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La panchina


Era lì, seduto su quella panchina da un tempo indefinito. Sempre solo, sempre in silenzio.

Il vociare dei bambini che sfogavano le energie represse dalla vita ripetitiva della periferia cittadina, sembrava non riuscire a penetrare la barriera di totale indifferenza di cui, si circondava con malcelata soddisfazione.

Capitava a volte che qualcuno di quei bambini, giovani membri di una vecchia umanità, gli ronzasse attorno, oppure facesse, per caso o con sottile malizia, rotolare un pallone fino sotto ai suoi piedi.

Una volta, caso unico, rimandò con un debole calcio, il pallone tra i piedi di una bimba, rimasta li ad aspettare, che il pallone finito, chissà per quale scherzo del destino, sotto i suoi piedi, le fosse restituito.

Quando le prime giovani mamme, arrivavano seguite dalla rumorosa nuvola di scalmanati ragazzini, lui, era già li. Al centro di quella panchina. Davanti, un ampio prato, regno incontrastato di corse, capelli scompigliati, sudore e voglia di inseguire i sogni nelle forme perfette di una sfera di plastica.

Su di un lato, pochi alberi, nei giorni assolati e caldi, offrivano ombra a qualche coppia di studenti che giocavano a innamorarsi, e sognare una vita di giorni sereni e pieni di speranze.

Lui, silenzioso era li. Ogni tanto alzava la testa, smossa dal suono di un aereo che sorvolava quella parte di periferia.

Aveva capelli bianchi e un aspetto curato, serio, austero. Un onnipresente paio di occhiali da sole nascondeva occhi e parte del viso. Un paio di occhiali ampi, scuri, quelli dei piloti americani, giovani belli e baldanzosi protagonisti dei film di qualche secolo prima.

Solo nei giorni di pioggia o nelle le rare mattinate in cui la nebbia rendeva il cielo una miscela lattiginosa e imperscrutabile, solo allora non usciva di casa, e la panchina restava sola.

Quella mattina, trovò ad attenderlo, una sgradita sorpresa.

Non realizzò subito cosa accedeva, forse perché la mente, si rifiutava di riconoscere nell’ombra, le fattezze di un essere umano seduto.

Avvicinandosi, complice la luce limpida del sole alle spalle, dovette cedere alla verità. Qualcuno si era seduto, sulla “sua” panchina.

Si fermò un attimo a qualche decina di metri di distanza. La “sua “panchina e una donna stavano sconvolgendo il suo mondo. Chi osava appropriarsi di quello spazio?  Infiltrarsi così, senza pudore, in quello che rimaneva della sua vita…

Quel pensiero lo fece vacillare. Sentì come se l’universo avesse smesso di espandersi e ora l’inerzia avesse preso il suo corpo e cercasse di trascinarlo verso terra.

Oscillò intorno alla nuova posizione cercando istintivamente di correggere questa variazione nell’assetto e di assumere un equilibrio stabile.

Nonostante gli anni, reagì efficacemente, e in un millesimo di secondo riacquisì l’equilibrio perso. La donna, seduta sulla “sua” panchina si alzò e lo raggiunse con espressione contrita tendendogli una mano per sorreggerlo ma, nel tempo impiegato a percorre lo spazio che li separava, l’anziano aveva riacquistato l’equilibrio.

La donna si ritrasse, come leggendogli nel pensiero, che le intimava di non toccarlo, poiché lui, sapeva benissimo correggere una tendenza fosse all’imbardata o all’aumento dell’angolo di assetto.

Lei accennò un sorriso imbarazzato verso quello sguardo diretto, che seppure protetto da una coppia di vecchi occhiali da pilota, sembrava parlare. Ritirandosi mormorò un timido “Mi scusi” dolce e sincero. Poi si rimise seduta sul lato della “sua “panchina.

L’uomo si guardò intorno come per accertarsi che nessun altro lo avesse visto in quella situazione, poi guardando la “sua” panchina occupata per un terzo da quella ingombrante presenza valutò rapidamente il da farsi.

Non era una sua proprietà, e in fondo lei, era arrivata prima. Il sole illuminava il cielo, quella mattina terso e pulito. Il meteo del vicino aeroporto prevedeva sereno, vento debole da sud, temperatura di 18 gradi con un punto di rugiada di 8° e un QNH di 1026 hPa, accettò di condividere lo spazio.

Quella donna lo incuriosiva, si fece forza ed esternando una assoluta noncuranza, la guardò con malcelata attenzione.

Il volto dai lineamenti delicati incorniciava occhi grandi e luminosi. Nasino, leggermente all’insù, labbra sottili e regolari. Capelli ricci, lunghi fino alle spalle, la fronte ampia.

Sedeva con le gambe unite le braccia conserte appoggiate su di queste, sembrava la rappresentazione classica di una maestrina dell’Ottocento.

Sulle gambe, quasi nascosto dalle pieghe del leggero soprabito color pesca, teneva un libro, due piccole scarpette scure, senza un filo di polvere completavano il quadro.

Si avvicinò e con un filo di voce chiese: “Mi scusi signorina, posso?”

Indicando con un cenno della testa la parte libera della panchina. La ragazza lo guardò negli occhi sfoderando un sorriso aperto e luminoso.

“Certamente!” L’anziano temette per un attimo che avesse intrapreso la strada di una conversazione non richiesta.

“Mi scusi se ho occupato il suo spazio, mi sposterò e troverò un altra panchina libera, non si preoccupi.”

Non voleva spaventarla, un turbinio di pensieri affollò la sua mente, stava andando in disorientamento spaziale. E se avesse frainteso la richiesta di restare, come una ardita avance di un vecchio solo e desideroso di parlare?

Il tempo rallentò mentre faticava a seguire i pensieri e sentimenti contrastanti gli affollavano la mente. Era terrorizzato al solo pensiero, ora si sentiva confuso…

Il mondo impazzito si rovesciò su sé stesso una volta e ancora una e ancora e ancora mentre lui, tentava di combattere contro la forza che lo schiacciava sul Martin Baker e un istante dopo cercava di strapparlo dallo stretto abitacolo del caccia per scagliarlo contro la bolla in perspex schiacciandolo come un polipo sbattuto sul molo di un porticciolo dai pescatori. Il rollio rallentò, l’orizzonte riprese progressivamente la sua posizione naturale, sentiva di farcela. Riprese il controllo dell’orizzonte.

“La prego, se vuole resti pure, non mi disturba affatto.”

Disse indicando il lato libero della panchina e con una sorta di timido sorriso concluse:

“Mi siederò per un poco, se non la disturba”

Una sensazione di calore salì dal petto, cosi violenta e improvvisa che temette per un istante fosse un principio di infarto.

Era invece il segno inconfondibile, di un’emozione dimenticata. Stava arrossendo.

Troppo tempo era passato da quando aveva parlato con qualcuno.

Faceva la spesa, chiedeva il prezzo della frutta, si faceva tagliare gli affettati, salutava il vicino di casa sul pianerottolo delle scale, ma parlare, raccontare, sentirsi parte della vita e delle emozioni di un altro essere umano, non ricordava l’ultima volta che era successo. Si sedette sul bordo della panchina, pochi centimetri più in là e sarebbe caduto sul prato. Chinò lo sguardo verso terra dalla parte opposta alla donna, per nascondere il rossore accesosi inopportunamente sul suo volto.

Stava valutando l’ipotesi di andare via e lasciare quella situazione imbarazzante quando il sibilo del Ryanair delle 08:15 da Malpensa gli fece istintivamente alzare lo sguardo.

Stabile sull’ ILS per la pista 28 destra avrebbe fra pochi secondi riportato il marker, come richiesto dal controllore di avvicinamento…

 

Seduto nella posizione di sinistra nella cabina del 737/800, gli occhi fissi all’ADI, seguiva con attenzione il procedere del velivolo sul sentiero di avvicinamento strumentale. Era perfettamente allineato con il sentiero di avvicinamento e il velivolo seguiva ubbidiente le indicazioni. Con le mani sulle manette, impostò la riduzione della spinta necessaria a ridurre la velocità a 130 nodi. Mentre molto delicatamente aumentava l’assetto per portare le ruote al contatto nel modo più delicato possibile, la striscia scura della pista diventava ogni istante più grande…

Seguì con lo sguardo il velivolo che proseguiva sul suo invisibile sentiero l’avvicinamento e, con la coda dell’occhio, notò la donna, con il suo nasino all’ insù, che seguiva la traiettoria dell’aereo. Un caso? Una semplice curiosità? Lei, poteva non sapere che il parco si trovasse proprio sotto la traiettoria di atterraggio del vicino aeroporto.

Credette di riconoscere qualcosa in quello sguardo, una luce che non era certo dettata dal caso o dallo stupore.

Lei, seguiva le linee sinuose e seducenti, dell’aereo, come un orchestrale segue la bacchetta del suo direttore.

Il velivolo prosegui il suo avvicinamento attraversando il cielo sopra di loro. La donna si voltò verso di lui accennando un sorriso, aprì il libro sulle sue ginocchia e cominciò a leggere.

Come tutti i giorni seguirono il volo delle 09:30 da Bruxelles Charleroi e subito dopo quello da Catania Fontanarossa, quindi il volo da Milano in ritardo, come quasi tutte le mattine, poi seguirono un Falcon 900, un Gulfstream e un anziano King Air.

Ad ogni passaggio, lei interrompeva la lettura ed alzava lo sguardo al cielo, seguendo la traiettoria del velivolo. Quella mattina passò più in fretta del solito. Stessi marmocchi rumorosi, stesse mamme, stessi cani, stessi padroni.

Ma lei, era differente da tutta quella umanità cosi impegnata in piccoli problemi polverosi, da non alzare mai lo sguardo al cielo.

La donna, si alzò, come fosse suonata la fine delle lezioni.

Spolverò delicatamente la panchina dove si era seduta. Rassettò le pieghe del soprabito e salutò con un sorriso splendente.

“Buona prosecuzione della sua giornata! Spero non averla disturbata troppo!”

La sensazione di calore esplose più forte della volta precedente, temette ancora che il cuore andasse in stallo.

 

La turbolenza di quel temporale spostava di continuo l’aereo mettendone a dura prova la resistenza strutturale. Il radar meteo si era ammutolito, sembrava che la paura si fosse impossessata anche dello strumento lasciandolo a decidere il da farsi da solo.

Il de-ice lavorava infaticabilmente distaccando piccoli iceberg dalle superfici delle ali, mentre le eliche lanciavano pezzi di ghiaccio sulla fusoliera provocando tonfi irregolari.

Aveva disattivato l’autopilota cercando di mantenere per quanto possibile assetto e velocità.

La pioggia, mista a grossi fiocchi di neve, sferzava il parabrezza facendogli pensare a quanta acqua avrebbero potuto ancora ingoiare le turbine prima di spegnersi.

Sarebbe stato triste non tornare a casa quella sera.

 

“Assolutamente no signorina!” esclamò sentendosi a disagio “Non mi ha disturbato, era molto che non avevo il piacere di una cosi discreta e piacevole compagnia “

Si stava sentendo come un imbranato sedicenne alla sua prima festa di liceo.

Lei sembro non sembrò imbarazzata affatto e rispose con cortesia: “Meglio così! Magari la volta prossima potremo scambiare due chiacchiere, se le farà piacere. Ora vado, buona giornata!”

Sorridendo si incamminò verso l’uscita, schivando un paio di ragazzini impegnatissimi a rincorrersi urlando come fossero cavalieri delle orde di Gengis Khan. La seguì con lo sguardo fino al limite del prato ma gli scalmanati alzarono una nuvola di polvere e lui ne perse la sagoma.

Lentamente, con la testa in mille pensieri disordinati, si avviò verso l’uscita. La mattina dopo giunse alla “sua” panchina in anticipo. Il parco non aveva ancora aperto e aspettò al cancello che un distratto impiegato comunale lo aprisse mentre lo guardava con un misto di scetticismo e compassione.

Si ritrovò solo, di certo la sconosciuta non aveva scavalcato le recinzioni pur di arrivare prima di lui, però ci aveva sperato e ci rimase piuttosto male. Si sedette al centro della “sua” panchina. Guardò l’orologio aspettando il primo volo della mattina il Ryanair delle otto e un quarto da Malpensa.

