Mario Antonio Corrado Auditore

virata strettissimaCorrado per gli amici, Mauro per la famiglia, Antonio solo per l’anagrafe, nasce a Maratea (PZ), sulla costa tirrenica della Basilicata, nel 1991.

Appassionato dell’aviazione praticamente da sempre, è stato titolare di un attestato VDS-M basico, seppur costretto da problemi personali a sospendere l’attività di volo. Attualmente, in attesa di poter ricominciare a pilotare, frequenta il corso di lingue e culture dell’Asia e dell’Africa presso l’Università degli Studi di Torino.


Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

I have control


Tutto cominciò una ventina di anni fa.

Ancora infante, da poco in grado di camminare e di parlare, per la prima volta vidi un mezzo volante da vicino.

Un Agusta A-109A2 della Guardia di Finanza, in esposizione statica per una manifestazione, nel porto dove mio padre prestava servizio.

Finanziere, imbarcato su una motovedetta, amante del mare come io lo sarei stato del cielo.

Ricordo la mia curiosità insaziabile di bambino, precoce e sveglio a giudizio di molti che mi conobbero allora. Iniziai a tempestare lui e mia madre di domande sulla strana macchina, su come funzionasse, su come era fatta dentro.

La memoria di questi primi tempi della mia vita, per quanto vivida, ha qualche falla.

C’è una foto di me sul bordo del vano passeggeri, aggrappato al portellone aperto, e ho un vago ricordo dei miei genitori che non sanno come rispondere in maniera comprensibile ai mille interrogativi che gli pongo.

Ricordo una promessa fatta a me stesso, straordinariamente chiara, per quell’età. Se mia madre e mio padre non sapevano rispondermi, avrei trovato io le risposte. Nella soffitta della casa dove sono cresciuto è conservata un enorme quantità di riviste, libri, raccolte a fascicoli, e fogli strappati a quaderni di scuola per prendere appunti e disegnare.

Aerei ed Elicotteri, veri o partoriti dalla mia mente. Una carrellata di modellini assemblati in maniera via via meno rozza e più ricercata con gli anni.

Più o meno da quando sono stato in grado di leggere qualcosa di più complicato dell’abecedario, leggo di aviazione.

Ammetto di sapere comunque poco rispetto agli esperti del settore, ma ai tempi, senza nessuna conoscente addentrato in quel mondo, vivendo in un paesino relativamente isolato, in un epoca in cui la grande internet che ha tutte le risposte, spesso anche quelle sbagliate, ancora non era accessibile ai più, soprattutto in Italia, è sorprendente la mia volontà di raccogliere informazioni in materia di volo. Se mi avessero chiesto cosa volevo fare da grande, già alla fine delle elementari la risposta era netta e decisa.

Volevo fare il pilota.

La voglia di solcare il cielo la incanalai negli anni delle scuole medie e superiori nei simulatori di volo, complice l’ingresso in casa di PC via via più performanti col passare degli anni. Alcuni spiacevoli eventi mi turbarono l’adolescenza in maniera troppo subdola per essere percepita dall’esterno, iniziai a isolarmi, alienandomi al mondo.

La forza d’inseguire il sogno stava spegnendosi. Nemmeno i primi viaggi su aerei di linea erano serviti a molto.

Mi aveva dato la stessa, scomoda, arida sensazione di viaggiare su un autobus.

Solo molto veloce.

Guardando fuori dal finestrino vedevo il luogo a cui da sempre anelavo, l’infinito spazio del cielo, ma qualcosa non tornava, non lo stavo vivendo come volevo.

Arrivato al quarto anno del liceo scientifico mi stavo ormai convincendo che quello di pilotare davvero sarebbe rimasto un bel sogno, ma che dovevo accontentarmi delle nottate davanti al monitor, collegato in rete con altra gente, a discutere di simulatori, a costruire scenari di guerra tanto virtuali quanto i velivoli con cui ne avremmo poi solcati i cieli.

Ero stato a qualche airshow, ma sempre in madrepatria, e non mi avevano entusiasmato più di tanto.

Guardare da terra era solo un modo per stuzzicarmi l’appetito, e lasciarmi poi a bocca asciutta.

Come guardare dolci in vetrina sapendo che non entrerai a comprare né un vassoio ne un singolo pasticcino. Ma fortunate coincidenze riaccesero prepotentemente la fiamma della passione.

In un paese non lontano costruirono un aviosuperficie.

Ci andai una volta per conto mio, trovando solo un hangar chiuso e nemmeno l’anima di una persona. Ma qualche tempo dopo la gestione di quella stessa aviosuperficie iniziò a tenere corsi di divulgazione sul mondo aeronautico, in un bar a meno di dieci minuti a piedi da dove abitavo.

Una sera andai a curiosare, e da allora, ogni giovedì ero là.

Frequentai più assiduamente di chiunque altro i corsi, presi appunti, studiai anche per conto mio. Molti altri “allievi”, perso l’effetto della novità, abbandonarono.

Fatto tipico e non sorprendente nella vita di paese.

Eravamo sempre di meno, e io ero l’irriducibile. Arrivai a farmi rimproverare da mia madre per il dedicare più tempo a questo corso settimanale, che al liceo, e devo ammettere, mio malgrado, che i voti davvero ne stavano risentendo. Ma strinsi i denti, cercando di dividermi equamente tra le due “scuole”.

E alla fine, premio insperato, ai tre che rimasero fino a fine corso, fu offerto un volo gratis sull’ultraleggero della scuola di volo. Di quei tre ero il primo. Ricordo ogni dettaglio di quel giorno. Ricordo la mia ansia, mentre divoravo il pranzo, dopo aver perso tempo prezioso nella ressa all’uscita da scuola, per uno stupido contrattempo. L’avrei saltato, ma già ero senza colazione, sarei crollato se non mangiavo qualcosa.

Finalmente col mio zainaccio di tela militare, consumato ma tenuto affettuosamente in uso per anni e anni, salii a bordo dell’automobile con cui mio padre mi avrebbe accompagnato al campo. Ero nel panico. Mi sembrava di avere l’occasione di una vita davanti, e di essere prossimo a perderla.

Aveva un bel da fare, papà, a cercare di rincuorarmi, a bruciare semafori e rischiare multe per eccesso di velocità.

Ero terrorizzato, tremavo. Ma arrivammo alla pista, e c’erano ancora solo due tecnici che spostavano materiale nell’hangar. Accertato che non sarei rimasto a terra, ritrovai la pace, come se nulla fosse successo.

