e sua moglie Alike, che non dimenticheranno mai l’aiuto avuto dall’ex Comandante che li raccolse nella zona cuscinetto della Cipro divisa tra turchi e greci, portandoli al sicuro nella Base inglese di Dhekelia.
Per l’occasione, Alan fu invitato a salire sull’ultimo esemplare del Trislander ancora in circolazione, per condurlo in un Hangar, dove sarebbe stato smantellato per raggiunti limiti di servizio.
Il Comandante, attorniato da un piccolo pubblico festoso, premette per l’ultima volta i tre pomelli verdi della pompa carburante, mollò i freni e rullò pian piano sulla pista per pochi metri, fino a scomparire dietro una fitta pioggia innescata dalle auto pompe dei vigili del fuoco che, a modo loro, vollero salutare il minibus dei cieli e, soprattutto il suo Comandante Alan Mc Charty.
L’ex pilota, quel giorno, aveva vissuto la più bella ed emozionante avventura della sua movimentata esistenza, ritrovando amici inaspettati, che ancora oggi lo ricordano con affetto e ammirazione.
Robert Mc Carthy ed Alan Sinclair si abbracciarono nel mezzo della pista senza dire una parola, mentre gli obiettivi delle macchine fotografiche e delle telecamere mettevano a fuoco quelle due figure, di cui l’una incarnava lo spirito indomito dell’avventura, e l’altra la capacità di trasferirla, nero su bianco, al grande pubblico dei tabloid.