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Racconti degli autori

L’uomo delle mongolfiere


Un tripudio di lanterne volanti illuminava il cielo. Si libravano nella notte in un viaggio senza mèta che sarebbe inevitabilmente terminato con il loro ritorno alla terra da cui erano partite.

La carta sottile regalava alla luce un colore caldo, rassicurante. Leggiadra fragile meraviglia che sfidava il buio la cui brutale fine sarebbe stata in uno sporco angolo di strada. La pioggia le avrebbe consumate fino a che qualcuno passando le avrebbe rimosse bofonchiando, in nome del decoro urbano.

La ragazza distolse dal cielo i suoi occhi di ghiaccio, per posarli sulla vetrina della piccola bottega alle sue spalle.

Si sarebbe potuto pensare che sarebbe stato il ragazzo a voltarsi per primo, nella comune convinzione che gli uomini siano meno romantici. Invece fu lei. Presto annoiata dall’effimero vagare delle lanterne volanti, cercò con lo sguardo qualcosa di più tangibile. E persistente. La bottega dunque catturò la sua attenzione.

Dalla vetrina colma di vasellame di ogni tipo si poteva scorgere una figura, in fondo alla stanza. La ragazza si avvicinò trascinandosi dietro la mano del ragazzo e anche tutto il resto del ragazzo, fino a schiacciare il naso sulla vetrina per vedere meglio. Era la figura di un uomo. Un vecchio.

Un vecchio uomo seduto al tornio, che lavorava la creta. La sua ombra ricamava sulla parete le movenze fluide e ritmiche di una danza segreta. La creta si modellava docile tra le sue dita in un girotondo di cui solo lui conosceva la canzone. Acqua e polvere  diventavano vasi e piatti e ciotole e tazze.

I suoi movimenti sapevano di amore e dedizione. E la creta sembrava leggergli nel pensiero, assecondando i suoi desideri. Spostava un dito di un niente e la creazione tra le sue mani si trasformava in qualcosa di completamente diverso. E fino alla fine non avresti saputo dire cosa ne sarebbe uscito.

Ultimamente ne uscivano mongolfiere. Mongolfiere di creta.

Si sarebbe potuto pensare che non avessero senso, che fossero un inutile prendipolvere un po’ infantile. Mongolfiere di creta… Che assurdità! Questo, si sarebbe potuto pensare, vedendo un uomo che crea ceste di creta grandi come un ditale, e vasi panciuti che una volta girati sottosopra ricordano palloni aerostatici.

La ragazza entrò nella bottega senza dire una parola al ragazzo che si trascinava dietro con la mano e tutto il resto. Lui non capì. La sua mano neppure. L’uomo alzò lo sguardo dalla creta che gli scivolava tra le dita agli occhi di ghiaccio della ragazza.

Dietro di lei vide un ragazzo, che la teneva per mano. E dietro il ragazzo, che stava sulla porta della bottega, vide le lanterne volanti nel cielo. Lo sguardo gli tornò sugli occhi di ghiaccio della ragazza, che erano più luminosi di qualsiasi lanterna. E la sua voce fu limpida e cristallina al pari dei suoi occhi quando disse

«Buonasera».

«Buonasera» disse anche il ragazzo con lo sguardo un po’ sperduto che non teneva la ragazza per mano. Era lei a tenere il ragazzo, capì il vecchio. E a tenere acceso il mondo, pensò, con quegli occhi di diamante.

«Buonasera a voi. Posso esservi utile?»

«Cosa sta modellando?»

Sorrise, il vecchio. «Si potrebbe pensare che sia un vaso, o un’ampolla dal collo corto» rispose.

«Si potrebbe» disse la ragazza, «ma non sarebbe corretto».

Sorrise di nuovo, il vecchio,  e completò il lavoro in silenzio.

Quando ebbe finito si rivolse alla ragazza, che era rimasta lì, in attesa, con i suoi occhi di ghiaccio e la mano del ragazzo e tutto il resto.

«Credo che dovresti andare di là» le disse, indicando una porta nell’angolo in fondo alla stanza.

La ragazza si mosse in quella direzione, come se stesse camminando verso il suo destino. Attraversò la bottega ed era come se avesse dei binari ad indicarle la strada e un istinto dentro a spingerla verso quella porta e quella stanza e ciò che vi avrebbe trovato. Il ragazzo invece era rimasto dove lei lo aveva lasciato. Senza nessuno a trascinarlo, non sapeva bene cosa fare.

La ragazza attraversò la soglia, ed entrò nella stanza adiacente. Una luce calda illuminava l’ambiente e il pavimento era completamente sgombro. Ma la stanza non era vuota. Fece qualche passo fino ad arrivare al centro e poi, girando lentamente su se stessa, alzò gli occhi di ghiaccio verso il soffitto.

Centinaia di vasi che non erano vasi pendevano dal soffitto, ognuno con il proprio ditale che non era un ditale. Erano mongolfiere. Mongolfiere di creta, ognuna con il proprio piccolo cesto di creta collegato con del sottile filo bianco.

Ce n’erano di ogni colore e dimensione. Grandi come palloni da calcio e piccole come palline da golf. A righe orizzontali, verticali, oblique. Sfumate, a quadri, a pallini. Arcobaleno variopinto e meraviglioso.

Il vecchio entrò nella stanza, seguito dal ragazzo.

«Sono bellissime» disse la ragazza.

«Scegline una», disse il vecchio.

«Non saprei quale scegliere…»

Continuò a guardarsi intorno finché si decise e scelse una minuscola mongolfiera rosa, e una molto grande a righe verticali, multicolore. Il vecchio le incartò con cura con strati e strati di carta velina e le mise in una busta color avana.

La ragazza gli porse la carta di credito, ma lui disse che non accettava pagamenti elettronici. Lei guardò il ragazzo, in una silenziosa richiesta di aiuto.

Lui disse «Non ho contanti».

«Neppure io» si giustificò la ragazza, con la carta di credito ancora in mano, sospesa nel vuoto.

Il vecchio le porse la busta che conteneva le mongolfiere: «Non importa, me li porterai».

«Ma siamo di passaggio… ci sarà una banca qui vicino, no? Vado a prelevare».

«Non preoccuparti, mi è già successo».

«Cosa le è già successo?»

«È già successo che dei clienti non avessero contanti e siano tornati a pagare in un secondo momento. Una volta un cliente ha acquistato tantissime mongolfiere, il conto aveva raggiunto un importo piuttosto alto. Se n’è andato con tutta la merce e ho ricevuto un bonifico qualche giorno dopo».

«E lei si fida?»

«Perché non dovrei?»

«Non so, magari perché la gente tende ad approfittare delle situazioni…»

«Finora nessuno ha preso una mia mongolfiera senza pagarla».

La ragazza lo guardò dubbiosa.

«Perché le mongolfiere?»

Il vecchio posò la busta color avana sul bancone, e cominciò a raccontare.

«Tutto è iniziato con le lanterne volanti, come quelle che vedete lì fuori. Poi, alla fine del 1783, a Parigi migliaia di persone si radunarono per vedere la storia scriversi davanti ai loro occhi. Qualcosa di inimmaginabile stava per succedere: due uomini avrebbero volato. Si sarebbero sollevati dalla terra a bordo di un enorme pallone di seta riempito di un gas più leggero dell’aria. Il sogno proibito dell’umanità si stava realizzando. La mongolfiera si librò a mille metri da terra e attraversò il cielo, percorrendo dodici chilometri. Fu un’impresa epocale che tracciò un confine tra il prima e il dopo.

Le mongolfiere, però, hanno un grave limite: sono guidate solo dalla forza del vento. E dovettero cedere il passo e mezzi più efficienti. Perché l’uomo vuole decidere dove andare.

Tutti noi siamo aerei a motore con le con le nostre belle rotte impostate. Alcuni sono vecchi catorci della prima guerra mondiale, con i motori rotativi e la fusoliera di tela e legno. Altri sono jet a decollo verticale invisibili ai radar, che rompono il muro del suono. Alcuni sono apache pronti alla guerra. Altri sono cargo che si portano in giro il loro pesante carico. A volte siamo i piloti, a volte ci muoviamo con il pilota automatico.

Tutti facciamo il possibile per arrivare in fretta dove dobbiamo arrivare, spesso dimenticandoci perché ci stiamo andando. Abbiamo i satelliti a dirci cosa combinerà il meteo, sappiamo quanto forte soffierà il vento e in che direzione, se la pista sarà ghiacciata, quanto carburante consumeremo e quanti minuti potremo recuperare in caso di ritardo.

Le mongolfiere, invece, ci ricordano che a volte dobbiamo lasciare che la vita vada dove vuole. A volte dobbiamo lasciarci trasportare dalla corrente ascensionale senza cercare uno scopo, ma solo godendo del paesaggio. A volte dovremmo dimenticarci dei comandi e degli strumenti, e assaporare il viaggio e quello che ci può insegnare».

Gli occhi color ghiaccio siderale della ragazza lo fissavano in silenzio.

«Farò in modo di recapitarle quanto le devo», disse poi.

«Lo so» rispose il vecchio, porgendole la busta che conteneva le mongolfiere.

Lei afferrò la busta con una mano, con l’altra mano prese la mano del ragazzo e si voltò verso l’uscita. Le lanterne volanti erano ormai puntini minuscoli nel buio del cielo.

Si confondono con le stelle, pensò la ragazza.

Quella ragazza ha le stelle negli occhi, pensò il vecchio, mentre la guardava uscire trascinandosi dietro la mano del ragazzo e tutto il resto.

Si sarebbero rivisti ancora, ne era certo.

Bastava solo lasciarsi portare dal vento, come fanno le mongolfiere.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Intervista ad Arianna Bettin


NOTA della REDAZIONE.

Sebbene  Flickr sia un contenitore inesauribile d’immagini è sempre difficile scovare una fotografia che visualizzi perfettamente lo specifico scenario evocato in un racconto da un’autrice visionaria o un’autore assai fantasioso; talvolta ci dobbiamo accontentare di scatti che siano appena appena pertinenti ai racconti che andiamo a commentare. D’altra parte è risaputo che la forza della finzione letteraria è pari (e talvolta anche superiore) alla sola costruzione onirica … ma quando ci siamo imbattuti nell’immagine di copertina di questo racconto ci siamo detti subito: “E lei, perbacco!”.

La fotografia in questione non era scaricabile liberamente dal sito e anzi la didascalia a margine minacciava di non utilizzarlo previo esplicito consenso dell’autore, Angelo Cesare Amboldi. Dunque, senza pensarci un solo istante, abbiamo prontamente lo abbiamo contattato.

Eravamo certi che, proclamando il taglio squisitamente culturale del nostro sito e l’assoluta mancanza di fini commerciali, il sig Angelo ci avrebbe concesso il suo benestare senza alcuna restrizione, salvo citare il suo nome e il luogo dello scatto.

E abbiamo atteso. E abbiamo atteso la sua risposta. E abbiamo atteso ancora anche se in cuor nostro nasceva il dubbio che forse l’autore non “voleva” oppure non “poteva” risponderci. 

Purtroppo, alcuni giorni dopo,  la nostra seconda congettura ha avuto una drammatica conferma quando, dando in pasto al noto motore di ricerca il nome del fotografo, ci siamo imbattuti nel titolo. “LA PERSONALE POSTUMA DI ANGELO CESARE AMBOLDI”. La notizia era nella sezione news del giornale della città dove risiedeva sig Angelo. Risaliva al dicembre 2013. 

A questo punto ci siamo sentiti in dovere di pubblicare questo mirabile istante di vita catturata da ANGELO CESARE AMBOLDI e dalla sua macchina fotografica, se non altro per onorarne la memoria nonché le magnifiche capacità di cogliere l’attimo fuggente.

Non ce ne vogliano perciò gli eredi o i legali rappresentanti del sig Angelo se, a margine della suo scatto e nella certezza che nulla avranno da obiettare, ci limiteremo a pubblicare questa didascalia:

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fotografia di ANGELO CESARE AMBOLDI, “Flying lanterns”, scattata il 18 dicembre 2011, dal sito web www.flickr.com 

TU-22, OVVERO: COSA POTREBBE MAI ANDARE STORTO?


Quando ero piccolo c’era un cartone animato che si chiamava Mr. Magoo. Costui era un vecchietto con grossi problemi di vista a cui, ciononostante, per una serie di incredibili e assurde coincidenze, andava tutto bene.

La storia è pressappoco questa con la differenza che Mr. Magoo era un cartone animato ma il Maggiore Mikhail Chizhov è stata una persona in carne e ossa.

Perché questa è una storia vera. Verissima. Desecretata solo dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Non è molto pubblicizzata, visto la pessima figura che hanno fatto, e in giro si trova pochissima documentazione che è, ahimè, perlopiù in lingua russa.

