Gun button to fire: A Hurricane Pilot Story of the Battle of Britain

titolo: Gun button to fire: A Hurricane Pilot Story of the Battle of Britain“.  – [Bottone delle armi in posizione di “fuoco”: La storia di un pilota di Hurricane della Battaglia d’Inghilterra]

autore: Tom Neil

editore: Amberley Publishing

anno di pubblicazione:  2010

edizione ebook:  2010

eISBN: 978 1 84868 843 3




Dopo aver letto tanti libri scritti da piloti americani, neozelandesi, australiani o francesi, che hanno combattuto nei cieli europei e basati su qualche aeroporto inglese, ecco un altro libro che descrive i giorni, o meglio, gli anni della Seconda Guerra Mondiale.

Guerra aerea, ovviamente.

Stavolta, però, il pilota è proprio inglese.

Anche questo libro comincia con la descrizione della prima parte della vita del suo autore.

Gli anni dell’adolescenza e della giovinezza sono trattati brevemente, ma come di consueto, sin dall’inizio il libro coinvolge e lascia gli occhi del lettore incollati alle pagine.

L’autore aveva appena intrapreso una carriera di impiegato in una banca. Il padre, insieme ad un amico e collega già inserito nell’ambiente bancario, era riuscito a procurare questo lavoro al proprio figlio, che però non era molto entusiasta della soluzione. Infatti traspare dal libro una sorta di rassegnazione nei confronti di un impegno che non gli piaceva per niente. Ma cercava di fare buon viso a cattiva sorte. Nel frattempo si guardava intorno alla ricerca di qualche soluzione ben diversa.

Una bella immagine di un Hawker Hurricane come quello che pilotò l’autore del libro. Sir John Grandy, Marshal of the RAF (equivalente del nostro Maresciallo dell’aria o generale di Generale di Squadra aerea) ha definito il volume di Tom Neil come: “The best book on the Battle of Britain”, ossia “Il miglio libro della battaglia d’Inghilterra”. Da notare che, mentre noi, popoli d’oltre Manica, definiamo il conflitto come una battaglia che ha visto coinvolta fondamentalmente la regione meridionale del Regno Unito – l’Inghilterra, appunto – gli abitanti dell’isola extra continentale la chiamano più correttamente la guerra di Britannia, ossia della Gran Bretagna giacché, secondo il toponimo latino dato dai Romani, la Britannia era appunto l’attuale Gran Bretagna. – Foto proveniente da www.Flickr.com

Poi arrivano i giorni in cui si cominciano a percepire venti di guerra provenienti dalla Germania nazista.

Tom Neil, l’autore, ci porta con sé sulla tortuosa strada che, dalla porta della sua casa in un paesino dell’Inghilterra, conduce fino alla scuola di volo, al reparto della Royal Air Force nel quale prende servizio e comincia la sua vita di pilota militare.

Un classico, si potrebbe dire.

Sì. Un classico. Tutti questi libri cominciano più o meno così.

L’unica cosa che cambia è che qui il pilota è inglese. Si trova, quindi, già in Inghilterra.

Gli altri autori, invece, raccontano tutti il viaggio, lunghissimo e a volte periglioso, che da luoghi lontanissimi, come gli Stati Uniti, la Nuova Zelanda, l’Australia, il Sud Africa o la Francia (ma altri venivano da Cecoslovacchia, Polonia e altri paesi relativamente più vicini) li aveva condotti in Inghilterra per prendere parte alle operazioni belliche alleate contro l’aggressione della Germania e delle forze dell’Asse.

Una foto originale che ha come protagonista assoluto l’Hawker Hurricane, a terra come in volo in un basso passaggio in coppia. L’Uragano (questo il termine hurricane tradotto in italiano) fu progettato da sir Sydney Camm (lo stesso che disegnò il Tempest e il Sea Fury) agli inizi degli anni ’30 e fu costruito complessivamente in circa 14 mila esemplari. Volò per la prima volta nel ’36 ed entrò in servizio nella RAF nel ’37. Assieme al più blasonato Supermarine Spitfire, è considerato il velivolo britannico per antonomasia e quello che tenne botto all’assalto della Luftwaffe e della Regia Aeronautica nel corso della battaglia d’Inghilterra. Come lo Spitfire era dotato di motore Merlin ma non aveva le stesse doti corsaiole a causa del maggior spessore dell’ala unito a una maggiore robustezza e semplicità costruttiva (alcune parti erano ancora in tela). Come lo Spitfire, per quell’epoca, era  un velivolo moderno: monoplano, carrello retrattile, cabina chiusa, motore raffreddato a liquido di notevole potenza, elica tripala metallica, radio di serie e un armamento di ben otto cannoncini (prima da 7,7 e poi da 20 mm nelle ultime versioni) . All’inizio degli anni ’40 era uno dei velivoli più moderni presenti nei reparti caccia dei belligeranti. – Foto proveniente da www.flickr.com – 

E comunque Tom Neil, l’autore, non deve fare molta strada per arruolarsi. Esce di casa, percorre un breve tragitto e arriva subito. Infatti, durante il primo periodo di servizio torna regolarmente a casa a dormire. E i suoi genitori lo possono andare a trovare in aeroporto ogni volta che lo desiderano.

Ma l’idillio non dura molto. La guerra travolge tutti con la sua furia cieca e le cose cambiano rapidamente.

Gli attacchi delle formazioni di aerei tedeschi diventano quasi giornalieri, poi si intensificano. In breve tempo i piloti devono partire immediatamente a ogni allarme e questo accade anche quattro o cinque volte al giorno. E anche di notte.

La Luftwaffe non dà tregua alle città inglesi. Bombardamenti continui devastano ogni obiettivo, militare e civile, con metodica regolarità.

Addirittura girano voci di un’imminente invasione del Regno Unito da parte della Germania. Ed erano voci veritiere. Infatti questo piano era presente nelle intenzioni di Hitler, che però, più o meno inspiegabilmente, non lo mise mai in atto.

Comincia così quella che oggi conosciamo come “la Battaglia d’Inghilterra“.

All’inizio, prima che anche gli Stati Uniti entrassero in guerra, solo uno sparuto gruppo di piloti si oppose agli attacchi. Gli aerei erano gli Spitfire e gli Hurricane.

Il gran numero di esemplari prodotti ha fatto sì che, ad oggi, in Gran Bretagna, siano perfettamente efficienti e abili al volo un notevole numero di Hurricane tanto che non c’è manifestazione aerea in cui abbondino, nuovi, come fossero usciti il giorno prima dalla fabbrica della Hawker o della Gloster in cui venivano prodotti prima e durante tutta la Seconda Guerra Mondiale in diverse versioni e allestimenti (tra cui il Sea Hurricane, l’Hurricane imbarcato). Statisticamente, nel corso della Battaglia d’Inghilterra, gli Hurricane distrussero aeroplani tedeschi più di qualunque altro aereo inglese fornendo un contributo probabilmente determinante ad arginare l’impeto dei piloti della Luftwaffe e della Regia Aeronautica. Grandi meriti degli Hurricane, nonostante gli inevitabili punti deboli, furono la facilità di produzione, riparazione e, non ultimo, anche di pilotaggio. Il carrello degli Hurricane era infatti più largo e robusto di quello dello Spitfire mentre la migliore visibilità in avanti in fase di rullaggio lo faceva apprezzare molto dai piloti. Infine i comandi di volo morbidi ma uniformi nonché la piattaforma di sparo assai stabile lo facevano piacere molto. Ma l’aspetto che più confortava i piloti era la grande capacità di incassatore che consentiva all’Hurricane di riportare a casa il pilota sebbene la macchina avesse subito gravi colpi. All’Hurricane molti devono la loro pelle.- Foto proveniente da www.flickr.com – 

Questi aerei sono diventati famosi.

Tom Neil divenne pilota di Spitfire. Ma solo per un breve periodo.

Dopo, transitò in un gruppo che aveva in dotazione il più datato Hurricane.

Questo libro, come tutti gli altri, ha una dedica. E anche questo è un classico.

La dedica, immancabile, nel caso nostro è rivolta alla moglie e ai figli.

“To my wife, who also served, and who was, and is, much more capable on the ground than ever I was in the air; and my three sons, who should at list know something of these events”.

“A mia moglie, che era anch’essa in servizio, e che era ed è, molto più capace a terra di quanto lo fossi io in aria; e ai miei tre figli, che possano almeno conoscere qualcosa di questo eventi”.

Non tutti sanno che l’Hawker Hurricane – ossia quanto più di britannico possa volare – solcò i cieli delle gelide distese dell’Unione Sovietica, ceduto all’aviazione dalla stella rossa in grande quantità (gli annali dell’aviazione riportano addirittura circa 2950 esemplari) in virtù della famosa legge  Lend-Lease (in italiano la tradurremmo “Legge Affitti e prestiti”). Lo scopo di questa legge, firmata dal presidente Franklin D. Roosevelt, era quella di fornire materiale bellico agli Alleati in male arnese (britannici, sovietici, francesi e cinesi) nel contrastare gli italo/tedeschi su tutto il fronte europeo-africano e i giapponesi sul fronte del Pacifico. Nel caso specifico, furono gli stessi britannici a fornire i velivoli di loro produzione a mo’ di aiuto a favore dei sovietici  giacché la pressione sul fronte inglese si era molto allentata. In realtà, gli Hurricane erano già usciti da mesi dai reparti di prima linea della RAF in quanto superati da altri modelli. Dunque furono “casualmente” ceduti agli alleati di oltre Urali. I sovietici, per nulla sciocchi, ringraziarono ma non apprezzarono mai l’Hurricane e non nascosero la catasta di critiche che mossero al velivolo della Hawker: il motore non era affidabile perché facilmente surriscaldava o addirittura grippava; il velivolo non accelerava in picchiata e perdeva facilmente velocità in cabrata, si incendiava facilmente, le armi si inceppavano spesso e la riserva di munizionamento era troppo esigua. Inoltre la macchina non era per nulla maneggevole e occorreva evitare il combattimento con sviluppo verticale, la corazzatura veniva sfondata facilmente … insomma, a detta almeno dei sovietici: una mezza ciofeca. I sovietici lo dichiararono scadente quasi quanto (se non più) i Curtiss P-40 e i Bell P-39 Aircobra giacché inferiore sicuramente ai caccia tedeschi ma anche agli stessi caccia sovietici. Della serie: se mi devi regalare qualcosa, dammela affinché mi torni utile, non solo per fare volume. – Foto proveniente da www.flickr.com –

Già dalla dedica si percepisce una sorta di delicatezza che caratterizza il personaggio. Ed è effettivamente così. A fronte della rudezza di tante descrizioni, troviamo spesso frasi delicate nei confronti di familiari, amici, colleghi e perfino animali. Sembra incredibile che la stessa persona possa avere allo stesso tempo atteggiamenti tanto amorevoli e altrettanta indifferenza verso simili tragedie, come quelle che ogni giorni facevano parte della sua vita quotidiana.

Però, se una recensione deve mettere in evidenza i punti forti, o anche quelli deboli, di un libro, allora è meglio chiarire subito: a raccontarci tante storie di guerra, almeno del periodo iniziale in cui la Gran Bretagna faceva fronte da sola al nemico germanico, è un inglese. E trasferisce nei racconti tutta la sua mentalità inglese. O almeno, la mentalità di un inglese di quegli anni, che presumibilmente era abbastanza diversa, più forte e più marcata, di quella di un suo connazionale di oggi, in un mondo decisamente più globalizzato.

Sin dalle prime pagine risulta evidente una estrema imperturbabilità, quasi un’indifferenza totale verso gli episodi e le tragedie di molti avvenimenti di guerra.

L’Hurricane, qui ritratto in uno splendido scatto dal basso, era considerato dai piloti britannici un po’ come quei grossi cavalli da tiro con le zampe pelose e i grandi zoccoli ben piantati a terra. Massiccio e potente, si contrapponeva allo Spitfire paragonato – sempre seguendo lo stesso parallelismo equino – a un bel purosangue da corsa dal manto lucido ma un po’ bizzoso di carattere, delicato eppure velocissimo. Non a caso la tecnica di ingaggio delle grosse formazioni di bombardieri tedeschi  dirette verso l’isola britannica prevedevano che gli Hurricane attaccassero la formazione mentre gli Spitfire, più agili, avrebbero tenuto a bada i caccia di scorta nemici (leggasi Messerschimtt Bf-109).

Di notte, quando il silenzio veniva rotto dal rumore tipico di una squadriglia di bombardieri tedeschi che sorvolavano la zona, dal rumore sordo dei colpi della contraerea e dallo scoppio delle bombe nelle zone vicinissime alla baracca dove i piloti dormivano, alcuni uscivano fuori a guardare verso il cielo, altri si giravano nel letto e cercavano di riprendere il sonno. Come se la faccenda non li riguardasse.