Nonostante il volo arrivasse con almeno 15 minuti di ritardo, quando il sibilo delle due turbine CFM56-3 lo annunciò, lei, non era ancora li.

Seguì la traiettoria del velivolo, che cercava di compensare il vento al traverso con il muso rivolto ad esso.

Quel vento non ci voleva, la costa frastagliata provocava una turbolenza imprevedibile e, come se non bastasse, un fitto rovescio di pioggia si era posizionato proprio sulla direzione di atterraggio. L’ intera Cornovaglia, sembrava oscillare sotto l’impatto delle onde oceaniche che si accanivano contro le scogliere scure generando montagne di schiuma bianca. Manteneva a fatica il sentiero di avvicinamento, prua al vento. “3 miglia al contatto!” Davide, seduto alla sua destra, non aveva più proferito parola da quando avevano lasciato il punto iniziale ma era ancora li, concentrato e sicuro si se.

“Chiedi l’ultimo vento e la visibilità per favore…” disse mentre lottava per mantenere stabile l’aereo sballottolato dalle raffiche di vento.

“Wind from 030° 25 gusting 40 knots, rain shower, visibility 500 ceiling 300!”

In quel momento entrò in cabina lo specialista di bordo, “Sarà il caso di andare in un posto più tranquillo?” Chiese con malcelata preoccupazione mentre un altro scossone lo costringeva a tenersi forte al cielo cabina.

“A trovarlo! “rispose Davide, “ci siamo, vatti a legare…”

L’aereo uscì da quell’ultimo piovasco trovandosi la pista, allineata con il finestrino laterale del primo ufficiale.

“OK, sono sul sentiero! Mantengo 20 nodi più della velocità di avvicinamento “Esclamò più per darsi coraggio che per una vera e propria necessità di coordinazione.

“500 alle minime!” Davide cominciò a riportare le quote di avvicinamento come da procedura operativa.

“AA 2835 you are cleared to land wind 045° 30 gusting 50 knots!”

La pedaliera sembrava aver preso vita e voler sfogare della rabbia repressa. Vedeva le scogliere sovrastate dalle onde. La pista cominciò a scorrere sotto l’aereo.

“Pedale, cloche, via motore…Contatto!”

La rubiconda ragazza del parcheggio, dai capelli rosso fuoco indossava un giubbotto giallo dalla esagerata scritta fluorescente “GROUND CREW”. Li guardò con una smorfia di apprezzamento mentre scendevano dal velivolo “Good job guys!”.

Quella notte dormì male. Eppure vennero a trovarlo molti amici. Qualcuno di loro lo aveva preceduto da poco, portato via dalla nostalgia, come diceva lui, qualcuno aveva chiuso le ali, altri in realtà non le avevano mai aperte. Ma il filo comune con tutti era che erano andati avanti, e ora era rimasto solo, ad aspettare il suo volo.

All’alba lo vide arrivare. Lo riconobbe, anche se era molto più giovane di come lo avesse mai visto nella sua vita. Una luce fioca ne indicava la presenza impedendo di vederne chiaramente i tratti, ma sapeva che era lui. Sentì stringersi la gola. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che si erano visti.

Indossava una tuta da volo beige, con un folto colletto di pelliccia e in testa il cappello della Regia Aeronautica. Dimostrava forse venti anni, capelli folti, biondi come lui, non aveva mai visto, con uno spregiudicato ciuffo ribelle. Lo ricordava da sempre canuto. Gli occhi scuri, dallo sguardo acuto e penetrante, le mani, grandi, rassicuranti. La voce, forte e serena, quella voce che lo aveva accompagnato tante volte a dormire, che aveva calmato le paure, che aveva aperto le porte dei sogni con storie di volo e di aerei, di nuvole e di cieli notturni stracolmi di stelle.

“Ciao papà…” la voce uscì come un solo sottile e subito si chiuse in un singhiozzo.

Lui lo fissò negli occhi, rispondendo con un sorriso aperto: “Figlio mio. Ci ritroviamo finalmente.”

Si svegliò di soprassalto, con un senso di profonda malinconia addosso.

Cercò gli occhiali sul comodino. Erano passate da poco le sei, la luce cercava di farsi spazio tra le aperture delle tende. Ci sarebbe stata lei?

La città era già in piena frenesia da inizio giornata e lui, cercando di non essere notato più del necessario, attraversò le strade affollate. Raggiunto il cancello del parco si avviò lungo il viale polveroso, fiancheggiato da gruppi di oleandri che mostravano fieri i primi fiori vermigli. Giunse al parco giochi e dovette appoggiarsi ad una pianta per riprendere fiato. Aveva quasi corso e il cuore era balzato a mille.

Aspettò che acquisisse il suo battito usuale. Si diresse quindi con passo lento, verso la “sua” panchina. Nel mentre, scorreva l’infanzia la gioventù, gli anni in divisa, l’aquila dorata sul petto. E un qualcosa che non riusciva a ricordare.

Camminava lungo una strada, sempre la stessa. La percorreva ogni volta che cercava di ricordare. Non voleva essere su quella strada, vuota, triste, deserta. Ne sentiva l’ostilità.  Quella strada terminava contro un muro e non sapeva cosa ci fosse dietro. Più passava il tempo e più non voleva percorrerla. La scura e densa nuvola di pensieri che si stringeva intorno a lui, svanì improvvisamente.

“Buon giorno!”

Il saluto fu un’onda di calore, luce purissima, vento che spazza le nubi, la strada, il muro e tutte le domande svanirono via nella aria fresca di quella primavera.

Era li, seduta sullo stesso angolo della panchina, non un capello fuori posto, le gambe unite e le braccia conserte, sulle ginocchia il solito libro. Non un granello di polvere sulle piccole scarpette.

“Signorina! Sono contento di vederla. “Non avrebbe mai creduto di pronunciare quelle parole. “Grazie!”

“Grazie per cosa? “chiese la donna assumendo l’aspetto di una persona attenta alla risposta.

“Grazie di essere qui!”

Rispose pentendosi immediatamente di quello che aveva appena detto.

Lei sembrò gli avesse letto dentro e fermò la valanga dei pensieri che si stava scatenando con un’espressione di apprezzamento.

“Mi creda, so bene cosa sta provando capisco cosa significhi essere soli, sentirsi fuori posto. Anche io sono un po’ fuori posto da sempre sa!”

L’anziano abbassò un attimo lo sguardo poi indicando con la mano destra il libro che la donna aveva sulle ginocchia chiese con un filo di voce: “Posso chiederle cosa sta leggendo?”

La donna alzò il libro e lo volse verso l’anziano.

“Forever Flying, di Bob Hoover. Lo conosce?”

Era li, appoggiato al cofano dell’auto ammirando il cielo terso e luminoso. La folla si aggrappava alla recinzione dell’aeroporto sbracciandosi ad ogni velivolo che rullava per portarsi dai parcheggi alla linea di volo per iniziare la sua esibizione. Rimase quasi senza fiato quando lo Shrike Commander sfrecciò pochi metri sopra la sua testa uscendo basso alle sue spalle. Sfiorò la recinzione e per un attimo scomparve alla vista abbassandosi a filo del terreno per poi salire quasi in verticale contro il sole.

Il pubblico esplose in un boato quando, giunto all’apice della salita chiuse la manovra rovesciandosi verso terra. I motori divennero improvvisamente muti e un silenzio irreale avvolse l’aeroporto e la folla con il naso all’ insù.

Il sibilo del velivolo in accelerazione si fece sempre più alto mentre aumentava la velocità trascinato dal suo peso verso il suolo. Migliaia di occhi sempre più spalancati e mani indicavano il velivolo.

All’ultimo istante, cambiò traiettoria, sempre a motori spenti, trasformando la picchiata in un looping perfetto, poi uno slow roll in salita a 45°, virò stretto a destra portandosi all’ atterraggio.

Il touch down fu accolto con un boato dalla folla entusiasta. Il bimotore si fermò sulla pista all’altezza delle tribune centrali e a questo punto, fra lo stupore dei presenti, i motori, dati per spacciati, ripresero vita e il velivolo sfilò lentamente verso l’aerea di parcheggio tra l’ovazione della folla.

“Questo vuol dire aver manico! Ora chiudi la bocca, se non vuoi riempirla di mosche!” disse suo padre e aggiunse ridendo. “Spero solo che tu non voglia fare il pilota dimostratore!”.

“Papà! Ma è proprio quello che vorrei fare! “rispose senza togliere lo sguardo dal velivolo davanti alla recinzione a pochi metri da lui. Il pilota guardò verso quel ragazzino dall’ aria sognante con la bocca aperta e la pelle d’oca nonostante il caldo sole di quella tarda estate,  lo salutò, con un cenno della mano alla fronte…

Guardando la copertina del libro con malinconia esclamò:

“Lo sa, io l’ho visto volare! Una vita fa, uno dei pochi show in Europa a cui partecipò con il suo bimotore.” abbassò di nuovo lo sguardo, a voler tornare a quei tempi.

 “Ogni pilota alzava l’asticella. Ogni volo. Sfiorare la testa degli spettatori, radere l’erba sul bordo pista con le eliche. Questo era fare acrobazia, voleva dire impedire a chiunque di chiudere la bocca per la meraviglia e la tensione.”

Scosse la testa lentamente.

“Poi, tutto cambiò, distanze di sicurezza, spazi, quote, tutto si trasformò in nome di una sicurezza, giusta e necessaria, ma che cancellò quella parte primitiva, emozionale, quel battito accelerato del cuore.”

La donna posò il libro sulle ginocchia e prese la mano dell’anziano carezzandola delicatamente.

“Ci furono incidenti molto gravi, molte persone persero la vita. Non si poteva continuare cosi” – disse socchiudendo gli occhi.  “Volare, è libertà e gioia, non può essere dolore, paura, sofferenza o disperazione.”

Quel contatto, un’onda di piacevole calore, lo scosse fino nel più profondo della anima.

Si raccontarono la vita. Lei, sembrava conoscere ogni aereo citato, ogni manovra raccontata. Conosceva procedure e prestazioni di volo, il lessico del pilota.

Si interrompevano solo al passaggio degli aerei che procedevano sul sentiero di avvicinamento. Chiunque li avesse notati, avrebbe visto su entrambi lo stesso sguardo, luminoso e felice.

Parlarono dei tempi andati, quelli in cui i piloti decidevano rotta e quota da mantenere, e non si limitavano ad essere controllori di un sistema di computer. Bussola e orologio, storie di radiogoniometri e radiofari, parlarono delle lunghe tratte sul mare, dei voli notturni.

Portò le manette in avanti fino a che le lancette della potenza non raggiunsero, sfiorandola delicatamente, la linea rossa del 100 %. La lancetta dell’anemometro si spinse pigramente in avanti di pochi nodi, del resto non si poteva chiedere di più a quel bimotore, già si stava impegnando più del dovuto per farli arrivare in tempo a casa quella sera di Natale. Il vento in quota li aiutava benevolo. Guardò il collega alla sua destra con un sorriso soddisfatto. Ci sarebbero riusciti. La notte era limpida e senza luna. Lassù, un miliardo di stelle si preparavano ad una serata magica, mentre ventimila piedi più giù, le luci delle case facevano a gara con le stelle. L’aria fredda scorreva sulle superfici dalle linee morbide e affusolate producendo un sottile fruscio simile alle fusa di un grosso gatto. In fondo, pensò, non c’era un altro posto dove avrebbe voluto essere…

“Ora devo proprio andare.” Disse la donna.

“Si, capisco, spero non averla annoiata.”

“Assolutamente no, è stata una mattinata molto piacevole. Ne avremo ancora sono sicura.”

Si rassettò il soprabito, sorrise e si allontanò attraverso il prato. Lui la seguì con lo sguardo fino a quando una folata di vento alzò uno sbuffo di polvere che nascose la sua esile figura.

Non c’era nessuno intorno. Nessuna mamma, nessun bambino, nessun pallone. Alzò lo sguardo al cielo, nessun aereo. Avvertì una sensazione di freddo. Chinò la testa verso le ginocchia racchiudendola tra le mani. Aveva paura ora. Improvvisamente, un’onda di voci lo raggiunse. Alzò la testa e aprì gli occhi. Il parco era, come sempre, pieno di mamme e bambini pigolanti.