Era il 24 aprile 1983 e, come spesso accadeva in quei tempi, c’era stata un’esercitazione che aveva coinvolto ben sette reggimenti di bombardieri strategici. L’operazione era stata un successo. Erano andati a “distruggere” in maniera fittizia un bersaglio ed erano tornati tutti insieme all’aeroporto di Mozdok. In ogni caso, trasferire sette reggimenti in un aeroporto remoto da diverse basi permanenti non è un compito facile. E diventa ancora più difficile nel momento in cui, oltre agli equipaggi e ai tecnici, c’è una pletora di ispettori con vari gradi e posizioni, compresi numerosi Colonnelli e Generali.

Insomma: c’era la crème dell’«intellighenzia» sovietica, più per mettersi in mostra che per una reale necessità.

E cosa si fa dopo un successo? Si bevono fiumi di vodka! In fin dei conti cosa potrebbe mai andare storto?

Ma lasciamo perdere la parte politica e occupiamoci della parte operativa: in particolare seguiamo uno dei tanti Tu-22, bombardiere strategico con base a Baranovichi, Bielorussia, che faceva parte del 203imo reggimento.

Apriamo una piccola parentesi sulla storia di questo reggimento che non era ben visto in generale dagli altri piloti per i suoi passati. Prima era stato nominato “reggimento sotto spirito” a causa del fatto che i Tu-22 avevano una riserva di 160 litri di alcool necessaria al funzionamento dell’aria condizionata. Molti equipaggi, durante i voli, la tenevano spenta e pativano il caldo pur di non consumare l’alcool. La parte non usata durante il volo veniva spesso contrabbandata a terra come vodka. E da questo fatto nacque il nomignolo di “reggimento sotto spirito”.

Poi, durante un atterraggio di fortuna, uno dei Tupolev, sempre del 203imo reggimento, si scontrò contro un treno che portava delle galline surgelate, distruggendolo completamente e carbonizzando i poveri animali già morti. Da quel momento il 203imo reggimento divenne per tutti il “reggimento alla griglia”. Ma tutte queste strane avventure non sarebbero bastate: stava per accadere qualcosa di veramente assurdo.

Torniamo al nostro aereo, un grosso bombardiere strategico con tre uomini di equipaggio.

Il Tu-22 che ci interessa aveva a bordo un operatore radio, il Sottotenente Merzlikin Vyacheslav Ivanovich, un navigatore, il Capitano Drozdetsky S.M. e infine il pilota, il Maggiore Chizhov Mikhail Fedorovich.

Tra tutti gli equipaggi, gli ispettori e i rappresentanti politici, come detto prima, la vodka scorreva a fiumi.

– Maggiore: ancora un bicchiere? – chiese il Capitano Drozdetsky.

– No, grazie. Sono a posto.

– Maggiore, forza! Brindi con noi: l’esercitazione è finita. Cosa potrebbe mai andare storto?

– Nulla, naturalmente. Solo che devo scrivere un po’ di scartoffie per il Partito. Sai: le solite cose.

– E non si può aspettare domani?

– No: i rappresentanti partiranno domattina all’alba e noi nel pomeriggio. Quindi devo fare tutto entro stanotte.

– Capisco: prima il dovere. – e mentre diceva questa frase il Capitano Drozdetsky alzò il suo bicchiere e bevve.

Nella grande sala festosa, a un certo punto, salì su di una sedia il Colonnello Tatarchenko: – Un attimo di silenzio per favore. – gridò a voce alta.

Tutti si zittirono.

– Devo fare un importante annuncio. Come prima cosa vorrei complimentarmi con tutti voi per l’incredibile performance della precedente esercitazione.

Dal pubblico partì un applauso e grida di gioia.

– Silenzio, per favore. Pur essendo stata solo un’esercitazione mi preme mettervi nuovamente tutti alla prova. Nella realtà potrebbe accadere che il nemico si sia riorganizzato nello stesso giorno con una portaerei nel mar Caspio. Il vostro compito sarà quello di andare lì e distruggerla. Il vento sta cambiando direzione rapidamente ma, se non ci saranno variazioni, partirete da Ovest e vi sarà dato un piano di volo da seguire alla lettera. Ora potete andare a riposarvi brevemente: il Generale Efimov è già in volo qui da noi e inizieremo quando lui sarà arrivato.

Nella platea era calato il silenzio misto a delusione: un’altra esercitazione.

L’operatore radio Merzlikin disse allora al Maggiore Chizhov: – Questa non ci voleva. Speravo proprio di tornare a casa domani.

– Tranquillo Ivanovich: faremo bene anche questa prova e dopodomani saremo a casa: cosa potrebbe mai andare storto?

– Ha ragione, Maggiore.

– Bene: ora tu e il Capitano andate a dormire un po’. Io scrivo qualche rapporto e poi vi raggiungo. L’appuntamento è per l’una e mezza di notte nella sala tattica. Riposatevi che domani la nottata sarà lunga.

– Non si stanchi troppo Maggiore.

Il Maggiore Chizhov scrisse diverse relazioni consegnandole ai vari politici lì presenti. Alle 22:00 precise raggiunse i suoi due compagni di volo e si addormentò come un sasso.

Arrivò anche il 24 aprile 1983: notte fonda. I controllori di volo diedero il piano dell’esercitazione a tutti. Senza troppa fretta, tutti gli equipaggi si avviarono ai rispettivi velivoli. Ed ecco il primo problema: in quelle zone il vento cambia il verso in cui soffia in maniera molto repentina ed è molto intenso. E così accadde. Il servizio di navigazione e la direzione del reggimento pensarono bene di modificare le istruzioni di prevolo.

Dunque, a causa del vento, venne decisa una variazione di rotta solo al decollo: il resto sarebbe rimasto uguale. Nulla di strano; anzi, tutto nella norma. Ciò che non era nella norma fu il modo in cui venne notificato questo cambio, ovvero a voce, a piedi, correndo dietro agli equipaggi.

Da lontano, mentre il navigatore stava parlando di cose frivole con gli altri due, uno degli addetti che dovevano avvertire di tale cambiamento urlò: – Equipaggio del numero 63: dopo il decollo virate a Est e non più a Ovest. Capito?

Il navigatore, che non aveva prestato assolutamente attenzione a quanto avesse detto quel controllore di volo, rispose: – Grazie. Ci vediamo presto.

Il Comandante chiese: – Cosa ha detto? Con tutto quel rumore non ho capito nulla.

– Niente di importante, Maggiore. Ci ha augurato buon viaggio e buona fortuna.

Questo secondo volo avrebbe dovuto svolgersi in rigoroso silenzio radio, conformemente al compito dell’esercitazione e ciò spiegava e giustificava il fatto di aver comunicato la variazione solo a voce e di persona.

Purtroppo, il navigatore, il comandante e l’operatore radio del nostro Tu-22, per la negligenza del Capitano Drozdetsky, non recepirono tale cambiamento.

Quindi, l’incuranza del navigatore fece sì che la rotta impostata sarebbe stata speculare rispetto alle modifiche, con un errore di 180 gradi esatti.

Ed ecco il secondo problema con una piccola spiegazione: in quegli anni l’aviazione sovietica, per le rotte, non usava il sistema di gradi rispetto al Nord magnetico ma un loro sistema chiamato “ortodromico”. Ovvero il punto di partenza, qualunque esso fosse stato, diventava il Nord relativo e tutte le rotte sarebbero partite da questo punto fittizio.

Il volo prevedeva lo svolgimento in silenzio radio e quindi nessuno era a conoscenza dei cambiamenti né nessuno li avrebbe mai avvertiti.

L’ora “X” si avvicinò e tutti gli squadroni erano pronti alla partenza.

Ogni aereo, al decollo, avrebbe seguito semplicemente la scia luminosa dei reattori del velivolo precedente e si sarebbe levato in cielo e non ci sarebbe stato nessun problema.

In fin dei conti che cosa sarebbe potuto andare storto?

Dietro agli schermi radar dell’aeroporto si trovavano i Generali e gli ispettori che erano venuti per sorvegliare l’esercitazione. I veri controllori del traffico aereo erano stati allontanati per permettere a tutti questi ficcanasi di assistere allo spettacolo.

Il dubbio, più che lecito, era: ma costoro, i Generali e gli ispettori, dove stavano guardando? Nessuno si era accorto che tutti gli aerei si stavano dirigendo a Nord tranne uno, che si stava dirigendo a Sud?

Ormai la frittata era fatta; un solo Tupolev era in volo da quasi un’ora, nella direzione sbagliata.

I Generali e gli ispettori a Mozdok non se ne erano resi conto ma il centro radar di Tbilisi, sì: se ne era ben accorto! Che cosa ci faceva questo aereo senza transponder acceso, da solo, nel nulla, a quest’ora della notte?

Alle ore 2 e 48 minuti del 24 aprile 1983, il centro di controllo del traffico aereo di Tbilisi informò il posto di comando della difesa aerea della presenza di un velivolo non identificato.

Alle ore 2 e 53 minuti i caccia decollarono dall’aeroporto di Saidar per intercettarlo.

Intanto a bordo del Tu-22, il Comandante, guardando il suo orologio, disse: – È ora di far partire le contromisure elettroniche, come da programma.

– Ma chi vuole che ci segua a quest’ora? – replicò il navigatore.

– Non importa: il programma dice così e noi faremo così. Contromisure!

L’operatore radio impostò il sistema: – Interferenza passiva KDS-16 TM con programma continuo, intervallo 0,3 attivato, Signore.

– Molto bene.

Esattamente in quel momento, i due piloti da caccia che stavano inseguendo il Tu-22, che era quasi sul radar dei loro missili aria-aria, non riuscirono più a localizzare l’aereo intruso e, dopo qualche minuto, abbandonarono il bersaglio.

Continuando (senza saperlo) sulla rotta sbagliata, il Tu-22, alle ore 2 e 58 minuti attraversò in tutta sicurezza la frontiera di stato tra URSS e Iran.

Dopo aver passato il confine, il velivolo finì esattamente, per puro caso, sull’aerovia internazionale e quindi nessuno prestò molta attenzione a quello che poteva essere benissimo un aereo civile diretto da qualche parte.

– Ragazzi: come va laggiù? – chiese il Comandante.

– Bene. Un po’ assonnati ma bene. D’altronde: cosa potrebbe mai andare storto?

– Già: una passeggiata. Su: cercate di non dormire che tra un po’ finiremo questa esercitazione.

Raggiunto il waypoint (sbagliato) il navigatore ordinò la virata e poco dopo passarono sopra una grande città illuminata.

– Siamo sopra Kursk. – disse il Comandante – Navigatore: ormai ci siamo. Tracciami una nuova rotta per il bersaglio, lo bombardiamo e ce ne torniamo a casa.

– Agli ordini, Maggiore.

– Comunque me la ricordavo diversa Kursk. – aggiunse il Comandante.

Ed era ovvio che se la ricordasse in maniera differente dato che si trovavano sopra Teheran e non a Kursk. Ma a “Mr. Magoo” Chizhov ancora una volta la fortuna arrise. In quel giorno a Teheran, c’era stata una grandissima festa pubblica e, diciamolo, i controllori di volo, specie a quell’ora della notte, non è che si stessero ammazzando di lavoro dato che ignorarono bellamente il nostro Tu-22 che proseguì verso il suo “bersaglio”.

Dopo un po’ l’aereo sorvolò la base aerea iraniana di Mishhad (senza immaginare di esserci sopra) e qui il navigatore si preparò per l’esercitazione.

Ma non tutti facevano festa come a Teheran: infatti la cosa non passò inosservata alla difesa aerea iraniana.

– Velivolo sconosciuto in area. Tutti ai posti di combattimento. Pronti con i missili terra aria. Identificare le coordinate del bersaglio e abbatterlo. Svelti! – urlò ai suoi uomini il Capitano responsabile della contraerea di Mishhad.

Ma ci fu un nuovo colpo di scena: in quel preciso momento, alle 3:30 di notte, in quella zona, si verificò un tremendo terremoto e, per volontà del destino, il Tu-22 continuò il suo assurdo volo. Gli iraniani pregarono Allah e chiesero di non far più tremare la terra, dimenticandosi dell’intruso.

A bordo, invece, non sospettando nulla, nessuno pregò nessuno.

Tanto: cosa potrebbe mai andare storto?

Qui il navigatore diede l’ordine di cominciare la discesa e di dirigersi nella zona, pensando di trovarsi vicino a Baranovichi, dove avrebbero dovuto trovare il bersaglio.

Ma il comandante disse: – Montagne? Non dovrebbero esserci le montagne a Baranovichi. C’è qualcosa che non quadra: non scendiamo finché non avrò capito dove siamo.

Nella mente del Maggiore Mikhail Chizhov cominciarono a venire i primi dubbi sulla posizione e infatti diede l’ordine di girare in tondo finché non si fosse chiarito il tutto.

– Rompiamo il silenzio radio. Ivanovich: accendi tutto e inizia a chiamare.

E fu così che l’operatore radio ruppe il silenzio imposto e provò a chiamare sul canale 1, sul 5 e sul 20.

Nessuno rispose.

Il motivo? Era semplice: si trovavano in Iran e non in Russia.

– Ivanovich: prova con la procedura “Komet”. Sai cos’è, vero?