As if nothing really matters“,

direbbero loro. Che tradotto suona più o meno:

“Come se niente avesse davvero importanza”

Sconcertante. Ma non c’è solo questo.

Se avessimo la fortuna di partecipare a qualche manifestazione aerea in Gran Bretagna non vi stupirete certo se questo velivolo, pressochè immacolato, facesse un passaggio a tutta canna sull’asse pista. In Gran Bretagna è normale che un Hurricane sia in volo anzichè sepolto tra le pareti metalliche di un hangar speciale chiamato “museo”. – Foto proveniente da www.flickr.com –

In ogni capitolo Tom Neil descrive avvenimenti tragici e devastanti, aggiungendo alla fine di ogni descrizione che a lui e ad altri protagonisti presenti non importava davvero nulla. Subito dopo ognuno se ne andava per i fatti propri. E se appena il fattaccio aveva creato un qualche tipo di sconcerto, bastava andare alla mensa a prendere una birra, oppure bastava una scrollata di spalle per scacciare dalla mente la brutta sensazione.

A ogni sortita, generalmente su allarme, qualcuno non tornava. Molti cadevano verso terra con l’aereo in fiamme. E l’Hurricane aveva una spiccata tendenza a prendere fuoco in un attimo, per via della disposizione dei serbatoi, senza nessun sistema di auto sigillo.

Neil descrive un aereo colpito a quota più alta della sua, i pezzi volano via, uno di questi precipita giù e passa di poco al di sopra del suo cockpit. Una sagoma scura che sul momento non sa identificare, ma subito dopo scorge, in una frazione di secondo, gambe e braccia che si agitano nella caduta. Un uomo, il pilota.

Forse il paracadute non si era aperto.

La sua considerazione? Che brutta discesa, da 18.000 piedi (circa 7000 metri), per andarsi a sfracellare giù a terra…

Se questo scatto non fosse a colori – evento piuttosto raro durante gli anni ’40 – e se le diverse sigle dipinte sulle fiancate  non tradissero l’appartenenza a diversi stormi, si potrebbe essere tratti in inganno all’idea che l’immagine risalga a qualche remoto aeroporto del sud della Gran Bretagna nel corso della Battaglia d’Inghilterra e invece … si tratta di uno dei tanti e periodici raduni o manifestazioni aeree che si svolgono oltre Manica. Da notare lo stato impeccabile (oltre che il numero) degli Hurricane ritratti – Foto proveniente da www.flickr.com –

Comunque il vedere colleghi di squadriglia cadere in fiamme o con il paracadute chiuso non turbava più di tanto e con il passare del tempo ci si faceva il callo sempre più.

In questo caso, però, si scopre nei giorni successivi, il paracadute, anche se non si era aperto del tutto, era uscito abbastanza da frenare la caduta e mantenere il pilota in posizione verticale. In questo modo l’uomo era andato a cadere nell’estuario del fiume Tamigi. L’impatto con l’acqua era stato violento, ma il pilota aveva riportato solo alcune ferite. Trasportato in ospedale, era poi guarito fino a tornare al reparto nei mesi successivi.

I raid aerei notturni, come ho detto, lasciavano molti abbastanza indifferenti, alla tipica maniera inglese.

“A noiser night… with a few bombs and guns going off from time to time… who would have thought a year before that we would be able to live quite serenely under an almost unending succession of nocturnal air raids? And hardly give them a thought”?

“Una notte più rumorosa… con poche bombe e cannoni che sparano di tanto in tanto… chi avrebbe mai pensato un anno prima che saremmo stati capaci di vivere abbastanza serenamente sotto una quasi continua successione di incursioni aeree notturne? E di dedicare loro solo un pensiero di sfuggita”?

Un altro fronte nel quale l’Hawker Hurricane si rese protagonista fu Malta, o meglio fu uno dei velivoli sul quale si fondò la strenua difesa della RAF dell’isola di Malta. Gli Hurricane andarono a rinforzare, o melgio, a rimpiazzare i tre vecchi Gloster Gladiator che inizialmente erano stati posti a difesa della fortezza di Malta dai tiepidi attacchi dell’Asse. La storia narra che i biplani della Gloster fossero soprannominati FaithHope and Charity, che in italiano suona come fede, speranza e carità (ossia le tre virtù teologali della dottrina cristiana). Dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia, avvenuta nel 11 giugno 1940, arrivarono a Malta i primi Hurricane ma alla spicciolata e comunque solo dieci giorni dopo. Viceversa il 2 di agosto giunsero una dozzina di Hurricane lanciati dalla portaerei HMS Argus in navigazione a circa 380 miglia dall’isola. Lo stratagemma ebbe una replica il 12 novembre quando ben 34 Hurricane furono lanciati di nuovo dalla portaerei Argus e dalla Ark Royal. Gli attacchi delle forze aeree dell’Asse si fecero più intensi (e convinti) ma ormai la difesa aerea di Malta poteva contare sugli Hurricane in quantità tale che la fede, la speranza e la carità erano già divenute storia (o leggenda?) – foto proveniente da www.flickr.com –

Vero aplomb britannico…

Non tutti lo avevano, però.

In un altro punto Neil descrive un attacco aereo durante il decollo della squadriglia. Una bomba cade appena fuori dal loro alloggio devastando il prato con i cespugli di rose che lo circondavano.

Così scrive l’autore:

“Outside, everywhere was smoke, hovering dust and smell… Fifty paces away, a huge thick-lipped crater in the rosebush- encircled lawn in front of the mess. The Lawn, for God sake! That must have been the last bang. And an old man, a gardner, shocked into petrified silence, was shaking uncontrollably and standing as though transixed.

We collected the poor creature, who must have been seventy, and sat him on the steps of the hat, breathing words of sympaty and encouragement in his ear…. A cup of tea? Not even a nod. The eyes blankly vacant, the spirit crushed. An urgent nod toward my batman. Tea! Sweet tea. Quickly”!

La copertina del libro di Tom Neil nella sua prima edizione. L’asso britannico ci ha regalato la bellezza di ben dieci libri in cui ha raccontato le sue esperienze vissute intensamente durante il lungo arco di tempo in cui ha prestato servizio nella RAF (dal 1938 al 1964). Si è congedato con il grado di “wing commander”

“Fuori (dalla baracca), era tutto fumo, polvere sospesa e odore… Cinquanta passi lontano, uno spesso cratere orlato nel prato circondato da cespugli di rose di fronte alla mensa. Il prato, perdio! doveva essere stata l’ultima deflagrazione. E un uomo anziano, un giardiniere, shoccato e pietrificato in silenzio, tremava incontrollabilmente in piedi come se fosse in trance. Prendemmo su la povera creatura, che doveva avere circa settant’anni, e lo mettemmo a sedere sugli scalini della baracca, sussurrandogli parole di compassione e incoraggiamento all’orecchio… Una tazza di thè? Neanche un cenno del capo. Gli occhi persi nel vuoto, l’animo affranto. Un rapido assenso verso il mio attendente. Thé! Thè dolce. Veloce”!

La IV di copertina e la copertina interna del libro “Gun button to fire” pubblicato per la prima volta nel 2010 . Thomas Francis “Ginger” Neil ci ha lasciato serenamente per sempre nel luglio del 2018, giusto tre giorni prima del compimento della venerabile età di 98 anni. 
Il suo libretto di pilota è davvero invidiabile: ha volato e combattuto durante la Battaglia d’Inghilterra, la battaglia di Malta e ha partecipato all’invasione della Normandia da parte degli Alleati, infine in Birmania. Solo nel corso della Battaglia d’Inghilterra compi il ragguardevole numero di 141 missioni di combattimento.
Nel corso della II Guerra Mondiale abbattè 14 aerei dell’Asse. E dire che cominciò la sua carriera di pilota addestrandosi nella Royal Air Force Volunteer Reserve (i reservisti volontari della RAF). Gli è stata attribuita la: Distinguished Flying Cross & Bar, l’Air Force Cross, l’Air Efficiency Award, la Medaglia di Bronzo dagli USA e la Legione d’Onore dalla Francia. Intervistato dal Telegraph nel 2015 il pilota disse: “Ho avuto una vita meravigliosa: a volte pericolosa, interessante, persino deliziosa.” Ma ora sono un vecchio gentiluomo – sempre sveglio alle 4 del mattino. Altre persone sono state profondamente colpite dalla guerra e si svegliano ancora urlando, ma a me non succede mai. Ma a volte penso: ho fatto abbastanza?” Era uno dei pochissimi assi della Battaglia d’Inghilterra ancora in vita … leggendo la recensione del suo libro saremo oggi noi a ricordarlo e a rendergli onore.

Anche in questo racconto si percepisce la tipica mentalità inglese.

Fin qui ho solo voluto mettere in evidenza qualcosa che ho riscontrato quasi soltanto in questo libro. La cruda descrizione di eventi terrificanti che altri autori hanno cercato di evitare. In definitiva, le stesse reazioni possono esserci state in qualunque azione di guerra, in qualunque luogo del mondo. Ma la scelta del thè dolce… Forse altrove si sarebbe parlato più di caffè o di whisky…

Ok. Ma ora arriviamo ad una descrizione veramente tremenda. La riporto, non certo per scoraggiare l’interesse di un eventuale, remoto lettore di questo libro bensì per prepararlo a ciò che leggerà. Ce ne sono un’infinità, di queste descrizioni.

Nell’aeroporto arriva un raid aereo.

Una colonna di fumo grigio scuro si alza nel cielo.

“Qualcosa di terribile deve essere accaduto laggiù, perdio”!

Ci vuole fegato per leggere ciò che segue. Chiunque non se la senta, salti pure questa parte.

Una bella istantanea che ci permette di apprezzare la pianta dell’ala dell’Hurricane. Gli annali della storia dell’aviazione riportano alcuni dati molto significativi che la dicono lunga circa la lungimiranza dei vertici della RAF ma anche sulle disponibilità economiche della Gran Bretagna oltre che sulle capacità tecnologiche/progettuali/industriali di quel paese e in quel preciso periodo storico. Ebbene, al 1 settembre 1939, l’Aviazione di Sua Maestà aveva in forza 497 di Hawker Hurricane (mentre erano operativi solo 300 Spitfire), tuttavia alla data del il 7 agosto 1940 ne erano stati consegnati non meno di 2.300 unità con un ritmo di produzione che, solo alla Gloster, raggiunse la cifra di 130 esemplari al mese. Con una tale disparità di risorse l’esito del conflitto era praticamente ipotecato. – foto proveniente da www.flickr.com –

“A Hurricane, pointing west, sat outside our dispersal hut. On its belly and on fire. I hurried towards it to find Crossey and others standing beyond the circle of intense heat with their hands in there pockets. I peered through the smoke and flames… I turned to Crossey. Where was the pilot? A nod. Inside!

It was like a funeral pyre. As the flames took a hold, we watched a blackened and unrecognizable ball that was a human head sink lower and lower into the well of the cockpit until, mercifully, it disappeared. Then the fuel tanks gaped with Whoof of flame the ammunition began to explode, causing us all to step back a pace, and the fuselage and wings began to bend and crumble in glowing agony. Finally, there was only heat and crackling silence and ashes.

And all time we watched. And talked quietly”.

“Un Hurricane, puntando ad ovest, si fermò fuori dalla nostra baracca. Poggiato sulla pancia (con il carrello dentro) e in fiamme. Mi affrettai verso di esso e trovai Crossey (un altro pilota) e altri in piedi al di là del cerchio di intenso calore con le mani nelle loro tasche. Sbirciai attraverso il fumo e le fiamme…. Mi rivolsi a Crossey. Dov’era il pilota? Un cenno di assenso con il capo. Dentro!

Era come una pira funeraria. Appena le fiamme si placarono un po’, vedemmo una palla annerita e irriconoscibile che era stata una testa umana sprofondare sempre più in basso in fondo alla cabina di pilotaggio finché, misericordiosamente, scomparve. Poi i serbatoi del carburante si squarciarono con una ventata di fiamme e le munizioni cominciarono ad esplodere, facendoci arretrare di un passo, e la fusoliera e le ali cominciarono a piegarsi e a sbriciolarsi in una incandescente agonia.

Alla fine rimase solo calore e scoppiettante silenzio e cenere.

E noi guardavamo per tutto il tempo. E parlavamo tranquillamente”.