Incominciai a tempestare di domande, con la stessa furia innocente del bambino che ero stato, tutti i presenti. I due tecnici, l’istruttore, il gestore … chiunque mi sembrava potesse insegnarmi anche solo una virgola più di quel che sapevo, fu tartassato dalle mie domande, frenate solo e unicamente dal terrore di irritare qualcuno e restare a terra.

Nell’aula di teoria della scuola ci spiegarono in pratica quello che avremmo fatto. In realtà pochi minuti, ma per me era l’universo intero.

Decollo, giro di un paio di punti caratteristici dei dintorni, con un qualche attimo di controllo sui comandi, ritorno verso il campo, circuito e atterraggio.

Spiegato per sommi capi il volo, arrivò il momento di toccare con mano.

Ci avvicinammo all’ultraleggero parcheggiato sul piazzale in cemento.

Fusoliera bianca in vetroresina, ala alta, motore spingente, carrello triciclo, coda a T, sedili in tandem e un tettuccio in plexiglass incernierato sul lato che gli dava un aria stranamente aggressiva per un “giocattolino da poco”.

Negli anni avrei sentito dire peste e corna di quel modello, e di tante piccole magagne che si portava dietro … ma per me era e resta bellissimo. Come si suol dire, il primo amore non si scorda mai.

Ci mostrarono tutti i controlli che andavano fatti prima di ogni volo, ci fecero osservare mentre venivano eseguiti, toccammo tutti con mano, previa spiegazione e sotto supervisione. Mi venne dato incarico di rimuovere la copertura e il “tappo” dal tubo di pitot.

A ripensarci oggi è stato il momento fondamentale della realizzazione che stavo davvero per volare. Che non era un sogno folle ed effimero, ma una concreta realtà.

Avevo la copertura, con il contrassegno “REMOVE BEFORE FLIGHT” stretta nella mia mano sinistra, rosso su bianco.

Finora quella scritta l’avevo vista solo su un portachiavi recuperato a una manifestazione, anni prima, e usato fino a distruggerlo. E l’odore, l’odore quando spillammo dal serbatoio un con l’apposito strumento un piccolo campione di carburante, per verificare l’eventuale emulsione di acqua all’interno.

L’odore pungente della benzina automobilistica usata da quel motore Rotax, tuttora mi ricorda quel giorno, ogni volta che passo da un benzinaio. Un attimo ancora d’incredulità nacque quando mi dissero di sedere davanti, che l’istruttore da dietro poteva benissimo controllare tutto. E montammo in cabina.

Il cielo, che la nel corso della mattina mostrava ancora le cicatrici di un violento fronte temporalesco passato in settimana – altro fattore dell’ansia che avevo sofferto mezz’ora prima – era pulito, con poche nubi alte, ben oltre le minime condizioni per il volo a vista. E un vento relativamente tranquillo, per la media di quel febbraio.

Iniziai a seguire le istruzioni che mi vennero dettate man mano e preparandoci alla messa in moto. Cinture, chiusura del tettuccio, segnalazione dell’avviamento, batteria, magnete 1 On, Magnete 2 On,

Un ultimo urlo di “VIA DALL’ELICA!”, Controllo visivo, per ulteriore sicurezza … e lo scatto dell’avviamento, la macchina che prende vita, il fragore del motore che si avvia …

Un rumore che rimbombava nell’abitacolo e nella mia testa, complici le cuffie in prestito, troppo logore e ormai non totalmente capaci di attenuare i rumori esterni.

Poi l’accensione della radio, l’impostazione della frequenza, il sentire l’istruttore parlare. Frasi che avevo immaginato mille volte leggendole, che finalmente mi arrivavano filtrate dalla statica dell’interfono, mentre l’istruttore comunicava man mano le sue intenzioni …

Rullammo in attesa, con un primo momento di mani sui comandi, sempre dirette e corrette dall’istruttore, che di fatto non mi avrebbe mai ceduto, per questo volo, la completa autorità sul velivolo.

Rimasi molto spiazzato la necessità di dover manovrare usando separatamente i freni delle ruote, destro e sinistro, a distanza di anni il rullaggio a terra è una cosa che non ho mai davvero padroneggiato fino in fondo.

La prova motore, che lo spartano freno di parcheggio dell’ULM non gradì molto, costringendoci a coadiuvarne l’azione agendo con forza anche sui freni “di manovra”.

Tenendo il motore ai 4300 giri, togliemmo un magnete, osservando entrambi la lieve diminuzione di giri. Lo reinserimmo, ripetemmo col secondo. Risultato analogo.

Nessun traffico, nonostante la pista di un migliaio abbondante di metri, in asfalto. Un lusso, per un campo di volo del genere, davvero un lusso raro, soprattutto in Italia. Quasi nessuno volava mai da quelle parti, e solo anni dopo avrei capito perché. Ma in tutto questo non importa, allora non sapevo né sospettavo e anche averlo saputo non avrebbe cambiato nulla dell’esperienza in sé.

Rullammo dal raccordo alla testata pista. Direzione 27, comunicando all’improvvisata “biga” a terra la nostra intenzione di decollo. La mia mano che su richiesta dell’istruttore porta la levetta dei flap alla prima tacca …

Un ultimo momento di fermo appena allineati … poi lasciammo i freni e portammo la manetta a fondo corsa.

I 100 cavalli del motore, non tantissimi, ma più che sufficienti per quella massa, iniziarono a spingerci, il mondo fuori dal cockpit accelerava.

L’anemometro segnalò in breve la velocità di rotazione, e quasi immediatamente dopo fu il distacco dal suolo. Una sensazione più leggera del volo di linea, ma allo stesso tempo molto più tangibile.

Sentivo i comandi sotto le mani e i piedi, mossi dall’istruttore, ma comunque percepiti da me. Inconsciamente lasciavo che il mio corpo seguisse l’input percepito dal pilota in comando alle mie spalle, in modo da assimilare con la memoria di movimento le azioni. Insegnamento ricavato da chissà che libro letto anni prima, ma che in quel momento d’istinto non potevo fare a meno di eseguire.

A differenza delle precedenti esperienze, ogni pezzo era al suo posto. Avevo trovato ciò che cercavo. La bellezza del volo, la bellezza del mondo visto dall’alto, con la consapevolezza di controllare il proprio spostamento. Immobili eppure oltre i limiti del proprio corpo. Il moto perfetto, il volo della mente che in barba alla legge di gravità si porta dietro anche il corpo.