Si voltò verso il lato dove prima sedeva lei. Il sole era basso sugli alberi ma dal lato del tramonto. Si sentì confuso. Che ore erano? Sognava? Ancora un brivido freddo. Gli occhi pieni di lacrime, la gola chiusa, aveva paura di non distinguere più la realtà dal sogno.

Ricordava ogni dettaglio del suo vestito, ogni tratto del viso. Il sorriso, la voce, le scarpe, immacolate, senza un filo di polvere. Lei, sapeva cosa voleva dire lottare con le raffiche di vento in atterraggio, conosceva le sfumature del blu profondo del cielo, aveva visto i tramonti sul mare dalla cabina di un bimotore, provato la sensazione di potenza che da la spinta selvaggia del post bruciatore. Amava girare intorno alle nuvole e la sensazione di libertà quando rovesci il mondo a testa in giu. Aveva la luce di chi in quel cielo ha vissuto. Con un velo di tristezza sul cuore, si avviò verso l’uscita.

Quella notte tornò a trovarlo. Lo accolse sorridendo. Non entrò dalla porta, era semplicemente li, come solo le anime sanno fare quando vanno a trovare qualcuno. Non bussano alla porta, non spalancano finestre, ci sono e basta, e lui era lì, seduto sulla vecchia poltrona, indossando la tuta da volo, il cappello sulle ginocchia, composte come gli avevano insegnato in accademia. I capelli dal ciuffo biondo, davano un’aria di simpatica spavalderia, quella che ti aspetti dai giovani piloti da caccia.

Lo sguardo, vincente, audace, dolce, un misto di tenerezza e malinconia. Lo stesso sguardo che ricordava avere visto l’ultima volta, che si erano abbracciati. Quello sguardo che sentiva essere uguale al suo, stanco dell’essere solo, stanco del trascinarsi su di una terra che gli era sempre stata straniera.

“Sai quanto tempo ti ho aspettato, sperando che tutto non si riducesse a pochi ricordi da far sbiadire al sole? Avrei voluto che tu mi raccontassi più storie e avere più tempo da passare insieme.” disse rivolto al padre.

“Il tempo” rispose “La nostra prigione e la nostra condanna.” accennando un gesto con la mano, come ad accarezzare l’aria.

“Papà, tutto quello che è stato, volare, amare, vivere, ne è valsa la pena?”

Non rispose, vide un sorriso triste sul volto di quel giovane pilota di una generazione scomparsa. Si tennero per mano rimanendo in silenzio. La figura lo guardò, poi abbozzò un saluto con la mano. Semplicemente un attimo dopo, non fu più li.

Il rumore della città giungeva attutito dagli infissi. Realizzò che non sapeva che ore fossero, ma a giudicare dalla luce e dal rumore che proveniva da dietro le persiane, dovevano essere passate abbondantemente le nove.

Si vestì rapidamente, quanto i mille dolori dell’età avanzata gli consentissero e si avviò, verso il parco. Giunse sul bordo del campo e vide la “sua” panchina, ancora solitaria.

Dovette fermarsi a respirare e prendere tempo. Troppo veloce e troppa emozione. Poi il cuore iniziò a rallentare e il respiro si fece più lungo e regolare. Riprese a camminare raggiungendo la “sua” panchina. Intono a lui tutti, mamme, bambini, tutti sembravano urlare. Si chiese se l’umanità fosse diventata sorda e rimpianse di non essere rimasto a casa.

Improvvisamente, dal nulla, si alzò il vento, sembrava solo un soffio, ma divenne in breve forte e deciso. Sollevò un mulinello di polvere che lo costrinse a chiudere gli occhi e sentì  il sapore  famigliare della sabbia nella gola.

Da quanto tempo era li, ai bordi di una pista sabbiosa e desolata in una ancora più desolata valle nell’ Afganistan sud occidentale. Volando lungo una strada apparentemente abbandonata a sé stessa e al caldo implacabile. Non una traccia di vita per chilometri e chilometri, lungo quel confine che si sapeva un punto di passaggio sempre molto frequentato. Confine scritto e riscritto nei secoli, con disattenzione, a volte con ferocia, spesso con disillusione, sempre con l’indifferenza per quello che un confine può significare.

Anche quello era volare, volare senza essere in volo, una sorta di recitazione. Una prestazione teatrale, necessaria ad ogni decollo, ad ogni atterraggio e durante ognuna delle lunghe ore scritte sul profilo di missione. Quella interpretazione che si richiede ad ogni pilota di velivoli a pilotaggio remoto. Si era vestiti da pilota, si parlava da pilota, si agiva sui comandi come un pilota e si vedeva, seppure su di un monitor il suolo sorvolato. Non era difficile immedesimarsi in quello che a chilometri di distanza e a diecimila piedi dal suolo stava succedendo. Si era in volo, con il proprio equipaggio, con il proprio velivolo, volando senza pensare di essere, in realtà, ad un tiro di fionda dal bar e da una bevanda fresca. Si era in volo e basta, cercando tracce, annusando pericoli, godendo del panorama. Mancava la turbolenza, mancava il sudore o il freddo, l’odore della cabina. Mancava buona parte della paura, quella che ti accompagnava nelle missioni più delicate, mancava la sensazione di non avere la terra sotto i piedi. Ma eri in volo, ancora una volta in volo…

Riaprì gli occhi tossendo leggermente e non era più solo. Lei era li, sul lato libero della “sua” panchina. Il vestito chiaro, i capelli raccolti, il libro sulle ginocchia conserte, le scarpe, senza un filo di polvere, il suo sorriso.

Rimase interdetto, gioia e stupore si sovrapposero saturando i suoi pensieri.

“Non ti avrò spaventato spero!” disse la donna sorridendo.

Notò il tono di voce differente, vicino, più intimo. Si sentì bene, nessun disagio in quell’inatteso cambio di relazione. Sapeva di potersi fidare, gli infondeva una tranquillità profonda, una sensazione di calore. Ora sapeva.

“Sei arrivata finalmente, sapevi che ti stavo aspettando da tempo.” Rispose, senza provare ora alcun imbarazzo.

Lui, quello che viveva dentro una corazza fatta per proteggerlo dalla solitudine e dalla età avanzata, sapeva finalmente, di essere libero di parlare, a quella creatura che sentiva intimamente di conoscere da sempre, e verso la quale, non nutriva timori né ritrosie.

“Hai parlato con lui, so che ti è venuto a trovare, e non è stata l’unica volta che lo ha fatto” lei disse sorridendo. 

“Ha senso chiederti da quanto tempo lo conosci? “

“Da sempre, come da sempre conosco te e tutti quelli che sono venuti prima, quelli che ho seguito dall’inizio del loro tempo. So che hai capito.”

“Le scarpe…” disse l’uomo indicando i piedi piccoli e proporzionati della donna.

“Le scarpe? “rispose lei assumendo un’espressione fra il divertito e il sorpreso.

“Le scarpe si, senza mai un granello di polvere, chi cammina sulla terra, non può non sporcarsi di polvere. Solo chi non è di questa terra ne resta sempre pulito.”

Lei sorrise di nuovo e rispose :“Da quanto tempo, se di tempo si può parlare, mi stavi aspettando? “

“Da sempre, sapevo saresti venuta a trovarmi, era solo una questione di tempo, e ora che il mio tempo è passato, anzi direi ora che il mio tempo è volato, sei qui, e so che questo tempo non è passato invano. Ho avuto tutto quello che volevo e ora sono felice. Sai, ho capito che il mio tempo stava arrivando quando i vecchi amici hanno cominciato a venire a trovarmi. Ho riscoperto una serenità che credevo non potesse esistere.” Disse guardandola fisso negli occhi.

“Ti ho sempre seguito con amore, nei momenti più difficili, quando ti sentivi perso o solo, o disperato, io ero li un passo dietro di te. Il mio compito era suggerire, e tu, hai seguito quei suggerimenti, e ho anche imparato molto da tutti voi.”

“Imparato da noi? Cosa? “

“Ad apprezzare quanto possa essere meraviglioso volare per chi non ha le ali. Ho imparato ad appassionarmi alle vostre passioni.”

Si presero per mano, tenendole strette, e rimasero in silenzio. Mille immagini cominciarono a scorrere nella sua mente. Volti, parole, sentimenti, luoghi. La trama della sua vita, senza alcuna traccia di tristezza, senza nessuna nostalgia, solo una sensazione di infinita tranquillità.

Alzò gli occhi al cielo vide le nuvole bianche sparse in un mare di blu. Si volse guardandola negli occhi grandi e profondi, e vide le scie degli aerei dipingere linee ordinate nel cielo. Vide il sole al tramonto su mari color dell’oro, vide le montagne coperte di neve e ghiacciai infiniti, vide le nuvole più in basso.

Senza mai lasciargli le mani lei si alzò lentamente, invitandolo a seguirla. Luis si alzò e la vide spiegare le ali grandi e luminose.

“Sei pronto a ricominciare? “disse l’angelo.

“Sono pronto! “rispose sorridendo

“Stammi vicino, sarà più bello del tuo primo volo.”

E, tenendosi per mano, salirono verso quel blu punteggiato dei bianchi batuffoli. Vide la “sua” panchina, il parco contornato dai palazzi scuri, le campagne intorno alla città e poi il mare, il mondo verde e blu, tutto il creato e le stelle.

§§§§

La bambina si avvicinò al vecchio seduto sulla panchina. Lo guardava curiosa in silenzio, forse si sarebbe accorto di lei e della palla rimasta sotto la “sua” panchina. Si fece coraggio e si avvicinò allungando il piede per recuperare il pallone. Il vecchio non si mosse.

La mamma la chiamò con un tono che non ammetteva ritardi, e la bimba corse verso di lei con la palla in mano.

“Cosa facevi vicino a quel signore? Non lo avrai disturbato?”

“No mamma, credo stia dormendo mamma. Sai mamma, penso che stesse facendo un sogno bellissimo!”

“E questo cosa te lo farebbe pensare?”  Chiese la mamma sorridendo dolcemente.

“Sorride mamma, sorride come fosse tanto felice”.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Roberto Malaguti

 

Oltre il cielo?


Sin da piccola d’estate guardavo le stelle cadenti e con tutto il cuore speravo che il desiderio espresso si avverasse. A un certo momento ho iniziato ad associare quel bellissimo mondo magico fatto di speranza alle persone care che volavano in cielo perché questo mi veniva detto dai miei genitori … forse perché ero troppo piccolina per capire il concetto di perdita. Posso solo ricordare che questa cosa mi faceva stare bene perché quando aprivo la finestra, quella stella, la più luminosa era il mio nonno che da lassù mi guardava e proteggeva.

Tutt’ora, tutte le notti cerco di avvistare qualche stella cadente. 

Ebbene sì, finalmente all’ultimo anno delle elementari, durante una lezione di scienze, la maestra iniziò a spiegare l’universo: pianeti, nebulose, galassie … l’ascoltavo rapita mentre parlava di quello che c’è nel cielo.

Se prima tutto era immaginario nella mia mente, ora cominciava a essere più concreto: stelle, asteroidi, piccoli e grandi corpi rocciosi in orbita tra Marte e Giove, visibili soltanto con strumenti astronomici, meteore e meteoriti che entrano nell’atmosfera terrestre e producono scie luminose rese incandescenti dalla collisione con le molecole d’aria.

Da quel momento, nonostante le nozioni scolastiche e le ricerche effettuate, ho iniziato a pormi un sacco di domande ma soprattutto una: chi può dire a noi di smettere di sognare? Di credere nelle stelle cadenti, nelle nuvole che assumono forme diverse o in un arcobaleno senza fine? E’ da qui che bisogna tirare fuori la testardaggine e la tenacia di continuare a sognare e iniziare a camminare sulla propria strada. Non sempre ci saranno persone che rideranno con te, anzi ci sarà gente che riderà contro di te ma quello che conta è sognare e credere nei propri desideri e sperare che possano avverarsi.

E’ questo che rende le persone grandi.

Continua così fino alla fine … e potrai dirti: “Sei forte!!!” Perché quello per alcuni era un “precipitare”, tu lo chiamerai volo”. 



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

## proprietà letteraria riservata ##



Emma Lucietto


 

Vietato fumare


– Hai sentito le novità, Clara?

– No: quali sono? Che chiudiamo bottega per sempre e ce ne torniamo a casa?

