Durante oltre mezzo secolo di vita aeronautica che ormai grava sulle mie spalle ho sentito un numero immenso di racconti da parte di un altrettanto immenso numero di persone. Piloti, soprattutto. Molti dei quali avevano fatto la guerra, avevano combattuto, avevano riportato ferite. E avevano visto accadere tante cose tremende, davanti ai loro occhi. O, magari, tante cose bellissime.
Sin da ragazzino ho sempre ascoltato i racconti dei veterani con grande interesse. E sono certo di aver esortato ognuno di loro a scriverle, queste loro avventure. Sin da sempre mi sono sentito fortunato ad aver avuto accesso a tanti eventi che altrimenti non avrei mai neanche sospettato potessero essere avvenuti, ma allo stesso tempo mi convincevo che tutti avrebbero dovuto essere altrettanto fortunati da sentirli. Perciò, chiunque avesse avuto qualcosa da raccontare, avrebbe fatto meglio a scriverla. E subito. Prima di correre il rischio di dimenticare.
Neanche a dirlo, ancora oggi non perdo occasione di esortare tutti coloro che incontro e che hanno storie da raccontare, di non raccontarle solamente, ma di scriverle, perché non vadano perdute.
Ben pochi, però, mi hanno dato ascolto.
Tuttavia qualcuno lo ha fatto. E di ciò mi sento piuttosto fiero.
Per fortuna molti personaggi che non conosco, che hanno vissuto lontano da me, in altre realtà e in altri paesi, hanno scritto le vicende della loro vita operativa, senza che a spingerli siano state le mie esortazioni.
Esistono infatti molti libri (non solo le autobiografie o le biografie scritte da storici o studiosi vari) che raccolgono testimonianze, racconti, relazioni ufficiali o personali. Ed esistono perché qualcuno, dalla mente brillante e lungimirante, ha pensato di raccogliere tutti questi pezzi di Storia prime che andassero perduti per sempre.
Il libro di cui mi accingo a parlare è nato così.
La prefazione, scritta dal Flight Lieutenant Charles “Tich” Palliser, pilota pluridecorato che ha combattuto nella Battaglia d’Inghilterra, non è altro che una sorta di ringraziamento agli autori, proprio per aver raccolto tante storie e per averle pubblicate. Molti dei piloti, le cui vicende sono narrate nel libro, erano già ben conosciuti da Palliser, che aveva combattuto con loro. Uno di questi è Tom Neil, autore di altri libri, alcuni dei quali ho recensito per Voci di Hangar. Neil era stato il comandante di Palliser.
Un altro pilota, Terry Crossey, sud africano, è particolarmente caro a Palliser, perché attraverso di lui ha conosciuto una ragazza che poi è divenuta sua moglie.
Qualcun altro gli aveva donato un dipinto, che ancora fa bella mostra di sé su una parete della sua abitazione.
Ma, alla fine della prefazione, Palliser aggiunge qualcosa che mi trova particolarmente d’accordo:
“This work also pays tribute to the pilots from New Zealand, Poland and Czechoslovakia – a wonderful band of men. Of course, there are many wonderful pilots in this book who I never knew and never met but I very much enjoyed reading about them all. I offer my congratulations to Christopher and Adrian on producing a wonderfully written book”.
“Questo lavoro costituisce anche un tributo ai piloti neozelandesi, polacchi e cecoslovacchi – un gruppo di uomini meravigliosi. Naturalmente, ci sono altri meravigliosi uomini in questo libro, che non ho mai conosciuto né incontrato, ma mi è molto piaciuto leggere di tutti loro. Porgo le mie congratulazioni a Christopher e Adrian per aver prodotto un libro meravigliosamente ben scritto”.
Ecco, due sono i contenuti salienti di questo libro: una raccolta di racconti fatti da personaggi diversi, piloti attivi nel periodo della battaglia d’Inghilterra e, sempre attraverso racconti, un contributo al giusto proposito di portare a conoscenza del mondo l’esistenza di altre squadriglie di volo della RAF che erano però costituite da piloti stranieri. E, posso aggiungere in accordo alla dichiarazione di Palliser, un tributo al valore di questi equipaggi non inglesi che non hanno trovato, finora, un posto adeguato nella luce della Storia.