L’Hurricane era un ottimo aeroplano, o almeno lo era all’inizio della II Guerra Mondiale. Quando si scontrava però con il CR42 Falco aveva quasi sempre la peggio in quanto il biplano della Regia Aeronautica era molto più maneggevole e – occorre ricordarlo – i piloti italiani erano di gran lunga superiori a quelli britannici nel combattimento ravvicinato giacché eccellevano in capacità acrobatiche. Di contro gli Hurricane erano ottimi incassatori e dunque venivano quasi punzecchiati dalle armi leggere di cui erano dotati i Falco. Inoltre gli Hurricane erano assai più veloci (avevano un motore molto più potente) e spesso se la sfangavano sfrecciando via dalle raffiche italiane. Gli Hurricane avevano la meglio sui coevi Fiat G50 ma non sui Macchi MC.202 italiani mentre non avevano alcuna possibilità contro i tedeschi Messerschmitt Bf 109E o, sul fronte orientale, con i Mitsubishi A6M Zero giapponesi. Non a caso, già nel ’41 furono relegati a ruoli di seconda linea. Una bella ripresa ravvicinata di un “moderno” Hawker Hurricane che ne mette in risalto il muso penetrante nonchè la notevole presa d’aria del radiatore dell’olio motore appena sotto la cabina di pilotaggio – foto proveniente da www.flickr.com –

Alcune pagine dopo Neil scrive, riguardo a questo tragico spettacolo:

“I retired that night more than a little concerned that I treaded the cremation of 357’s chap so lightly. What on earth was coming over me? I had watched a collegue burnt to a cinder and had felt… well… almost nothing.”

“Rientrai quella notte un po’ preoccupato per aver seguito tutta la cremazione di quel ragazzo del 357esimo così alla leggera. Cosa mi stava accadendo? Avevo guardato un collega ridotto in cenere e mi ero sentito… be!.. quasi nulla”.

Per pagine e pagine, anzi, per interi capitoli, troviamo descrizioni di battaglie aeree, combattimenti contro altri caccia, aerei abbattuti, piloti che scompaiono, aerei in fiamme che scendono come meteore verso terra. E sempre l’autore accenna a quanto tutto questo gli fosse pressoché indifferente.

Non avremmo mai potuto privarci della bontà di questo scatto che vede tre Hurricane in formazione e che, in successione impressionante, virano stretto con rovesciamento proprio davanti alla fotocamera del quarto velivolo (di cui s’intravedono i piani di coda). Che si tratti di un fotogramma preso da un film dell’epoca? … non lo sapremo mai! – Foto proveniente da www.flickr.com –

Muore un pilota. E’ uno che ha nella sua baracca un cane e un’oca. I poveri anomali restano soli. Dice Neil: “se soltanto sapessero. Ma forse lo sanno…”.

Poi capita a lui di essere abbattuto. Si lancia con il paracadute e si salva. Tutto il lancio viene raccontato nei minimi particolari ed è interessantissimo leggerlo. Specialmente per chi, come me, vola in aliante con un paracadute sulla schiena. Il solo fatto di averlo lascia intendere che potrebbe essere necessario usarlo e questo provoca una sottile preoccupazione a molti piloti.

Nella descrizione che Neil fa dell’episodio c’è un elemento di spicco: la straordinaria determinazione nel non perdere la maniglia che provoca l’apertura del paracadute. La vuole assolutamente tenere per ricordo.

La Storia della Seconda Guerra Mondiale ci ha insegnato che l’Italia, purtroppo, era alleata della Germania. Mussolini mandò un certo numero di aerei a “dare man forte” alla Luftwaffe nelle missioni sull’Inghilterra. Erano CR42 Falco, biplani di antica concezione, assolutamente inadeguati a ogni profilo di volo. Tranne, forse, al combattimento manovrato.

Anche i piloti erano scarsamente equipaggiati. Le cabine aperte non si prestavano certo al volo ad alta quota, per via del freddo e della mancanza di impianti di ossigeno. I tedeschi, loro malgrado, accettarono l’aiuto italiano, ma dovettero fornire l’equipaggiamento mancante agli italiani.

Alcuni CR42 furono abbattuti o dovettero rientrare.

Uno di quei CR42 si trova ad Hendon, un museo della RAF vicinissimo a Londra. Il caccia è in ottime condizioni e fino a poco tempo fa era l’unico esistente al mondo. L’ho visto e fotografato durante una visita a quel museo. Non sapevo che ci fosse e rimasi molto sorpreso.

Bene. Nel libro si parla degli italiani che presero parte a queste azioni di guerra. Neil ha combattuto contro i nostri aerei.

E descrive i nostri piloti con parole di elogio, per l’eroismo e l’abilità nel combattimento.

Mi ha fatto una certa impressione leggere questa storia, vista dall’altra parte della barricata…

Salvo aver partecipato a un airshow nell’estate del 2019, non è usuale vedere un così gran bel caccia da sotto e in primo piano. Ovviamente si tratta di un Hurricane volante e perfettamente funzionante … fatto salvo che per le mitragliatrici … ma solo per una questione di munizionamento. – foto proveniente da www. flickr.com –

Molte pagine sono dedicate alle fotografie dell’epoca. Sono in bianco e nero, ovviamente. E troppo piccole, per essere viste bene, ma sono molte e ritraggono i momenti salienti della vita di reparto. Oltre alle foto dei piloti e degli aerei ci sono anche foto delle pagine del libretto di volo dell’autore.

E qui, le ridotte dimensioni sono un vero peccato. Si riesce a malapena a leggerle.

La parte finale del libro è dedicata a una sorta di curriculum vitae di molti dei piloti che combatterono durante la Battaglia d’Inghilterra.

Sono descrizioni succinte, riportano solo i fatti salienti della vita di ognuno di loro. La maggior parte sono scomparsi e appare sconcertante quanto sia semplice, in definitiva, l’andamento di una vita umana, specialmente quando di essa possiamo vedere sia l’inizio che la fine.

Certe foto, al di là che furono scattate durante un periodo di guerra, siamo convinti che debbano essere  proposte e riproposte … se non altro per mantenere viva la memoria di coloro che sono in essa ritratti. Si tratta dei piloti  del 33mo Squadron della RAF fotografati in Grecia nel 1941 con dietro il loro Hawker Hurricane  Mk I – foto proveniente da www.flickr.com – 

E questi piloti erano tutti giovanissimi.

Alcuni erano poco più che ventenni. La loro vita è stata davvero troppo breve.

A loro dobbiamo molto. Forse la nostra stessa libertà.

Per concludere, questo libro è davvero impressionante. Una volta letto, si conosce molto più a fondo quella parte di storia della guerra aerea del periodo iniziale della Seconda Guerra Mondiale.

Si finisce per conoscere più a fondo quello che doveva essere il combattimento di un caccia contro un altro caccia o contro le mitragliatrici dei bombardieri. Neil parla di come preferisse attaccare da certe posizioni dove sapeva che i mitraglieri avevano un angolo cieco e non potevano colpirlo. Ma poi, nel disimpegno, finiva per essere un bersaglio ugualmente.

Durante tutta la lettura sono rimasto molto impressionato dalla crudezza dei fatti narrati. E, come ho detto, dall’atteggiamento indifferente che accompagnava ogni tragedia.

Nothing really matters ... sempre la stessa frase mi risuonava nella mente. Sono le parole di una canzone.

Uno splendido scatto artistico che mette in risalto le forme posteriori dell’Hawker Hurricane – Foto proveniente da www.flickr.com –

C’è una canzone dei Queen, gruppo inglese, guarda caso, intitolata “Bohemian Rhapsody”. Nel testo di questa canzone, a mio avviso, c’è lo stesso spirito di estrema indifferenza verso un povero uomo condannato a morte, sia quello della storia, sia il cantante stesso, Freddy Mercury, ammalato di AIDS e che sa che dovrà morire. E dall’inizio si rivolge alla madre dicendole che “non significa che devi piangere se domani non sarò tornato a casa. Carry on carry on. Vai avanti, vai avanti. As if nothing really matters. Come se nulla conti davvero.

E il personaggio della rapsodia, allo stesso modo, indifferente alla propria sorte, ripete sempre lo stesso concetto. Che non gliene importa nulla.

Infatti la canzone si conclude con la sua lamentosa, ennesima dichiarazione:

“Nothing really matters. Anyone can see… Nothing really matters…

To me”….

“Non importa davvero niente. Ognuno lo può vedere… Non importa davvero niente… a me”…




Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR




Silver spitfire

Scramble!

Regia aeronautica – Raid e missioni speciali

titolo: Regia Aeronautica – Raid e missioni speciali

autore: Robert Robison

editore:  in selfpublishing (Yuocanprint)

anno di pubblicazione: dic 2019

ISBN: 978-88-31648-36-3




“L’aeronautica italiana, fin dagli albori, fu la protagonista di raid e primati spettacolari. Alcuni primati sono ancora oggi imbattuti […] che resero grande l’Italia nell’età dell’oro dell’aviazione, gli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Anche se nella maggioranza dei casi si trattava di piloti militari, i record erano omologati come primati sportivi”

Si avvia con queste affermazioni, peraltro storicamente ineccepibili, la prefazione del pregevole volume intitolato “Regia Aeronautica – Raid e missioni speciali” di Robert Robison nel quale, forse per la prima volta negli annali della letteratura di divulgazione italiana relativa al mondo aeronautico, vengono raccolti e adeguatamente

“[…] descritti i principali raid effettuati dalla Regia Aeronautica nel contesto bellico, nel periodo che va dalla guerra d’Etiopia alla Seconda Guerra Mondiale.”.

Tutto in un unico volume che assume un valore aggiunto in quanto arricchito da numerose fotografie, locandine e mappe inerenti gli episodi trattati.

La letteratura storica italiana a carattere aeronautico è infatti abbastanza prodiga di volumi relativi ai raid a scopo dimostrativo come furono le trasvolate atlantiche di Balbo, quelle orientali di De Pinedo, Ferrarin/Masiero oppure di missioni speciali come quelle di Nobile o D’Annunzio, per non parlare poi dei record conseguiti da Pezzi e da Agello. Alcune di queste imprese sono state raccontate in prima persona dagli stessi protagonisti, quasi tutte da terze persone, altre ancora sono state sviscerate e periodicamente riportate agli onori della cronaca (leggasi mostra dedicata a Italo Balbo) da libri, articoli giornalistici e reportage televisivi.

Raid e missioni speciali a carattere militare, dicevamo. Purtroppo c’è pochissimo materiale sull’argomento o comunque nulla di esplicitato in modo organico e didascalico. Perché la Regia Aeronautica, senza nulla togliere e al pari delle altre Armi, effettuò arditi colpi di mano e impensabili attacchi a sorpresa nel corso del conflitto. E’ storicamente documentato, checché se ne dica riguardo all’era fascista, checché ne pensiate in fatto di guerra.

La IV di copertina del volume di Robert Robison, pseudonimo di un sedicente Roberto ???

Qui non c’azzecca l’orientamento politico o il profondo credo pacifista … si tratta semplicemente di storia. Non è uno sguardo nostalgico ma fatti consegnati alla memoria. Nient’altro.

Pochi se ne ricordano e nessuno, prima di Robert Robison, lo ha divulgato in modo articolato e adeguatamente approfondito.

Intendiamoci: oggi, a distanza di tanti anni sappiamo bene che

[…] queste azioni, benché spettacolari e pianificate nel dettaglio, non otterranno che effetti limitati sul piano militare e non poterono, anche data la scarsità di mezzi messi a disposizione, avere un impatto strategico sull’andamento della guerra.

Questo però nulla toglie ai velivoli e agli equipaggi che vi presero parte, che sono così inseriti di diritto nel novero dei nomi da ricordare, se non altro per aver compiuto e creduto nelle missioni a loro affidate”

In “Regia Aeronautica – raid e missioni speciali ” troverete perciò operazioni militari intrepide ad altissimo tasso di pericolosità, altre pressoché impossibili da potersi realizzare con successo a meno della provvidenziale intercessione divina (o almeno così le vedremmo oggi con gli occhi disincantati di osservatori del XXI secolo), altre ancora sono al limite del ridicolo, per alcuni versi tragiche e comiche al contempo perchè sottolineano l’italico ingegno ma anche una fantasia sfrenata alimentata dall’improvvisazione. E qui c’è davvero poco di strategico.