– Per fortuna non è così. La Shark Investor ha comprato la nostra compagnia aerea e quindi è proprio il contrario: non chiuderemo.

– Questa è una bella notizia: io ho smesso di fumare da appena un giorno ed ero già un po’ nervosa.

– Ovviamente circolano voci sul fatto che ci saranno tagli al personale.

– Ecco: ora mi fai venir voglia di fumare. Figurati: una compagnia aerea con gravi perdite e con dei tagli da fare. Secondo te chi saranno le prime che lasceranno a casa? Io e te, Lisa: le uniche due donne comandanti in tutta questa società al testosterone. Hai una sigaretta?

– Non fumo. E poi aspettiamo gli avvenimenti. Intanto tu tieni duro che già sei stata bravissima a smettere di fumare.

§§§§§

Il giorno seguente i quotidiani riportarono la notizia dell’acquisizione della Iron Air Ltd da parte della Shark Investor.

Il consiglio d’amministrazione fu la prima cosa che cadde nella compagnia aerea.

Al suo posto venne messo un certo Frank Arrivabene, direttore unico.

Frank Arrivabene non aveva alcuna laurea e nemmeno nessuna esperienza pregressa nella gestione di compagnie aeree. Era un ragazzo di venticinque anni che girava con una lussuosissima Mercedes insieme alla sua fidanzata. Il suo unico e grandissimo vantaggio era l’essere il figlio di Joseph Arrivabene, magnate e proprietario della Shark Investor, società che spaziava tra mille operazioni di alta finanza, tutte di successo. Insomma: Frank era il figlio del padrone. Il padre Joseph, sapendo che il figlio era un inetto, lo fece affiancare da uno dei più grandi esperti di aviazione civile del momento, il Comandante in pensione Ascanio Barretta.

Ascanio Baretta aveva già fatto risorgere dalle ceneri diverse compagnie aeree ormai decotte.

Il padre avrebbe voluto in questo modo far sì che il figlio cominciasse a svegliarsi un po’ e a interessarsi al mondo degli affari.

Ma torniamo ai nostri comandanti Clara e Lisa che vennero convocati dal neoproprietario Frank dopo appena due giorni dal suo insediamento.

– Eccoci qua Lisa: i primi e forse unici due tagli della Iron Air Ltd.

– Sinceramente me lo immaginavo. Andiamo a sentire cosa vogliono fare.

– Hai una caramella? – chiese Clara a Lisa.

– Sì, certo. Stai tenendo duro col fumo?

– Al momento sì ma mi sa che dopo questo incontro mi metterò a fumare il sigaro.

Le due donne entrarono negli uffici amministrativi che si trovavano accanto all’aeroporto e la segretaria di sempre, la signora Mary Ann, le accolse calorosamente.

– Ciao Clara. Ciao Lisa. Aspettate qui un minuto. I due sono in riunione.

– I due chi? – chiese Clara.

– Frank Arrivabene e il comandante Ascanio Barretta. Posso offrirvi un caffè o un tè nel frattempo?

– Un caffè? Un tè? No, grazie. Per caso hai qualche caramella?

– Come no! Prenditene una manciata di queste. Sono le caramelle che mettiamo nelle sale riunioni. Lo so che hai smesso di fumare: tutti ne parlano e sei stata bravissima.

Clara sorrise mentre si stava riempiendo le tasche di caramelle.

In quel momento la porta dell’ufficio dirigenziale si aprì e il comandante Ascanio, un bell’uomo dall’aspetto giovanile, di quasi 65 anni, fece cenno loro di entrare.

– Accomodatevi, comandante Clara Chase e comandante Lisa Devy. Io sono il comandante Ascanio Barretta, incaricato della ristrutturazione della Iron Air Ltd e questo giovanotto è il neoproprietario della Iron Air Ltd, il signor Frank Arrivabene.

Clara, dopo le consuete strette di mano, senza farsi vedere, tirò fuori una caramella e la mangiò. Era nervosissima. Così come lo era Lisa.

– Voglio subito tranquillizzarvi. Le voci che avete sentito in giro sul ridimensionamento dell’azienda sono del tutto infondate. Addirittura è il contrario. Il gruppo Shark Investor vuole far crescere la compagnia e quindi, nei prossimi tre anni, assumeremo una ventina di piloti e prenderemo tre nuovi aerei.

Clara tossì quasi strozzandosi.

– Tutto bene Comandante? – chiese Ascanio.

– Sì: mi scusi. Mi è andata di traverso una caramella.

– Diamoci pure del tu: siamo tutti piloti. – disse Ascanio mentre offriva un bicchiere d’acqua a Clara e continuò dicendo: – Ovviamente siete già a conoscenza del fatto che il mondo odierno giri intorno ai media e ai social. E, oggi come oggi, la discriminazione tra i sessi è vista come la nuova peste. Le donne hanno un peso uguale agli uomini e noi, come ben sapete, siamo un po’ fuori dagli standard: ci siete solo voi due ragazze in mezzo a 120 piloti uomini. Per questo motivo vorremmo lanciare una campagna di reclutamento riservato esclusivamente al sesso femminile, per cercare di riequilibrare un po’ questo divario. Per fare questo vorremmo girare un piccolo documentario che metteremo su Facebook, Instagram e YouTube con voi due ai comandi di uno dei nostri aerei, su di una rotta un po’ lunga, un sei o otto ore, dove faremo quattro chiacchiere conoscitive e qualche intervista per invogliare le future assunzioni. In cabina ci sarò anch’io, come voce narrante, un cameraman e fuori, tra i passeggeri, il tecnico del suono.

– Ci saranno dei passeggeri veri o saranno solo comparse? – chiese Lisa.

– Passeggeri veri. Non dobbiamo perdere soldi in nessuna occasione, non sei d’accordo?

– Certo. Mi pare un’idea eccellente. E quando partirebbero le riprese?

– Tra due giorni esatti.

Durante tutti questi discorsi, Frank Arrivabene guardava il suo cellulare senza prestare particolare attenzione ai discorsi dei tre piloti e senza mai aprire bocca.

Finito il colloquio, le due donne si congedarono e iniziarono a parlare tra di loro mentre tornavano a casa.

– E allora? Come ti sembra che sia andata?

– Bene. Non immaginavo proprio questo cambiamento. Addirittura sono previste delle assunzioni e saremo noi a fare da testimonial per l’azienda.

– Ti rimetterai a fumare?

– No. Per il momento no. Magari il giorno delle riprese sì: sarò nervosissima.

– Ma ci pensi? Finalmente avremo un bagno tutto nostro. Trenta nuove colleghe!

– Mi pare di ricordare che abbia detto venti.

– Va bene: venti o trenta poco cambia. Piuttosto che te ne pare del nuovo padrone?

– Chi? Ascanio?

– Ma no! Quello lo vedi che sa il fatto suo. E poi avevo già sentito parlare di lui. Quando Ascanio prende in mano le compagnie aeree a pezzi, queste, nel giro di un paio d’anni, decollano. Mi riferivo al ragazzino.

– Ah! Quello? Mi pare un idiota messo lì senza alcun motivo. Non ha detto una parola. A me è sembrato che durante i nostri colloqui guardasse dei filmati su TikTok. E poi aveva un pacchetto di sigarette sulla scrivania. E, dall’odore, direi che fuma in ufficio.

– E avresti voluto anche tu fumare?

– All’inizio sì ma poi a sentire le belle notizie mi è passata la voglia.

– Così ti voglio, Clara! Sei la migliore! Tieni duro!

A Clara e Lisa venne cambiato il programma di volo. Due giorni a casa, di riposo, prima delle riprese. La rotta che avrebbero usato per il filmato promozionale era una comunissima Londra Mumbai di circa nove ore: partenza, ora locale, alle 07:00 e arrivo previsto alle ore 21:00, sempre ora locale. Per una migliore riuscita del documentario, i primi sei posti della business class non erano stati venduti, lasciandoli a disposizione per le attrezzature e per i vari tecnici.

E finalmente arrivò il fatidico giorno: era il 7 Luglio, alle 05:00 del mattino.

– Clara: hai visto il bollettino meteo?

– Sì: all’arrivo ci saranno i monsoni. Non so se sarà un documentario sugli aerei o sugli ottovolanti.

– Nervosa?

ra di celebrità come diceva Andy Warhol.

Arrivarono in sede e la segretaria Mary Ann le accolse: – Prendete qualcosa? Un tè? Un caffè?

– Grazie. Io no. Hai ancora caramelle?

– No, tesoro: mi spiace. Se le mangia tutte Frank. In fin dei conti le paga lui.

In quel momento uscirono dalla stanza Ascanio, Frank, un cameraman e un tecnico del suono.

– Buongiorno a tutte. Se ora volete aspettarci dentro l’ufficio di Frank, noi gireremo qua con Mary Ann per qualche minuto e poi rientreremo per fare la parte con voi due.

Le due pilote entrarono nella stanza del neoproprietario e si sedettero.

l’attenzione di Clara fu calamitata dal portacenere del suo capo: vi erano le cicche di diverse sigarette spente.

La ragazza si fermò ad ammirarle, quasi in estasi.

Sulla scrivania c’era anche il pacchetto di sigarette del suo capo.

Lo prese, lo aprì e annusò il profumo del tabacco.

Lisa la guardò male e la sua collega, con fare risoluto, lo rimise al posto.

Vide sempre sullo stesso tavolo una caramella bianca già scartata, la prese e se la mise in tasca.

Lisa alzò le spalle e acconsentì a quel piccolo furto.

Il gruppo entrò di nuovo nell’ufficio e l’intervista continuò con Ascanio come speaker.

– Stiamo per partire per Mumbai con le nostre due colleghe Clara e Lisa: saranno loro che ci porteranno a destinazione senza problemi. In volo avremo modo di conoscerle meglio. Ma ora salutiamo il nostro direttore, Frank Arrivabene, che a causa di pregressi impegni di lavoro non potrà seguirci sino a Mumbai. Lo ritroveremo tra tre giorni di nuovo qui, a Londra. Dirigiamoci al nostro aereo, un moderno Airbus A350, che sarà pronto al decollo dopo che Clara e Lisa avranno fatto i controlli di routine e avranno avuto il via libera per la partenza dalla torre di controllo. Chi lo dice che pilotare aerei non è un lavoro da donne? Noi qui ne abbiamo addirittura due e aspettiamo con ansia le vostre candidature. Forza! Qui sotto troverete il link per le vostre iscrizioni.

La telecamera si spense e il gruppo uscì per andare sulla pista, vicino all’aereo.

Il cameraman continuò le riprese: – Ora la nostra Clara sta controllando che tutto sia a posto mentre Lisa ha fatto i conti del carburante necessario per il viaggio.

Finita l’ispezione esterna, una volta a bordo l’equipaggio, continuarono le riprese: – Ed ecco che il nostro magnifico duo sta facendo il controllo prevolo dell’aereo. Ragazze! Questo è un lavoro di responsabilità! E chi, se non le donne, sono precise e responsabili? Forza! Qui sotto troverete il link per le vostre iscrizioni.

Poi spensero la telecamera e tutti si misero ai propri posti: – Hai visto Ascanio il meteo a Mumbai? Sei proprio sicuro di fare oggi le riprese?

– Ho visto: non c’erano stati questi monsoni con piogge torrenziali dai tempi di Visnù. Casomai alcune parti le gireremo al ritorno: voi non preoccupatevi e siate naturali. Ad ogni modo ti vedo un po’ tesa Clara. Sono per caso le riprese che ti innervosiscono?

– Oh, no: – rispose Clara – oggi è il quinto giorno che non fumo ma un po’ di nervosismo per la nicotina c’è ancora.

– Che brava. Tieni duro, Clara! Io ho smesso sedici anni fa e non mi sono mai pentito di questa scelta. Si vive meglio senza sigarette. Forza! Siamo tutti con te. E ora iniziamo: voglio che mi facciate un decollo da manuale. Ah! Non ho ancora fatto le presentazioni: lui è Phil, il nostro cameraman; loro sono il comandante Clara e il comandante Lisa. In prima fila, di là, c’è Andrea, la nostra tecnica del suono.

Ci furono le consuete strette di mano e finalmente tutto era pronto.

– Clara: quando vuoi, puoi partire. Phil riprendile pure.