Eppure, il loro valore non era stato secondo a nessuno. Anzi. Il numero totale degli abbattimenti di aerei nemici da parte delle squadriglie di non inglesi è, molto verosimilmente, addirittura superiore a quello del resto della RAF.
Allora perché non sono mai usciti alla ribalta delle cronache dell’epoca e ancora oggi la Storia tiene le loro gesta in una certa oscurità?
Forse per una serie di motivi, non ultimo proprio il fatto che non si sia voluto mettere in ombra il prestigio nazionale. Conoscendo il carattere degli inglesi, mi pare poco probabile che potessero essere lieti di dichiarare al mondo che degli stranieri avessero avuto il merito di aver fatto meglio di loro. Gente che non parlava neanche bene l’inglese! Un buon motivo per considerare una persona come se fosse di un lignaggio inferiore.
E’ mia opinione personale che proprio la scarsa conoscenza della lingua abbia operato una sorta di separazione inesorabile. Una lingua difficile da imparare subito, almeno al punto da evitare che un inglese possa capire senza storcere il naso. Senza che gli venisse subito sul volto la classica espressione semi disgustata e rispondesse, con il labbro tirato (Stiff upper lip, per il quale gli inglesi sono famosi), in maniera classica ed inevitabile:
“I can’t understand you. Speak english, please”!
I piloti di lingua slava restarono in disparte. Nonostante la loro bravura e il loro valore. Erano parte dello stesso mondo, stavano dalla stessa parte, combattevano contro lo stesso nemico, ma erano divisi da un muro di difficile comunicazione. Perciò restarono inevitabilmente ai margini della RAF.
Inoltre, dopo la guerra questi stranieri se ne sono andati. Sono tornati ai loro paesi di origine, nelle loro aviazioni. E sono scomparsi dalla scena.
Alcuni di loro si sono impegnati in altre professioni. Altri hanno continuato a volare.
Qualcuno ha scelto di continuare la carriera militare, mentre altri hanno preferito entrare nelle compagnie aeree civili, che stavano nascendo ovunque in quegli anni e hanno dato un contributo notevole al loro sviluppo.
Comunque sono pressoché svaniti. E la storia ha appena accennato alla loro esistenza.
Vorrei anche ricordare un fenomeno ricorrente che si è verificato dopo la fine delle tragedie belliche. Si è sviluppato un certo rifiuto a ricordare. E’ intervenuta una forte ritrosia a raccontare episodi tanto dolorosi. Spesso le mogli, i figli, gli amici non sapevano quasi nulla di ciò che erano state le vicende attraverso le quali erano passati i loro cari, prima di fare ritorno.
Infatti non ne sappiamo granché neanche noi, oggi. Difficile capire, con la nostra mentalità moderna. Arduo rappresentarci una realtà tanto diversa, che era la vita quotidiana negli anni di guerra.
“From a modern perspective it is difficult to appreciate what Second World War pilots went through when they saw their collegues’ aircraft fall from the sky in combat, when they witnessed friends collide with other aircraft and when parachutes failed to open. Such sights occurred on a daily basis as young men from all over the world fought for their respective countries”.
“Da una prospettiva moderna è difficile apprezzare cosa hanno dovuto attraversare i piloti della Seconda Guerra Mondiale quando vedevano gli aerei dei loro colleghi cadere dal cielo durante i combattimenti, quando vedevano gli amici scontrarsi con altri aerei e quando i paracadute non si aprivano. Questi fatti accadevano giornalmente mentre uomini giovani provenienti da ogni parte del mondo combattevano per i loro rispettivi paesi”.
Sì. Molti hanno preferito tacere. Dimenticare e andare avanti.
E invece avrebbero dovuto fare proprio il contrario. Raccontare. Condividere, come diciamo oggi. La parola “condivisione” dilaga ormai in tutti i cosiddetti “social“.
Rise Against Eagles è importante proprio per questo motivo.