Esattamente quello che cercavo nei libri dei filosofi, e nei manuali tecnici. Ma ciò che avevo letto, e con scarsi risultati anche scritto, impallidiva di fronte alla realtà.

Livellati e impostato un assetto di crociera a 1000 piedi, virammo verso un isoletta non lontana, forse un paio di minuti per raggiungerla, a 75 nodi, velocità già sostenuta, per quel mezzo. Per un po’ l’istruttore mi lasciò i comandi, facendomi provare alcune blande virate, lievi cambi di quota e di regime di volo.

Vedendo la tranquillità con cui seguivo le sue istruzioni, mi lasciò arrivare all’ingresso del sottovento per il circuito d’atterraggio, riprendendo solo allora il controllo completo, e non solo il non dichiarato controllo passivo, che ero istintivamente certo non avesse mai lasciato.

Non avevo un modo per vedere davvero cosa stesse facendo, ma tutto ciò che avevo studiato, unito al comune buon senso, mi lasciava intuire la sua mano a guidare e controllare la mia, i suoi piedi a correggere la mia azione sul timone, per tener centrato l’aereo.

Il contatto col suolo fu più duro, per certi versi, di quello su un jet da 300 posti. Ma ironicamente, in 300 metri scarsi eravamo abbastanza lenti da invertire la direzione e liberare la pista, trotterellando allegri sulle poche irregolarità del piazzale, seguendo passo passo le indicazioni dell’istruttore.

Una volta arrivati allo spazio marcato a terra, motore al minimo, freno di parcheggio inserito, l’istruttore mi fece togliere la cuffia, scendere dal mezzo, e come da istruzioni mi allontanai stando lontano dal motore, mentre un altro allievo veniva a darmi il cambio.

Mentre rullava nuovamente verso la pista, rimasi a guardare. Aspettai che rientrasse, aspettai anche tutto il volo del terzo allievo. Volevo sentire cosa aveva da dire, volevo sapere, capire.

Andammo via solo quando ci cacciarono.

Fu l’inizio del cambiamento.

I simulatori non bastavano più, avevano il sapore di un palliativo, e anche molto inefficace.

Anche solo un ultraleggero nella realtà superava di gran lunga qualsiasi caccia pilotato di fronte a un computer.

Avevo 17 anni. Molta gente aveva iniziato a età inferiori, molta gente, in luoghi e tempi antecedenti, poteva avere già una licenza, alla mia età.

I miei, che temevano il mio concentrarmi troppo sul volo e troppo poco sullo studio, vollero farmi attendere fino al compimento della maggiore età, e solo allora riprese quello che chiamavo “l’apprendistato”.

Visite mediche, viaggi in questura per avere il nulla-osta che mi avrebbe autorizzato a iniziare i corsi, l’iscrizione in palestra per migliorare la mia forma fisica e combattere l’annoso problema di peso che da sempre mi trascinavo dietro. Era il mio ultimo anno di liceo, era l’anno del corso di volo. I rapporti coi miei compagni di classe andavano deteriorandosi ogni giorno di più, ma questo non era importante.

Esclusi un paio, con cui ancora ho piacere di sentirmi, erano persone migliori da perdere che da trovare.

Per certi versi, era una cosa dura da affrontare.

La preparazione per l’esame di stato, i corsi per la patente B iniziati appena possibile, e affrontati con una certa noia perché sì, apprezzavo guidare, ma non reggeva il confronto. Un crescere di impegni in famiglia e fuori, a cui non potevo esimermi. Ma ogni weekend a cui il mondo arrivasse senza esplodere, ero al campo. Anche se per qualche motivo legato al meteo o a fattori tecnici non si poteva volare. Era irrilevante.

Ero in mezzo al mondo del volo, ero in un hangar, ero negli uffici. Gli aeroplani non erano più un insieme di poligoni disegnati e ricoperti di texture da un sistema di calcolo infinitamente più semplice e stupido di un cervello umano, erano ruote sul cemento del piazzale, erano giunture meccaniche, scocche in metallo o in resine, erano motori a cui all’inizio della giornata si faceva un controllo ben più approfondito del pre-volo, a cui si controllava sempre il livello dell’olio.

Era divertente il fatto che per rendere veritiero il controllo, eliminando le bolle d’aria, bisognasse far ruotare, a magneti scollegati e fermi, l’elica un paio di volte, fino a un rumore caratteristico, che divenne in breve famoso tra noi allievi come “il ruttino”.

Imparai a conoscere anche altri aerei, che là erano fermi, tutti bellissimi, anche se alcuni, abbandonati a loro stessi, erano tutt’altro che in condizioni di volare.

L’istruttore che mi seguiva era diverso. Il suo predecessore era partito per una migliore offerta di lavoro, all’estero. Il nuovo, sulle prime, parve un filo più burbero, ma la sua esperienza, e il modo in cui ci addestrava, li trovavo eccezionali. Trovava la giusta misura.

Abbastanza severo da farmi ricordare e correggere i miei errori, concettuali e pratici, ma non tanto da scoraggiarmi. Ricordo di aver preso sulle prime la cosa come una sfida. E ci misi impegno, pian piano iniziai a limare i miei errori.

Molti parlano del loro primo volo solista, come momento di culmine della propria formazione. Per me fu il primo atterraggio davvero riuscito. Era la sesta lezione pratica del corso. Nelle precedenti avevo avuto dei problemi a concentrarmi, mi emozionavo tanto da fare errori piccoli, ma fondamentali, cose che continuavano a condannarmi a ramanzine e ripassi di teoria.

Quel giorno ero arrivato, dopo una settimana abbastanza difficile a scuola, a fare la checklist, come sempre felice di staccare un po’ la spina da un contesto causa per me di molto stress, e davvero avevo bisogno di godermi il volo.

La missione era la stessa della settimana prima: volo lento, qualche stallo da quota di sicurezza con recupero, e circuiti di atterraggio, per pista 27, come prontamente risposi all’istruttore guardando la manica a vento.

Pre-volo e decollo furono senza imprevisti, e andammo a fare un volo che si preannunciava identico alla settimana prima.

Ma qualcosa era diverso.

Forse nel modo in cui mi ero posto quel giorno. Ormai sapevo che sbagliare avrebbe causato l’ennesima ramanzina, che l’istruttore avrebbe ripreso i comandi, togliendomi parte del piacere. Ma non avevo nulla contro di lui. Solo, quel giorno volevo godermi il volo, e non avrei permesso a nulla e a nessuno di mettersi in mezzo tra me e quella che sapevo sarebbe stata la migliore ora di tutta la settimana, quella che mi serviva davvero per stare bene.