Clara fece un decollo da manuale e iniziò a salire in quota. Dopo qualche minuto fece l’annuncio ai passeggeri: – Buongiorno. Qui è il vostro comandante Clara Chase che vi parla. Sono le ore 7 e 4 minuti, il decollo è avvenuto in orario e prevediamo di arrivare a Mumbai per le ore 20:50, ora locale. Il volo durerà circa 8 ore e 40 minuti. In più vi segnaliamo che dovendo girare a bordo un video commerciale della nostra compagnia, la Iron Air Ltd, la prima fila di poltrone della business class e i relativi bagni non saranno fruibili. Durante il volo la troupe potrebbe passare a intervistarvi. Segnalate subito all’operatore se desiderate non farvi riprendere. Vi auguro un sereno volo.

– Magnifico Clara: ti vedo un po’ più tranquilla adesso.

– Magari! La voglia di fumare è sempre dietro l’angolo. Mangerò l’ennesima caramella. – e mentre diceva ciò tirò fuori dalla tasca quella che aveva preso nell’ufficio di Frank Arrivabene. La masticò per un po’ ma poi la sputò in un fazzoletto: – Ma fa schifo! Ma che roba è? Ha un saporaccio amaro. Sembra vaniglia ma è immangiabile!

Allora prese una delle caramelle che le aveva comperato Lisa e la mangiò: – Queste sì che sono buone. Ho ancora in bocca quel sapore schifoso.

Dopo circa mezz’ora di volo Clara cominciava a sudare freddo. Decise di controllare il Flight Management Guidance Computer, ovvero il computer di bordo per controllare il consumo di carburante.

Invece della solita indicazione comparve la scritta: «System error – Do you want to save your life?» (Errore di sistema – Vuoi salvare la tua vita?)

La finestra di dialogo dava le tre solite scelte: «Sì – No – Annulla»

Clara, sudatissima, scelse all’istante «Sì».

Poi ripensò all’accaduto e lo trovò assurdo.

Sempre più nervosa, riprendendo la freddezza e la logica di chi fa il pilota da molti anni, guardò il display e vide che mostrava solo la quantità di carburante come da lei richiesto.

Ora la scritta era logica e aveva un senso.

Pensò che il tutto fosse stato solo un miraggio, una svista: nulla di più.

Tirò fuori dalla tasca una delle caramelle regalate da Lisa e iniziò a sgranocchiarla nervosamente.

– Che ne dite se facciamo un cinque minuti di riprese, mentre pilotate nel cielo? – chiese Ascanio – Lasciate pure inserito l’autopilota e tenete la cloche tanto per fare un po’ di scena. Magari chiederò a Lisa cosa l’abbia spinta a diventare pilota e poi chiederò a Clara quale sia stato il suo percorso formativo. Oppure, se volete, facciamo al contrario: cosa ha spinto Clara a diventare pilota e il percorso formativo di Lisa.

– Per me va bene la prima. – disse Lisa.

– Anche per me. – aggiunse Clara.

– Perfetto: Phil, quando vuoi, iniziamo. E voi mettete le mani sulla cloche e fate finta di pilotare.

Phil fece ad Ascanio il segno di “ok” per confermargli che stava girando.

– Ed eccoci ancora qui, a bordo del nostro Airbus A350 della Iron Air Ltd con il comandante Clara Chase e Lisa Devy. Dovremmo essere ancora sopra la Francia, diretti in India. Dato che al momento non ci sono difficoltà e la strada è tutta dritta, vediamo di conoscere un po’ meglio le nostre due amiche disturbandole solo cinque minuti. Lisa: potresti spiegare un po’ ai nostri ascoltatori cosa ti abbia spinto a diventare un pilota?

In quel momento Clara li interruppe e disse: – Silenzio! Non sentite anche voi un sibilo? Come quello di un serpente?

Tutti si zittirono e ascoltarono attentamente. Clara avvicinò la sua mano alla cloche, la guardò e poi urlò: – Argh! La cloche! È lì! Il serpente! – e mentre diceva ciò si slacciò le cinture e si alzò andando in fondo alla cabina.

Phil spense la telecamera all’istante e con Ascanio cercarono subito l’animale. Lisa, terrorizzata, guardava verso Clara.

Ascanio, coraggiosamente, prese un ombrello da usarsi come arma improvvisata e si mise a frugare tra i pedali e i vari anfratti della cabina di pilotaggio. Dopo qualche minuto di attente ricerche Ascanio disse a Clara: – Ti senti bene? Sei sudatissima e pallida ma qui di serpenti non ce n’é nemmeno l’ombra. Sei proprio sicura di aver visto un serpente?

Un po’ confusa, la ragazza, in fondo alla cabina, ancora tremante, disse: – La cloche: mi era sembrato che ci fosse un serpente lì vicino. In realtà non mi sento molto bene. Forse sarà il nervoso per le riprese o forse il fatto che non stia fumando: non lo so.

Ascanio prese l’interfono e chiamò una delle hostess: – Mi porti per favore tre caffé per noi e una camomilla per Clara con quattro brioche, grazie.

Dopo qualche minuto entrò l’hostess e portò la colazione a tutti. Si fermò a guardare Clara e le disse: – Ma sei bianca come un cadavere: stai bene?

– Non lo so: mi sento molto strana. Forse la camomilla mi farà stare meglio. Saranno quelle maledette sigarette che mi mancano e il mio corpo le chiama a gran voce.

– Lo sappiamo tutti che stai smettendo di fumare e tutti facciamo il tifo per te, Clara. – disse l’hostess mentre usciva dalla cabina.

– Ho una voglia pazza di fumare.

– Clara: sii professionale. Tieni duro. Bevi la camomilla e mangiati un paio di caramelle. È tutta scena: dopo la prima settimana andrà meglio. Credimi. Io ci sono passato.

– Certo: lo so. Scusate per prima.

– Facciamo così: adesso ti riposi per un’ora e poi rifacciamo l’intervista. D’accordo? Anzi: io e Phil usciamo così non vi disturbiamo. Andiamo di là, in cabina con la nostra fonica e cominciamo a montare il materiale che abbiamo già girato. Ci vediamo tra un’ora.

Clara, ancora sudata e bianca, disse: – D’accordo.

Dopo una ventina di minuti di volo in cui non era successo nulla, Clara sentì un picchiettare sul suo vetro di sinistra.

Si girò e vide fuori dall’aereo un’anatra che volava.

– Ti ricordi di me? – disse l’anatra.

Clara strabuzzò gli occhi e rispose: – Le anatre non parlano. E non volano nemmeno a 33.000 piedi a quasi 900 chilometri orari.

– Ti ricordi di me? – chiese nuovamente l’anatra.

Clara, in un bagno di sudore, disse: – No. Non mi ricordo di te.

– Te lo dico io allora: Tel Aviv, 4 aprile 2016. Decollo dall’aeroporto Ben Gurion. Ti dice qualcosa?

Clara, con la testa che le scoppiava, stava pensando e ripensando a quella data: – No. Non mi ricordo di te.

– Avresti dovuto: rejected take-off, decollo abortito per un’ingestione di un’anatra nei motori.

– Ora mi ricordo! – disse a voce alta Clara.

Lisa le chiese: – Ti ricordi cosa?

– Quello che mi sta dicendo quest’anatra dal finestrino. Un decollo abortito a Tel-Aviv.

– Clara? Ma cosa stai dicendo? Quale decollo abortito? A Tel-Aviv? Un’anatra al finestrino? Ti senti bene?

Clara si voltò nuovamente verso il finestrino e non c’era ovviamente nessuna anatra.

– Clara. Seriamente: chiedo la pilot incapacitation[1] per te. Ascanio è ancora un pilota con brevetto valido: faccio mettere lui al tuo posto oppure invertiamo e torniamo a Londra. Sei sudatissima e bianca come un cadavere: tu non stai bene.

– Sto bene! – urlò Clara – È quella maledetta nicotina che mi manca. Tutto qui.

– Come vuoi: ora riposati un po’ che poi andrà meglio. Ti faccio portare qualcosa?

– Sì: delle sigarette.

– Sii seria, Clara. Vuoi mangiare qualcosa così ti dimentichi il fumo?

– No. Sto benissimo. – urlò a Lisa.

Lisa la ignorò.

Passarono un quarto d’ora in silenzio.

Ora Clara cominciava ad avere caldo e mise la mano vicino alla bocchetta dell’aria.

– Ahi! – gridò.

Seccata, Lisa le chiese: – E ora che c’è?

– C’è che questo stupido aereo mi ha morso.

– Clara: – disse pacatamente Lisa – un aereo non morde. Un aereo vola, decolla, atterra. A volte precipita. Ma non morde.

– Questo mi ha morso.

– Clara: lascia la cabina. Sei esonerata. È un ordine. Fai entrare Ascanio.

– Mi prendete tutti per pazza?

Clara spense il segnale di “vietato fumare”, si alzò e uscì dalla cabina di pilotaggio. Passò davanti a Phil, Andrea e ad Ascanio che le chiese: – Stai un po’ meglio?

Clara gli urlò: – No! – e continuò a vagare tra i passeggeri della business class che la guardavano meravigliati.

– Qualcuno di voi ha per caso una sigaretta? – urlò a tutti i passeggeri.

Timidamente, dopo qualche istante, un distinto uomo d’affari londinese tirò fuori un pacchetto.

Clara, come un’indemoniata, andò vicino all’uomo e prese una sigaretta e si allontanò. Poi ritornò sui suoi passi e gliene prese un’altra. La gente la guardava senza capire cosa stesse accadendo.

Clara andò in una poltrona libera, si tolse le scarpe, allungò la sedia fino a farla diventare un divanetto e si accese la sigaretta.

Un’anziana donna indiana che stava vedendo la scena chiese all’hostess che le era accanto: – Mi scusi signorina: ma si può fumare sull’aereo?

L’hostess, anch’essa un po’ confusa da tutti gli avvenimenti, presa in contropiede, rispose: – Forse sì ma solo in alcuni posti. Vede che il segnale di “vietato fumare” è stato spento? Comunque ora le porto alcuni stuzzichini. Da bere cosa gradisce?

Ascanio intanto entrava in cabina di pilotaggio e a voce alta chiese: – Dimmi che cavolo sta succedendo. Clara è di là che fuma e tu sei qui da sola.

– Non lo so: è impazzita. Prendi tu con me i comandi. Torniamo indietro?

– No: non torniamo indietro. Prendo io i comandi con te. Andiamo a Mumbai.

Ascanio prese il posto di Clara, si mise le cinture e la cuffia e spense l’allarme di “fumo in cabina” causato dalla sigaretta.

Intanto nella business class Clara aveva finito la sua sigaretta. Si accese anche la seconda e la fumò tutta. E si addormentò.

La signora indiana chiese nuovamente alla hostess: – Signorina: ma lei è proprio sicura che si possa fumare?

– Certo: vede il segnale che è ancora spento. Le porto qualcos’altro da bere? Vuole un libro? Le presto il mio. È molto bello. Non l’ho ancora finito ma l’ho trovato molto avvincente. Glielo regalo, non si preoccupi. Io, poi, me ne acquisterò uno nuovo.

Dopo quasi quattro ore di volo Clara si risvegliò, si stiracchiò, si rimise le scarpe e andò in cabina. Aveva ripreso un colorito normale e non sudava più.

– Che ci fai al mio posto, Ascanio?

Ascanio e Lisa la guardarono come si guarda un matto.

– Lo sapete che di là, in business class, c’è odore di sigaretta? Secondo me qualche furbetto ha fumato.

– Ti vedo meglio ora. – disse Lisa.

– Non mi ricordo bene cosa sia accaduto: forse non sono stata molto bene ma ora va molto meglio. Quanto manca all’arrivo?

– Siamo già sul sentiero di discesa. Il tempo a Mumbai è uno schifo. Ci hanno segnalato 11 millimetri di pioggia. Temo che dovremo divergere su di un altro aeroporto.

Clara, non ricordandosi bene ciò che era accaduto, prese posto dietro, lasciando Ascanio ai comandi.

Quando furono sul sentiero di discesa, verso i tremila metri, Ascanio disse: – Rinunciamo e riattacchiamo. Proviamo a chiedere che ci diano un aeroporto con condizioni meteo migliori di questo.

E l’aereo riprese quota.

Fu allora che Clara disse: – Sbaglio o sono ancora il Comandante di questo aeromobile?