I vari racconti, di autori diversi, vanno a riempire le quattro sezioni dell’opera e si leggono, come sempre, con estremo interesse.
Uno di questi autori, tanto per fare un esempio, parla di Tom Neil.
Ed è straordinario, dopo aver letto i suoi libri e visto il mondo dal suo punto di vista, vedere ora lui con gli occhi di un altro.
Il nome di Tom Neil appare in vari racconti. Così come le descrizioni delle battaglie aeree e delle vicende quotidiane nelle quali i protagonisti si muovevano, anche i protagonisti stessi finiscono per riapparire qua e là nei racconti che costituiscono le quattro sezioni del libro.
Ma vorrei soffermare l’attenzione soprattutto su alcuni capitoli.
Il capitolo cinque, il sei, il sette e il dieci parlano proprio dei piloti polacchi e di altri paesi, come ad esempio l’Ucraina, ma qualcuno viveva in Cecoslovacchia prima dell’inizio della guerra. Tutti sono accomunati dal fatto che parlano, sì, lingue diverse, ma sono tutte lingue slave e tra loro si capiscono benissimo.
La loro storia è di grandissimo interesse.
Tutti, alle prime avvisaglie di aggressione da parte della Germania, decidono di partire. E di raggiungere l’a gran Bretagna per combattere contro i tedeschi invasori.
Qualcuno fugge in aereo, altri con mezzi terrestri, ma il loro percorso conduce infine alla Gran Bretagna, sebbene con tappe intermedie di diverso tipo.
Le tappe possono essere, ad esempio, Praga – Francia – Gibilterra – Scozia – Inghilterra.
Il percorso scelto dipendeva dal particolare momento e dagli avvenimenti che caratterizzarono gli spostamenti tedeschi nella loro opera di aggressione alle varie nazioni europee.
Era una fuga, non una gita di piacere.
Dall’Algeria, ad esempio, molti andarono via mare verso Gibilterra perché la Spagna e il Portogallo erano neutrali. Tuttavia, specialmente dopo Gibilterra, il resto del viaggio li esponeva all’attacco dei sottomarini tedeschi che infestavano l’Atlantico. Appena i tedeschi cominciarono ad invadere gli stati limitrofi il pericolo rappresentato dai sottomarini era già presente.
Come ho detto, nella RAF combatterono piloti di ogni nazione. C’erano gruppi di neozelandesi, di australiani, di francesi, di polacchi, di cecoslovacchi e di altri stati. La Francia, al comando del generale De Gaulle era presente in Inghilterra con una sigla divenuta abbastanza famosa: FAFL, Forse Armate Francesi Libere. Di queste faceva parte Pierre Clostermann, che combatté nella RAF pilotando uno Spitfire e poi un Tempest. Ho recensito il suo libro “La grande Giostra” qui su Voci di Hangar.
Allora, perché mi voglio soffermare proprio sui piloti che venivano da Polonia e Cecoslovacchia?
Perché nel leggere il libro ho notato una certa somiglianza con le vicende di un film.
Si tratta di “Dark blue World“. Un film uscito alcuni anni fa, che mi era piaciuto moltissimo.
Si trova facilmente in DVD, ma è possibile vederne alcune parti anche su You Tube.
Nel libro si parla di un istruttore che insegna a volare ai suoi allievi. Il vento di guerra comincia a spirare. L’istruttore decide di partire, seguito da alcuni allievi.
Anche nel film viene rappresentata questa scena.
Chissà che gli autori del film non abbiano tratto spunto da qualche racconto di questi?
Lascio la lettura del libro a chi lo vorrà leggere. Ma invito tutti anche a vedere il film che ho appena menzionato.
Una scena che si può cercare su YouTube e che ricalca quanto ho detto sopra, mostra un gruppo di piloti cecoslovacchi della RAF che partono su allarme. Salgono sui loro Spitfire e decollano.
Dopo il decollo salgono nel cielo, ad intercettare i bombardieri e i caccia nemici.
In altre parole, salgono contro le Aquile, come venivano chiamati gli aerei del terzo Reich.