– Sì, Comandante. Serve per le navi e gli aerei che sorvolano il Polo Nord. Grazie alla triangolazione, riescono a darti una posizione approssimativa.

– Scusa Ivanovich: è ovvio che tu lo sappia. Sei l’operatore radio. Perdonami: è la stanchezza.

– Nessun problema, Comandante.

– Riprova ancora una volta, riprova due volte, riprova tre volte e, se servisse, riprova cento volte.

– Sì, Comandante.

Intanto l’aereo continuava a girare in tondo e il tempo passava.

E si cominciavano a vedere i primi bagliori dell’alba.

L’alba? Beh, sì: ormai erano quasi le 5 del mattino.

Ma che diamine! Il sole stava sorgendo a Ovest!

E questo è impossibile!

– Ragazzi: – disse il Comandante – non so cosa stia succedendo ma se quello è l’Ovest che in realtà è l’Est significa che stiamo andando maledettamente verso Sud. Ora noi mettiamo la prua a Nord e ci allontaniamo il più possibile. Non so come ma siamo finiti dalla parte opposta.

Il navigatore rimase zitto e non disse una parola.

– Ivanovich: prova tutte le frequenze normali, d’emergenza, civili e la Komet.

– Sì, Comandante. – rispose l’operatore radio mentre chiamava ancora e ancora e ancora attraverso tutti i canali, chiedendo aiuto a tutti coloro che potevano ascoltarli.

Ma dall’altra parte c’era solo silenzio.

Fortunatamente per loro qualcuno, alla fine, rispose: era un controllore del traffico aereo dell’aeroporto di Mary-1, una piccola base militare in Russia, vicino al confine con l’Iran.

Il carburante era agli sgoccioli; l’indicatore aveva quasi raggiunto il livello minimo.

– Grazie per aver risposto, aeroporto di Mary-1: quanto siamo distanti da voi?

Il controllore rispose: – Il nostro radar ha una portata di 200 chilometri. Bene: voi non siete ancora in vista. Continuate diritti e poi scendete per l’avvicinamento. Faremo alzare in volo due aerei per indicarvi la strada.

Il Comandante, un po’ più rincuorato, disse all’equipaggio: – Ormai è fatta ragazzi. Ci manderanno un paio di caccia per scortarci sino alla pista. Allegri! Cosa potrebbe mai andare storto?

Due caccia si levarono subito in volo. Peccato che uno dei due si scordò di accendere il suo dispositivo IFF[1].

Il risultato fu che un aereo si mise a inseguire l’altro nelle vicinanze, senza mai poter raggiungere il nostro Tupolev e dunque la cosa fu di una inutilità pressoché totale.

Ma ormai il Tu-22 era in vista dell’aeroporto.

– Ivanovich: – disse il Comandante – non mi fido. È tutto molto strano. E se fosse una trappola di qualche nemico che non riesco a identificare per prenderci l’aereo e studiarlo?

– Non credo, Comandante. E cosa avrebbe intenzione di fare?

– Diamo prima un’occhiata a bassa quota. Se capiremo di essere in un qualche territorio nemico, mi alzerò sino a 3.000 metri, voi vi getterete col paracadute e io farò schiantare l’aereo così non potranno studiarlo.[2]

Infatti, in vista dell’aeroporto, Chizhov passò a bassissima quota ma non atterrò.

Per fortuna, tutto intorno, c’erano solo aerei con la stella rossa, ma anche quello avrebbe potuto essere un trucco. Il Comandante si convinse definitivamente di essere tornato in Patria quando vide un aviere con la camicia completamente sbottonata e la cintura dei pantaloni che arrivava sino alle ginocchia, tutto intento a bere qualcosa da una bottiglia.

– Solo un russo si comporterebbe così. Signori: siamo in Russia! Preparatevi per l’atterraggio.

Il grosso Tupolev, con il serbatoio completamente all’asciutto, finalmente atterrò e l’equipaggio, l’aereo e gli armamenti erano sani e salvi.

O no?

Cosa sarebbe mai potuto andare male?

Una volta a terra, si accese una spia degli armamenti. Il pericoloso missile KH-22 che trasportava il bombardiere, durante la riattaccata, si era surriscaldato in maniera anomala e aveva creato qualche preoccupazione. Ma fu una questione solo di pochi minuti e tutto ritornò alla normalità.

– Ce l’abbiamo fatta, Comandante. Siamo salvi. – disse l’operatore radio – Ormai cosa potrebbe andare storto?

Cosa potrebbe andare storto?

Ahimè: tutto.

Dopo questa storia assurda, che vorrei ripetere ancora una volta è reale, vennero fatte molte indagini e ricerche con le seguenti conclusioni.

Non era credibile che un aereo sbagliasse completamente rotta.

Non era credibile che gli intercettori, preposti per la difesa dei confini, si siano lasciati scappare un aereo così grande, con un’apertura alare di 23 metri e lungo oltre 40 metri.

Non era credibile che in Iran nessuno avesse provato ad abbatterli.

Non era credibile che fossero riusciti a rientrare ancora una volta attraverso i confini russi senza essere visti.

Non era credibile che nell’ultimo “scramble[3]” i caccia si fossero inseguiti tra di loro e avessero perso il loro obiettivo.

Non era credibile nulla di tutto ciò, specie durante un’esercitazione dove erano presenti più Generali che aerei.

Successivamente, uno dei due piloti decollati da Saidar per intercettare il Tupolev, volle andare a parlare con tutto l’equipaggio e chiese loro: – Cosa avete fatto dato che all’improvviso, mentre vi stavamo inseguendo, l’intero schermo radar si è illuminato con molti bersagli?

Chizhov spiegò che, per puro caso, in quel momento aveva avuto l’ordine, seguendo il piano di volo, di accendere esattamente a quell’ora un disturbatore radar non sapendo ovviamente di essere inseguito.

– Ecco perché non vi ho abbattuto e ho dovuto segnalare che l’obiettivo era scomparso tra le montagne!

Poi, un mese e mezzo dopo, anche il capo delle comunicazioni del reggimento, il Maggiore Linnik, andò dall’equipaggio e chiese all’operatore radio: – Eravate voi a chiamare il Komet usando il nominativo RMVTSF?

Ivanovich rispose: – Sì. Eravamo noi ma nessuno ci ha mai risposto e io ho provato credo almeno un centinaio di volte.

– Caro Ivanovich, ti hanno sentito benissimo. Forte e chiaro. Ma non sono riusciti a capire il motivo per cui un aereo che non si trovava al Polo Nord ma proprio all’opposto, in Iran, avrebbe dovuto contattare il nostro sistema di geolocalizzazione polare. Continuavamo a dirsi tra di loro che tutto questo non poteva essere né vero né logico. Non vi hanno mai risposto poiché pensavano potesse essere una provocazione o un trucco del nemico.

Ma la storia non finisce qui.

Come prima cosa il 203imo cambiò il suo nomignolo in “reggimento Teheran” e poi, in seguito a quel volo, dopo una lunga serie di indagini, circa 2.000 (duemila) persone furono punite, rimosse dagli incarichi, congedate, arrestate o licenziate dall’Aeronautica Militare e dalla Difesa Aerea. E non si guardò in faccia a nessuno: dall’aviere semplice al Generale blasonato.

Il Comandante Chizhov fu messo sotto torchio per un anno e mezzo.

Si congedò lui stesso alla fine e non volò mai più. Lavorò come ingegnere aeronautico in una fabbrica vicino Baranovichi ma, purtroppo, dopo appena un altro anno morì d’infarto per il dispiacere.

L’operatore radio venne degradato e dovette ricominciare da capo tutta la sua carriera.

In tutto questo marasma ci fu uno e uno solo che si salvò: il navigatore. Colui che non sentì gli ordini e colui che non prese nessuna decisione durante il disastroso viaggio. I suoi «santi protettori» dovevano essere molto influenti. Incredibilmente potenti.

E quindi risulta essere l’unico che poté dire a cuor leggero: “cosa potrebbe mai andar storto?”


In ricordo del Comandante Maggiore Mikhail Chizhov.


[1] Identification friend or foe o IFF, in italiano, identificazione amico o nemico, indica un sistema automatico elettronico di riconoscimento amico-nemico progettato per le funzioni di comando e controllo. Si tratta di un sistema che permette, mediante un’interrogazione, di identificare un bersaglio e determinarne la distanza dall’interrogatore. (Da Wikipedia)

[2] Il motivo per cui il Comandante debba prima portare l’aereo a 3.000 metri per far espellere i due membri dell’equipaggio è dovuto al fatto che chi progettò quel velivolo era dedito più alla vodka che all’ingegneria aerea: infatti i seggiolini eiettabili anziché andare verso l’alto come nel 99% dei casi, andavano solo verso il basso e dunque si sarebbero potuti salvare esclusivamente oltre una certa quota.

[3] Lo scramble (o scrambling) è un termine militare che definisce l’atto di far decollare un caccia intercettore per intercettare e identificare un aereo sconosciuto. (Da Wikipedia)



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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NOTE: nell’immagine di copertina il cockpit pilota del Tu-22 Blinder (proveniente dal sito web https://tu22.ru/)

Antoine de Saint-Exupéry. La profonda meditazione del volo.

“Il mare diventa sempre più sporco ogni giorno che passa”, pensò il pescatore quando vide quel pezzo di ferro impigliato nella sua rete. Perdeva sempre un sacco di tempo, dopo l’attracco al porto, per pulirla. Era fine settembre e quello che si ritrovò tra le mani, callose e infreddolite, non era il solito ciarpame senza valore. Tra le maglie della rete era rimasto incastro un braccialetto d’argento con delle parole incise sopra: “Antoine de Saint-Exupéry, Consuelo, Reynal and Hitchcock. Inc. – 386 4th Ave. N.Y. City USA”.

Lo scatto che immortala il grandissimo scrittore francese a bordo di un velivolo militare perchè è così che ci piace ricordare ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY: uno dei pochissimi piloti-scrittori al mondo che ha lasciato il segno indelebile della sua arte narrativa nella storia della letteratura mondiale  (foto proveniente dal web) 

Antoine Jean-Baptiste Marie Roger de Saint-Exupéry, detto Tonio: già dal nome s’intuisce come non appartenga a una classe sociale di bassa levatura. La famiglia, di antico blasone, fa parte di quella nobiltà che, lontana dalla capitale Parigi, spadroneggia o vivacchia, secondo dei casi, nella lontana provincia francese della fine del 1800.  Tonio emette i primi vagiti il 29 giugno 1900 a Lione, dove il padre, Jaen de Saint-Exupéry, e la madre, la nobildonna Marie Boyer de Fonscolombe, si erano conosciuti. Gli avi di Jaen e Marie, che sono fra loro anche lontani parenti, hanno raggiunto posizioni di estremo prestigio in seno alla società: sono stati ufficiali dell’esercito, arcivescovi, cavalieri, ciambellani di corte e musicisti. Antoine però non se ne farà mai un vanto.

«L’oscuro parco di abeti e tigli […] il regno segreto […] il mondo interiore di rose e di fate»,

come lo descrive Antoine, è il castello in stile Luigi XVI di Saint-Maurice-de-Remens, a circa cinquanta chilometri da Lione, dove lui trascorre l’infanzia, sei mesi l’anno, dopo la morte improvvisa del padre che aveva lasciato la moglie Marie, vedova a ventotto anni con cinque figli.

Uno scatto memorabile che è stato consegnato alla storia dell’aviazione è quello che ritrare Antoine de Saint-Exupéry a bordo del formidabile P-38 Lightning attrezzato per fotoricognizione e con cui compì il suo ultimo volo (foto proiveniente da www.flickr.com) 

Antoine è molto innamorato della madre, lo sarà anche da adulto instaurando con lei una fitta corrispondenza. Il piccolo de Saint-Exupéry è un bambino vivace che sale di notte sui tetti o sveglia i familiari, travestito da fantasma, per legger loro in piena notte delle poesie da lui composte o drammi teatrali: un vero e proprio scapestrato che non vuole riconoscere nessuna autorità. Di giorno invece, si dedica anche alla musica e a progettare e  realizzare marchingegni come una bicicletta volante con motore a scoppio.

«Fantasioso e volitivo, Antoine non cambiò mai», ebbe modo di ricordare Moisie, la governate dei fratelli Saint de Exupéry. “Solo i bambini sanno quello che cercano”, dice il Piccolo Principe, “perdono tempo per una bambola di pezza, e lei diventa così importante che, se gli viene tolta, piangono…”, scrive Tonio, oramai adulto nel Petit Prince, il libro che lo ha eletto quel membro dell’olimpo dei grandi scrittori: quando viene dato alla stampe dall’editore francese Gallimard é il 1943 e la guerra sta dilaniando l’Europa, il nord Africa e il sud-est asiatico da oramai tre anni.

L’infanzia per Antoine è come l’avvistare, in una notte nebbiosa, un luogo sicuro d’atterraggio per sfuggire a una tempesta e dove posare le ruote del suo aereo.