– Io ho chiesto la tua rimozione dato che vaneggiavi.

– L’hai verbalizzata ai controllori di volo?

– Effettivamente no.

– Grazie Lisa. Ti devo un favore. E ora, Comandante Ascanio, se gentilmente volesse alzarsi e cedermi il posto.

Ascanio la guardò, si slacciò la cintura, aprì la porticina e chiamò il cameraman.

– Phil: inizia a riprendere tutto. Ho studiato i rapporti di volo su questa ragazza e sono incredibili. Quindi, se tutto andrà bene, avrai filmato uno degli atterraggi più difficili della tua vita; se andrà male avrai filmato uno dei disastri peggiori della Iron Air Ltd.

Clara sorrise ad Ascanio che le strizzò l’occhio e iniziò la checklist per la discesa e l’atterraggio.

La pioggia era veramente forte.

Poi si voltò verso la telecamera e disse: – Sugli aerei non ci sono uomini o donne ma ci sono solo piloti. Persone che amano volare perché ce l’hanno scritto nel loro DNA. E chiunque sieda in questo posto farà di tutto per portarvi a casa, al lavoro, in vacanza, presso la vostra famiglia o presso i vostri amici senza che vi accada nulla. L’unica differenza è che se pilota una donna tutto sarà più preciso e delicato. E ora allacciatevi le cinture di sicurezza dato che dobbiamo atterrare per non fare arrivare in ritardo tutti questi simpatici passeggeri. Forza! Qui sotto troverete il link per le vostre iscrizioni.

Ascanio, sottovoce, disse a Phil: – Mi piace quello che ha detto: lo useremo per la nostra campagna di reclutamento.

Pur con alcune difficoltà Clara riuscì a far atterrare al primo colpo il suo Airbus sotto una pioggia torrenziale. I passeggeri applaudirono per la manovra perfetta nonostante il maltempo.

– Qui è il vostro comandante Clara Chase che vi dà il benvenuto a Mumbai dove sono le ore 20:55. Vi preghiamo ancora di stare con le cinture allacciate sino all’apertura delle porte. Non scordatevi il vostro bagaglio a mano e vi ricordiamo che sull’aereo e nell’aeroporto è vietato fumare. Vi ringraziamo per aver scelto la Iron Air Ltd e ci auguriamo di avervi ancora a bordo con noi. Una buona serata a tutti.

Spento l’interfono Clara, rivolgendosi ad Ascanio disse: – È possibile sapere se in una certa data un nostro aeromobile abbia avuto un incidente?

– Penso di sì. Chiamiamo la sede e glielo chiediamo.

– Cercami tutti gli incidenti del 4 aprile 2016 a Tel-Aviv.

Ascanio fece un lungo giro di telefonate mentre i passeggeri stavano scendendo e dopo un po’ disse: – Ecco qua: 4 aprile 2016, aeroporto Ben Gurion di Tel-Aviv. Un Airbus A321 comandato da te, Clara Chase. Ingestione di volatile nel motore due. Danni minimi. Partenza ritardata di tre ore.

Clara sorrise e disse: – Però! Quell’anatra aveva proprio ragione.

Sorrise.

Si alzò, uscì dalla cabina di pilotaggio e andò dal distinto uomo d’affari londinese che, per sua sfortuna, non era ancora sceso e gli disse: – Mi offrirebbe un’ultima sigaretta?

L’uomo si alzò, le diede tutto il pacchetto, prese il suo bagaglio a mano e si avviò di corsa verso l’uscita.

– Che gente strana che c’è in giro. – disse Clara.

Poi tornò in cabina, si sedette, aprì il finestrino sotto una pioggia torrenziale e si accese una sigaretta.

– Ah! Sto benissimo. Settimana prossima smetterò di fumare.

– È vietato fumare sugli aerei. – disse Lisa.

– È vietato fumare sugli aerei. – disse Ascanio.

Clara raggiunse l’interruttore del segnale del divieto di fumo e lo spense: – Ora si può.

Nel frattempo, alla stessa ora notturna, in un bellissimo attico del centro storico di Londra, c’era Frank Arrivabene, direttore unico della Iron Air Ltd, molto agitato, insieme alla sua compagna.

– Io non so proprio spiegarmelo che fine abbia fatto. Era sul mio tavolo, in ufficio, da me, e poi è sparita. Non c’era più. L’ho cercata dovunque.

– Non ce l’hai in tasca?

– Ti ho già detto di no! Ho già controllato. E poi son sicuro di averla lasciata sul tavolo. Guarda che da me non entra nessuno. Sono il padrone della compagnia! E la mia nuova segretaria è fidatissima.

– Sarà pure fidatissima ma questa sera la nostra pastiglia di ecstasy da dividerci in due non ce l’abbiamo.

– Mah? Chissà che fine avrà fatto?

– Mah?

 

[1] Situazione in cui uno (o più) dei piloti non viene ritenuto più in grado di gestire le normali operazioni di volo e per questo motivo viene esonerato da ogni compito relativo al velivolo.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Ma infatti io piango!

Una canzone degli Abba, uscita nel 1978, è tra le mie preferite. La ascolto volentieri mentre viaggio in macchina e spesso la rimetto daccapo per risentirla, non mi stanca mai. Le parole sono in inglese, ma come spesso accade con questa lingua, sono talmente efficaci da proiettarmi indietro nel passato e farmi rivivere momenti di vita vissuta come in un sogno.

La canzone parla di aquile. Quelle vere, forse, ma io ne ho conosciute altre che potrebbero essere inserite pari pari nella canzone.

They came from far away, now I’m under their spell. I love  earing the stories that they tell. They’ve seen places beyond my land. They’ve found new horizons. They speak strangely, but I understand“.

“Sono venuti da molto lontano, ora sono sotto il loro incantesimo. Mi piace ascoltare le storie che raccontano. Hanno visto luoghi al di là della mia terra. Hanno trovato nuovi orizzonti. Parlano in maniera strana, ma io capisco.”

Le aquile di cui parlo sono venute davvero da molto lontano. Non solo beyond my land – oltre la mia terra, ma anche beyond my time – oltre il mio tempo. Non ero ancora nato quando loro già volavano verso altri orizzonti. E mi piace ascoltare le loro storie, quando sono in vena di raccontarle.

Parlano strano, è vero. Usano termini antichi, parole ormai sostituite da altre più moderne, frasi idiomatiche che sembrano conoscere solo loro. Ma basta poco tempo per apprenderle. E inevitabilmente conquistano l’ascoltatore, che resta incantato ad ascoltare.

Parlano strano. Ma io capisco.

Alla fine degli anni sessanta e nei primi anni settanta ne incontravo molte, di queste aquile, appena entrato in Aeronautica Militare. Ufficiali e sottufficiali, marescialli anziani, tutti riconoscibili nella loro divisa impeccabile, con l’immancabile aquila turrita di pilota militare sul petto, giusto al di sopra di un largo rettangolo di nastrini e onorificenze. Medaglie al valore, guadagnate in azioni di guerra, chissà dove, come e in quali azioni.

Li incontravo ovunque.

Guidonia è sempre stato un luogo molto attraente per tutti noi appassionati di aviazione. La sua storia ha profonde radici nel passato. Non tanto la cittadina quanto il suo aeroporto.

L’aeroporto di Guidonia è stato teatro di infiniti eventi aeronautici che meriterebbero una enciclopedia intera ad essi dedicata.

Oggi esistono ancora molti indizi degli antichi fasti, ma certamente, per vederli, bisogna avere un’adeguata conoscenza della Storia e un occhio ben attento. L’ambiente è profondamente cambiato nei decenni. Tutto si è modernizzato, non solo nelle infrastrutture, che non sono cambiate così tanto dagli anni ruggenti dell’Aviazione italiana, ma anche e soprattutto nell’ambiente umano. Oggi l’aeroporto rispecchia le condizioni generali della forza armata che lo gestisce, l’Aeronautica Militare Italiana. Oggi sono soprattutto giovani quelli che girano per i reparti.

Sui piazzali vediamo parcheggiati velivoli di diverso tipo, alcuni sono jet e altri sono ancora aerei ad elica. Poi ci sono gli alianti, qui ha sede una sezione del volo a vela militare. I monomotori ad elica servono proprio a trainare gli alianti, che sono quasi esattamente uguali ai nostri, ma con le classiche coccarde sulle ali.

Qualche decennio fa l’Aeronautica usava questa sede per ospitare reparti in via di estinzione, di trasformazione o di ricollocazione, aerei e personale. Per alcuni piloti anziani questo aeroporto ha costituito l’ultima pietra miliare del loro percorso operativo. La successiva era la pensione.

Ma qui, per un breve periodo, continuavano a volare sui loro vecchi aerei, che successivamente sarebbero stati pensionati anch’essi, cioè radiati. E’ stato il caso dei C45 bimotori, dei T6 della scuola di Alghero e dei Siai 208 che oggi continuano a volare come aerei di collegamento e di traino alianti.

Non appartenevo a quei reparti, ma spesso andavo a trovare i miei colleghi che invece vi appartenevano. C’ero anch’io tra quei militari e li ho visti. Loro e i loro aerei.

Ero di casa a Guidonia, già dieci anni prima di andarci per cominciare il corso di pilota di aliante, nella sezione di volo a vela dell’Aeroclub di Roma, che in quell’aeroporto aveva sede.

Ho conosciuto quei piloti, anziani e prossimi alla pensione, ma ancora ben validi. Li ho visti salire sui C45, accendere i motori e rullare verso il punto attesa. Li ho visti decollare e atterrare, sempre in maniera impeccabile. Molti avevano sulla divisa il simbolo di ferite di guerra. Avrei voluto domandare loro tante cose, ma non parlavano volentieri di certi argomenti e comunque i loro atteggiamenti e l’espressione di quei visi non mi incoraggiavano certo a fare domande. Sembravano appartenere a un altro mondo.

Devo dire che, in genere, facevano caso all’ aquiletta dorata che portavo sulla divisa, quella di pilota civile di aeroplano. Qualcuno mi chiedeva dove avessi preso il brevetto (allora la licenza di volo si chiamava così). Quando rispondevo di averlo preso all’Aeroclub di Viterbo mostravano subito segni di grande apprezzamento. In genere sembrava che conoscessero molto bene  l’aeroporto di Viterbo, come se fosse stato un loro luogo di predilezione, come se vi avessero operato tanto tempo prima, in un tempo lontano di cui io non sapevo nulla. Come se si fosse trattato di una vita precedente.

Ogni tanto, appena nominavo Viterbo e il suo Aeroclub, mi sentivo dire sempre la stessa frase: “Ah, ottimo Aeroclub. Una vera fucina di piloti. Lì nascono piloti veri …“.

Era come se, all’improvviso, mi avessero collocato su uno scalino più in alto.

Questo era l’atteggiamento generale, del quale, però, non avevo idea di quale fosse il motivo. Nelle discussioni, che immancabilmente seguivano, venivano nominati altri piloti, mi chiedevano se conoscevo questo o quello, personaggi che a Viterbo vivevano o semplicemente frequentavano l’Aeroclub. Non solo piloti, anche specialisti. La loro fama era qualcosa di vago e misterioso, noi giovani eravamo poco consci di quale storia e quali avvenimenti celassero dietro i loro sguardi profondi, a volti persi nel vuoto, a volte duri e intransigenti, a volte però, perfino gentili e indulgenti.

Al di là dell’apprezzamento per essere un pilota, tuttavia, percepivo anche una sorta di sfiducia generalizzata verso i piloti civili come me. All’inizio la attribuivo al fatto di essere tanto giovane, di fronte a persone molto più anziane. Ovviamente, alla mia età, ero all’inizio. Per avere la loro esperienza avrei dovuto volare per tutta la vita. E magari fare anche qualche anno di guerra. Insomma … come biasimarli! Ero un principiante. Poco ma sicuro.