Questo è appunto il titolo del libro: Rise Against Eagles.
Basta digitare “dark blue world – Spitfire and Bf 109 Scene“, ma anche solo “dark blue world“, nella stringa di You Tube. E’ il primo video che appare.
E’ una scena bellissima. Mostra i giovanissimi piloti che corrono verso gli aerei e mettono subito in moto. Una volta in volo si sente la voce del controllore radar che li guida verso le formazioni nemiche.
Si sentono le loro risposte rapide. Ed è subito evidente la loro diversa pronuncia delle parole inglesi.
Segue qualche frase concitata in lingua slava.
Immancabilmente, la voce del controllore, tra il seccato e il severo, interviene subito:
“I don’t understand. Speak English, please”!
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: The Great Rat Race For Europe” – Stories of the 357th Fighter Group.
autore: Joey Maddox
editore: Xlibris Corporation
anno di pubblicazione: giugno 2011
ISBN libro: 978-1-4628-8629-6
ISBN ebook: 978-1-4628-8630-2
Questo libro è dedicato al Museo del 357° Gruppo Caccia intitolato al Capitano Fletcher E. Adams, con sede nella città di Ida, Louisiana.
Si tratta di un piccolo museo, ma con la strada aperta per diventare, un giorno, Museo Nazionale.
Il libro comincia subito con un paio di pagine di ringraziamento a un gran numero di persone che hanno reso possibile la realizzazione del Museo.
Il 357° Gruppo Caccia è quello, per intenderci, che era basato a Leiston, Inghilterra, e del quale hanno fatto parte personaggi molto famosi, come Chuck Yeager e Clarence E. Anderson. Questi ultimi, in particolare, hanno scritto libri che ho già recensito su VOCI DI HANGAR.
E, ovviamente, del 357° Gruppo ha fatto parte anche il capitano Fletcher Adams.
Questo reparto di cacciatori statunitensi, stanziati in Gran Bretagna dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro la Germania, avevano il compito di scortare le formazioni di bombardieri per tutto il viaggio di andata e ritorno verso gli obiettivi militari dell’intero continente europeo. Avevano in dotazione il P-51 Mustang, una macchina meravigliosa, non solo per le sue straordinarie caratteristiche di volo, ma soprattutto perché il P-51 poteva montare uno o più serbatoi ausiliari sganciabili. Aveva quindi l’autonomia necessaria per volare con i bombardieri tutto il tempo necessario e li poteva proteggere dagli attacchi dei caccia avversari, compresi, verso la fine della guerra, i temibili jet tedeschi Me-262.
Il giorno dell’inaugurazione di questo museo, Chuck Yeager in persona, accompagnato dalla moglie Victoria, aveva fatto un lungo viaggio per essere presente. Era il 24 Luglio 2010.
Fin dal giorno prima erano cominciati gli arrivi di tantissime persone, che si erano poi distribuite nei vari alberghi della zona per essere pronti il giorno dopo alla cerimonia dell’inaugurazione.
Chuck Yeager era stato l’ultimo. Il suo aereo aveva subito un ritardo in partenza da Dallas. Quindi era arrivato tardi, poi aveva affittato un’ automobile, si era spostato dall’aeroporto di arrivo fino a Ida e finalmente, dopo le dieci di sera, aveva varcato la porta del museo tra uno scroscio di applausi e addirittura una standing ovation.
Il museo era anche dedicato al 357° gruppo della VIII Forza aerea e conteneva oggetti, dipinti, modellini di aerei e ogni altro genere di reliquie sopravvissute alla guerra. C’erano documenti e foto dell’epoca.
E poi c’erano i piloti.
I piloti erano tutti anziani, come dice l’autore:
“All of them were in there late eighties or early nineties”…
“Tutti loro erano oltre gli ottant’anni o sui novanta”…
Ma c’era un altro genere di documentazione che sarebbe stata perfettamente al posto giusto in un museo di questo genere. In fondo, a cosa serve un museo? A mantenere memoria di una realtà che era stata importante nel tempo, che aveva avuto un ruolo di primo piano nella Storia.
La memoria, appunto.