Dopo gli stalli, l’istruttore mi fece percorrere dei quadrati intorno alla nostra “area lavori”, in assetto di volo lento, con una tacca di flap, poi due, poi tre, alternando le configurazioni e assetti dell’aeromobile.

Stavolta non gli sentii dire nulla. Anzi, accadde ciò che davvero non mi sarei mai aspettato.

Non ci avrei creduto, se non l’avessi visto. Avevo preso l’abitudine, per vedere in faccia l’istruttore, cosa preclusami dai sedili in tandem, di portare con me un piccolo specchietto, e incastrarlo in un anfratto del cockpit che quasi pareva fatto a misura.

Guardando dietro con questo ausilio improvvisato, vidi le pagine di un quotidiano. Forse in un altra occasione l’avrei visto come un gesto di poca professionalità. Ma in quel momento il significato era tutt’altro.

M’ero guadagnato la sua fiducia. Riteneva che potevo affrontare il volo senza il suo intervento. Non sentii rimproveri dall’interfono. Solo la richiesta, qualche minuto dopo, di entrare in sottovento per la pista e atterrare, che la nostra ora di volo stava per finire.

La fiducia che il gesto dell’uomo seduto alle mie spalle aveva instillato in me, produsse un circuito volato con una precisione totalmente aliena al mio volo della settimana precedente, e si concluse in un atterraggio che a tutt’oggi ritengo tra i miei migliori, tanto da stamparsi a fuoco nella memoria.

La definizione di “pennellato”, se mi è concesso per un attimo abbandonare la modestia. Preciso sul pettine, con un contatto morbido, tenendo il musetto sollevato il giusto dopo la toccata per lasciare che l’aereo decelerasse per l’attrito con l’aria, senza toccare i freni finché, esaurita la velocità e con essa la forza dei comandi aerodinamici, la forza di gravità richiamò a se il ruotino anteriore.

Invertimmo la direzione, rientrammo al parcheggio, spegnemmo come da procedura.

A motore spento, tolsi la cuffia, e mentre recuperavo e mettevo in tasca il mio specchietto, sentii una pacca sulla spalla. In quel momento toccai un nuovo massimo di autostima. Non ero solo io a credere, e nemmeno tanto, in me. C’era almeno una persona con cui non ero imparentato, al mondo, che era stata in grado di affidarmi un mezzo del valore di svariate migliaia di euro, e la sua stessa vita, e a giudicare dal fatto che ora eravamo fermi sul piazzale, col tettuccio aperto e i piedi ben saldi sul cemento, la sua fiducia era ben riposta.

Era ottobre.

Non avevo ancora la patente B, che sarebbe arrivata solo a metà novembre. Per la legge non potevo guidare da solo un automobile. Che importava. Potevo pilotare un aeroplano, per quanto coi limiti e le problematiche di un ultraleggero. Era quello il punto fondamentale.

Sulla mia agenda dell’epoca, usata per tenere traccia degli impegni studenteschi e mille altre cose, figura una frase scritta con molta forza, quasi incisa, in quella data:

I Have Control

Scritto esattamente così, con la prima lettera di ogni parola in maiuscolo, che mi dava esteticamente l’impressione di un affermazione più forte e definitiva.

Era quello che volevo, era quello che nel volo avevo sempre ricercato.

La libertà, l’autorità di prendere in mano i comandi e decidere la mia linea di azione, con le conoscenze e gli strumenti per farlo. Certo, con la lucidità di non essere ancora pronto a tutto, di avere davanti ancora un lungo percorso. Ma mi era stato accordato il poter atterrare autonomamente. Era un inizio.

Il resto del corso ebbe comunque i suoi ostacoli. L’emergenza da cielo campo con discesa in virata. Ci misi mesi a impararla ragionevolmente bene. Le prime esperienze di navigazione cartografica, e alcuni voli, chiusi prematuramente per un peggioramento imprevedibile del meteo, totalmente inatteso anche dalle previsioni e dai bollettini a cui avevamo accesso.

Ricordo in un occasione un atterraggio rocambolesco. Nell’esatto istante della toccata, dal nulla partì una raffica di vento ai limiti di quanto il mezzo potesse sopportare, e un tratto di pista percorso sulla sola ruota sinistra, prima di riuscire a metterci vincere la forza del vento e raddrizzarci. Nondimeno, siam sempre andati via con le nostre gambe, e senza danneggiare nulla. Ma a quel periodo appartengono anche la gioia di vedere dall’alto la mia scuola e la mia casa, il primo trasferimento su un altro campo, nell’entroterra, la sfida di affrontare un ambiente di volo totalmente diverso.

Ormai avevo anche la patente, andavo al campo con la macchina dei miei genitori, e iniziavo ad apprezzare anche quel tipo di spostamento. Anche lì avevo il controllo. A scuola andava bene, per i voti. Male per i rapporti con buona parte della classe. Cosa assolutamente voluta.

Il 3 luglio di quell’anno conseguii il mio attestato VDS, con un esame pratico discreto, e una teoria migliorabile, a sentire l’esaminatore. Mi dispiaceva non aver fatto di meglio, ma già riuscire a integrare questo risultato con tutto quello che c’era da affrontare fuori dal campo di volo.

Tre giorni dopo firmavo di fronte alla commissione esaminatrice dopo aver sostenuto la prova orale dell’esame di maturità, promosso con una valutazione di novanta su cento.

Era il momento di andarmene. Per varie divergenze con il gestore del campo di volo, decisi di non proseguire con loro l’attività, pur mantenendo il massimo rispetto per i suoi dipendenti, per chi mi aveva istruito, e per chi faceva l’impossibile pur di mantenere insieme una flotta in condizioni di volo, purtroppo sempre più esigua.

Tra i miei coetanei avevo praticamente fatto terra bruciata, quindi decisi di andare lontano per gli studi. La mia nuova casa è a 13 ore di autobus, o altrettante di treno, da dove sono nato e cresciuto. Non mi pesa più di tanto. La lontananza della famiglia si fa sentire, ma alla fine la tecnologia sa accorciare le distanze.

Il vero sacrificio è stato smettere, per ora, con il volo. I soldi servivano per l’affitto, per i libri, per mangiare, per la retta dell’università, anche mi fossi iscritto a un ateneo più vicino, non avrei potuto permettermi il volo.