“Questo mondo di memorie infantili mi sembrerà sempre disperatamente più reale dell’altro […] non sono sicuro di aver vissuto dopo l’infanzia”,

confidò a sua madre in una lettera del 1938.

Antoine scopre la sua passione per il volo a otto anni, all’ippodromo di Hunauddières, dove Wilbur Wright sta insegnando ai francesi come si governa quello strano oggetto fatto di tubi e tela, così sembrava agli occhi del giovanissimo Antoine quella buffa cosa con le ali, che per la prima volta mostra agli increduli spettatori un aeromobile che compie una virata e non si limita solo ad alzarsi in volo. Da quel giorno in avanti la Francia dominerà per quasi due decenni il mondo dell’aviazione.

Il piccolo Antoine sperimenta l’ebrezza di alzarsi in volo quattro anni dopo aver osservato Wilbur Wright a Hunauddières, lo fa durante un periodo di vacanza a Saint-Maurice. Decolla assieme al pilota Gabriel Wroblewski, un pioniere dell’aviazione nonché costruttore di aeromobili, dall’aviosuperficie di Ambérieu, la principale cittadina del Bugey, nella zona alpina non molto distante dal confine svizzero.

ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY nel suo ambiente più congeniale, ossia accanto all’immancabile velivolo (foto proveniente da https://biografieonline.it/biografia-antoine-de-saint-exupery)

A scuola Antoine non si era distinto per particolari doti: si era impegnato il giusto necessario, eccelleva solo nel disegno e nella poesia pur essendo la conoscenza della sintassi della lingua francese appena sufficiente. Il suo profitto migliora quando inizia a frequentare la scuola, con convitto, Villa Saint-Jean a Friburgo, a quindici anni. Tonio si è già fatto un ragazzone, alto un metro e novanta, robusto, dalle forti membra e con il naso a patata. L’atmosfera che si respira nella scuola, l’attenzione che gli insegnanti mostrano nei confronti degli allievi, hanno delle ricadute positive sul rendimento del futuro scrittore.

Tonio, a Villa Saint-Jean, legge molto e continua a scrivere poesie, ma anche lo sport, soprattutto il gioco del calcio, lo attira in particolar modo. Il teatro però rimane la sua vera passione e quando si tratta di parlare di argomenti che lo interessano, da taciturno diventa un conversatore arguto e pieno di risorse.

Nell’estate del 1917 un lutto colpisce la famiglia de Saint-Exupéry: muore François, suo fratello più piccolo. La madre pensa così di far viaggiare Antoine per rendergli più sopportabile il dolore, e così lo manda a trascorrere un po’ di tempo con i nonni a Le Mans; poi gli fa visitare la Bretagna e infine lo porta per un breve soggiorno nella Creuse, in Nuova Aquitania. L’interesse che nutre per lo studio della matematica convince Antoine a provare l’esame di ammissione all’Accademia Navale che però prevede la frequenza di una scuola preparatoria, il Lycée Saint-Louis a Parigi, dove stringe molte amicizie e diviene per tutti, Saint-Exu. È il 1917 e nella capitale francese conosce gli effetti della guerra, ma vive anche un periodo felice a contatto con molti parenti e amici della madre. La frequentazione più importante è però con la cugina Yvonne de Lestrange, una donna colta e intelligente, che si rivelerà determinate per la futura carriera letteraria di Antoine.

La fine della guerra segna anche la fine dei suoi propositi di arruolarsi nell’aviazione: nonostante gli sforzi nello studio, e la ripetizione dell’esame non riesce a entrare in Marina, come ci si sarebbe aspettato da un de Saint-Exupéry.

Con il braccio sinistro teso al cielo e lo sguardo fisso verso le nuvole, Antoine de Saint-Exupéry, pronto a decollare, siede sul piazzale antistante l’avverinistica stazione del TGV (i treni ad alta velocità francesi) dell’aeroporto di Lione mentre ai suoi piedi c’è un leone che accarezza affettuosamente con la mano destra. L’immensa statua in bronzo intende simboleggiare la trasmissione della conoscenza e del coraggio alle generazioni più giovani. (foto proveniente da www.flickr.com)

Nel 1920, dopo aver superato una crisi esistenziale Saint-Exu, senza arte né parte, vaga per Parigi da un bistrot all’altro, mantenuto dalla madre, che gli invia soldi regolarmente. Finge interesse per l’architettura e l’arte in generale. Era capace di non mangiare per un giorno intero, per poi partecipare a cene galanti; dorme in locande da poco prezzo oppure si sveglia nel letto di dimore di prestigio:

“Ciò che sarò fra dieci anni è l’ultima delle mie preoccupazioni”

ammette candidamente.

Nella primavera del ’21 parte per il servizio militare, in fanteria, come soldato semplice. Grazie alle conoscenze -anche allora contavano- spera di essere accettato al corso per allievo pilota. Nell’attesa, compie un volo turistico al costo di cinquanta franchi, allora non proprio alla portata di tutti, su di un Farman F 40 a doppi comandi. Subito dopo ne fa diversi altri:

“L’aereo danzava, beccheggiava, rollava… Ah, che roba!”

scrive alla madre quando sperimenta l’ebrezza del volo su di un biplano militare, lo Spad-Hebermont.

La sua voglia di volare è così tanta che infine, aggirando regolamenti di tutti i tipi, inizia a prendere regolari lezioni di volo che lo portarono a effettuare il primo decollo in solitaria, volando intorno al campo d’aviazione, dopo solo due ore e mezza di volo d’addestramento. È però costretto ad adempiere i suoi doveri di militare, è pur sempre sotto le armi, e a trasferirsi in Marocco dove continua  regolarmente a volare, compiendo voli anche di cinque ore. Scrive in una lettera:

“Se mi vedessi al mattino imbacuccato come un eschimese e pesante come un pachiderma, rideresti. Ho un passamontagna, aperto solo sugli occhi (…) e per di più sugli occhi, occhiali. Una grossa sciarpa al collo (…). Guanti enormi e due paia di calze nei miei grossi scarponi.”

 All’inizio del 1922, superati gli esami di ufficiale di riserva, rientra in Francia con in tasca, finalmente, il tanto sospirato brevetto di volo. È così si ritrova, in servizio nell’aeroporto di Avord, nella periferia di Bruges inquadrato nell’aviazione, infagottato in una divisa da pilota improvvisata, finché non gli é assegnata, mesi dopo, quella azzurra regolamentare.

Il velivolo modello Caudron C.630 Simoun con il quale lo scrittore francese visse il roivinoso atterraggio nel deserto e che gli fu d’ispirazione per la stesura de “Il piccolo Principe”. Quello ritratto è l’esemplare con le marche F-ANRO ed è gelosamente conservato presso le Musee de l’Air et de l’Espace di Le Bourget, Parigi. (foto proveniente da www.flickr.com)

Tra un volo e l’altro, prima sui Sopwith, poi sui Caudron C 59 e i Breguet 14, a Villacoublay continua a scrivere sonetti e a disegnare, sua antica passione. Verso la fine dell’anno ottiene il grado di sottoufficiale e viene trasferito al 34° reggimento d’aviazione all’aeroporto di Le Bourget a Parigi sotto i buoni auspici dei superiori che lo considerano

Ancora una bella immagine del Caudron C.630 Simoun conservato in Francia e la cui storia è legata indissolubilmente a quella di ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY (foto proveniente da www.flickr.com)

“fatto per essere un pilota da combattimento. Eccellente volatore. Ispirato”,

così scrivono nei loro rapporti. Antoine ha coronato uno dei sogni della sua vita: é felice, anche se ammette che l’ambiente militare, la caserma, non è il luogo ideale dove trascorrere l’esistenza per un uomo come lui: poco disciplinato, disobbediente, un poco infingardo; insomma fuori posto. Finché, proprio quell’anno, arriva, inaspettato l’amore, il grande amore: l’affascinante e intelligentissima e molto corteggiata Louise de Vilmorin. Poi un brutto incidente aereo, che uccide il passeggero che aveva preso a bordo, e il ferimento di Saint-Exupéry che pilota, senza autorizzazione, un Hanriot HD 14 lo costringono ad affrontare le sue responsabilità.

I genitori della sua fidanzata fanno così pressioni affinché Tonio abbandoni l’idea di diventare un pilota militare, e lui li accontenta, congedandosi, giacché erano trascorsi i due anni di servizio di leva, trovando impiego in una società che vende camion, e che lo costringe a girare in lungo e in largo la Francia. Ed è in questo periodo che, nella solitudine di anonime stanze d’albergo, inizia a riempire quaderni e taccuini con alcuni racconti e l’abbozzo del suo primo romanzo; si butta così a capofitto nell’impresa, travolto dall’urgente necessita di scrivere:

“Bisogna che piaccia, altrimenti non scriverò mai più nulla”

confida per lettera agli amici.

Nel 1926 esce il racconto L’aviatore, sulla rivista di letteratura Navire d’argent, diretta da Jean Prevost, che poi dichiarerà: L’arte dell’immediatezza e il dono di una certa veridicità mi paiono sorprendenti per un esordiente. Credo che Saint-Exupéry stia preparando altri scritti.”

L’avventura letteraria di Antoine prosegue tra alti e bassi; i sui testi suscitano interesse nell’ambiente letterario, ma tra promesse mancate e continui rinvii nella pubblicazione questi suoi primi racconti fanno fatica ad affermarsi, nonostante la sua grande ammiratrice, Yvonne de Lestrange, contatti, per un parere, anche André Gide.

Saint-Exupéry è amareggiato e pensa di abbondonare la carriera di scrittore:

“Non ho più alcuna voglia di scrivere. (…) Non pubblicare niente mi è assolutamente indifferente”

La statua di Antoine de Saint-Exupéry, collocata nella strategica Place Bellecour, nel centro della Presqu’île di Lione, regione Rhône-Alpes, in Francia è realizzata in rame ed è stata inaugurata il 29 giugno 2000 in occasione della celebrazione del centenario della nascita di Saint Exupéry a Lione il 29 giugno 1900. Essa rappresenta Saint Exupéry e il Piccolo Principe seduti in cima ad una colonna di marmo bianco. La colonna misura più di 5 metri e pesa 7 tonnellate. Sulla base sono presenti 3 frasi tratte dalla sua opera e sulla base l’ultima pagina del “Piccolo Principe”. (foto proveniente da www.flickr.com)

scrive alla cugina Yvonne. Ma è solo un momento di scoramento passeggero. Abbandonato il lavoro di commesso viaggiatore per la ditta di autocarri, inizia così a far la gavetta nell’aviazione civile, all’inizio come meccanico, nell’aerolinea Latécoère; un lavoro che lo appassiona e per cui è molto portato, come gli si riconosce. Poi passa ai comandi di uno dei Breguet 14, uno degli aerei militari, convertito in velivolo postale, della flotta della compagnia aerea. Intrapresa la carriera di pilota per la compagnia Latécoère -in seguito cambierà nome in Aéropostal per poi essere assorbita nell’Air France – volando tra il Marocco e il Senegal lungo la rotta costiera, Saint-Exupéry mette a frutto il materiale precedentemente elaborato e mai pubblicato per scrivere il suo primo romanzo Corriere del Sud.  La  prestigiosa casa editrice francese Gallimard farà uscire il libro nel 1929 e di cui Tonio aveva iniziato la stesura un anno prima quando si era ritrovato a ricoprire il ruolo di responsabile di scalo nel sud del Marocco per la compagnia aerea  Aéropostal.

Dopo quattro anni passati a volare in Nord Africa prima come pilota dell’Aéreopostale, poi in seguito con l’incarico di direttore della compagnia aerea a Buonos Aires, dove conosce la futura moglie, Consuelo Suncín Sandoval Zeceña de Gómez, Antoine è riuscito a pubblicare i suoi libri, tra cui Volo di notte:  quest’ultimo abbozzato su pezzi di carta anche mentre è in volo sui nuovi e più potenti Laté 26 sulle rotte pericolose, ma anche monotone, del Sud America. 

Il tipo di velivolo con il quale lo scrittore Saint Exupery visse una delle esperienze più drammatiche della sua carriera di pilota militare. L’Hanriot HD.14 iniziò a entrare in servizio con i diversi reparti di addestramento al volo dell’ARMEE’ DE TERRE nei primi anni ’20 e fu utilizzato principalmente per scopi addestrativi. Costituisce uno dei più grandi successi delle costruzioni aeronautiche francesi nel periodo compreso tra le due guerre in quanto ne furono costruiti poco più di 1900 esemplari solo ad uso e consumo della forza aerea transalpina sebbene l’ammontare complessivo degli esemplari prodotti superò abbondantemente i 2100 esemplari se si contano quelli costruiti su licenza in Polonia e in Giappone (foto proveniente da www.flickr.com)

Agli inizi degli anni ’30 è ormai uno stimato scrittore, osannato dalla critica per come é riuscito a rendere con uno stile sobrio e asciutto ma profondo, la vita avventurosa dei piloti che sorvolando i picchi andini in mezzo alle tempeste e alla nebbia, con venti che a volte superavano i cento chilometri l’ora: consideravano la consegna in orario della posta aerea come un compito cui avrebbero sacrificato la loro vita; è in effetti capitò a molti amici e compagni di Saint-Exupéry. Lui stesso sfiorò la morte, diverse volte su degli aeroplani robusti sì, ma non del tutto affidabili.