Nel corso delle chiacchierate, dove non mi dicevano nulla delle loro storie, specialmente quelle del periodo bellico, si parlava degli aerei moderni. In particolare emergeva un elemento fra tutti: la differenza fra gli aerei con il carrello cosiddetto triciclo, quello con la terza ruota sotto il muso e quelli che avevano il ruotino sotto la coda, detti bicicli. Sembrava che, nella loro considerazione, i primi fossero troppo facili, i secondi difficili e, manco a dirlo, gli unici che si potessero considerare aerei veri. E giù discussioni su tendenze ad imbardare, coppia dell’elica, quanto piede serviva per contrastare certe forze con il cosiddetto timone di direzione che si comanda, appunto, con la pedaliera. Con gli aerei di oggi, beh! tutto è diventato facile. Troppo facile. Sui tricicli sono tutti piloti, ormai … Ai loro tempi, invece … e frasi di questo genere.

Tra racconti di imbardate ed episodi di uscite di pista, prima o poi riuscivo a dire che conoscevo il problema, perché a Viterbo volavamo su entrambi i tipi di aeroplani. I bicicli erano i PA 19. Li avevamo avuti dall’Esercito Italiano che, pur conservandone un certo numero per sé, alcuni li passavano agli Aeroclub.

Appena venivano a sapere che volavo anche con i bicicli … la mia quotazione saliva istantaneamente. Nonostante fossi un principiante, venivo dall’Aeroclub di Viterbo, volavo con aerei bicicli, quindi … mi sentivo collocato ben due scalini più in alto.

Ogni tanto mi invitavano anche al bar con loro. Meravigliosa sensazione. In quelle occasioni era come se fossi uno di loro. Quasi.

Veterani. Alcuni erano veterani di guerra. Gente che emanava durezza, ma anche una straordinaria gentilezza, nobiltà di modi, inclinazione naturale alla solidarietà e alla disponibilità. Emanavano esperienza e capacità. E si vedeva chiaramente che erano alla fine di una carriera cominciata in un tempo lontanissimo; che arrivavano da un percorso a me oscuro, ma che avevano attraversato l’inferno, una guerra tremenda, vicende dolorose e terribili, tanto da non poterne neppure parlare.

Infatti non se ne parlava. Al primo accenno a quegli avvenimenti si chiudevano, smettevano di parlare o cambiavano discorso. Sembravano trattenere il respiro per evitare di commuoversi, forse erano troppo travolgenti i ricordi. Qualcuno guardava da un’altra parte…

Quei vecchi marescialli sembravano alieni venuti da un’altra galassia.

Qualcuno di loro aveva sulla divisa una striscia dorata che sapevo rappresentare ferite di guerra. E non potevo fare a meno di averne rispetto, ma anche di questo non osavo chiedere notizie di dove e come erano stati feriti.

La canzone degli Abba, ad un certo punto, dice:

As all good friends we talk all night, and we fly wing to wing. I have questions and they know everything

Come tutti i buoni amici parliamo tutta la notte, e voliamo ala contro ala. Ho tante domande e loro sanno tutto

Avrei volato volentieri con loro. Forse avrei potuto provare a ottenere il permesso di farlo, ma non mi ricordo di averlo chiesto. Forse no. Peccato, perché per me sarebbe stato un grande privilegio e un notevole onore.

Ma un giorno accadde una cosa che ricordo ancora molto vividamente.

Tornavo da un volo a Siena, solo a bordo di un Morane Saulnier dell’Aeroclub, e stavo sorvolando Montefiascone, diretto a Viterbo per l’atterraggio. C’erano molte nuvole e mi divertivo a passarci vicino, sfiorandole con l’ala. Addirittura, se ne vedevo qualcuna abbastanza piccola e sfilacciata, ci passavo dentro.

Mentre sbucavo da dietro una nube piuttosto grande, a rispettosa distanza, improvvisamente vidi un aereo al mio stesso livello, quasi in senso opposto. Passò tra me e la nuvola ad una velocità incredibile, ma feci in tempo a vedere la faccia del pilota di sinistra che si girò verso di me. Uno sguardo fuggevole, di sorpresa, come del resto, forse, dovette apparire il mio verso di lui.

Era un C45, bimotore con doppia deriva. Uno di quelli di Guidonia. Di sicuro anche i piloti lo erano.

Avevo rischiato una collisione. C’era mancato poco. Eppure, invece di sentirmi spaventato ero rimasto calmissimo. Ricordo che controllai di essere ad una quota giusta secondo la normativa in vigore che prescriveva di volare rispettando i cosiddetti livelli semicircolari. Quindi non dovevo temere rapporti da parte dell’aereo militare. I due piloti potevano forse aver avuto il tempo di leggere il nominativo del mio aereo, scritto a lettere grandi sulla fusoliera. Ma ero a posto, anche se mi ripugnava dover dire che loro, invece, volavano ad una quota sbagliata. Ero già sulla frequenza della Torre di Controllo di Viterbo, tuttavia non sentii alcuna comunicazione da parte del C-45. Era andata bene. Cominciai la discesa rassicurato.

E poi mi sentivo onorato di essere in volo insieme a quei veterani. Non nello stesso aereo, ma nello stesso cielo.

Non ho mai saputo chi ci fosse sul C-45, dopo quell’incontro, per lungo tempo, non ebbi più occasione di andare a Guidonia.

I veterani di cui sto parlando erano persone veramente affascinanti. Ne ho conosciuti tanti in quegli anni. Ero giovane e loro anziani. Alcuni di loro, come ho detto, sembravano duri e intransigenti. Da noi giovani pretendevano molto e, naturalmente a noi questo atteggiamento urtava non poco. Il ’68 era appena passato e in Aeronautica molte cose stavano cambiando. Lentamente, a dire il vero, ma cambiavano. E lo scontro tra generazioni non poteva essere indolore.

Per i veterani, che venivano dalle tragedie della guerra, finita da poco più di un ventennio, doveva essere duro veder scomparire valori nei quali avevano tanto fermamente creduto e per i quali avevano sofferto immensamente. Del resto, a noi giovani interessava già avere i capelli un po’ più lunghi e magari, mi ricordo bene, i pantaloni della divisa leggermente scampanati, secondo la moda del momento. La convivenza tra le due generazioni, a quel tempo, non era sempre tranquilla.

Ma loro, i veterani, stavano meglio per conto proprio, parlando delle loro cose, che a noi apparivano misteriose.

L’aria di mistero era quella che mi impressionava di più. E il distintivo di ferite di guerra mi faceva più impressione di altro. Mi chiedevo che tipo di ferite avessero riportato, e in che situazione.  Non sembrava opportuno chiederlo, anche se per il resto rispondevano a tante domande e sembravano sapere tutto, specialmente le cose di volo, del pilotaggio e della navigazione.

Erano venuti da oltre il mio tempo, da oltre il mio orizzonte, come dice la canzone, ed emanavano un fortissimo magnetismo, al punto tale che rispettavo quei veterani con tutto il cuore. Accettando perfino i rimbrotti di qualcuno di loro. E quanto avrei voluto conoscere le loro storie!

Un giorno venni a sapere di un brutto episodio accaduto in una caserma dell’Aeronautica, adiacente al luogo dove prestavo servizio. Un anziano maresciallo si era suicidato gettandosi dalla finestra. Non andai a vedere, ma mi dissero che molto probabilmente l’uomo, che soffriva da tempo per i traumi di guerra, aveva minuziosamente progettato il proprio suicidio. Si era lanciato dalla finestra, in modo tale da cadere all’indietro e sbattere la testa sulla sporgenza di un cornicione sottostante, così da arrivare a terra già privo di sensi. Un episodio che mi colpì profondamente.

Era uno di quei veterani.

Voglio raccontare anche un altro episodio che riguarda uno di loro. Un tipo taciturno, abbastanza incline a brutalizzare chiunque, se ne avesse avuto il motivo. Faceva il direttore della linea di volo dell’Aeroclub di Roma. Normalmente stava in piedi, appoggiato alla porta dell’hangar, oppure seduto su una delle sedie disseminate qua e là. Spesso sonnecchiava. Sospetto che bevesse anche un poco, specialmente al circolo o alla mensa militare.

Tutti ne avevamo un sacrosanto rispetto. Sapevamo che aveva fatto la guerra. E si vedeva che ne conservava ancora il ricordo, doloroso e praticamente costante.

Lo avevo visto tante volte prendere a brutte parole qualche pilota, cacciandolo anche via in malo modo. Ma di solito era gentile e disponibile.

Un giorno che era in vena di parlare descrisse una delle sue azioni di guerra. Poche parole, ma furono come i fotogrammi di un film proiettati brevemente sullo schermo. Aveva mitragliato mezzi nemici e truppe in marcia. E si chiedeva come avesse potuto fare certe cose, forse gli avevano messo qualcosa nel rancio … Lui, altrimenti, non avrebbe potuto.

Un flash. Poi il silenzio. E aveva ripreso a camminare per la linea di volo, mani dietro la schiena, solo con sé stesso e con i suoi ricordi.

Un giorno arrivai in linea con un amico per fare un voletto. Era tempo brutto, nubi basse, vento e rischio di pioggia. Tutti stavano davanti all’hangar ad aspettare un improbabile miglioramento. Le porte dell’hangar erano semichiuse e gli aerei erano dentro.

Senza convinzione chiesi se potevo prendere un P66B, aspettandomi un secco no. Ma con mia grande sorpresa l’anziano pilota chiamò lo specialista e gli disse di tirarmi fuori un aereo.

Nel vedere questo, alcuni piloti presenti protestarono, perché si sentirono discriminati. Ma lui, con fermezza, disse che non siamo tutti uguali. Io venivo dall’Aeroclub di Viterbo, una fucina di piloti veri. Perciò …

Che piacere può fare una tale fiducia! Comunque, subito dopo mi si avvicinò e mi disse: “Stia attento, perché con le nuvole basse, il paesaggio, anche quello che conosce bene, appare in maniera diversa. Resti a sinistra del Tevere, se dovesse avere problemi, metta prua est e quando il Tevere le passa sotto, novanta gradi a destra e lo segue fino a tornare al campo“…

Un altro giorno un pilota dell’Aeroclub di Roma volò a Viterbo. All’atterraggio finì in una pozza d’acqua che stagnava al centro della pista di erba. L’aereo sbandò paurosamente, ma ne uscì indenne. Il pilota rullò al piazzale aeroclub, scese tutto spaventato e disse che lui da lì non sarebbe ripartito. Si fece accompagnare alla stazione e tornò a Roma con il treno.

Il giorno dopo ero all’Urbe e il veterano mi chiese di andare a riprendere quell’aereo. Ci andai. A Viterbo mi fecero problemi. Non erano sicuri che davvero mi avesse mandato lui e fecero una telefonata di controllo. Sentii la segretaria dire al telefono: “Accidenti, com’è categorico lei, Comandante“!

Poi la segretaria disse che il veterano aveva detto solo “Dategli l’aereo“. E subito dopo aveva chiuso.

Questi personaggi erano fatti così. Non ho volato ala contro ala con loro, come dice la canzone, ma è quasi come se lo avessi fatto.

L’Aeronautica mi aveva assegnato un alloggio militare in un palazzo, uno di quelli che, all’epoca,  possedeva e utilizzava proprio per alloggiare i sottufficiali e qualche ufficiale. Ad ogni piano gli appartamenti erano divisi in camere, ognuna destinata a due persone. Nella mia dormivo solo io. Il primo piano, però, era tutto allestito come sala convegno e c’era pure un bar molto fornito. Di fianco c’era una sala TV e oltre quella c’era la porta di un appartamento destinato al direttore di tutto il palazzo. Lui risiedeva lì con la famiglia, una moglie e un figlio. Li avevo visti di sfuggita, ma non avevo mai avuto modo di vederli da vicino. Sapevo solo che il direttore era un maresciallo prossimo alla pensione.

Un giorno ero seduto al bar di quegli alloggi e conversavo con un amico. Eravamo in divisa. Il mio amico era un ex allievo ufficiale pilota che era stato appena dimesso da un corso di pilotaggio, se non ricordo male a causa di qualche problema disciplinare ed era di passaggio, in attesa di riassegnazione ad altri incarichi. Il maresciallo entrò nella stanza, ci vide e, dopo aver parlato un po’ con l’aviere del bar, venne a parlare con noi. Fu così che lo conobbi.

Naturalmente parlammo di aeroplani. Volle sapere tutto sul mio amico, dei suoi voli sull’MB 326, perché era stato dimesso e dove sarebbe andato dopo. Poi chiese anche di me.

Solito copione. Viterbo, l’aeroclub, i tipi di aerei etc.