Tra queste abbiamo letto con un certo sorriso sulle labbra (misto ad amarezza):

la “Beffa di Addis Abeba” in cui si narra del tentativo di incursione che

“[…] prevede il sorvolo dell’aeroporto di Addis Abeba, l’atterraggio e la successiva cattura del comandante del medesimo”

Il Caproni Ca.133 è il protagonista della missione estremamente ardita e al contempo letteralmente folle che ebbe luogo il 30 aprile del 1936 nei cieli dell’Etiopia centro settentrionale. L’equipaggio e i militi a bordo erano in numero tale che non fu possibile loro caricare bombe a caduta ma – parrebbe – solo una cassetta di bombe a mano che non è dato sapere se sganciarono sull’abitato di Addis Abeba o sugli insediamenti militari – immaginiamo minimi – dell’aeroporto cittadino. A parte l’episodio specifico, il Caproni Ca.133, evoluzione migliorativa del Ca.111, diede buona prova di sé benché tecnologicamente superato. I piloti lo soprannominarono affettuosamente  “Caprona” in virtù dell’assonanza con il nome del suo costruttore e delle sperimentate doti di robustezza e versatilità. Infine dimostrò di muoversi a suo agio nelle difficili condizioni dei cieli e delle piste degli altopiani africani alla stregua di una capra. – Foto proveniente da Flickr.com (di Emilio Magnante per gentile concessione di Claudio Costantini – foto scattata dal nonno).

ma anche del

“[…] lancio di volantini scritti in aramaico, nei quali s’invitava alla resa le truppe etiopi”,

evidentemente emuli della missione guidata da Gabriele d’Annunzio con il famoso volo su Vienna nel corso della I Guerra Mondiale. Peccato che, nel caso specifico, gli etiopi non fossero granché alfabetizzati, che il velivolo atterrasse ad Addis Abeba (non ancora conquistata dalle truppe di terra italiane) per ridecollare di gran carriera e che il sorvolo a bassa quota si fosse risolto con uno pseudo bombardiere sforacchiato come un colabrodo dal fuoco di armi leggere da terra.

Evidentemente l’impresa dei voli di propaganda in cui si bombardava il nemico con pezzi di carta inneggianti la resa dimostrò che non è sempre praticabile o utile. Come pure la condizione di completa supremazia dello spazio aereo non poteva lasciar pensare che quella supremazia avvenisse automaticamente anche sulla terra. La guerra in Vietnam o in Afghanistan lo confermeranno poi.

C’è poi un’altra missione che riporta alla memoria le ben più gloriose trasvolate in formazione su lunghe distanze e che viene descritta nel libro come:

– dall’Italia al Marocco con gli S.M.81

– Foto proveniente da Flickr.com – La didascalia acclusa a questa foto così recita: “Il 30 luglio 1936 l’SM 81 del capitano Ferrari fa un atterraggio di fortuna sulla spiaggia alla foce del fiume Moulouya in Algeria, mentre si dirigeva verso l’aeroporto di Nador nel Marocco spagnolo, inviato insieme ad altri 11 in aiuto dei nazionalisti di Franco (missione Bonomi).” In effetti il Tenente Colonnello Bonomi era stato messo a capo della formazione italiana dal Capo di Stato Maggiore, generale Giuseppe Valle, in persona. Il velivolo qui ritratto, causa esaurimento carburante per avverse condizioni meteo e fortissimo vento contrario, divenne oggetto scatenante di un imbarazzante incidente diplomatico. Ad ogni modo fu poi restituito all’Italia (due anni dopo) mentre l’equipaggio, del tutto incolume, fu momentaneamente internato in quanto il luogo rientrava nel territorio sotto il dominio francese. L’atterraggio di fortuna rivelò al mondo, inequivocabilmente e forse prima del tempo convenuto, che l’Italia stava aiutando il governo franchista. Della formazione di SM.81 giunsero a destinazione 8 su 11 dei velivoli decollati da Cagliari Elmas. Uno cadde in acqua con la perdita dell’intero equipaggio, il secondo effettuò anch’esso un rovinoso atterraggio di fortuna con distruzione del velivolo e il decesso di parte dell’equipaggio 

ossia il trasferimento di dodici velivoli da bombardamento Savoia Marchetti S.M.81 Pipistrello

“che prevede la consegna dei velivoli e il rientro degli equipaggi, escluso quelli strettamente necessari e che si offriranno volontari per l’istruzione dei piloti e tecnici spagnoli”

Durante la Guerra di Spagna, tra le file dell’Aviazione Legionaria (facilmente riconoscibile per la X nera su fondo bianco del timone di direzione dei suoi velivoli), l’SM.81 Pipistrello visse una felice quanto breve carriera in qualità di bombardiere giacché, su gli altri fronti in cui fu successivamente impiegato, fu poi relegato a meri compiti di trasporto in quanto lento, poco armato e capace di un carico bellico piuttosto limitato. In questo scatto famosissimo, lo vediamo scortato da un nugolo di biplani FIAT C.R.32 Freccia, all’epoca punta di diamante della caccia della Regia Aeronautica. In effetti i piloti italiani erano assai ben addestrati e particolarmente talentuosi, tuttavia dominavano il cielo di Spagna pressoché indisturbati. Li contrastavano occasionalmente i Rata (Polikarpov I-16, caccia monoplani di costruzione russa) che poco potevano contro i nostri agili e agguerriti Freccia – Foto proveniente da Flickr.com –

avvenuta poco dopo lo scoppio della Guerra Civile spagnola (quella che portò al governo il dittatore Francisco Franco) e che l’Italia appoggiò con uomini e mezzi. Era praticamente l’anticamera della II Guerra Mondiale; la Luftwaffe (l’aeronautica militare tedesca) la utilizzò per collaudare uomini e mezzi, mettere a punto moderne tattiche di combattimento e nuovo materiale bellico da gettare nell’imminente conflitto. E la Regia Aeronautica? Fece altrettanto ma gli insegnamenti maturati furono comunque deviati da interessi industriali e le esperienze tratte provocarono più danno che altro perchè innescarono balsane convinzioni e certezze rivelatesi poi assai fragili. Ad esempio convinsero i piloti da caccia che la formula biplana e l’elevata manovrabilità di quel tipo di velivoli avrebbe fatto ancora la differenza nel combattimento aereo, oppure che i bombardieri leggeri lignei trimotori (lenti e con poche armi difensive, attive e passive) avrebbero avuto ampio impiego in un conflitto moderno. Il risultato fu, tanto per dare un’idea, che l’Arma Azzurra si presentasse all’inizio del conflitto mondiale con una moltitudine di Fiat CR42 Falco nei reparti caccia di prima linea o gli S.M.81 Pipistrello in quelli di bombardamento mentre le forze aeree avversarie disponevano già di veloci caccia monoplani metallici ben armati e motorizzati oppure di quadrimotori a lungo raggio con elevato carico bellico capaci di volare in gruppi proteggendosi reciprocamente.

Se c’è un aeroplano che non può passare inosservato all’interno del Museo storico dell’Aeronautica Militare italiana di Vigna di Valle … beh, quello è proprio l’S.M.82 Marsupiale. Non fosse altro perché è letteralmente enorme. E dire che l’hangar Badoni all’interno del quale è conservato non può dirsi certo piccino (veniva usato per il ricovero di ben 5 Cant-Z 506 Airone contemporaneamente). No, è che il Marsupiale dimostra tutta la sua stazza e dunque la sua capacità di carico essendo considerato per antonomasia il velivolo da trasporto della Regia Aeronautica. Quanto alla bontà di questo velivolo sarà sufficiente ricordare che la rinata Aeronautica Militare utilizzò gli esemplari sopravvissuti al conflitto fino al 1960 quando furono sostituiti con i più moderni C-119 – Foto proveniente da Flickr.com –
Questo raro scatto ritrae proprio un S.M.82 in versione bombardiere. Lo si può facilmente desumere perchè quella versione, utilizzata solo nelle fasi iniziali del conflitto, era dotata di una gondola retrattile ove trovava posto il puntatore/mitragliere, proprio sotto la cabina di pilotaggio. – Foto proveniente da Flickr.com

Ad ogni modo ci piace riportare un’ultima missione assai speciale tra quelle elencate in questo libro che ci ha colpito in misura maggiore rispetto alle altre in quanto dimostra la perseveranza dei vertici della Regia Aeronautica nel voler annientare una vera e propria spina nel fianco alleata allora presente ai limiti del Mediterraneo: la fortezza di Gibilterra.

Il capitolo in questione s’intitola giusto appunto:

gli attacchi alla Rocca. In effetti il titolo tradisce un dato storico ineccepibile, ossia che

“gli attacchi italiani portati alla Rocca di Gibilterra […] non furono semplici raid che si esaurirono in una singola sensazionale missione ma […] le azioni verranno perpetrate per tutto l’arco della guerra”,

al punto che

“[…] gli attacchi a Gibilterra richiederebbero un libro a parte”

Se c’è un modello di velivolo che non abbisogna di presentazioni è il Savoia Marchetti S.M.79 Sparviero, il famoso trimotore da record vincitore della corsa aerea Istres-Damasco-Parigi e della trasvolata dimostrativa Guidonia-Dakar-Rio de Janeiro. Fu poi convertito ad aerosilurante e questi velivoli scrissero pagini memorabili di eroismo e audacia pilotati dai piloti del Gruppo Autonomo Aerosilurante comandato dal tenente Buscaglia. Qui è ritratto nel 1940 mentre gli armieri provvedono al caricamento del siluro in vista di una missione di aerosiluramento nel Mediterraneo. – Foto proveniente da Flickr.com –

Per brevità accenneremo solamente ai  velivoli protagonisti di questi attacchi: nel luglio 1940 dapprima gli S.M. 82 Marsupiale (in ruolo evidentemente di bombardiere), quindi nel giugno 1942 dai bombardieri strategici Piaggio P.108 e, infine, nel giugno 1943 dai mitici aerosiluranti Savoia Marchetti S.M.79  Sparviero.

In definitiva, quello di Robert Robison è un buon libro che si fa leggere volentieri, anche da chi non è proprio digiuno in fatto di storia della Regia Aeronautica e che addirittura sorprenderà coloro che lo sono.

Il testo è discorsivo, giornalistico, privo di qualsiasi enfasi o retorica gratuita. Semmai prevale una motivata critica nei confronti di scelte o valutazioni oggettivamente inadeguate o letteralmente inutili ai fini strategici.

In effetti, dal punto di vista squisitamente storico, il volume non aggiunge e non svela nulla di sconvolgente in termini di effetti di queste operazioni sull’esito del conflitto mondiale ma, se non altro, rende onore ad una forza armata tutta – qualora fosse necessario ricordarlo – che, di certo, non si risparmiò.

Piuttosto all’autore dovremmo esprimere una breve annotazione a margine giacchè, inspiegabilmente, ha dimenticato di citare una di quelle missioni che oggi oseremmo definire “fantascientifiche” di cui la Regia Aeronautiche si rese protagonista: “l’operazione canarino.” Meriterebbe un capitolo.

Ovviamente non gliene vogliamo ma auspichiamo che vorrà provvedere a una doverosa integrazione magari in occasione della prossima riedizione del suo libro.

Il Piaggio P.108 appartiene alla lunga lista di quegli aeroplani che arrivarono troppo tardi e troppo pochi per poter dare una svolta alle sorti del conflitto. E questo perchè i vertici della Regia non credettero mai alla necessità di un bombardiere strategico a lungo raggio tanto che l’industria aeronautica nazionale si guardò bene dal crederci, proporlo e poi costruirlo per tempo. Questo scatto ritrae uno del 24 esemplari assemblati e consegnati con davanti il suo equipaggio e il suo carico bellico sul prato dell’aeroporto di Guidonia – Foto proveniente da Flickr.com –

Dal punto di vista tipografico il volume è ben realizzato: i caratteri sono generosi e la carta è di buona qualità; curata la prefazione, impeccabile l’indice delle missioni/raid, utilissime le note a piè di pagina, esaustive le didascalie delle numerose foto (in bianco e nero) che risultano pertinenti alla narrazione, per lo più di ottima nitidezza e di media originalità benché materiale di questo genere non ne fu generato molto all’epoca. 

Qualche riserva dovremmo esprimerla per la copertina che – in tutta onestà – non risulta certo accattivante e dunque confidiamo ugualmente in una riedizione migliorativa. La IV di copertina è prodiga di anticipazioni circa il contenuto del volume e, come nella migliore tradizione editoriale – contiene una breve biografia dell’autore. Autore che – apprendiamo – ha la tastiera facile o comunque non è estraneo alla scrittura storico/divulgativa dai risvolti aeronautici. Complimenti.