Mi ero ripromesso un ritiro solo temporaneo. Volevo riprendere appena possibile. Ma la vita, di nuovo, si metteva in mezzo. L’orientamento, il riorientamento e il disorientamento della mia carriera universitaria, varie vicissitudini familiari e non, spese impreviste, tutto contribuiva a rimandare la ripresa del volo.

Accantonai l’ipotesi dell’arruolamento nelle forze armate, per varie ragioni, principalmente caratteriali. In una gerarchia di tipo militare non sarei finito molto bene, allora come oggi.

La speranza tornava a spegnersi, come un fuoco a cui si smetta di aggiungere legna. Mi lasciavo andare ogni giorno di più, di nuovo prigioniero di me stesso. Convinto di non farcela, sempre meno preoccupato del mio fisico e della mia mente, a rivangare con nostalgia un passato, sempre più lontano.

E proprio la persona che meno mi aspettavo stava per mettermi in mano un ceppo, e la benzina da buttare sulla brace.

Un’amica, forse la migliore amica che potessi aspettarmi di avere, nonostante il poco tempo speso assieme, che mi guarda negli occhi e mi chiede cosa voglio fare nella mia vita.

La risposta è quella: voglio volare. Ma nemmeno io sembro crederci più, lo dico fiaccamente, meccanicamente. Ma lei continua a fissarmi, non rompe il contatto visivo.

“Vuoi? Puoi!”

La legna, la benzina e la fiammata. Allora tutto cambia.

L’ultima volta che sono stato a trovare i miei genitori ho ripescato dall’armadio la mia cuffia, comprata a una manifestazione di settore per partecipare alla quale avevo allegramente disertato la gita del quinto superiore.

Ho ricomprato il cosciale, ho tirato fuori dall’archivio le vecchie carte di navigazione a bassa quota, i libri, gli strumenti per la navigazione, ho ricominciato a curare il mio fisico, e ormai l’interrogativo non è se, è quando.

Sono passati quattro anni, c’è una visita medica da superare, ci sono dei soldi da trovare, dovrò fare di nuovo carte in questura, e stavolta punto più in alto. Aviazione generale. Per cominciare.

In questi anni sono cambiato, e molto. Del bambino che ero conservo la curiosità, il desiderio di apprendere, ma ho acquisito esperienza del mondo fuori dal paesino. Ho imparato a vivere e controllare la mia vita, anche fuori dal cockpit, a equilibrare intransigenza e compromesso, a liberarmi dei pesi morti, a scegliere bene di chi fidarmi, a cambiare strada quando necessario, senza vergognarmi del correggere i miei errori.

Quello che ho appreso volando, mi è stato utile a terra, il saper prendere decisioni, il saper pensare in prospettiva, il mantenere la consapevolezza della mia situazione, il pianificare nel modo più completo possibile. Ma la cosa più importante resta quella. Il sapere che sono io, solo io, artefice del mio destino, con le mie azioni. Sapere che ho il comando.

I. Have. Control.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Mario Antonio Corrado Auditore

Luciano Serra, pilota

1. Tutto incominciò con una goccia sul pavimento, scura e densa come l’olio minerale che trasuda dai motori tra un volo e l’altro. Ma quando il bambino, o era forse un fotografo o un modellista o un vecchio reduce, sfiorò l’aereo antico protendendosi oltre la catenella, le dita tornarono indietro più bagnate che unte. Chiunque fosse, si lasciò alle spalle il biplano in esposizione da pochi giorni dopo quasi quindici anni di lavoro e proseguì la visita senza segnalare nulla al personale.

2. Quei milleseicento chili di acciaio, alluminio, tela, gomma e vernice erano la nuova gloria del museo, che partendo da un relitto recuperato in Libia aveva pazientemente ricostruito un esemplare completo restaurando il poco che c’era, procurando molto di quel che mancava e ricreando il resto. “La caccia al tesoro più lunga del mondo”, l’aveva definita il direttore durante la cerimonia ufficiale d’inaugurazione. E come dargli torto? I disegni costruttivi venivano da archivi in Olanda, Svezia, Svizzera e Ungheria, riletti alla luce dei manuali italiani e completati da rilievi al vero nei musei di Lelystad, Malmslatt e Dübendorf. La fusoliera era stata sapientemente riportata in vita da un autentico artista della saldatura, che aveva unito i diversi tubi strutturali e creato in opera maniglie, mensole, appoggi di una miriade di tubetti di ogni diametro e spessore immaginabile. Con fresa e tornio un altro grande artigiano dell’acciaio aveva creato piastre e attacchi per reggere ali, carrello, motore e altri elementi pesanti. Un terzo aveva impiegato un’intera batteria di martelli e mazzuoli in legno per trasformare grandi fogli d’alluminio in serbatoi, cofanature e rivestimenti di ogni genere: un colpo qui per una curva lì, senza un grammo di stucco. Il motore era stato assemblato montando sul carter recuperato sotto la sabbia una serie di cilindri, pistoni e bielle copiati dall’unico originale conservato. L’elica in legno era stata rifatta a mano. La grande ala superiore, un monoblocco in legno di oltre quindici metri di apertura, rastremata in pianta e in sezione, con alcune parti rivestite in tela per facilitarne l’ispezione, era stata costruita da un’officina specializzata in Austria; le due semiali inferiori, di dimensioni assai minori, erano opera dei volontari, che lavorandoci una mattina a settimana avevano impiegato tre anni per realizzarle. L’intelaggio era stato compiuto nelle officine del museo, non senza qualche problema sindacale legato all’uso di acetone quale diluente del tenditela. Di fronte alla minaccia di affidare il compito a un istituto tecnico che da tempo si era offerto di collaborare, la soluzione alla fine si era raggiunta. Per completare l’opera erano state necessarie oltre 15.000 ore di lavoro, sparse su un arco di tempo tanto lungo che alcuni dei tecnici che avevano iniziato il restauro non erano riusciti a vederlo completato. Tutto questo, aveva detto il direttore, per “colmare un vuoto a lungo avvertito nelle testimonianze materiali della storia della nostra aviazione”, ma anche per “dimostrare quel che è ancora possibile fare nonostante il momento così difficile per il settore dei beni e delle attività culturali, pubbliche o private.” Il tocco finale era stata la verniciatura: appena un centinaio di ore, ma sufficienti a dare ai visitatori l’impressione complessiva per giudicare tutto quello che a loro era invisibile o sconosciuto. Scegliere i colori non era stato facile, perché dell’originale non restava nulla. In più, gli oltre 600 esemplari costruiti avevano prestato servizio per oltre 15 anni con una cinquantina di squadriglie, scuole ed enti vari, con una varietà infinita di colori e stemmi. Così il museo aveva formato una speciale commissione per decidere quale livrea applicare al redivivo biplano, chiamando esperti delle estrazioni più varie: ufficiali e storici, rappresentanti delle associazioni d’arma e professionisti del restauro, modellisti e (anche se qualcuno aveva storto il naso) internauti. Dopo un lungo dibattito, con toni talvolta aspri, la scelta del direttore era caduta sulla proposta meno ortodossa: rappresentare non l’esemplare reale, del quale quasi tutto era conosciuto, ma uno ideale, proprio per sottolinearne a un tempo la dimensione mitologica e l’essere più vicino alla ricostruzione composita che all’originale restaurato. Così il biplano era diventato quello che compariva nella scena madre di un celebre film, il primo girato nella nuova città del cinema di Roma, acclamato alla mostra del cinema di Venezia del 1938. La livrea, in verità, era sin troppo semplice avorio su tutte le superfici, tricolore in coda, fasci alle estremità alari, nessun codice o insegna. Un’eresia, per alcuni, ma un colpo di genio per il direttore, al quale barattare la storia con la pubblicità sembrava un’ottima idea. “In fondo la difficoltà tecnica di riprodurre fedelmente una livrea di fantasia è la stessa che per una reale, no? E allora lo faccia e basta,” aveva tagliato corto di fronte alle obiezioni del curatore.