Anche lui sembrava unire un’aria autorevole, tipicamente militare, ad una gran gentilezza di modi. Mostrava interesse per le nostre storie, considerazione mista ad un sincero dispiacere per l’esito del corso di pilotaggio del mio amico.

Nel frattempo lo avevo osservato bene. Impeccabile nella divisa, l’aquila turrita al suo posto, una sfilza di onorificenze allineate al di sotto dell’aquila e… una striscia dorata, simbolo di ferita di guerra, sul lato della manica. Un altro veterano.

Parlammo a lungo. Ci dava del lei, nonostante la differenza di età, come facevano in molti, forse altra abitudine che veniva dal passato. Era prossimo alla pensione, questione di una manciata di mesi. Non ricordo se volasse ancora oppure no. Per tutto il tempo gli parlammo di noi, ma di sé  non ci disse nulla.

Lo incontrammo ancora diverse volte e sempre ci sedevamo da una parte, a parlare di aeroplani.

Un giorno entrai nel bar e trovai il maresciallo seduto con una rivista davanti. Gli chiesi se potevo offrirgli qualcosa e accettò un caffè. Presi due caffè dal banco e andai a sedermi vicino a lui.

Quel giorno decisi di fare qualche domanda discreta.

All’inizio sembrava titubante, rispondeva con poche parole e molte pause. Ma volevo sapere se aveva combattuto con un caccia, se aveva abbattuto altri caccia, insomma cosa aveva fatto durante la guerra.

Pian piano sembrava sciogliersi, come se fosse addirittura lieto che qualcuno gli avesse chiesto di parlare di queste cose. Ogni volta che titubava, smettendo di parlare, con lo sguardo fermo in un punto, come a ricordare i particolari, lo incitavo gentilmente a proseguire. Mi aspettavo di sentirgli raccontare della guerra sul Mediterraneo, forse contro Malta, come avevo sentito altri parlarne. E mi aspettavo di sentirlo parlare dei Macchi 202 o 205, se non addirittura dei CR32 e 42…

No. Niente di tutto questo. Lui pilotava aerei da bombardamento. Ora non ricordo se fossero gli SM 79 o qualche altro tipo. Ma non era sui caccia.

E niente Mediterraneo. Lui aveva fatto la campagna di Russia e volava sul Don.

Così lo pregai di parlarmi di quella guerra. Ormai non avevo più timori reverenziali, ma solo interesse. E lui mi raccontò un sacco di cose. Mi spiegò dei problemi climatici, di come tenevano caldi i motori durante le ore di stazionamento a terra degli aerei, in condizioni di ghiaccio, neve e venti gelati. Di come vivevano la vita di tutti i giorni. Come mangiavano, dormivano, e anche come volavano.

Sapevo tante cose della guerra su quel fronte, ma devo dire che sentirne parlare da parte di chi c’era stato era diverso.

Ad un certo punto mi disse che per i piloti moderni è difficile immaginare cosa era stata l’aviazione negli anni di guerra. Allora mi sembrò il caso di comunicargli l’impressione che avevo sempre avuto di non dover fare domande perché mi sembrava che non sarebbero state gradite. E invece, dissi, sarebbe stato opportuno che loro, i veterani, raccontassero a noi giovani le loro storie, in modo da farci comprendere quei tempi. Lui disse che invece no, non era il caso. Troppo crude sarebbero state le loro vicende e soprattutto sarebbe stato inutile, visto che ormai era tutto passato. Anche i ricordi, a dispetto del tempo ormai trascorso, erano troppo vividi e dolorosi per poterne parlare. E i giovani non li avrebbero compresi, perché impossibili da comprendere. Impensabile addirittura farsene un’idea appena più che vaga.

No, disse, la guerra va solo dimenticata. E lasciata sprofondare nel passato, sperando che non torni mai più. Nel dire questo aveva distolto lo sguardo, girando la testa, come a voler scacciare un’immagine che non avrebbe voluto vedere. Aveva gli occhi lucidi e un po’ arrossati, ma cercai di non dare a vedere che me ne ero accorto.

All’improvviso cambiò discorso e mi disse che con il mio brevetto di pilota ci avrei fatto ben poco. Ne fui sorpreso e chiesi il perché.

Mi disse che volare da privati era troppo costoso. E non permetteva di fare abbastanza esperienza. Non diventi un pilota facendo voletti locali, con il tempo buono, solo per diletto. E non c’è paragone con un pilota che vola per professione, che compie missioni di ogni tipo e soprattutto, che si trova a dover affrontare situazioni improvvise e difficili.

Certo, tutto chiaro, tra un pilota di guerra e un pilotino di aeroclub… neanche a parlarne.

Di colpo, mi fece una domanda a bruciapelo. Mi disse che poco tempo prima era partito da Guidonia pilotando un aereo che aveva solo un’oretta di volo di vita operativa, prima di essere radiato. Si trovava dalle parti dell’aeroporto di Centocelle, che all’epoca aveva ancora la sua pista in buone condizioni, quando vide del fumo venire fuori dal cruscotto. E mi chiese: “Lei che decisione avrebbe preso“?

Colto alla sprovvista, risposi che sarei atterrato subito a Centocelle. Ma replicò che un po’ di fumo, in volo, potrebbe diventare una palla di fuoco in pochi istanti. Atterrare richiede tempo. Troppo.

Suggerii altre soluzioni, ma devo dire che anche a me non sembrarono troppo attuabili. E comunque, per ognuna, lui aveva da ridire. E poi, intanto che ne parlavamo, l’aereo sarebbe stato già in fiamme. Magari esploso.

Alla fine, mi arresi. E chiesi:”Maresciallo, che cosa ha fatto, lei“?

Ho spento la radio“, rispose.

Dannazione. A quella non avevo neanche pensato.

Mi resi conto, in quella conversazione, che il maresciallo era diventato stranamente loquace. Sembrava triste e sospettai che prima del nostro caffè avesse bevuto ben altro.

L’attacco ai brevetti civili, ai pilotini di aeroclub, mi aveva spiazzato. Che ne restava della mia blasonata provenienza dall’aeroclub di Viterbo, della fucina di piloti, dei carrelli bicicli?

Avevo provato a replicare, ma questo lo aveva caricato di più. E parlò. Mi raccontò tante cose, tanto terribili che rimasi ammutolito ad ascoltare.

Aveva una medaglia sul petto e, ad un certo punto, mi sembrò il caso di chiedergli di quella.

Mi disse che l’aveva guadagnata sul Don. Aveva partecipato ad una missione nella quale doveva anche sorvolare un reparto che stazionava in una zona in attesa di ordini. Aveva a bordo un cilindro che doveva essere lanciato a bassa quota su quel reparto. Gli ordini erano nel cilindro. Ma il suo aereo era stato colpito. Aveva a bordo un morto e qualche ferito. Forse anche lui stesso lo era e l’aereo era danneggiato. In quelle condizioni, nonostante tutto, l’aereo era ancora governabile e lui decise di portare a termine la missione, prima di rientrare. Lanciò il contenitore con gli ordini, nonostante tutto.

Ebbe così la sua medaglia.

Con gli occhi un po’ arrossati, continuò a raccontare altri fatti. Non nominò nessuno di coloro che erano andati con lui su quel fronte e che non erano tornati, ma capii che furono tanti. E lui li ricordava tutti. Ricordava tutti i suoi voli, uno per uno. E di ogni volo, i cui dati erano allineati sulle righe del libretto, sapeva cosa era successo, chi si era salvato, chi era stato ferito, chi aveva perduto la vita.

Le ore passavano. Restai ad ascoltarlo, rapito e affascinato, ma anche rattristato e travolto dalla tragicità delle vicende di guerra. E comunque, nonostante tutto, sapevo che ascoltare il racconto era ben diverso dall’essere stato protagonista di certi avvenimenti. Aveva proprio ragione.

Avevano ragione, i veterani, a non voler parlare di quella parte di storia.

Infine, le pause si fecero più frequenti. Gli occhi del maresciallo erano decisamente arrossati. Sembrava un po’ a disagio e forse era sul punto di alzarsi per andarsene, scomparendo nella porta del suo appartamento, come gli avevo visto fare tante volte.

Anch’io ero un po’ provato. E mi sentivo in colpa per averlo fatto parlare.

Gli dissi:” Beh, maresciallo, se io avessi vissuto le vicende che mi ha raccontato, sicuramente prenderei il libretto di volo, scorrerei le righe e piangerei tutte le mie lacrime…”

Lui mi guardò. Fece una breve pausa, girando intorno lo sguardo come ormai faceva di continuo. Poi si piegò decisamente verso di me e, quasi con disperazione, disse:

Ma infatti io piango! Prendo proprio i miei libretti di volo. Ricordo ogni volo che c’è registrato sopra. Scorro le righe. E piango“…

Si alzò, leggermente insicuro nei movimenti, mi diede la mano nel salutarmi, mi sorrise con la solita antica gentilezza, attraversò la stanza, uscì nel corridoio e scomparve oltre la porta della sua casa.

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§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Evandro Detti

Nota della Redazione: nella foto in evidenza è ritratto l’autore negli anni ’80 presso l’aeroporto di Foligno accanto a un L-18 all’epoca in forza presso l’Aeroclub di Viterbo .

Il volo di Indiana Jones a Guidonia


Era l’anno 1984 e si giravano a Guidonia alcune scene del film: “Indiana Jones e il tempio maledetto”. Si era costruito in aeroporto, zona hangar militare, un aereo degli anni ’30, al cui interno, nella trama del film, Indiana Jones, mentre precipitava, ormai senza guida e senza piloti, lottava per la sopravvivenza sua e della sua accompagnatrice cantante; la lotta per altro era ben riuscita, perché in maniera rocambolesca, potevano Indiana e compagna separarsi dall’aereo, che invece all’impatto si distruggeva.

Noi piloti guidoniani ignoravamo la presenza in aeroporto, sia degli attori che di tutta la troupe che girava il film…e si giustifica perciò, come in un giorno, in cui si volava normalmente con gli alianti dell’aeroclub di Roma, ci fosse la presenza di Harrison Ford a Guidonia e il suo arrivo improvviso, presso la biga di Antonietta e di tutti noi piloti e istruttori.

Quel giorno l’istruttore di turno era Giovanni Quai.

Harrison Ford amante del volo, come tutti sanno, con il suo “slang americano”, chiese se fosse possibile fare un volo in aliante.

Il bello è che nessuno lo riconobbe un po’ per la faccia un po’gonfia e arrossata, (un po’ diversa da quella perfetta presentata nei film) un po’ perché chi se l’aspettava mai: era un tizio” americano che chiedeva, come spesso accade, un “volo turistico”. Tanto meno Giovanni Quai lo riconobbe ma, primo perché parlava inglese meglio di tutti, poi perché era il pilota più rispondente dei presenti, decise di portare in volo quello strano tizio.

Il volo ebbe luogo, l’americano si divertì, fece i complimenti per la bellezza dell’esperienza e magnificò il volo a vela e gli appassionati piloti, che lo praticavano. Si congedò salutando i presenti alla biga e in linea e non fece nulla, per farsi riconoscere …

Tutto ciò fino a sera, quando apparve alla tv di stato, in un’intervista, proprio quel “tizio americano, dalla faccia ora pulita, rimessa a posto e ben pettinato.

Intervistavano il famoso attore Harrison Ford, che parlava del nuovo film di Indiana Jones, che lo vedeva protagonista e che in quel momento era a Roma, perché giravano all’aeroporto di Guidonia, dove avevano costruito un modello di aereo, anni trenta, per girare delle scene importanti.

Allora Giovanni Quai, ritornato a casa guardando la tv serale, disse alla figlia presente in quel momento: “Io quello oggi l’ho portato in volo”, e di rimando la figlia gli confermò che aveva portato in volo “Indiana Jones” alias Harrison Ford”.

Giovanni raccontava l’evento come una storia curiosa e ricordo in alcuni stages di volo a Rieti a inizio anni 2000, che i guidoniani facevano in “gruppo”, che, quando ciascuno raccontava fatti accaduti in volo e a terra a Guidonia con protagonisti sempre piloti dell’Aeroclub, lui Giovanni ricordava la sua storia con: Indiana Jones …. 



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Giulio Cesare Chiarini


NOTA: in copertina la cabina di pilotaggio e i comandi di volo originali del Ford Trimotor