Il P.108 equipaggiò un solo reparto della Regia Aeronautica, la 274ª Squadriglia Bombardamento a Grande Raggio con sede a Pisa e la sua storia – volenti o nolenti –  è indissolubilmente legata alla vicenda luttuosa del figlio prediletto del Duce, il terzogenito Bruno, che perì mentre pilotava il nuovo velivolo durante uno dei voli di collaudo e messa a punto.  In effetti la macchina non mostrò problemi di sviluppo consistenti,  certamente si trattava di un velivolo di notevoli dimensioni e di concezione piuttosto diversa rispetto a quanto era già in linea presso i reparti di allora . Probabilmente i piloti della Regia Aeronautica avrebbero dovuto abituarsi, col tempo, a un quadrimotore pesante da bombardamento come mai prima avevano visto e pilotato. Secondo la versione ufficiale  dell’incidente ci fu un improvviso calo di potenza dei motori in fase di atterraggio tanto che, non potendo raggiungere la pista, il velivolo si schiantò in un campo prossimo all’aeroporto. – Foto proveniente da Flickr.com –

Tornando alla copertina, anzi al prezzo di copertina … ebbene lo riteniamo abbastanza congruo, appena sopra la media se si tiene conto delle 200 pagine, la copertina a colori plastificata lucida, la rilegatura in brossura e, soprattutto, la stampa in regime di autopubblicazione a mezzo della società Youcanprint che – almeno nelle intenzioni – dovrebbe consentire al lettore l’acquisto di un libro svincolato dal sovrapprezzo di un editore convenzionale. Forse.

A distanza di tanti anni riteniamo sempre più importante ricordare quanto accadde ma a condizione di raccontarlo con la serenità e l’obiettività che solo il tempo e il distacco emotivo concedono. E – occorre ammetterlo – Robison ci riesce a pieno titolo.

A noi – lo avrete capito, ormai – piace leggere e apprendere storie di aviazione, qualunque sia la coccarda dipinta su ala e fusoliera; leggere questo libro non ci ha procurato fatica alcuna, men che meno recensirlo.

In tutta sincerità è un libro che vi suggeriamo di leggere a vostra volta benchè indubbiamente di nicchia … ma tant’è: l’aviazione, il volo sono di nicchia, figuriamoci la letteratura dai contenuti aeronautici!?.





Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





 

1933, LA CONQUISTA DI UN RECORD


– RAV

– 709,202

– AS6

–23/10/34

– M.C. 72

– 3000

Vi dicono qualcosa questi numeri e lettere apparentemente casuali? No?

Se aggiungessimo alcune nomi di luoghi o persone e termini tecnici?

– Desenzano del Garda

– rosso corsa

– alberi coassiali

– Lago di Bracciano

– Francesco Agello

– FIAT

– idroscalo

– record

– museo

Ancora non vi sovviene niente?

E allora se vi svelassimo queste altre informazioni?

– Castoldi

– idrocorsa

– Vigna di Valle

– Italo Balbo

– eliche controrotanti

– Mario Bernasconi

– Lago di Garda

– idrovolante

in tandem

– Tranquillo Zerbi

– Coppa Schneider.

Desistete? Buio totale? Beh … allora vi confesseremo che, in questo guazzabuglio di dati che ha le sembianze di un groviglio insignificante piuttosto che di una vera e propria guida sinottica, vi assicuriamo che una logica c’è, eccome.

Lo stesso senso logico che sta alla base del racconto di Roberto Ferri, apparentemente sconclusionato, in alcuni punti misterioso ma in realtà, a ben leggerlo, articolato e addirittura sorprendente per alcune trovate a effetto.

Il vero protagonista diel racconto di Roberto Ferri è questo mitico Macchi Castoldi M.C.72, matricola militare MM181, ritratto in uno scatto del 1999 presso il Museo Storico dell’Aeronautica Militare italiana di Vigna di Valle. In effetti sappiamo che, purtroppo, due esemplari furono perduti in incidenti di volo in cui persero la vita il capitano Giovanni Monti e il tenente Stanislao Bellini, il terzo con matricole militari MM177 fu quello che raggiunse per la prima volta nel 1933 il record di velocità con Agello – proprio quello citato nel racconto – e poi un quinto con matricole MM181 che è il detentore del record assoluto di 709 Km/h sempre conseguito da Agello nel 1934. – Foto proveniente da www.flickr.com

Ma procediamo con ordine nello svelare il mistero dei dati disordinati.

Il 23 ottobre 1934 venne scritta una delle pagine più gloriose della storia della Regia Aeronautica, l’Aeronautica Militare italiana dell’allora Regno d’Italia. Venne stabilito – ed è a tutt’oggi imbattuto – un record di velocità per la categoria di velivoli in grado di decollare e atterrare da superfici marine o lacustri, detti tecnicamente idrovolanti. In effetti si trattava di idrovolanti da competizione, da cui il termine più corretto idrocorsa.

Lungo le rive del Lago di Garda, nello specchio di lago antistante la radiosa cittadina di Desenzano del Garda, per volere di Italo Balbo, allora Sottosegretario della Regia Aeronautica e suo grande promotore in seno al regime fascista, aveva preso sede da alcuni anni un reparto di volo assai particolare. Si trattava del Reparto Alta Velocità – da cui l’acronimo RAV – che utilizzava l’esistente idroscalo di Desenzano per addestrare i suoi piloti in quello che, fondamentalmente, costituiva il tentativo italiano di aggiudicarsi un trofeo internazionale assai prestigioso quale la Coppa Schneider.

Il record è raggiunto: velivolo e pilota meritano lo scatto che, a beneficio dei posteri, ne incorona i meriti e le indubbie capacità. Agello verrà promosso sul campo (anzi sull’idroscalo) al grado di sottotenente e, dopo qualche anno, di tenente. Gli verrà inoltre conferita la MOVA (medaglia d’oro al valore aeronautico) mentre L’M.C.72 verrà posto in naftalina e conservato come una reliquia sacra nel santuario della storia dell’Aeronautica Militare Italiana che prende il nome di Museo Storico di Vigna di Valle. Purtroppo, tenuto conto dell’unicità delle soluzioni ingegneristiche adottate, questo velivolo non ebbe seguito o comunque non ebbe alcuna ricaduta tecnologica sui velivoli di serie, militari e non, e dunque si aggiunge alla lunga lista di velivoli da record che l’industria aeronautica italiana produsse a ridosso della II Guerra Mondiale senza alcun ritorno in termini di impiego bellico. Ma ci pensate ad un caccia (tipo il Macchi 205 Veltro) con un motore sviluppato da un motorone del genere? Altro che Rolls-Royce Merlin, altro che Daimler Benz DB 605! – Foto proveniente da www.flickr.com

Il reparto era affidato all’allora tenente colonnello Mario Bernasconi, un ingegnere-pilota- collaudatore già comandante del Gruppo sperimentale di Montecelio-Guidonia.

Nel tentativo di raggiungere il record di velocità alcuni piloti erano già periti in incidenti di volo sicché la sua scelta cadde quasi inevitabilmente sul talentuoso maresciallo pilota Francesco Agello. Anche perché, in termini antropometrici, egli aveva la taglia ideale per entrare nell’abitacolo assai angusto dell’idrovolante allora disponibile. Si trattava del M.C.72, costruito appositamente dall’industria aeronautica Macchi e progettato con italica genialità dall’ingegner Mario Castoldi.

L’idrocorsa era un portento di ingegneria meccanica e di aerodinamica votata alla velocità. Il suo motore, anzi i suoi motori, erano stati appositamente allestiti dall’ingegnere Tranquillo Zerbi della FIAT che, di fatto, aveva messo in fila due motori (tecnicamente si dice in tandem). Aveva creato così il supermotore denominato AS6. Sviluppava complessivamente 3000 cv di potenza. Un mostro!

Ancora una bella immagine che mette in risalto le linee affilatissime disegnate dall’ing. Castoldi. L’ala assomiglia a una lametta, la fusoliera è sagomata letteralmente attorno al motore AS6 e gli scarponi sono dimensionati quanto basta per assicurare il galleggiamente dell’idrocorsa, niente di più, giacchè costituiscono una fonte notevole di resistenza di avanzamento all’aria (oltre che all’acqua). Sia l’ala che gli scarponi sono coperti da lastre in ottone che recano tubetti delo stesso materiale utilizzati a mò di radiatori per il raffreddamento dell’acqua e dell’olio del calorosissimo motore FIAT. – Foto proveniente da www.flickr.com

Ma l’intuizione più fantasiosa era stata quella di dotare ciascun motore di una propria elica bipala collegata ad esso tramite un proprio albero, uno esterno e l’altro interno – coassiali, appunto – . Le eliche ruotavano una in un senso e una nell’altra; per questo motivo vengono usualmente chiamate controrotanti.

L’idrocorsa era un vero missile verniciato di uno splendido rosso, rosso corsa, appunto.

Qui giunti, dovreste avere un quadro abbastanza chiaro di tutte le informazioni misteriose di cui all’inizio … rimangono solo … ah, ecco … il record fu stabilito e poi migliorato ulteriormente, eccome, fino a raggiungere la spaventevole velocità di 709, 202 km/h!

Questa è una di quelle foto che, quando di parla di record di velocità per idrovolanti, di M.C. 72 e di Francesco Agello non può mancare. Il pilota di Castelpusterlengo, classe 1902, perì nel novembre del ’42 a seguito di una collisione in volo nei cieli dell’aeroporto di Milano-Bresso. Era ai comandi di un Macchi M.C.202 che stava collaudando. Il destino volle che si scontrasse con un velivolo dello stesso tipo pilotato dal colonnello Guido Masiero, ex asso della I Guerra Mondiale, divenuto famoso per aver partecipato nel 1920 al raid aereo Roma-Tokyo assieme ad Arturo Ferrarin. Le malelingue non potranno fare a meno di notare come, rispetto all’idrovolante, Agello risulti piuttosto piccino … e non a causa delle dimensioni immense della macchina volante che immensa non era davvero. In verità, le cronache dell’epoca riportano l’immagine di un pilota minuto, di statura di poco superiore al metro e sessanta, quasi tascabile … giusto appunto a misura perfetta di M.C.72! – Foto proveniente da www.flickr.com

E il velivolo?… dopo quel fatidico giorno fu religiosamente custodito negli anni a venire e oggi fa bella mostra di sé nella sezione degli idrocorsa presenti all’interno del Museo storico dell’Aeronautica Militare italiana che ha sede sulle rive del Lago di Bracciano, presso l’ex idroscalo di Vigna di Valle.

Svelato il mistero, spiegati tutti i dati elencati all’inizio! Sì, d’accordo, ma che c’azzecca il racconto di Roberto Ferri?

E allora ecco delle informazioni utili:

– studenti

– sorriso

– gita scolastica

– amore

– Lago di Bracciano

– esami di maturità

Niente? Ancora buio totale? Alzate le mani?

D’accordo … e allora ve ne anticipiamo i dati salienti.

Un dettaglio delle eliche bipala metalliche che l’ing. Castoldi decise di adottare per il suo idrocorsa. Girando sullo stesso asse ma in senso inverso una rispetto all’altra, le eliche eliminavano completamente la terribile “coppia di reazione” che si innesca quando il velivolo è dotato di elica singola. In effetti, in un aeroplano (con carrello che appoggia sulla pista) l’elica tende a caricare in misura maggiore una gamba rispetto all’altra ma in un idrovolante vuole significare che un galleggiante è talmente caricato da affondare quasi completamente nell’acqua. In queste condizione diventa difficile flottare, difficilissimo prendere velocità e involarsi con una traiettoria diritta. Sul M.C.72 il problema non sussisteva proprio e, almeno in questo, Agello l’ebbe facile. All’impresa di Agello sono dedicati alcuni volumi lodevoli e un testo giornalistico che troviamo illuminante nonchè piacevolissimo da leggere:  “Agello, il fantino del cielo”. Lo potrete apprezzare all’indirizzo:  https://www.squadratlantica.it/si-chiamava-francesco-agello/ – Foto proveniente da www.flickr.com

Alla vigilia degli esami di maturità, un variegato gruppo di studenti fa tappa al Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle con una parte dei ragazzi intenti a godersi i preziosi cimeli della storia dell’aviazione mentre le ragazze, più verosimilmente, sono interessate al bagno nelle fresche acque del lago di Bracciano; tutti assieme nello stesso luogo prima che il passaggio definitivo alla vita adulta li separi inesorabilmente.

L’ideatore dell’insolita gita scolastica è la voce narrante del racconto e sarà proprio lui che, complice un contatto folgorante con l’M.C.72, si troverà catapultato nel luogo, nel momento e nei panni esatti del maresciallo Agello che sta per salire a bordo dell’idrocorsa … e il resto è storia!

L’invenzione del salto spazio-temporale non è certo nuova nell’ambito letterario e/o cinematografico, tuttavia l’autore la spende in modo oculato ed equilibrato in quanto, anzitutto, consente al lettore completamente digiuno di storia aeronautica, di apprendere dell’esistenza di un primato di velocità per idrocorsa; viceversa, al lettore più ferrato di questioni aeronautiche, concede dei dettagli a proposito di quell’impresa, innegabilmente “succosi”.