La crisi del 1929, con il crollo di Wall Street, le traversie finanziarie e la fine del sostegno economico del governo francese, che aveva negli anni ’20 reso possibile la conquista dei cieli della Francia, porta al fallimento dell’Aéropostal. È l’inizio dell’ultimo decennio di pace prima che una nuova guerra torni a dilaniare il mondo. Le prove per il nuovo conflitto vengono fatte in Spagna, è il 1936, durante la guerra civile da dove Antoine, che si trova in Catalogna, manda reportage per conto  del giornale Intransigeant. L’anno prima aveva tentato senza successo, precipitando nel Sahara, di raggiungere Saigon, assieme al meccanico e navigatore André Prévot, decollando da Parigi a bordo di un Caudron C630 Simoun. Stessa sorte capita ai due in un altro incidente, sempre a bordo dello stesso modello di aereo, quando nel 1938 compiono un atterraggio di fortuna in Guatemala.  L’anno dopo Académie française lo premia con il Gran Prix du Roman, per il suo ultimo romanzo Terra degli uomini che uscirà, con enorme successo, nel 1939;  

“L’aeroplano è una macchina, certo; ma che strumento di analisi! Grazie ad esso abbiamo scoperto il vero volto della terra”,

è l’incipit del capitolo 4 de L’aereo e il pianeta.

La New York Times Book Review definisce Terra degli uomini “uno splendido libro, un libro coraggioso che dovrebbe essere letto come antidoto alla confusione del nostro mondo”; ne parlano in maniera entusiasta la Saturday Review e l’Herald Tribune di New York; Terra degli uomini è per nove mesi al primo posto nelle classifiche di vendite con 150.000 copie vendute: il conto in banca di Saint-Exupéry lievita e lui, famoso spendaccione, non deve più preoccuparsi della sua mancanza cronica di denaro.

Quello stesso anno, il 1° settembre, Hitler scatena la guerra in Europa e le truppe della Wermacht invadono la Polonia, a seguire, due settimane dopo, l’esercito russo da est ne varca i confini. Saint-Exupéry si trova a Parigi quando è invitato a servire la patria. I primi di settembre si presenta, in uniforme, al campo d’aviazione di Touluse-Francazal.

Se camminando per le vie di Milano vi dovesse accadere di imbattervi in questo murales … beh, saprete subito di essere giunti in Via Angelo della Pergola perchè vi troverete di fronte all’incontro del PICCOLO PRINCIPE con il suo pilota (foto proveniente da www.flickr.com)

Con estrema sfrontatezza chiede di essere immediatamente arruolato, in qualità di comandante di una squadriglia da caccia, nell’Armée de l’Air, l’aviazione da guerra francese. Gli offrono invece, più modestamente di addestrare gli ufficiali di rotta; troppo anziano e con troppi acciacchi per pilotare un caccia: e lui accetta, anche se cercherà l’appoggio in alto loco per poter tornare a volare. I sui tentativi danno buon esito e così riesce ad ottenere un posto nel gruppo da ricognizione 2/33, che ha la sua base nella regione della Champagne. Compie in quel periodo diversi voli sui Potez e poi sui più moderni e grandi monoplani Block 174 e tra una missione e l’altra scrive e disegna, schizzando sui suoi taccuini un piccolo uomo con le ali e dall’aspetto regale seduto su di una nuvola.

L’universalità delle opere letterarie di Antoine de Saint-Exupéry è testimoniata dalla presenza di questa tabella segnaletica a contrassegnare una strada di … Berlino! E non già di una città francese qualsiasi (foto proveniente da www.flickr.com)

La Blitzkrieg nazista travolge anche l’esercito francese e i tedeschi, aggirando la Linea Maginot, entrano sul suolo di Francia. La squadriglia di Saint-Exupéry è a Orly; il 23 maggio del ’40 lo scrittore decolla da Meux, scortato dai caccia Dewoitine 520 per due missioni di ricognizione sul Passo di Calais: quelle due ore di volo, bersagliati dalla contraerea nemica, costituirono il nucleo fondante del romanzo Pilota di guerra: libro emblematico sulla caduta della Francia ma nello stesso tempo il ritratto, molto personale, del suo autore.

Nei mesi seguenti, quel che rimaneva dell’aviazione francese si sposta ad Algeri. Saint-Exupéry alla fine di luglio è congedato. L’Inghilterra rimane l’unica potenza europea rimasta a contrastare le mire espansionistiche del Fuhrer. Pilota di guerra, pubblicato negli Stati Uniti all’inizio del 42’, bissa il successo, di critica e di vendite, del libro precedente, Terra degli uomini. Ma Antoine, uomo d’azione ed eroe anticonvenzionale, la nuova vita negli USA gli pare senza scopo e insiste per tornare a pilotare un aereo da guerra.

Forse non tutti i nostri visitatori sono a conoscenza della notizia – e noi per primi non lo eravamo –  che: “Nella cittadina catalana del nord Sardegna, Alghero, c’è il MASE, il Museo dedicato all’autore de Il Piccolo principe, Antoine De Saint- Exupéry […]  Questo importante protagonista della letteratura del XX secolo visse proprio qui gli ultimi due mesi della sua vita, da maggio a luglio 1944, prima del tragico epilogo con la caduta del suo aereo. Antoine De Saint- Exupéry, infatti, era un pilota di aerei che collaborava con gli alleati americani. Il Museo, inaugurato a fine 2019, è stato allestito presso la Torre Nuova di Porto Conte a pochi km da Alghero, vicino Capo Caccia. L’autore-pilota visse in una villa proprio vicino a questa torre spagnola per muoversi in volo in esplorazione sul Mediterraneo, verso le coste francesi. Insieme all’amico fotogiornalista John Philips si mise a preparare un servizio per la rivista “Life”. Il Museo nasce dalla volontà di omaggiare lo scrittore che ha richiamato generazioni di lettori alla ricerca dell’essenziale, l’amicizia e l’amore.” (testo e immagine proveniente dal sito https://www.unsardoingiro.it/2020/09/alghero-museo-dedicato-antoine-de-saint-exupery/)

Con l’entrata in guerra degli Stati Uniti le commesse dell’esercito crearono una mole di lavoro impressionante e anche la Lockheed Aircraft Corporation ne trae enormi benefici economici. Già nel gennaio del ’39 il P-38 Lightning (Fulmine), compie il suo primo volo di prova. Era qualcosa mai visto prima: un aeroplano interamente metallico, di fatto costruito attorno a due potenti motori turbocompressi, dalle prestazioni molto elevate. Pesante armamento, la sua sagoma è inconfondibile e unica per l’epoca, con la fusoliera distribuita su due travi e la cabina di pilotaggio, di ridotte dimensioni e completamente vetrata, che pare una culla, ne fanno un aeroplano dalla tecnologia all’avanguardia. La stazza, da vero purosangue dell’aria. Ma la sua mole è anche il suo limite, come scopriranno presto i piloti in guerra, poiché è poco maneggevole e nei duelli con i più agili e leggeri monomotori ha spesso la peggio e così il P-38 viene destinato ad altri compiti, come il bombardamento e l’attacco al suolo, al naviglio o come scorta a lungo raggio ai bombardieri. Ed è su un Lightning da ricognizione, che Antoine Jean-Baptiste Marie Roger de Saint-Exupéry, detto Tonio volò in alto nel cielo e poi come il suo Piccolo Principe:

Ancora una bella immagine che mostra un angolo dei cimeli presenti nel MASE, l’unico museo italiano dedicato al grande scrittore francese che – lo ricordiamo – “in città visse gli ultimi significativi mesi della sua vita, festeggiando anche il suo ultimo compleanno. Qui il poeta aviatore, cullato dalle onde del mare, scrisse gran parte del romanzo LA CITTADELLA e il suo ultimo testo dal titolo “LETTERA A UN AMERICANO” (testo e immagine proveniente dal sito https://www.unsardoingiro.it/2020/09/alghero-museo-dedicato-antoine-de-saint-exupery/)

“Non gridò. Cadde dolcemente come cade un albero. Non fece neppure rumore sulla sabbia.”

 Alcune sue famose foto lo ritraggono proprio accanto al Lightning o al posto di pilotaggio, alle prese con centinaia di comandi, leve e indicatori, lui che aveva iniziato a volare su aeroplani che disponevano, al più, di un tachimetro, una bussola e di un altimetro.

Ancora uno scorcio del MASE che rende l’idea della circolarità del luogo (testo e immagine proveniente dal sito https://www.unsardoingiro.it/2020/09/alghero-museo-dedicato-antoine-de-saint-exupery/)

Poco distante da dove il pescatore marsigliese aveva trovato il braccialetto ci sono, a qualche centinaio di metri di profondità i resti di un Lockheed P-38 Lightning: il «diavolo dalla coda biforcuta», come lo hanno ribattezzato i tedeschi che all’epoca del suo abbattimento occupano la costa sud della Francia. Il grosso aereo da caccia è uno dei quarantadue ufficialmente scomparsi sui cieli della Francia del sud, quasi sicuramente tutti quanti abbattuti dai caccia o dalla contraerea nazista, a ridosso della linea costiera. Ma quello ritrovato adagiato sul fondale dal subacqueo Luc Vanrell nell’anno 2000, ha qualcosa di veramente speciale.

Da quel primo volo a Parigi su di uno Spad-Hebermont sono passati ventidue anni: Antoine Saint-Exupéry è molto cambiato, come pure l’aviazione, e ora ha quarantatré anni.

In giro per il mondo a Saint Exupéry sono dedicati numerose statue, busti, murales e dipinti vari, tutti a sottolineare l’affetto e l’ammirazione per la sua figura di uomo e di scrittore: ai giardini reali di Tolosa in Francia troveremo questa sfera terrestre dalla quale si erge tenendo in mano la sua creatura più leggendaria: il PICCOLO PRINCIPE (foto proveniente da www.flickr.com)

Però l’amore per il volo è rimasto immutato. Ha fatto i salti mortali per tornare in servizio attivo, ma cercano di fargli capire che è troppo anziano per pilotare un caccia. Lui non desiste. Rompe le scatole a tutti. Finalmente riesce ad ottenere un incarico come pilota di un P-38 ricognitore, privo di mitragliatrici.

A Lione, città legata a doppio filo con Saint-Exupéry, sulla facciata di un palazzo è presente questo affresco che in ligua francese si chiamerebbe “trompe l’oeil” e riproduce con una verosimiglianza strepitosa l’autore e il suo personaggio più famoso che cammina sul suo mondo assai particolare (foto proveniente da www.flickr.com)

Un anno prima, il 6 aprile del ’43, era uscito Il Piccolo Principe, che era stato preceduto dal romanzo bellico Pilota di guerra. Il nuovo libricino divenne subito un best sellers e colpisce molto favorevolmente anche i critici letterari: Orson Wells estasiato voleva acquistarne i diritti cinematografici.

Antoine de Saint-Exupéry  arriva, con la sua squadriglia 2/33 a Bastia nel luglio del ’44. I piloti prendono alloggio a Erbalunga, distante una decina di chilometri dal capoluogo. Nei giorni seguenti il suo compagno capitano Gavoille tenta invano di impedirgli di volare, dopo i tanti incidenti  cui Antoine è andato incontro: non riesce a dimenticare una frase: “Capitano, non mi dirà che conta di uscire vivo da questa guerra?», comparsa sulle pagine di Pilota di guerra. Cercano perfino con l’inganno di impedirgli di compiere quell’ultima missione. Nessuno dei presenti di allora si ricorda esattamente cosa successe. Tonio si presentò vestito con la tuta di volo e il paracadute stretto sotto il sedere. Lo aiutarono a salire la stretta scaletta appoggiata alla semiala del P-38. Come sempre fece un po’ di fatica, lui alto un metro e novanta, a entrare nello stretto abitacolo. Gli avieri avevano sistemato nel muso dell’aereo le macchine fotografiche, avevano rifornito il carburante e i motori erano già caldi. Antoine chiuse la cappottina e i finestrini laterali dell’abitacolo: anche questa volta non erano riusciti a impedire che lui volasse.

Il P-38 decollò alle 8.45, con l’obiettivo di sorvolare e fotografare la zona est di Lione. La traccia radar del Lightning di Antoine de Saint-Exupéry conduce verso le coste della Francia del sud. Il rientro era previsto per le 12:30. Era il 31 luglio del 1944. Un mese prima gli Alleati erano sbarcati in Normandia.

Non era la prima volta che Saint-Exupéry rientrava da una missione in ritardo. Il capitano Gavoille tentò di farlo contattare dalla torre di controllo, invano. I compagni di squadriglia sperarono fino all’ultimo che fosse atterrato, illeso, in Svizzera. All’ufficiale americano di collegamento non restò che annotare nel suo rapporto quotidiano, “Pilota non rientrato. Forse disperso”.