3. Il primo ad accorgersi ufficialmente delle perdite fu un addetto alle pulizie. Dopo aver passato lo straccio per tre giorni di seguito senza risultati conclusivi, si risolse a chiedere che sotto il biplano venisse messa una delle bacinelle con la segatura – o la sabbia, o gli inerti, o qualsiasi altro materiale adatto – che si usano in hangar. Le gocce si formavano sotto l’abitacolo, lentamente, fino al momento in cui la forza di gravità prendeva il sopravvento sulla viscosità per farle precipitare nella vaschetta con un breve suono soffice, per trasformarsi subito dopo in una macchiolina scura. A fine giornata sembrava di guardare la lettiera del gatto, bianchissima salvo la palla nell’angolo. Quando questa diventava troppo grande, l’addetto gettava la segatura in un bidone e la sostituiva senza chiedersi troppi perché. Il primo a capire che qualcosa non andava fu il curatore, un laureato in conservazione dei beni culturali con idee piuttosto vaghe in storia dell’aviazione ma molto scrupoloso. Fu proprio durante il suo giro settimanale in hangar che l’occhio gli cadde su una vaschetta che non aveva mai notato prima. Nessuno ricordava con esattezza da quanto fosse lì – una settimana? un mese? due? Motivo in più per chiarire cosa stesse accadendo al gioiello della corona, al quale era particolarmente affezionato avendovi dedicato gran parte della propria attività professionale degli ultimi sette anni. Il lunedì, approfittando della chiusura settimanale, gli uomini della sezione manutenzione rimossero la bacinella, stesero in terra dei grandi teli e avvicinarono le borse degli attrezzi. Poi, indossati dei sottili guanti di plastica che li facevano somigliare a infermieri o polizia scientifica, iniziarono a rimuovere le viti dei pannelli di rivestimento. Trattandosi di un aereo fresco di restauro, le operazioni procedettero speditamente. Nel giro di mezz’ora il lato anteriore destro era completamente libero, così come il ventre di fusoliera. Uno specialista armato di macchina fotografica si sdraiò su un carrellino da meccanico e si trascinò sotto il biplano; un secondo, rischiarandosi la strada con la torcia elettrica, infilò la testa tra il motore e la paratia parafiamma. Non c’era molto da controllare, in verità. Come tutti gli aerei della propria epoca, il biplano era tanto grande quanto vuoto. L’impianto idraulico non c’era e quello elettrico consisteva di pochi fili, che comunque non potevano perdere alcunché; altrettanto valeva per i comandi di volo attuati con cavi e pulegge, il cui pur abbondante grasso protettivo era troppo pastoso per potersi sciogliere e colare. Nei tubi che correvano tra i serbatoi e il motore non c’era altro che aria, perché non era mai stato fatto alcun pieno di benzina o d’olio. La faccia interna dei rivestimenti, non importa se in tela o lamiera, era immacolata, come su tutti gli aerei freschi di restauro ai quali solo il lento scorrere del tempo avrebbe conferito una patina di autenticità. Come gli aveva detto una volta uno dei restauratori, “I miei aerei non perdono olio!”.

4. “Il biplano non perde olio, Direttore.” “E allora cosa sarebbe questa sostanza che cola?” “Sangue.” “Mi faccia il piacere. Ho studiato abbastanza medicina per ricordarmi che il sangue è un tessuto connettivo allo stato liquido che nei vertebrati, molluschi e crostacei porta alle cellule ossigeno e nutrienti e porta via da loro i prodotti catabolici.” Aspettò qualche secondo, il tempo necessario affinché la frase passasse dalle orecchie ai loro cervellini ristretti, e lasciò partire l’affondo. “Con buona pace di piloti, ingegneri e letterati, gli aerei storici non rientrano in alcuno di tali taxa.” “Non potrei essere più d’accordo con lei, Direttore. In mezzo a questi tesori è facile farsi prendere la mano dal romanticismo,” disse il curatore. “Si figuri che c’è persino qualcuno convinto che questi muti e alati testimoni ci parlino.” “È per questo che confido nella vostra professionalità per mettere a tacere le sciocchezze”, rispose il direttore con l’affabile magnanimità che amava esibire quando i suoi collaboratori facevano autocritica. “Basterà un emocromo per confermare che le macchie rosse sono di vernice, come nel Fantasma di Canterville.” “Il problema è proprio questo, Direttore. Ho qui i risultati dell’emocromo dell’ospedale, della nostra infermeria e di un laboratorio di analisi esterno. Per eliminare qualsiasi dubbio li ho fatti fare in modo anonimo, con tre campioni portati da persone diverse. Il risultato è identico.” Gestire le pause in modo melodrammatico è un gioco che si può fare in due, pensò prima di scandire le sillabe successive con l’abilità di un attore consumato. “Sangue. Per la precisione AB negativo.” “Cosa intende fare?”, disse il direttore, subito in agitazione di fronte al rischio di una marcia indietro comunque imbarazzante.