Lode dunque a Roberto Ferri per aver assurto all’attenzione di noi tutti questa pagina memorabile – quanto dimenticata – della storia del nostro paese. E bravo!

Purtroppo, differentemente da noi, devono aver pensato i giurati di RACCONTI TRA LE NUVOLE che hanno ritenuto questo racconto non meritevole di accedere alla fase finale del premio letterario. Peccato!

Il color rosso corsa dona enormemente a questo purosangue dell’aria (e dell’acqua) che è il Macchi M.C. 72. Lo scatto (recente) lo mostra adorno di cartelloni esplicativi  nonchè di un esemplare di motore FIAT AS6 “nudo”, ossia privo delle cappottature motore, che era a bordo di uno dei cinque esemplari di M.C. 72 costruiti dalla Macchi. – Foto proveniente da www.flickr.com

E dire che l’autore, partecipando per la prima volta alla scorsa edizione e classificandosi in XIXma posizione, lasciava ben sperare con questo racconto … vorrà dire che sarà per la prossima! Intanto siamo lieti di concedergli un angolo “liquido” del nostro hangar … sì, avete letto bene: “liquido”, in quanto il suo racconto non può rimanere all’asciutto come tutti gli altri, ne convenite?

A parte gli scherzi, inutile sottolineare che a noi il racconto è piaciuto sebbene il suo prologo sia un poco lento e occorra aspettare qualche riga per intuirne la componente aeronautica. Ad ogni modo, la trama trova poi il suo sviluppo veloce e sicuro fino all’epilogo finale che suona come un vero e proprio messaggio rivolto alle giovani generazioni anziché del protagonista verso sé stesso.

La prosa è piacevole, ben architettati i dialoghi nonché i profili caratteriali dei personaggi.

Accanto al MC72 è posizionato il cuore pulsante dell’idrocorsa: il motore Fiat AS6, acronimo di: “Aviazione Spinto” nr 6. Nell’impossibilità di un ulteriore sviluppo del suo predecessore AS5, l’ingegner Tranqullo Zerbi del Reparto Progetti Speciali della Fiat Aviazione ebbe un’intuizione folgorante: mettere uno contro l’altro, in tandem due motori AS5. Così facendo avrebbe realizzato un motore a 24 cilindri a V in linea raffreddato a liquido con cilindrata di circa 50 litri e una potenza di 2300 cv aumentabile per brevi periodi a 2800 cv. Niente di più facile, in linea teorica ma assai complicato in termini pratici. La messa a punto dell’AS6 fu infatti lunga e perigliosa: le terribili vibrazioni che puntualmente si innescavano provocarono l’interruzione di diversi tentativi di volo record, la carburazione assai problematica abbinata a difficoltà di fornire un’adeguata alimentazione di carburante fu motivo di grandi preoccupazioni giacchè erano pressochè continui i ritorni di fiamma con conseguente rischio d’incendio della cellula. Non ultimo occorreva smaltire il notevolissimo calore assorbito dal refrigerante e dall’olio motore senza ricorrere a ingombranti radiatori. Infine il motore doveva necessariamente rientrare nelle specifiche di peso e consumi stabiliti dal Ministero dell’Aeronautica giacchè la cellula era proporzionata a un motore di non più 900-950 chili di peso e i serbatoi (collocati negli scarponi di flottaggio) non avrebbero potuto alimentare un motore troppo assetato o comunque per un periodo di tempo superiore a quello necessario a percorrere il circuito di gara.Tutte questi gravi problemi furono superati non senza difficoltà (e lutti) tanto che il motore AS6 conseguì il suo esclusivissimo record a bordo di un idrocosa da record: ancora oggi è il motore a pistoni italiano più potente mai costruito e installato a bordo di un velivolo. – Foto fornite dall’autore del racconto

Da buon ingegnere, l’autore non si lascia andare a descrizioni inutili, a sentimentalismi gratuiti, a una facile retorica. Il testo risulta equilibrato: non succinto, non prolisso. L’episodio di Agello viene narrato senza trionfalismi, senza faziosità. È solo un uomo, un pilota, un militare, non è un esaltato ma neanche un pavido.

Un racconto che innesca la voglia, qualora non l’abbiate mai soddisfatta, di correre al Museo di Vigna di Valle che, per inciso, l’autore conosce bene se è vero – a detta del nostro servizio di intelligence – che ha risieduto per qualche anno presso Anguillara Sabazia, ridente cittadina poco distante dal Museo.

Il racconto, ovviamente, non è uno spot gratuito a favore del Museo – anche perché non ne ha bisogno -, semmai permette di visualizzare degli scorci di un luogo magico in cui taluni amanti dell’aviazione vorrebbero prendere domicilio fisso mentre i più ragionevoli preferirebbero  trascorrere periodicamente una giornata intera – salvo essere allontanati cortesemente dal personale di sorveglianza in occasione dello scadere dell’orario di chiusura – . Facciamo almeno una volta all’anno?!

Leggendo il racconto “1933, la conquista di un primato” troveremo un passo che è il manifesto del Museo Storico di Vigna di Valle. Eccolo: ” Ho visitato almeno cento volte il museo […]. È sempre una novità perché è un luogo in continuo cambiamento. Non ricordo due visite uguali, c’è sempre qualcosa di diverso.” Sottoscriviamo in pieno quanto sostiene la voce narrante/protagonista. – Foto proveniente da www.flickr.com

Che poi i velivoli lì custoditi abbiano qualcosa di magico è innegabile … dunque ammetterete che, in fin dei conti, non avrà nulla di sovrannaturale quanto accadrà al nostro protagonista. Cosicché non vi stupirete se, all’ultima sillaba del racconto esclamerete: “Accidenti! … perché a me non è mai capitato?”

Ovvio, ci viene da rispondere: se a Vigna di Valle non ci siete mai andati …



Narrativa / Medio – Lungo

Inedito

Ha partecipato alla VIII edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole” – 2020


Roberto Ferri


Ingegnere aeronautico, è nato e cresciuto a Roma ma è residente al momento a Foligno ove si è trasferito per motivi di lavoro (ha trovato impiego presso un’azienda aerospaziale).

Modellista per passione, ha realizzato diversi modelli di alianti che ha portato in volo, qualcuno lo ha perduto, qualcuno si è scassato, quelli rimasti sono tutti appesi al chiodo nell’hangar di casa (il soggiorno) in attesa che il figlio, crescendo, ripercorra i passi paterni.

Investito anni fa da un’improvvisa ispirazione per alcune storie ha trovato l’occasione, il tempo e le parole per poterle intrappolare prima che si perdano nei vicoli della memoria. 

Pur non essendo uno scrittore professionista (e neanche dilettante), si è cimentato con la scrittura creativa stimolato (o minacciato?) dal segretario del premio  RACCONTI TRA LE NUVOLE che, suo malgrado, ha dovuto frequentare per motivi lavorativi.

Alla prima, nel 2019, non gli andata poi così male: si è piazzato al XIX posto con lo spassosissimo racconto “In volo con zia Susy”, alla seconda (2020) non è stato selezionato tra i 20 migliori racconti  della VIII edizione del Premio e dunque è gradito ospite del nostro hangar. 

Non c’è due senza tre.


Per inviare impressioni, minacce ed improperi all’autore:

rob78fe (chiocciola) hotmail.it



Nel sito sono ospitati i seguenti racconti:


1933, LA CONQUISTA DI UN RECORD

1933, la conquista di un record


Sono stanco.

Sarà il caldo torrido di questi giorni, sarà l’ansia per gli esami di dopodomani che inizia a farsi sentire.

Stanotte ho dormito poco e male.

Diciamo la verità, oggi sono venuto solo per vederla.

Se solo sapesse quello che provo per lei. Valeria! Vorrei poterglielo dire ma non ci riesco, anche se traspare lo stesso.

L’universo femminile si accorge di certe cose e lei se n’è già accorta.

Lo sa e le piace giocarci sopra. Senza malizia, perché non è presuntuosa come tante altre, è diversa, per questo mi ha fatto perdere la testa.

Credo che se non fosse per la sua migliore amica che è invaghita di me, magari sarebbe tutto più facile e forse sarebbe già tutto scritto, ma io non sono una ragazza, certe cose non le capisco come fanno loro.

Il dubbio mi sale perché di Ilaria l’ho capito bene e subito. Mentre lei rimane un mistero.

Cosa pensi? Cosa provi? Non riesco a decifrarti, so solo che mi piaci!

Tutti hanno una cotta per te e a volte ne sono geloso. Lo so di non avere nessun diritto di esserlo ma non sopporto vedere qualcuno fare il cascamorto con te. Soprattutto quell’inglese lì, che mi sta proprio sulla bocca dello stomaco e mi brucia quando gli dai spago! Se devo competere con lui so di partire svantaggiato, non ho i suoi soldi e non mi pavoneggio come lui, ma so anche che tu vai oltre l’apparenza e lì la situazione si ribalta.

A parte quell’inglese e il fratello, mi trovo bene con i miei amici.

Ridiamo, scherziamo, insomma, ci divertiamo.

So che non durerà per sempre questa spensieratezza, ma non vorrei che sia giunta al termine così presto con la fine della scuola.

Le nostre strade stanno per dividersi a causa delle nostre scelte.

Eppure non sarebbe difficile mantenere i contatti, siamo un gruppo unito, ma per sentito dire da fratelli e amici più grandi, ci si perde di vista col tempo. A volte le persone con cui abbiamo condiviso quei giorni che ricordi per sempre, diventano soltanto dei volti tra la folla.

C’è Massimo che, come me, non ha ancora deciso cosa fare dopo la scuola. E’ l’ultimo che si è aggiunto al gruppo, ha cambiato liceo due anni fa, da quando i suoi genitori hanno preso in gestione un negozio nel nostro quartiere.

Lo considero il mio migliore amico, siamo come fratelli, basta uno sguardo ed è già intesa per combinare qualche guaio. È l’unico che mi conosce veramente.

Insieme siamo gli scalmanati del gruppo, quelli che sono sempre sulla bocca dei professori. Non per essere elogiati ovviamente.

Siamo uniti dalla stessa passione per le auto, le moto e gli aeroplani. Nei nostri sogni un giorno riusciremo a vivere di questo, a farne una professione.

Poi c’è Roberto, per lui il liceo scientifico è stata la scelta naturale visto che vuole diventare un medico. Vorrei avere la sua stessa determinazione. Non è una cima ma si impegna molto, so che riuscirà nel suo intento;

Maurizio. Il suo passatempo preferito è sperperare il patrimonio di famiglia, oltre a far infuriare il padre a giorni alterni. Totalmente inaffidabile.

È più grande di noi in quanto ripetente incallito;

Leonardo, aspirante avvocato, almeno è quello che si aspetta il padre, un affermato professionista del foro. Vorrebbe che il figlio seguisse le sue orme e divenire un brillante avvocato ma lui di studiare non ne vuole proprio sapere;

Infine ci sono loro, l’inglese e il fratello minore, all’anagrafe Christian e Thomas. Non so chi dei due sia più odioso. Fanatici, montati, prepotenti e presuntuosi.

La loro madre, una soubrette inglese caduta nel dimenticatoio, non voleva rassegnarsi a rinunciare alla bella vita e così sposò un dentista ricco sfondato, da cui nacquero questi due sottoprodotti.

Non mancano le ragazze, oltre a Valeria e Ilaria ci sono:

Lina, la storica fidanzata di Roberto e le inseparabili simpatiche e sbarazzine Martina, Alessandra e Simona, un’unica mente separata in tre corpi diversi.

Oggi, approfittando del sole estivo, abbiamo organizzato una visita al Museo Storico dell’Aeronautica Militare Italiana di Vigna di Valle dopodiché andremo sulla spiaggia del lago di Bracciano a fare il bagno.

Ci vuole un po’ di relax prima di un evento importante come gli esami di maturità, ma sono proprio stanco. Ho studiato fino a tardi e avrei preferito restarmene a dormire.

Ci siamo dati appuntamento al solito posto alle 9 in punto. Tranne per me che vivo in costante fuso orario di 30 minuti in ritardo rispetto al resto del mondo.

Eppure nel mio sistema di riferimento sono sempre in anticipo, vallo a spiegare …

“Francesco non è possibile! Dobbiamo sempre aspettarti. Mai una volta che non sei l’ultimo ad arrivare…” esclama Roberto, arrivato in anticipo.

“Scusate ragazzi, non riuscivo proprio a svegliarmi. Ringraziate mia madre che mi ha tirato giù dal letto altrimenti l’attesa per voi sarebbe stata ancor più lunga…”

“Scherza scherza, tanto prima o poi ti lasceremo a piedi.” mi risponde l’inglese un po’ irritato.