Il PICCOLO PRINCIPE è quel libro che non può mancare nella libreria di un’abitazione in cui scorrazzi un bambino o una bambina perchè è un vero, immortale e irrinunciabile classico della letteratura infantile (e non) che si regala loro quando hanno acquisito un minimo di capacità di lettura. E se non ci fosse quelli dei bimbi siamo certi che i loro genitori ne conserverebebro sicuramente una loro copia personale in un angolo segreto di quella stessa libreria. L’immagine che riportiamo rende vagamente l’idea di quante lingue e in quante versioni è stato pubblicato nel corso degli anni, a partire dalla prima pubblicazione. E’ uno dei libri tra i più venduti  e più tradotti al mondo, assieme alla Bibbia e al nostro LE AVVENTURE DI PINOCCHIO di Carlo Collodi ma IL PICCOLO PRINCIPE, all’indomani del 2015, non potrà che consolidare il suo primato in quanto si  sono sbloccati i diritti di traduzione consentendo a diverse Case editrici di pubblicarne una loro versione (foto proveniente da www.flickr.com)

Diversi giornali, come ad esempio il New York Times, scrissero della sua scomparsa, anche se in certi ambienti s’ironizzava sulla sua triste sorte. Molti, soprattutto i suoi amici più intimi, se lo aspettavano perché lui nel corso degli ultimi anni aveva alimentato la voce di questo suo desiderio di abbandonare presto questo nostro mondo.

Fu il subacqueo Luc Varnell, dopo quasi sessant’anni da quell’ultimo volo di Tonio, a ritrovare la carcassa incrostata del Lightning P-38 sul fondo del Tirreno.

Ad Antoine de Saint-Exupéry è dedicato l’aeroporto di Lione e il suo libro più famoso, Il piccolo Principe, uscito negli Stati Uniti nel ’43, è ancora oggi in testa alle classifiche di vendita di tutta Europa ed è diventato un classico della letteratura.

Ci piace chiudere questa biografia con una frase memorabile che ci ha regalato ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY: 

“Fate in modo che i vostri sogni divorino la vostra vita così che la vostra vita non divori i vostri sogni”



Biografia di Massimo Conti

Foto e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR


Nota della Redazione: La presente biografia viene pubblicata per onorare la memoria del grandissimio scrittore-aviatore in occasione degli ottant’anni dalla sua morte avvenuta il 31 luglio 1944. 


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #



Massimo Conti

La panchina


Era lì, seduto su quella panchina da un tempo indefinito. Sempre solo, sempre in silenzio.

Il vociare dei bambini che sfogavano le energie represse dalla vita ripetitiva della periferia cittadina, sembrava non riuscire a penetrare la barriera di totale indifferenza di cui, si circondava con malcelata soddisfazione.

Capitava a volte che qualcuno di quei bambini, giovani membri di una vecchia umanità, gli ronzasse attorno, oppure facesse, per caso o con sottile malizia, rotolare un pallone fino sotto ai suoi piedi.

Una volta, caso unico, rimandò con un debole calcio, il pallone tra i piedi di una bimba, rimasta li ad aspettare, che il pallone finito, chissà per quale scherzo del destino, sotto i suoi piedi, le fosse restituito.

Quando le prime giovani mamme, arrivavano seguite dalla rumorosa nuvola di scalmanati ragazzini, lui, era già li. Al centro di quella panchina. Davanti, un ampio prato, regno incontrastato di corse, capelli scompigliati, sudore e voglia di inseguire i sogni nelle forme perfette di una sfera di plastica.

Su di un lato, pochi alberi, nei giorni assolati e caldi, offrivano ombra a qualche coppia di studenti che giocavano a innamorarsi, e sognare una vita di giorni sereni e pieni di speranze.

Lui, silenzioso era li. Ogni tanto alzava la testa, smossa dal suono di un aereo che sorvolava quella parte di periferia.

Aveva capelli bianchi e un aspetto curato, serio, austero. Un onnipresente paio di occhiali da sole nascondeva occhi e parte del viso. Un paio di occhiali ampi, scuri, quelli dei piloti americani, giovani belli e baldanzosi protagonisti dei film di qualche secolo prima.

Solo nei giorni di pioggia o nelle le rare mattinate in cui la nebbia rendeva il cielo una miscela lattiginosa e imperscrutabile, solo allora non usciva di casa, e la panchina restava sola.

Quella mattina, trovò ad attenderlo, una sgradita sorpresa.

Non realizzò subito cosa accedeva, forse perché la mente, si rifiutava di riconoscere nell’ombra, le fattezze di un essere umano seduto.

Avvicinandosi, complice la luce limpida del sole alle spalle, dovette cedere alla verità. Qualcuno si era seduto, sulla “sua” panchina.

Si fermò un attimo a qualche decina di metri di distanza. La “sua “panchina e una donna stavano sconvolgendo il suo mondo. Chi osava appropriarsi di quello spazio?  Infiltrarsi così, senza pudore, in quello che rimaneva della sua vita…

Quel pensiero lo fece vacillare. Sentì come se l’universo avesse smesso di espandersi e ora l’inerzia avesse preso il suo corpo e cercasse di trascinarlo verso terra.

Oscillò intorno alla nuova posizione cercando istintivamente di correggere questa variazione nell’assetto e di assumere un equilibrio stabile.

Nonostante gli anni, reagì efficacemente, e in un millesimo di secondo riacquisì l’equilibrio perso. La donna, seduta sulla “sua” panchina si alzò e lo raggiunse con espressione contrita tendendogli una mano per sorreggerlo ma, nel tempo impiegato a percorre lo spazio che li separava, l’anziano aveva riacquistato l’equilibrio.

La donna si ritrasse, come leggendogli nel pensiero, che le intimava di non toccarlo, poiché lui, sapeva benissimo correggere una tendenza fosse all’imbardata o all’aumento dell’angolo di assetto.

Lei accennò un sorriso imbarazzato verso quello sguardo diretto, che seppure protetto da una coppia di vecchi occhiali da pilota, sembrava parlare. Ritirandosi mormorò un timido “Mi scusi” dolce e sincero. Poi si rimise seduta sul lato della “sua “panchina.

L’uomo si guardò intorno come per accertarsi che nessun altro lo avesse visto in quella situazione, poi guardando la “sua” panchina occupata per un terzo da quella ingombrante presenza valutò rapidamente il da farsi.

Non era una sua proprietà, e in fondo lei, era arrivata prima. Il sole illuminava il cielo, quella mattina terso e pulito. Il meteo del vicino aeroporto prevedeva sereno, vento debole da sud, temperatura di 18 gradi con un punto di rugiada di 8° e un QNH di 1026 hPa, accettò di condividere lo spazio.

Quella donna lo incuriosiva, si fece forza ed esternando una assoluta noncuranza, la guardò con malcelata attenzione.

Il volto dai lineamenti delicati incorniciava occhi grandi e luminosi. Nasino, leggermente all’insù, labbra sottili e regolari. Capelli ricci, lunghi fino alle spalle, la fronte ampia.

Sedeva con le gambe unite le braccia conserte appoggiate su di queste, sembrava la rappresentazione classica di una maestrina dell’Ottocento.

Sulle gambe, quasi nascosto dalle pieghe del leggero soprabito color pesca, teneva un libro, due piccole scarpette scure, senza un filo di polvere completavano il quadro.

Si avvicinò e con un filo di voce chiese: “Mi scusi signorina, posso?”

Indicando con un cenno della testa la parte libera della panchina. La ragazza lo guardò negli occhi sfoderando un sorriso aperto e luminoso.

“Certamente!” L’anziano temette per un attimo che avesse intrapreso la strada di una conversazione non richiesta.

“Mi scusi se ho occupato il suo spazio, mi sposterò e troverò un altra panchina libera, non si preoccupi.”

Non voleva spaventarla, un turbinio di pensieri affollò la sua mente, stava andando in disorientamento spaziale. E se avesse frainteso la richiesta di restare, come una ardita avance di un vecchio solo e desideroso di parlare?

Il tempo rallentò mentre faticava a seguire i pensieri e sentimenti contrastanti gli affollavano la mente. Era terrorizzato al solo pensiero, ora si sentiva confuso…

Il mondo impazzito si rovesciò su sé stesso una volta e ancora una e ancora e ancora mentre lui, tentava di combattere contro la forza che lo schiacciava sul Martin Baker e un istante dopo cercava di strapparlo dallo stretto abitacolo del caccia per scagliarlo contro la bolla in perspex schiacciandolo come un polipo sbattuto sul molo di un porticciolo dai pescatori. Il rollio rallentò, l’orizzonte riprese progressivamente la sua posizione naturale, sentiva di farcela. Riprese il controllo dell’orizzonte.

“La prego, se vuole resti pure, non mi disturba affatto.”

Disse indicando il lato libero della panchina e con una sorta di timido sorriso concluse:

“Mi siederò per un poco, se non la disturba”

Una sensazione di calore salì dal petto, cosi violenta e improvvisa che temette per un istante fosse un principio di infarto.

Era invece il segno inconfondibile, di un’emozione dimenticata. Stava arrossendo.

Troppo tempo era passato da quando aveva parlato con qualcuno.

Faceva la spesa, chiedeva il prezzo della frutta, si faceva tagliare gli affettati, salutava il vicino di casa sul pianerottolo delle scale, ma parlare, raccontare, sentirsi parte della vita e delle emozioni di un altro essere umano, non ricordava l’ultima volta che era successo. Si sedette sul bordo della panchina, pochi centimetri più in là e sarebbe caduto sul prato. Chinò lo sguardo verso terra dalla parte opposta alla donna, per nascondere il rossore accesosi inopportunamente sul suo volto.

Stava valutando l’ipotesi di andare via e lasciare quella situazione imbarazzante quando il sibilo del Ryanair delle 08:15 da Malpensa gli fece istintivamente alzare lo sguardo.

Stabile sull’ ILS per la pista 28 destra avrebbe fra pochi secondi riportato il marker, come richiesto dal controllore di avvicinamento…

 

Seduto nella posizione di sinistra nella cabina del 737/800, gli occhi fissi all’ADI, seguiva con attenzione il procedere del velivolo sul sentiero di avvicinamento strumentale. Era perfettamente allineato con il sentiero di avvicinamento e il velivolo seguiva ubbidiente le indicazioni. Con le mani sulle manette, impostò la riduzione della spinta necessaria a ridurre la velocità a 130 nodi. Mentre molto delicatamente aumentava l’assetto per portare le ruote al contatto nel modo più delicato possibile, la striscia scura della pista diventava ogni istante più grande…

Seguì con lo sguardo il velivolo che proseguiva sul suo invisibile sentiero l’avvicinamento e, con la coda dell’occhio, notò la donna, con il suo nasino all’ insù, che seguiva la traiettoria dell’aereo. Un caso? Una semplice curiosità? Lei, poteva non sapere che il parco si trovasse proprio sotto la traiettoria di atterraggio del vicino aeroporto.

Credette di riconoscere qualcosa in quello sguardo, una luce che non era certo dettata dal caso o dallo stupore.

Lei, seguiva le linee sinuose e seducenti, dell’aereo, come un orchestrale segue la bacchetta del suo direttore.

Il velivolo prosegui il suo avvicinamento attraversando il cielo sopra di loro. La donna si voltò verso di lui accennando un sorriso, aprì il libro sulle sue ginocchia e cominciò a leggere.

Come tutti i giorni seguirono il volo delle 09:30 da Bruxelles Charleroi e subito dopo quello da Catania Fontanarossa, quindi il volo da Milano in ritardo, come quasi tutte le mattine, poi seguirono un Falcon 900, un Gulfstream e un anziano King Air.

Ad ogni passaggio, lei interrompeva la lettura ed alzava lo sguardo al cielo, seguendo la traiettoria del velivolo. Quella mattina passò più in fretta del solito. Stessi marmocchi rumorosi, stesse mamme, stessi cani, stessi padroni.

Ma lei, era differente da tutta quella umanità cosi impegnata in piccoli problemi polverosi, da non alzare mai lo sguardo al cielo.

La donna, si alzò, come fosse suonata la fine delle lezioni.

Spolverò delicatamente la panchina dove si era seduta. Rassettò le pieghe del soprabito e salutò con un sorriso splendente.

“Buona prosecuzione della sua giornata! Spero non averla disturbata troppo!”

La sensazione di calore esplose più forte della volta precedente, temette ancora che il cuore andasse in stallo.

 

La turbolenza di quel temporale spostava di continuo l’aereo mettendone a dura prova la resistenza strutturale. Il radar meteo si era ammutolito, sembrava che la paura si fosse impossessata anche dello strumento lasciandolo a decidere il da farsi da solo.

Il de-ice lavorava infaticabilmente distaccando piccoli iceberg dalle superfici delle ali, mentre le eliche lanciavano pezzi di ghiaccio sulla fusoliera provocando tonfi irregolari.

Aveva disattivato l’autopilota cercando di mantenere per quanto possibile assetto e velocità.