5. Il curatore digitò il numero del capotecnico con lentezza, preparandosi a un buco nell’acqua. “So che la domanda ti sembrerà strana, ma devo fartela lo stesso. Si è fatto male qualcuno durante il restauro?” “Male?”, ribatté la voce dall’altra parte dell’Italia. “In che senso?” “Tagliato … ferito …”, disse il curatore con un imbarazzo che andava tramutandosi in fretta di chiudere una conversazione surreale. “Magari durante l’installazione del motore, o comunque mentre lavoravate sulla parte anteriore.” La risposta giunse dopo una lunga pausa, durante la quale il capotecnico tirò una lunga boccata dal mezzo toscano che teneva in bocca. “Veramente no.” “Sei proprio sicuro? Nessuno ha … versato sangue a bordo?” “Nessuno, certo. Ma perché me lo chiedi?” “Perché sono tre giorni che dal biplano cola sangue, e non riusciamo a spiegarcelo.” “Forse non dovreste chiederlo a un vecchio metalmeccanico come me, ma a un esorcista”, grugnì il capotecnico chiudendo bruscamente una conversazione che non stava andando da nessuna parte.

6. Alla stessa conclusione giunse poche ore dopo il direttore, annunciando la propria resa di fronte a un evento che sembrava sfuggire a ogni esame razionale. Di fronte alla possibilità di dover togliere dall’esposizione il suo nuovo tesoro, l’aereo che dopo il battage pubblicitario tutti chiedevano subito di vedere, la battuta del capotecnico si trasformava in una diagnosi di necessario pragmatismo. “Mi chiami Padre Siluro”, disse al capo segreteria con un’indifferenza troppo affettata per essere vera.

7. Padre Siluro non aveva mai visto un siluro in vita sua, neppure al museo. A dirla tutta non era neppure il cappellano della base, ma solo il parroco del paese accanto che per la mancanza di sacerdoti si era ritrovato con un doppio incarico. “Un po’ come fare l’assistente ecclesiastico ai lupetti”, aveva detto quando aveva appreso la notizia. I militari avevano risposto affibbiandogli il soprannome dello storico cappellano degli aerosiluranti durante la guerra. L’infelice battuta era stata presto dimenticata ma il soprannome era rimasto e aveva rimpiazzato del tutto il nome, che i più giovani non avevano mai sentito pronunciare. Per Padre Siluro il guaio era che gli esorcismi rientravano solo in via teorica tra le competenze di un moderno curato di campagna. Se si escludevano vaghi ricordi dei tempi del seminario e pochi brani evangelici ormai considerati poco più che aneddoti legati alla mentalità dell’epoca di Gesù, la sua preparazione specifica non era molto maggiore di quella del metalmeccanico. Senza dimenticare che secondo il diritto canonico la nomina degli esorcisti spetta al vescovo e che ciò, nella sua diocesi, significava arrivare al sommo pontefice o, quanto meno, al suo vicario. La sola idea lo terrorizzava. Chiedere la nomina a esorcista avrebbe scatenato chissà quale indagine per accertarne le prescritte caratteristiche di pietà, scienza, prudenza e integrità di vita, con annesso rischio – in caso di mancato possesso – di trasferimento in chissà quale parrocchia a centinaia di chilometri di distanza, in un quartiere di frontiera o in una terra di camorra. Ma anche non rispondere a una richiesta dei parrocchiani presentava dei rischi, rifletté Padre Siluro, che era quanto di più lontano si potesse immaginare da un prete combattivo. Qualcuno avrebbe potuto lamentarsi e accusarlo di trascurare i propri doveri pastorali, scatenando un’indagine non dissimile da quella le cui conclusioni paventava. Né si poteva trascurare un certo desiderio di rivincita. L’unica cosa sulla quale da parroco non aveva ancora invocato la protezione divina era un aeroplano. Aveva benedetto un numero infinito di cani, gatti e mucche, ettari di campi da seminare e tante case da costruire, tre nuove officine e due campi sportivi, una scuola pubblica e un asilo privato. Ma niente che volasse. La causa era la scaramanzia dei piloti, alcuni dei quali non volevano essere fotografati prima del volo, rifiutavano di volare sugli aerei il cui numero di codice era o assommava a 17 e cambiavano strada se incrociavano un prete mentre andavano in aeroporto. Come rifiutare il proprio ministero quando erano loro a invocarlo, di fatto riconoscendo al magistero della Chiesa quel ruolo che spesso nella vita trascuravano? Per fortuna la soluzione era a portata di mano. Nella sua infinita saggezza, Santa Romana Chiesa prevedeva il ricorso all’esorcismo solo dopo aver esperito inutilmente ogni altro tentativo, a partire da quelli alla portata di qualunque sacerdote, senza necessità di richiedere particolari autorizzazioni. “Una benedizione solenne e una preghiera di liberazione non si negano a nessuno,” pensò Padre Siluro, parafrasando papa Leone XIII. “O era Vittorio Emanuele II? Bisogna che controlli prima del rito, se non voglio fare la figura di un don Abbondio qualunque. ” Congratulandosi per la brillante idea, prese il ricevitore e chiamò il Direttore per fissare data e orario. “Per me andrebbe bene giovedì alle 11”, annunciò, millantando un’agenda fitta di impegni. “Se proprio è impossibile farlo prima, andrà bene anche per noi”, sospirò una voce venata di agitazione. Nella piccola comunità museale le voci dell’aereo che sanguinava correvano già. Tra non molto sarebbero girate in tutto l’ambiente. Magari persino all’estero. Il disastro incombeva.