Sorrido per non risultare scortese, in fondo non è giusto che gli altri debbano aspettare i miei comodi, quindi mi unisco al gruppo e siamo pronti a partire.

Dal nostro punto di ritrovo, occorre circa mezz’ora di tragitto per giungere a destinazione.

Come al solito l’inglese si è presentato col macchinone del padre perché lui deve sempre sottolineare il suo status sociale più agiato degli altri.

Infatti, a parte la moto nuova di zecca di Maurizio, per noi comuni mortali c’è una vecchia Fiesta e una manciata di motorini.

Valeria ha il divieto dei genitori di andare su due ruote, quindi non posso portarla con me, fortunatamente tutte le ragazze vanno insieme sull’auto di Simona, perché se lei andasse con gli inglesi mi roderebbe non poco.

E neanche a nominarlo, ecco che subito prima di partire inizia l’esibizione dell’inglese:

“Che faccio vi aspetto lì oppure mi fermo a fare colazione?”

Come ogni volta però, la sua spavalderia dura ben poco:

“Ma dove vai che non sai nemmeno come si mette in moto! La prima è avanti a sinistra …”

Scoppiamo tutti in una grossa risata.

Maurizio ha sempre la battuta pronta in modo tale da ammutolire puntualmente i fratelli britannici o il malcapitato di turno che gli capiti a tiro.

“Dai Christian, non prendertela, te la sei cercata!”

“Brava Marty, vieni con me in moto?” aggiunge Maurizio approfittando subito della situazione per fare delle avances alla graziosa Martina.

“No, perché neanche tu sei capace a mettere in moto la tua carretta!”

E naturalmente Christian prende la palla al balzo per pareggiare il conto.

“E bravo Maurizio, in bianco come sempre!”

Come si dice? Chi di spada ferisce di spada perisce! Del buon sano umorismo da comitiva non guasta mai e le risate accompagnano la nostra partenza.

Naturalmente Maurizio e i ragazzi d’oltremanica continuano la loro battaglia su strada e presto li perdiamo di vista per rivederli solo una volta giunti a destinazione.

Io e i restanti scooter, complice anche la lenta giuda di Simona, arriviamo all’aeroporto Luigi Bourlot con 15 minuti di ritardo.

Appena giunti sul posto, Maurizio si sincera del nostro arrivo: “Ce l’avete fatta ad arrivare, temevo che vi foste persi tra le campagne…”

Pronta la risposta della lenta Simona: “Chi va piano va sano e va lontano”.

E secca arriva la replica: “Si, ma arriva dopo!”

Ho visitato almeno cento volte il museo; è stata mia l’idea di venire oggi tutti in gruppo. È sempre una novità perché è un luogo in continuo cambiamento.

Non ricordo due visite uguali, c’è sempre qualcosa di diverso.

“Speriamo che ne valga la pena” brontola l’inglese sempre scontento di qualcosa, mentre si sposta gli occhiali da sole sulla fronte.

“Ti pareva che non aveva niente da dire il signorino?” gli risponde Valeria.

Mi viene da sorridere ma subito il sorriso mi si spegne alla sua risposta:

“Tesoro, lo sai che sono qui solo per te!”

“Stupido” la pronta replica della sorridente fanciulla.

Resto imbambolato dalla bellezza del suo sorriso e al tempo stesso infastidito per il motivo che lo ha fatto sbocciare.

Ci apprestiamo verso l’ingresso camminando accanto al mio “fratello” Massimo, mentre Ilaria mi prende sottobraccio.

Mi stupisce la naturalezza con la quale si avvicina e cerca un mio contatto continuamente. Le ragazze sono più spigliate di noi maschietti.

Ilaria non fa nulla per mascherare la cotta che ha per me, vorrei riuscire a fare lo stesso con Valeria, un po’ la invidio.

Forse dietro quella naturalezza nasconde anche lei la stessa delusione che ho io nei confronti di Valeria.

Non è che Ilaria sia brutta. Anzi è piuttosto carina…

Potrei averla anche subito, è solo che non sento lo stesso sussulto che provo quando mi si avvicina Valeria e non mi voglio accontentare.

E poi non sarebbe giusto usarla così, non se lo merita.

Mentre camminiamo lungo l’ingresso del museo vediamo i primi aerei parcheggiati all’esterno: il solito (almeno per me) PD-808 e l’Albatros davanti alla gru sulla riva del lago. Un’immagine davvero suggestiva.

Una volta entrati nel primo padiglione, l’hangar Troster, ci aspettano gli aerei della Prima Guerra Mondiale.

Dopo una breve permanenza tra i rudimenti dell’aviazione italiana giungiamo all’hangar Velo, per me il più bello di tutta la mostra.

Mi dirigo subito verso gli idrocorsa, le splendide macchine volanti che hanno lottato per il trofeo Schneider tra l’inizio del secolo fino agli anni Trenta.

La loro livrea rosso fuoco li fa spiccare tra tutti e vengono presto notati dal gruppo.

“E questi cosa sono? Perché sono colorati così? Non ho mai visto aerei con le zattere, rosso fuoco!” i primi commenti incuriositi delle inesperte ragazze.

“Ma quali zattere e zattere!? rispondo inorridito. Poi replico: “Quelle le indossi tu il sabato sera per andare a ballare… Questi si chiamo s-c-a-r-p-o-n-i”

“Per la neve…” si intrufola Leonardo nel discorso.

“Sul serio servono per la neve?” mi chiede Ilaria con l’ingenuità di una neonata.

Sorridendo rispondo:

“Ma cheeeee… Dovete sapere che in passato, agli albori dell’aeronautica l’idrovolante era ritenuto il mezzo del futuro, tanto che fu istituita una competizione, il trofeo Schneider. Ogni nazione partecipante si iscriveva con un certo numero di aerei, creati da diverse case costruttrici rappresentanti il meglio della tecnologia di allora, per gareggiare in velocità”.

Mi guardo attorno. Si è formato una specie di capannello attorno a me. Mi sento un vero storico dell’aviazione. Deglutisco e riprendo a dire: “Inizialmente la gara si teneva ogni anno ma poi, per dare modo ai partecipanti di progettare, costruire e mettere a punto i prototipi sempre più complessi, si tenne ogni due; e a ogni edizione venivano presentati velivoli di nuova concezione, alcuni davvero straordinari come quelli che vedete. Un po’ come la Formula 1 di oggi”.

Leggo lo stupore negli occhi dei miei compagni. Per dare il colpo finale esclamo: “Solo che era l’inizio del ‘900 e l’aviazione muoveva appena i primi passi verso le alte velocità”. Sorrido compiaciuto.

Questa storia mi ha sempre attratto, ho sempre avuto il piacere di leggerla e rileggerla, al punto che ormai la conosco a memoria.

Gli altri ragazzi si radunano intorno a me per ascoltare il resto del racconto:

“Si partiva uno alla volta e si correva contro il tempo su un circuito (chiuso) delimitato da punti di riferimento come boe galleggianti sull’acqua o torrette su terraferma. Chi risultava il più veloce si aggiudicava l’edizione e aveva diritto a trasferire in patria la gara per l’edizione successiva.

Il trofeo veniva aggiudicato alla nazione che avesse vinto tre edizioni consecutive”.

“E chi ha vinto?” Mi domanda Ilaria.

“Beh gli Stati partecipanti erano Italia, Francia, Stati Uniti e Inghilterra…” cerco di sviare la risposta, ma non per molto. La domanda è troppo diretta e ritorna decisa.

“Sì ma chi ha vinto?”

“Gli inglesi, purtroppo” replico infastidito.

A quel punto Christian, che fino a un attimo prima sembrava non ascoltare, esclama con spavalderia e tutto impettito:

“Certo! Noi inglesi vinciamo sempre, quelli come me vincono sempre!”.

Meno male che c’è sempre il buon Maurizio a spodestare il lord inglese dal suo trono di cartapesta con sentenza solenne:

“Senti bello, si fa per dire… Più tardi è l’ora del the! Da quella parte c’è il bar, vai e aspetta le 5 di sera così per un po’ non rompi più!”.

Tutti sbottiamo a ridere naturalmente, mentre Christian accusa il colpo in un silenzio tombale guardando il fratello che, come lui, resta ammutolito.

Smorzati i toni, il gruppo si disperde a girare per l’hangar a curiosare in giro.

Mi isolo un po’ pensando tra me e me, ma sono stanco. Mi spiace dirlo ma preferirei stare già in spiaggia almeno una mezz’ora di sonno forse riuscirei a farla.

Sono giunto quasi in automatico davanti al Macchi Castoldi MC72. Il pezzo più prezioso della collezione.

Sua maestà degli idrocorsa.

È li davanti a me come molte altre volte.

Sembra una belva feroce assetata di sangue, e doveva esserlo! Immagino a fatica cosa doveva provare il pilota in quell’angusto abitacolo aperto a cavalcare il drago.

Sensazioni d’altri tempi.

Con quelle forme ardite e armoniose; il muso lunghissimo per far posto all’immenso motore; l’ala sottile come la lama di una spada e i radiatori a sfioramento per ridurre al minimo le resistenze parassite.

Che spettacolo da guardare!

Figuriamoci l’effetto che doveva fare oltre 85 anni fa, quando i normali velivoli erano poco più di un aquilone…

A fianco poi c’è il mostruoso motore in mostra.

Due unità a dodici cilindri uniti insieme come due gemelli siamesi, collegati a due eliche controrotanti. Una creatura mitologica spinta da oltre 3000 cv.

Come tutte le altre volte, non trattengo il sorriso. Quell’emozione che viene quando l’entusiasmo ti accende il fuoco dentro, ma guardandomi intorno sono costretto a posarmi coi piedi per terra.

Noto che li vicino, è stato messo uno schermo che manda in onda filmati e immagini dell’epoca e delle sedie per guardare il video in comodità, ma non mi basta.

Favorito della momentanea assenza di personale, approfitto per oltrepassare la transenna, che come una barriera spazio-tempo mi separa dal velivolo, e toccare il mito per un istante e sentirlo mio.

Tutto d’un tratto l’atmosfera s’ingiallisce, per un attimo mi gira la testa.

Le cose intorno a me sparisco, l’hangar non c’è più … vedo il lago al suo posto, mi sento spaesato…

Mi guardo addosso e non ho più i miei vestiti ma una tuta di volo!

I miei ricordi si fanno confusi, mi sovvengono ricordi che non m’appartengono.

Che mi sta succedendo!?

Vedo il pontile a pochi centimetri dall’acqua e la belva ferma davanti a me.

Accanto all’aereo c’è una semplice scala.

Ci sono molte persone con vecchie tute da meccanico che mi guardano, come se aspettassero un mio gesto.

Ci sono anche persone vestite in uniforme e qualcuno in abiti civili.

Sembra gente d’altri tempi.

“Maresciallo Agello è giunto il momento!”…“Francesco!”

Ancora non mi capacito della situazione, cosa ci faccio qui?

Quasi spontaneamente mi giro verso la voce che mi sembra quasi familiare.

Lo stupore e il disorientamento lasciano piano posto a ricordi più nitidi.

“Sono pronto anche io, signore.” Replico automaticamente, come fosse un’abitudine ancestrale.

Un attimo di riflessione e riconosco la voce del mio comandante, il Colonnello Bernasconi che, come sempre, segue da vicino ogni attività volativa del RAV.

Ora riconosco anche gli altri avieri del Reparto Alta Velocità, e riconosco le rive del lago di Garda.

Riconosco per ultimo anche l’MC 72 Marche Militari 177 fermo dinanzi a me sul pontile, anzi mi sembra di conoscerlo come le mie tasche.

Ora ricordo bene, oggi è il 10 Aprile 1933.

Ormai, da semplice riserva proveniente dalla ‘poco nobile’ ricognizione, sono rimasto solo io in vita abilitato al pilotaggio di questa splendida macchina volante, la più tecnologica al mondo.

Dopo tanta fatica, adesso sono il protagonista assoluto.

Purtroppo però non posso gioirne. I miei compagni di corso sono morti tutti nel tentativo di addomesticare questi terrificanti apparecchi. L’ultimo in ordine cronologico è stato l’amico Stanislao proprio nel tentativo di domare le bizze del ‘Drago’ e del suo alito di fuoco!

Per non parlare di Giovanni, Giuseppe, Tommaso, Ariosto e tutti gli altri caduti prima.

Il motore FIAT AS6, ha sofferto fin dall’inizio di pericolosi problemi causati da ritorni di fiamma per un difetto nei carburatori.

Per me però è diverso, sono sfuggito alla morte per ben due volte col C29. La macchina creata dall’ing. Rosatelli non ha avuto la meglio su di me.