La pioggia, mista a grossi fiocchi di neve, sferzava il parabrezza facendogli pensare a quanta acqua avrebbero potuto ancora ingoiare le turbine prima di spegnersi.

Sarebbe stato triste non tornare a casa quella sera.

 

“Assolutamente no signorina!” esclamò sentendosi a disagio “Non mi ha disturbato, era molto che non avevo il piacere di una cosi discreta e piacevole compagnia “

Si stava sentendo come un imbranato sedicenne alla sua prima festa di liceo.

Lei sembro non sembrò imbarazzata affatto e rispose con cortesia: “Meglio così! Magari la volta prossima potremo scambiare due chiacchiere, se le farà piacere. Ora vado, buona giornata!”

Sorridendo si incamminò verso l’uscita, schivando un paio di ragazzini impegnatissimi a rincorrersi urlando come fossero cavalieri delle orde di Gengis Khan. La seguì con lo sguardo fino al limite del prato ma gli scalmanati alzarono una nuvola di polvere e lui ne perse la sagoma.

Lentamente, con la testa in mille pensieri disordinati, si avviò verso l’uscita. La mattina dopo giunse alla “sua” panchina in anticipo. Il parco non aveva ancora aperto e aspettò al cancello che un distratto impiegato comunale lo aprisse mentre lo guardava con un misto di scetticismo e compassione.

Si ritrovò solo, di certo la sconosciuta non aveva scavalcato le recinzioni pur di arrivare prima di lui, però ci aveva sperato e ci rimase piuttosto male. Si sedette al centro della “sua” panchina. Guardò l’orologio aspettando il primo volo della mattina il Ryanair delle otto e un quarto da Malpensa.

Nonostante il volo arrivasse con almeno 15 minuti di ritardo, quando il sibilo delle due turbine CFM56-3 lo annunciò, lei, non era ancora li.

Seguì la traiettoria del velivolo, che cercava di compensare il vento al traverso con il muso rivolto ad esso.

Quel vento non ci voleva, la costa frastagliata provocava una turbolenza imprevedibile e, come se non bastasse, un fitto rovescio di pioggia si era posizionato proprio sulla direzione di atterraggio. L’ intera Cornovaglia, sembrava oscillare sotto l’impatto delle onde oceaniche che si accanivano contro le scogliere scure generando montagne di schiuma bianca. Manteneva a fatica il sentiero di avvicinamento, prua al vento. “3 miglia al contatto!” Davide, seduto alla sua destra, non aveva più proferito parola da quando avevano lasciato il punto iniziale ma era ancora li, concentrato e sicuro si se.

“Chiedi l’ultimo vento e la visibilità per favore…” disse mentre lottava per mantenere stabile l’aereo sballottolato dalle raffiche di vento.

“Wind from 030° 25 gusting 40 knots, rain shower, visibility 500 ceiling 300!”

In quel momento entrò in cabina lo specialista di bordo, “Sarà il caso di andare in un posto più tranquillo?” Chiese con malcelata preoccupazione mentre un altro scossone lo costringeva a tenersi forte al cielo cabina.

“A trovarlo! “rispose Davide, “ci siamo, vatti a legare…”

L’aereo uscì da quell’ultimo piovasco trovandosi la pista, allineata con il finestrino laterale del primo ufficiale.

“OK, sono sul sentiero! Mantengo 20 nodi più della velocità di avvicinamento “Esclamò più per darsi coraggio che per una vera e propria necessità di coordinazione.

“500 alle minime!” Davide cominciò a riportare le quote di avvicinamento come da procedura operativa.

“AA 2835 you are cleared to land wind 045° 30 gusting 50 knots!”

La pedaliera sembrava aver preso vita e voler sfogare della rabbia repressa. Vedeva le scogliere sovrastate dalle onde. La pista cominciò a scorrere sotto l’aereo.

“Pedale, cloche, via motore…Contatto!”

La rubiconda ragazza del parcheggio, dai capelli rosso fuoco indossava un giubbotto giallo dalla esagerata scritta fluorescente “GROUND CREW”. Li guardò con una smorfia di apprezzamento mentre scendevano dal velivolo “Good job guys!”.

Quella notte dormì male. Eppure vennero a trovarlo molti amici. Qualcuno di loro lo aveva preceduto da poco, portato via dalla nostalgia, come diceva lui, qualcuno aveva chiuso le ali, altri in realtà non le avevano mai aperte. Ma il filo comune con tutti era che erano andati avanti, e ora era rimasto solo, ad aspettare il suo volo.

All’alba lo vide arrivare. Lo riconobbe, anche se era molto più giovane di come lo avesse mai visto nella sua vita. Una luce fioca ne indicava la presenza impedendo di vederne chiaramente i tratti, ma sapeva che era lui. Sentì stringersi la gola. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che si erano visti.

Indossava una tuta da volo beige, con un folto colletto di pelliccia e in testa il cappello della Regia Aeronautica. Dimostrava forse venti anni, capelli folti, biondi come lui, non aveva mai visto, con uno spregiudicato ciuffo ribelle. Lo ricordava da sempre canuto. Gli occhi scuri, dallo sguardo acuto e penetrante, le mani, grandi, rassicuranti. La voce, forte e serena, quella voce che lo aveva accompagnato tante volte a dormire, che aveva calmato le paure, che aveva aperto le porte dei sogni con storie di volo e di aerei, di nuvole e di cieli notturni stracolmi di stelle.

“Ciao papà…” la voce uscì come un solo sottile e subito si chiuse in un singhiozzo.

Lui lo fissò negli occhi, rispondendo con un sorriso aperto: “Figlio mio. Ci ritroviamo finalmente.”

Si svegliò di soprassalto, con un senso di profonda malinconia addosso.

Cercò gli occhiali sul comodino. Erano passate da poco le sei, la luce cercava di farsi spazio tra le aperture delle tende. Ci sarebbe stata lei?

La città era già in piena frenesia da inizio giornata e lui, cercando di non essere notato più del necessario, attraversò le strade affollate. Raggiunto il cancello del parco si avviò lungo il viale polveroso, fiancheggiato da gruppi di oleandri che mostravano fieri i primi fiori vermigli. Giunse al parco giochi e dovette appoggiarsi ad una pianta per riprendere fiato. Aveva quasi corso e il cuore era balzato a mille.

Aspettò che acquisisse il suo battito usuale. Si diresse quindi con passo lento, verso la “sua” panchina. Nel mentre, scorreva l’infanzia la gioventù, gli anni in divisa, l’aquila dorata sul petto. E un qualcosa che non riusciva a ricordare.

Camminava lungo una strada, sempre la stessa. La percorreva ogni volta che cercava di ricordare. Non voleva essere su quella strada, vuota, triste, deserta. Ne sentiva l’ostilità.  Quella strada terminava contro un muro e non sapeva cosa ci fosse dietro. Più passava il tempo e più non voleva percorrerla. La scura e densa nuvola di pensieri che si stringeva intorno a lui, svanì improvvisamente.

“Buon giorno!”

Il saluto fu un’onda di calore, luce purissima, vento che spazza le nubi, la strada, il muro e tutte le domande svanirono via nella aria fresca di quella primavera.

Era li, seduta sullo stesso angolo della panchina, non un capello fuori posto, le gambe unite e le braccia conserte, sulle ginocchia il solito libro. Non un granello di polvere sulle piccole scarpette.

“Signorina! Sono contento di vederla. “Non avrebbe mai creduto di pronunciare quelle parole. “Grazie!”

“Grazie per cosa? “chiese la donna assumendo l’aspetto di una persona attenta alla risposta.

“Grazie di essere qui!”

Rispose pentendosi immediatamente di quello che aveva appena detto.

Lei sembrò gli avesse letto dentro e fermò la valanga dei pensieri che si stava scatenando con un’espressione di apprezzamento.

“Mi creda, so bene cosa sta provando capisco cosa significhi essere soli, sentirsi fuori posto. Anche io sono un po’ fuori posto da sempre sa!”

L’anziano abbassò un attimo lo sguardo poi indicando con la mano destra il libro che la donna aveva sulle ginocchia chiese con un filo di voce: “Posso chiederle cosa sta leggendo?”

La donna alzò il libro e lo volse verso l’anziano.

“Forever Flying, di Bob Hoover. Lo conosce?”

Era li, appoggiato al cofano dell’auto ammirando il cielo terso e luminoso. La folla si aggrappava alla recinzione dell’aeroporto sbracciandosi ad ogni velivolo che rullava per portarsi dai parcheggi alla linea di volo per iniziare la sua esibizione. Rimase quasi senza fiato quando lo Shrike Commander sfrecciò pochi metri sopra la sua testa uscendo basso alle sue spalle. Sfiorò la recinzione e per un attimo scomparve alla vista abbassandosi a filo del terreno per poi salire quasi in verticale contro il sole.

Il pubblico esplose in un boato quando, giunto all’apice della salita chiuse la manovra rovesciandosi verso terra. I motori divennero improvvisamente muti e un silenzio irreale avvolse l’aeroporto e la folla con il naso all’ insù.

Il sibilo del velivolo in accelerazione si fece sempre più alto mentre aumentava la velocità trascinato dal suo peso verso il suolo. Migliaia di occhi sempre più spalancati e mani indicavano il velivolo.

All’ultimo istante, cambiò traiettoria, sempre a motori spenti, trasformando la picchiata in un looping perfetto, poi uno slow roll in salita a 45°, virò stretto a destra portandosi all’ atterraggio.

Il touch down fu accolto con un boato dalla folla entusiasta. Il bimotore si fermò sulla pista all’altezza delle tribune centrali e a questo punto, fra lo stupore dei presenti, i motori, dati per spacciati, ripresero vita e il velivolo sfilò lentamente verso l’aerea di parcheggio tra l’ovazione della folla.

“Questo vuol dire aver manico! Ora chiudi la bocca, se non vuoi riempirla di mosche!” disse suo padre e aggiunse ridendo. “Spero solo che tu non voglia fare il pilota dimostratore!”.

“Papà! Ma è proprio quello che vorrei fare! “rispose senza togliere lo sguardo dal velivolo davanti alla recinzione a pochi metri da lui. Il pilota guardò verso quel ragazzino dall’ aria sognante con la bocca aperta e la pelle d’oca nonostante il caldo sole di quella tarda estate,  lo salutò, con un cenno della mano alla fronte…

Guardando la copertina del libro con malinconia esclamò:

“Lo sa, io l’ho visto volare! Una vita fa, uno dei pochi show in Europa a cui partecipò con il suo bimotore.” abbassò di nuovo lo sguardo, a voler tornare a quei tempi.

 “Ogni pilota alzava l’asticella. Ogni volo. Sfiorare la testa degli spettatori, radere l’erba sul bordo pista con le eliche. Questo era fare acrobazia, voleva dire impedire a chiunque di chiudere la bocca per la meraviglia e la tensione.”

Scosse la testa lentamente.

“Poi, tutto cambiò, distanze di sicurezza, spazi, quote, tutto si trasformò in nome di una sicurezza, giusta e necessaria, ma che cancellò quella parte primitiva, emozionale, quel battito accelerato del cuore.”

La donna posò il libro sulle ginocchia e prese la mano dell’anziano carezzandola delicatamente.

“Ci furono incidenti molto gravi, molte persone persero la vita. Non si poteva continuare cosi” – disse socchiudendo gli occhi.  “Volare, è libertà e gioia, non può essere dolore, paura, sofferenza o disperazione.”

Quel contatto, un’onda di piacevole calore, lo scosse fino nel più profondo della anima.

Si raccontarono la vita. Lei, sembrava conoscere ogni aereo citato, ogni manovra raccontata. Conosceva procedure e prestazioni di volo, il lessico del pilota.

Si interrompevano solo al passaggio degli aerei che procedevano sul sentiero di avvicinamento. Chiunque li avesse notati, avrebbe visto su entrambi lo stesso sguardo, luminoso e felice.

Parlarono dei tempi andati, quelli in cui i piloti decidevano rotta e quota da mantenere, e non si limitavano ad essere controllori di un sistema di computer. Bussola e orologio, storie di radiogoniometri e radiofari, parlarono delle lunghe tratte sul mare, dei voli notturni.

Portò le manette in avanti fino a che le lancette della potenza non raggiunsero, sfiorandola delicatamente, la linea rossa del 100 %. La lancetta dell’anemometro si spinse pigramente in avanti di pochi nodi, del resto non si poteva chiedere di più a quel bimotore, già si stava impegnando più del dovuto per farli arrivare in tempo a casa quella sera di Natale. Il vento in quota li aiutava benevolo. Guardò il collega alla sua destra con un sorriso soddisfatto. Ci sarebbero riusciti. La notte era limpida e senza luna. Lassù, un miliardo di stelle si preparavano ad una serata magica, mentre ventimila piedi più giù, le luci delle case facevano a gara con le stelle. L’aria fredda scorreva sulle superfici dalle linee morbide e affusolate producendo un sottile fruscio simile alle fusa di un grosso gatto. In fondo, pensò, non c’era un altro posto dove avrebbe voluto essere…

“Ora devo proprio andare.” Disse la donna.