8. Ufficialmente non ebbe mai luogo alcun rito. In molti però ricordano di essere stati convocati improvvisamente dal direttore – che, in verità, avrebbe preferito fare tutto di nascosto, ma non aveva saputo opporsi validamente alle richieste di Padre Siluro – per la benedizione del biplano. “Una cosa del tutto ordinaria, come ne abbiamo fatte tante”, aveva aggiunto, anche se i vecchi del museo non ricordavano alcun invito analogo. Come Padre Siluro ebbe pronunciato l’amen finale, il gocciolamento cessò. Il sospiro collettivo di sollievo sembrò risucchiare il profumo che aleggiava nell’aria. A rigore i riti officiati non prevedevano l’uso dell’incenso, ma il parroco l’aveva aggiunto per dare loro maggior solennità e distogliere l’attenzione dal fatto che non si trattava di un esorcismo vero e proprio. La notizia del grande risultato ottenuto con apparente facilità si diffuse velocemente, aumentando a dismisura la reputazione del parroco, che ebbe subito a constatare non solo l’aumento delle presenze domenicali ma anche quello delle offerte. Incominciò a farsi vedere persino il direttore, che per anni aveva giustificato le proprie assenze con la frequentazione della parrocchia del paese accanto. Purtroppo il successo fu di breve durata. Dopo qualche settimana il problema si ripresentò con più forza di prima. Oltre che sotto l’abitacolo, le gocce comparivano ora anche davanti al ruotino di coda. Fu necessario ripristinare la bacinella e aggiungerne una seconda, con il risultato di richiamare sull’anomalia l’attenzione anche dei meno esperti. Nei giorni successivi le gocce divennero prima più grandi, poi più frequenti e infine più rosse. A quel punto il direttore decise che il problema era troppo grave per essere ignorato, nel senso che rischiava di esplodergli in faccia e danneggiare – se non addirittura distruggere – l’immagine di brillante innovatore che si era costruito dribblando critiche e attacchi solo in parte ingiustificati. Formò quindi una commissione ristretta per studiare il problema e, in alternativa, condividerne la colpa. Perché, era chiaro, nell’aria volteggiavano avvoltoi pronti a cibarsi della sua carcassa. “Bisognerà togliere il biplano dall’esposizione e portarlo in officina per un controllo completo”, si espose il curatore, sempre a disagio quando si trattava di esprimere opinioni personali davanti ai superiori. “Forse addirittura smontarlo per un secondo restauro.” “Ho sottovalutato l’intensità della possessione demoniaca”, disse con gravità Padre Siluro. “L’infestazione è assai più forte dei poteri di un parroco. Temo che non ci sia alternativa che rivolgersi al Vicariato affinché invii un esorcista professionista.”

9. “È ’ncazzatissimo. Mica ce vole tanto pe’ capirlo.”. Sorpresi dalla voce romanesca che li strappava ai ragionamenti sullo stato del biplano che avevano davanti agli occhi, il direttore, il curatore e Padre Siluro sobbalzarono. Lo guardarono come fosse un marziano. Tutti lo conoscevano come lo Zio, ma pochi sapevano come si chiamasse. Aveva baffoni bianchi rigorosamente asimmetrici accompagnati a capelli scompigliati altrettanto bianchi. L’età era imprecisabile, ma i suoi racconti di un’epoca a cavallo tra i grandi motori a pistoni e i primi jet e l’aspetto canuto gli conferivano una reputazione di enorme saggezza. Sembrava conoscere tutti e tutto, civile o militare che fosse, e quando c’era qualcosa da dire non tentava neppure di trattenere la lingua. “È incazzato per come l’avete conciato, senza nessun rispetto per la sua storia. Quante volte ci avete raccontato la favoletta secondo cui ‘A un aereo glorioso si deve lo stesso rispetto che a una persona’? Ecco, lui vi sta ricordando cosa succede a non farlo”, proseguì. “Mi faccia il piacere”, lo interruppe paonazzo il direttore, reagendo all’attacco di qualcuno che non poteva licenziare o punire. “Se devo credere al curatore, tre quarti degli aerei qua dentro fingono di essere quello che non sono.” “Mettiamola così. Lui la storia l’ha fatta combattendo per davvero: bombe, gas e tutto il resto. Fino a restarci, insieme al suo equipaggio”, sottolineò con un rispetto tanto profondo da suonare di preparazione per il successivo rimprovero. “Poi arrivate voi, resuscitate i suoi resti mortali e lo tirate a lucido per recitare in un melodrammatico polpettone di regime conciato come un damerino. E secondo voi non avrebbe dovuto incazzarsi?”. La domanda rimase in sospeso, senza trovare risposta. A togliere tutti dall’imbarazzo fu di nuovo lo zio, che girò sui tacchi e scrollò le spalle. “E consideratevi pure fortunati”, lo sentirono bofonchiare mentre si allontanava. “Ve la cavate con quattro mascherine, due pennelli, un barattolo di nero e uno di rosso. Niente spese aggiuntive, niente secondo restauro, niente esorcista.”

10. “Pochi giorni dopo il biplano ricevette le insegne che porta ancor oggi e smise di sanguinare,” spiegò la guida volontaria agli studenti di chissà quale istituto, trascinati al museo da un insegnante annoiato almeno quanto loro. “O almeno così mi raccontò il maresciallo la prima volta che venni qui in visita. Ma io a queste cose ci credo meno che ai grifoni, agli hobbit e ai sarchiaponi …”, disse, lisciandosi i baffi bianchi da vecchio zio. C’è chi dice di avergli visto anche strizzare l’occhio, come per dire capisc’amme …


Narrativa / Medio-Lungo Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

Luciano Serra, pilota

biplano gialloPoco dopo essere stato esposto nella livrea di un esemplare impiegato in un famoso film di guerra in un grande museo aeronautico, un biplano perfettamente restaurato dopo un miracoloso recupero in Africa inizia a perdere un liquido scuro e denso. Olio, come qualsiasi che si rispetti? No: sangue, come rivelano ben tre diversi esami. D’altra parte, il restauro è stato esclusivamente statico e nelle tubazioni perfettamente ricostruite non è mai circolato neppure un grammo d’olio. La scoperta costringe il museo ad adottare metodi non convenzionali per risolvere il problema, compreso un tentativo di esorcismo affidato al parroco del vicino paese e cappellano della base che ospita il museo. Ma è inutile. Il vecchio biplano sembra infestato dai fantasmi e continua imperterrito a perdere sangue, creando vivo imbarazzo al direttore del museo e al suo curatore, che sono sul punto di smontarlo e restaurarlo nuovamente. A risolvere il mistero sarà una delle guide volontarie del museo: l’aereo si sta ribellando alla mascherata cinematografica e rivuole la propria identità di combattente. Tutto si risolve con pochi ritocchi alla verniciatura, con spese minime e pochissima fatica. O così si racconta. Perché chi può dire se la storia sia andata davvero così?


Narrativa / Medio-lungo Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

Gregory Alegi

dirigibile arancioneStorico e giornalista, si occupa con continuità di storia aeronautica e di conservazione degli aerei storici da 30 anni.

Insegna Storia dell’Aeronautica presso l’Accademia Aeronautica e Aviation Management presso la LUISS Business School.

Ha scritto 50 libri e monografie di storia aeronautica e curato mostre e restauri per i principali musei aeronautici italiani.

Per inviare impressioni, minaccie ed improperie all’autore:

g(chiocciola)gregoryalegi.com


 

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Luciano Serra, pilota

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