Se la mia buona sorte non mi abbandonerà proprio oggi, entrerò nella storia.

Non c’è più tempo per tornare indietro, adesso è il mio turno. È il tempo di rendere onore alla superba macchina creata dalla dagli ingegneri Castoldi e Zerbi e alla mia Nazione.

Ho compiuto un volo di perlustrazione col FIAT CR20i e prima di me il Comandante Bernasconi.

Sono tutti al loro posto. Le motovedette sono pronte, i cronometristi sono al loro posto, un S59 pilotato da Cassinelli sta portando il commissario per il controllo delle quote.

Il motore del mio aereo è stato scaldato e le candele sostituite.

Le condizioni meteo sono favorevoli anche se non ideali.

L’aereo è in perfetta efficienza. Dopo tanta fatica il genio di Armando Palanca è riuscito a risolvere il problema di carburazione. Adesso il “Drago” è stato domato.

Devo riuscire a strappare all’inglese S6B il record di velocità. So che posso farcela, sulla carta l’MC 72 è più veloce. Risolti i problemi siamo riusciti a ottenere al banco ben 2600 cv, quanto basta per battere gli avversari e superare anche il muro dei 700 Km/h.

Brucia ancora la sconfitta di Calshot.

Non siamo riusciti a preparare in tempo nessuno dei 4 aerei progettati per l’occasione e non siamo riusciti nemmeno a presentarci alla gara;

Anche se i controlli prevolo sono tutti favorevoli, non so se posso fidarmi a spingere al massimo il mio apparecchio.

Le volte precedenti che si è tentato di avvicinare i limiti delle macchine non sono andate a buon fine…

Il Savoia Marchetti S65 ha ucciso Tommaso, l’MC72 ha ucciso Stanislao e io ho rischiato di morire col FIAT C29.

Il Piaggio Pegna PC7 non ha mietuto vittime perché rimasto alla fase di prototipo e forse è stato un bene…

La nostra puntuale impreparazione ci si rivolge puntualmente contro.

Neanche i francesi sono stati in grado di prepararsi in tempo per fronteggiare i britannici che facilmente si sono aggiudicati sia il trofeo che il record di velocità.

Se non ci avessero annullato la vittoria del ‘19 il trofeo sarebbe adesso in mano nostra! Ma non è andata così.

Ormai l’unica cosa che posso fare è battere il primato assoluto di velocità.

“Maresciallo, abbiamo perso la coppa e non possiamo più farci nulla. Dobbiamo conquistare il record a tutti i costi!” mi dice il comandante al quale rispondo con un semplice “Sì, signore”.

Salgo a bordo dell’angusto abitacolo tramite la scaletta, gli specialisti del RAV mi aiutano a sistemarmi sul sedile.

La sensazione è sempre la stessa. La visibilità anteriore è praticamente nulla, quella laterale poco più che sufficiente.

Accendo il motore posteriore e l’elica numero uno inizia a girare, subito dopo accendo il motore anteriore e anche l’elica numero due inizia a muoversi in senso contrario alla prima.

Vengo spinto in acqua lungo lo scivolo dal personale di manovra e dò manetta.

Mentre prendo il largo due motoscafi mi seguono a distanza.

A poco a poco aumento la potenza per iniziare la manovra di decollo e in breve tempo la manetta è a fondo corsa.

L’aereo si comporta benissimo, la spinta che sento alle mie spalle è possente mentre acquisto velocità, e dopo una lunga corsa sul pelo dell’acqua del Garda sono in aria.

Riduco i giri e prendo quota.

Ho memorizzato il tracciato dopo numerose prove effettuate, le due torrette si trovano una a Moniga e l’altra a Manerba.

Devo fare attenzione perché c’è uno strato di nubi a quota 1000 m quindi posso salire solo fino a 800 per poi picchiare sotto i 150 come previsto dal regolamento.

Ore 11:00.

Adesso o mai più!

Punto verso Manerba e dopo una virata picchio verso la base del tracciato e porto la manetta al massimo dirigendomi a sud verso Moniga.

Durante la picchiata sono tutt’uno con la macchina, posso sentire la benzina che dai serbatoi fluisce nel carburatore, come se fosse il mio stesso sangue che pompa nel motore.

Sento ogni singolo pistone spingere con tutta la loro forza proprio lì davanti a me, mi sembra di vederli uno ad uno tutti e ventiquattro e di riuscire a spingerli con i miei pugni al ritmo del ruotare dell’albero a gomiti.

Odo il possente ruggito motore, vedo le fiammate uscire dai corti collettori di scarico come fosse il fuoco che esce dalle narici del drago.

Mi sento catapultato in avanti come mai prima ad ora, mentre mi abbasso alla quota consentita.

Controllo l’altimetro per mantenermi a 100 m e sfreccio per il primo passaggio.

Sono concentrato al massimo, devo riuscire nell’impresa per riscattare il RAV e tutti i centauri che sono caduti prima di me.

“Aiutatemi amici! Soffiate alle mie spalle, eroi caduti soffiate forte, così da spingere il drago più veloce della propria ombra”.

Compio i 3 Km in meno di 16 secondi, il rombo del motore è assordante e domina tutto il lago.

Riduco i giri e riprendo quota per prepararmi al secondo passaggio.

Devo effettuare 5 tornate e la media sarà fatta con i 4 migliori tempi.

Non c’è tempo da perdere.Per essere il più leggero possibile, nei serbatoi c’è solo la benzina necessaria alla prova e non una goccia in più.

Inverto la rotta e giù di nuovo a tutta manetta. In un lampo, con una manovra ormai automatica, eseguo un altro passaggio mozzafiato e poco dopo, senza rendermene conto, ho terminato tutti i passaggi.

So di essere stato velocissimo, sorvolo l’idroscalo ed eseguo una stretta virata a 90° in segno di saluto alla folla accalcata a fare il tifo per me.

Sento la forza g che mi preme sullo stomaco, raddrizzo le semiali dopodiché ammaro delicatamente e mi fermo a largo.

I serbatoi sono praticamente quasi vuoti e l’aereo è talmente sbilanciato all’indietro da permettereagli scarponi di sprofondare in acqua e far sollevare il muso dell’aereo in aria.

Per evitare che lo splendente velivolo si inabissi, velocemente spengo i motori, ribalto il parabrezza ed esco sul lungo muso del velivolo per sedermi sul rovente cofano proprio dietro l’elica e ristabilire l’equilibrio.

Il calore che avverto sotto le gambe è infernale mentre aspetto che mi vengano a trainare i rimorchiatori.

Subito le motovedette si dirigono verso di me per trainare a riva l’aereo. Su una di esse vedo Bernasconi che sbraccia come un forsennato.

Il responso aveva parlato chiaro. Il precedente record inglese era stato sbriciolato!

682 Km/h, con il miglior passaggio a 692.

In alcuni punti devo aver superato anche i fatidici 700 Km/h ma non c’è modo di saperlo.

Salito a bordo dell’imbarcazione vengo letteralmente lanciato in aria dal mio comandante:

“Maresciallo ce l’hai fatta! Sei l’uomo più veloce del mondo! Il record è di nuovo italiano!”

Tutti mi acclamano mentre vengo sollevato in aria, sono felicissimo.

“Penso di aver pareggiato i conti con gli inglesi” rispondo.

“Puoi dirlo forte, oggi sei entrato nella storia.”

Mentre continuano le strette di mano e gli abbracci, giungiamo all’idroscalo.

Guadagnata la riva vengo accolto da tutti. Ci sono molte persone ad attendermi: ufficiali, meccanici, ingegneri e tutti i membri del RAV.

C’è anche una nutrita folla di persone fuori dai cancelli, giunte dai dintorni per l’occasione.

Vedo tanti volti di persone che non conosco e che mi acclamano come un eroe, li guardo uno ad uno e rispondo ai saluti quando la mia attenzione viene inesorabilmente catturata.

Una fanciulla dal volto angelico che da dietro la rete divisoria si aggiusta i capelli.

Un volto celestiale ma stranamente familiare.

È come se la conoscessi da sempre ma non l’ho mai vista.

Resto fermo immobile imbambolato e quasi in attesa di un riscontro: dai girati! Guardami ti prego… penso tra me e me.

La giovane ragazza resta un attimo immobile come se avesse recepito la mia richiesta.

Resto fermo a guardare mentre ricevo pacche sulle spalle e vengo strattonato dai miei commilitoni ma quasi non me ne accorgo, la mia mente adesso è altrove.

Dopo aver fatto qualche passo a forza trascinato dai militari ecco che accade il miracolo.

Lo sguardo splendente della ragazza incontra il mio per un istante, resto letteralmente ammaliato da cotanta bellezza!

Quasi istantaneamente sboccia il più bel sorriso che abbia mai visto sul suo volto e resto impietrito, già provato dall’emozione dell’impresa appena compiuta.

Resto a guardare e intorno a me sento il vuoto totale. Tutte le persone che mi circondano scompaiono nel buio e resto da solo a guardare la luce di quel sorriso.

Chi sei? Come hai fatto a rapirmi così? E perché ti vedo così familiare?

I pensieri si confondono di nuovo e sono confuso, ora mi importa solo di scoprire chi si cela dietro quella visione!

Ad un tratto l’immagine scompare e ho un violento sussulto!

Cosa mi è successo di nuovo? Dove mi trovo? L’MC 72 è ancora lì affianco a me, ma dove sono finiti tutti? Dov’è il comandante? Dov’è il lago?

Ma soprattutto, dov’è finita quella splendida fanciulla?

Un attimo per riprendermi e vengo avvolto dalle risate ed esclamo ad alta voce: “Comandi signore!”

“Ma quale signore! Aoooo, sveglia, che fai dormi come un salame?”

Mi sento la schiena bagnata e vedo Maurizio con una bottiglietta d’acqua in mano stappata.

Non tardano gli altri commenti:

“Guarda che chi dorme non piglia pesci!” e giù via con gli scherni.

“Siete proprio stupidi!” rispondo imbarazzato.

Ancora non capisco bene cosa mi sia successo, era tutto così reale…

Poi realizzo. Complice la stanchezza, devo essermi accomodato sulle sedute e addormentato. Forse il vero stupido sono io… Che figuraccia!

Mi allontano infastidito e deluso restando in disparte mentre iniziamo a muoverci verso l’hangar Badoni, il terzo della mostra statica del Museo.

Ancora non mi capacito di cosa mi sia successo, nel presente e nel passato…

Ero talmente suggestionato da essermi sognato tutto oppure sono stato veramente catapultato nel passato?

Mi rimane una vaga sensazione di nostalgia, ma adesso sono qui nel presente a camminare.

Focalizzo l’attenzione, davanti a me c’è lei. Adesso che ti ho ritrovata non voglio perderti di nuovo.

Dai girati! Guardami ti prego…

Compi di nuovo quel miracolo compiuto 87 anni fa…

Come per magia, Valeria si gira mi guarda e mi sorride mentre si aggiusta i capelli.

Ho già visto quella scena.

Ho già sentito quella sensazione allo stomaco, ma stavolta non è la forza g.

Resto impietrito mentre mi volta le spalle.

Ore 11:00.

Adesso o mai più!

Affretto il passo tanto da coprire i pochi metri che ci separano e la raggiungo in pochissimo tempo.

Allungo il braccio e le prendo la mano…

Lei si gira verso di me e mi sorride di nuovo.

La resto a guardare senza dire nulla.

Vorrei che il tempo si fermasse.

Ci avviciniamo al possente idrovolante CANT Z-506 e ci fermiamo.

“Christian!” esclama Valeria “ci faresti una foto qui?”

“Come vuoi” risponde l’inglese.

“Brucia di invidia inglese! Brucia tu e il tuo smartphone da 1000 euro!” vorrei rispondere.

Invece resto in silenzio. Voglio godermi il mio momento di gloria.

Restiamo abbracciati per il tempo di uno scatto, troppo poco, e le mie speranze si sbriciolano.

Valeria mi lascia lì davanti come un baccalà, mentre si allontana con gli altri.

Mi rattristisco.

Abbiamo fatto solo una fotografia e pochi passi mano nella mano, cosa mai mi ero messo in testa? Cosa mi aspettavo?

Non so, però sento che non è questo il momento di arrendersi, riprendo le forze e mi dirigo a tutta manetta verso di lei.

Giunto alle sue spalle, tendo la mano verso la sua e la afferro con una presa decisa. La splendida fanciulla si gira verso di me e sorride di nuovo.

Stavolta non ti lascio andare! Sono deciso ad andare fino in fondo.

Ci sono altri record da battere, altri trofei da conquistare…

E voglio farlo con te!



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Roberto Ferri

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