“Si, capisco, spero non averla annoiata.”

“Assolutamente no, è stata una mattinata molto piacevole. Ne avremo ancora sono sicura.”

Si rassettò il soprabito, sorrise e si allontanò attraverso il prato. Lui la seguì con lo sguardo fino a quando una folata di vento alzò uno sbuffo di polvere che nascose la sua esile figura.

Non c’era nessuno intorno. Nessuna mamma, nessun bambino, nessun pallone. Alzò lo sguardo al cielo, nessun aereo. Avvertì una sensazione di freddo. Chinò la testa verso le ginocchia racchiudendola tra le mani. Aveva paura ora. Improvvisamente, un’onda di voci lo raggiunse. Alzò la testa e aprì gli occhi. Il parco era, come sempre, pieno di mamme e bambini pigolanti.

Si voltò verso il lato dove prima sedeva lei. Il sole era basso sugli alberi ma dal lato del tramonto. Si sentì confuso. Che ore erano? Sognava? Ancora un brivido freddo. Gli occhi pieni di lacrime, la gola chiusa, aveva paura di non distinguere più la realtà dal sogno.

Ricordava ogni dettaglio del suo vestito, ogni tratto del viso. Il sorriso, la voce, le scarpe, immacolate, senza un filo di polvere. Lei, sapeva cosa voleva dire lottare con le raffiche di vento in atterraggio, conosceva le sfumature del blu profondo del cielo, aveva visto i tramonti sul mare dalla cabina di un bimotore, provato la sensazione di potenza che da la spinta selvaggia del post bruciatore. Amava girare intorno alle nuvole e la sensazione di libertà quando rovesci il mondo a testa in giu. Aveva la luce di chi in quel cielo ha vissuto. Con un velo di tristezza sul cuore, si avviò verso l’uscita.

Quella notte tornò a trovarlo. Lo accolse sorridendo. Non entrò dalla porta, era semplicemente li, come solo le anime sanno fare quando vanno a trovare qualcuno. Non bussano alla porta, non spalancano finestre, ci sono e basta, e lui era lì, seduto sulla vecchia poltrona, indossando la tuta da volo, il cappello sulle ginocchia, composte come gli avevano insegnato in accademia. I capelli dal ciuffo biondo, davano un’aria di simpatica spavalderia, quella che ti aspetti dai giovani piloti da caccia.

Lo sguardo, vincente, audace, dolce, un misto di tenerezza e malinconia. Lo stesso sguardo che ricordava avere visto l’ultima volta, che si erano abbracciati. Quello sguardo che sentiva essere uguale al suo, stanco dell’essere solo, stanco del trascinarsi su di una terra che gli era sempre stata straniera.

“Sai quanto tempo ti ho aspettato, sperando che tutto non si riducesse a pochi ricordi da far sbiadire al sole? Avrei voluto che tu mi raccontassi più storie e avere più tempo da passare insieme.” disse rivolto al padre.

“Il tempo” rispose “La nostra prigione e la nostra condanna.” accennando un gesto con la mano, come ad accarezzare l’aria.

“Papà, tutto quello che è stato, volare, amare, vivere, ne è valsa la pena?”

Non rispose, vide un sorriso triste sul volto di quel giovane pilota di una generazione scomparsa. Si tennero per mano rimanendo in silenzio. La figura lo guardò, poi abbozzò un saluto con la mano. Semplicemente un attimo dopo, non fu più li.

Il rumore della città giungeva attutito dagli infissi. Realizzò che non sapeva che ore fossero, ma a giudicare dalla luce e dal rumore che proveniva da dietro le persiane, dovevano essere passate abbondantemente le nove.

Si vestì rapidamente, quanto i mille dolori dell’età avanzata gli consentissero e si avviò, verso il parco. Giunse sul bordo del campo e vide la “sua” panchina, ancora solitaria.

Dovette fermarsi a respirare e prendere tempo. Troppo veloce e troppa emozione. Poi il cuore iniziò a rallentare e il respiro si fece più lungo e regolare. Riprese a camminare raggiungendo la “sua” panchina. Intono a lui tutti, mamme, bambini, tutti sembravano urlare. Si chiese se l’umanità fosse diventata sorda e rimpianse di non essere rimasto a casa.

Improvvisamente, dal nulla, si alzò il vento, sembrava solo un soffio, ma divenne in breve forte e deciso. Sollevò un mulinello di polvere che lo costrinse a chiudere gli occhi e sentì  il sapore  famigliare della sabbia nella gola.

Da quanto tempo era li, ai bordi di una pista sabbiosa e desolata in una ancora più desolata valle nell’ Afganistan sud occidentale. Volando lungo una strada apparentemente abbandonata a sé stessa e al caldo implacabile. Non una traccia di vita per chilometri e chilometri, lungo quel confine che si sapeva un punto di passaggio sempre molto frequentato. Confine scritto e riscritto nei secoli, con disattenzione, a volte con ferocia, spesso con disillusione, sempre con l’indifferenza per quello che un confine può significare.

Anche quello era volare, volare senza essere in volo, una sorta di recitazione. Una prestazione teatrale, necessaria ad ogni decollo, ad ogni atterraggio e durante ognuna delle lunghe ore scritte sul profilo di missione. Quella interpretazione che si richiede ad ogni pilota di velivoli a pilotaggio remoto. Si era vestiti da pilota, si parlava da pilota, si agiva sui comandi come un pilota e si vedeva, seppure su di un monitor il suolo sorvolato. Non era difficile immedesimarsi in quello che a chilometri di distanza e a diecimila piedi dal suolo stava succedendo. Si era in volo, con il proprio equipaggio, con il proprio velivolo, volando senza pensare di essere, in realtà, ad un tiro di fionda dal bar e da una bevanda fresca. Si era in volo e basta, cercando tracce, annusando pericoli, godendo del panorama. Mancava la turbolenza, mancava il sudore o il freddo, l’odore della cabina. Mancava buona parte della paura, quella che ti accompagnava nelle missioni più delicate, mancava la sensazione di non avere la terra sotto i piedi. Ma eri in volo, ancora una volta in volo…

Riaprì gli occhi tossendo leggermente e non era più solo. Lei era li, sul lato libero della “sua” panchina. Il vestito chiaro, i capelli raccolti, il libro sulle ginocchia conserte, le scarpe, senza un filo di polvere, il suo sorriso.

Rimase interdetto, gioia e stupore si sovrapposero saturando i suoi pensieri.

“Non ti avrò spaventato spero!” disse la donna sorridendo.

Notò il tono di voce differente, vicino, più intimo. Si sentì bene, nessun disagio in quell’inatteso cambio di relazione. Sapeva di potersi fidare, gli infondeva una tranquillità profonda, una sensazione di calore. Ora sapeva.

“Sei arrivata finalmente, sapevi che ti stavo aspettando da tempo.” Rispose, senza provare ora alcun imbarazzo.

Lui, quello che viveva dentro una corazza fatta per proteggerlo dalla solitudine e dalla età avanzata, sapeva finalmente, di essere libero di parlare, a quella creatura che sentiva intimamente di conoscere da sempre, e verso la quale, non nutriva timori né ritrosie.

“Hai parlato con lui, so che ti è venuto a trovare, e non è stata l’unica volta che lo ha fatto” lei disse sorridendo. 

“Ha senso chiederti da quanto tempo lo conosci? “

“Da sempre, come da sempre conosco te e tutti quelli che sono venuti prima, quelli che ho seguito dall’inizio del loro tempo. So che hai capito.”

“Le scarpe…” disse l’uomo indicando i piedi piccoli e proporzionati della donna.

“Le scarpe? “rispose lei assumendo un’espressione fra il divertito e il sorpreso.

“Le scarpe si, senza mai un granello di polvere, chi cammina sulla terra, non può non sporcarsi di polvere. Solo chi non è di questa terra ne resta sempre pulito.”

Lei sorrise di nuovo e rispose :“Da quanto tempo, se di tempo si può parlare, mi stavi aspettando? “

“Da sempre, sapevo saresti venuta a trovarmi, era solo una questione di tempo, e ora che il mio tempo è passato, anzi direi ora che il mio tempo è volato, sei qui, e so che questo tempo non è passato invano. Ho avuto tutto quello che volevo e ora sono felice. Sai, ho capito che il mio tempo stava arrivando quando i vecchi amici hanno cominciato a venire a trovarmi. Ho riscoperto una serenità che credevo non potesse esistere.” Disse guardandola fisso negli occhi.

“Ti ho sempre seguito con amore, nei momenti più difficili, quando ti sentivi perso o solo, o disperato, io ero li un passo dietro di te. Il mio compito era suggerire, e tu, hai seguito quei suggerimenti, e ho anche imparato molto da tutti voi.”

“Imparato da noi? Cosa? “

“Ad apprezzare quanto possa essere meraviglioso volare per chi non ha le ali. Ho imparato ad appassionarmi alle vostre passioni.”

Si presero per mano, tenendole strette, e rimasero in silenzio. Mille immagini cominciarono a scorrere nella sua mente. Volti, parole, sentimenti, luoghi. La trama della sua vita, senza alcuna traccia di tristezza, senza nessuna nostalgia, solo una sensazione di infinita tranquillità.

Alzò gli occhi al cielo vide le nuvole bianche sparse in un mare di blu. Si volse guardandola negli occhi grandi e profondi, e vide le scie degli aerei dipingere linee ordinate nel cielo. Vide il sole al tramonto su mari color dell’oro, vide le montagne coperte di neve e ghiacciai infiniti, vide le nuvole più in basso.

Senza mai lasciargli le mani lei si alzò lentamente, invitandolo a seguirla. Luis si alzò e la vide spiegare le ali grandi e luminose.

“Sei pronto a ricominciare? “disse l’angelo.

“Sono pronto! “rispose sorridendo

“Stammi vicino, sarà più bello del tuo primo volo.”

E, tenendosi per mano, salirono verso quel blu punteggiato dei bianchi batuffoli. Vide la “sua” panchina, il parco contornato dai palazzi scuri, le campagne intorno alla città e poi il mare, il mondo verde e blu, tutto il creato e le stelle.

§§§§

La bambina si avvicinò al vecchio seduto sulla panchina. Lo guardava curiosa in silenzio, forse si sarebbe accorto di lei e della palla rimasta sotto la “sua” panchina. Si fece coraggio e si avvicinò allungando il piede per recuperare il pallone. Il vecchio non si mosse.

La mamma la chiamò con un tono che non ammetteva ritardi, e la bimba corse verso di lei con la palla in mano.

“Cosa facevi vicino a quel signore? Non lo avrai disturbato?”

“No mamma, credo stia dormendo mamma. Sai mamma, penso che stesse facendo un sogno bellissimo!”

“E questo cosa te lo farebbe pensare?”  Chiese la mamma sorridendo dolcemente.

“Sorride mamma, sorride come fosse tanto felice”.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Roberto Malaguti

 

Oltre il cielo?


Sin da piccola d’estate guardavo le stelle cadenti e con tutto il cuore speravo che il desiderio espresso si avverasse. A un certo momento ho iniziato ad associare quel bellissimo mondo magico fatto di speranza alle persone care che volavano in cielo perché questo mi veniva detto dai miei genitori … forse perché ero troppo piccolina per capire il concetto di perdita. Posso solo ricordare che questa cosa mi faceva stare bene perché quando aprivo la finestra, quella stella, la più luminosa era il mio nonno che da lassù mi guardava e proteggeva.

Tutt’ora, tutte le notti cerco di avvistare qualche stella cadente. 

Ebbene sì, finalmente all’ultimo anno delle elementari, durante una lezione di scienze, la maestra iniziò a spiegare l’universo: pianeti, nebulose, galassie … l’ascoltavo rapita mentre parlava di quello che c’è nel cielo.

Se prima tutto era immaginario nella mia mente, ora cominciava a essere più concreto: stelle, asteroidi, piccoli e grandi corpi rocciosi in orbita tra Marte e Giove, visibili soltanto con strumenti astronomici, meteore e meteoriti che entrano nell’atmosfera terrestre e producono scie luminose rese incandescenti dalla collisione con le molecole d’aria.

Da quel momento, nonostante le nozioni scolastiche e le ricerche effettuate, ho iniziato a pormi un sacco di domande ma soprattutto una: chi può dire a noi di smettere di sognare? Di credere nelle stelle cadenti, nelle nuvole che assumono forme diverse o in un arcobaleno senza fine? E’ da qui che bisogna tirare fuori la testardaggine e la tenacia di continuare a sognare e iniziare a camminare sulla propria strada. Non sempre ci saranno persone che rideranno con te, anzi ci sarà gente che riderà contro di te ma quello che conta è sognare e credere nei propri desideri e sperare che possano avverarsi.

E’ questo che rende le persone grandi.

Continua così fino alla fine … e potrai dirti: “Sei forte!!!” Perché quello per alcuni era un “precipitare”, tu lo chiamerai volo”. 



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Emma Lucietto