E quale memoria avrebbe dovuto far parte a pieno diritto di un museo?
Quella di coloro che di quella Storia erano stati i protagonisti: gli uomini che avevano combattuto in quel Gruppo di volo, primi fra tutti i piloti.
“For these reasons and others, these pilots and the crewmen who supported them have always been and will forever be my personal heroes. They all deserve to have their stories recorded in print in order that every generation of Americans can read about their history and never forget the sacrifices they made in order to ensure our freedom today. It is for these reasons that I wrote this book, and I hope that it serves its purpose”.
“Per questa e altre ragioni, questi piloti e i loro specialisti di supporto erano sempre stati e per sempre saranno i miei eroi personali. Tutti loro meritano che le loro storie siano stampate in modo tale che ogni generazione di Americani possa leggerle e non dimentichino mai i sacrifici che hanno fatto per assicurare la nostra libertà di oggi. E’ per questo motivo che ho scritto questo libro, e spero che raggiunga questo scopo”.
Ma l’autore era anche sicuro che tantissime altre storie fossero ancora tutte da scrivere.
Esistono tanti libri sul 357° Gruppo Caccia. Molti hanno scritto per profitto personale o per ragioni professionali, ma l’autore dichiara di volersi inserire nel numero di coloro, come Bud Anderson, Chuck Yeager e altri che hanno scritto libri sul Gruppo, per preservare la sua Storia (History) e per documentare il coraggio e l’altruismo di centinaia di piloti e specialisti (il gruppo di non piloti che si occupava della manutenzione e delle riparazioni degli aerei) che avevano contribuito a sconfiggere il dominio di Hitler sull’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale.
“Stiamo cadendo come mosche, ormai”,
dichiara. L’età avanza e sono sempre di meno coloro che queste storie possono ancora raccontarle. E’ urgente raccoglierle, e scriverle, e stamparle, pubblicarle in uno o più libri, per consegnarle ai posteri così che siano per sempre disponibili per chi vorrà conoscerle.
Così cominciò a chiedere a tante persone di collaborare al reperimento di tutte le storie possibili.
Un altro pilota, Joseph “Joe” Shea, gli mandò un pacco di queste storie da lui raccolte e scritte. Erano venti, tutte inedite. E tutte interessanti.
“It is funny how quickly a moundane, boring moment in a combat pilot’s life may change into a hair-raising experience with the snap of a finger”.
“E’ divertente quanto rapidamente un banale, noioso momento, nella vita di un pilota combattente, possa cambiare in un’esperienza da far rizzare i capelli in uno schiocco di dita”.
Così, l’autore e Joseph Shea unirono gli sforzi e cominciarono a contattare i piloti ancora reperibili, oppure i loro discendenti, figli, mogli parenti o amici, per mettere insieme racconti e testimonianze.
Tutti furono ben lieti di dare il loro contributo.
Furono sommersi da “tons of material“, tonnellate di materiale. Da scrivere non uno ma letteralmente tre volumi.
Questa è stata la genesi di:
“The Great Rat Race for Europe: Stories of the 357th Fighter Group“.
Dalla ricerca di tante storie è nato un altro libro:
“Bleeding Sky: The Story of Capitan Fletcher E. Adams and the 357th Fight Group“.
Ma di questo parleremo in un altro momento.
Tutti questi racconti mantenevano viva la memoria di fatti e avvenimenti storici, di persone, macchine e perfino animali che avevano vissuto quel periodo, di usi e consuetudini, metodi, mentalità, disciplina, sentimenti, tutto…
Per i posteri, certo, ma anche per i discendenti dei protagonisti dei racconti. Così da portarli a conoscenza del valore e dell’eroismo dei loro cari, molti dei quali scomparsi. Ma anche di quelli ancora in vita, perché molti di loro non amavano parlare dei tragici episodi della guerra, di un tempo fortunatamente ormai andato.
Durante la permanenza a Leiston, il 357° Gruppo aveva anche un altro appellativo.
Vicino a Leiston c’era una cittadina che si chiamava Yoxford. Probabilmente tutti quelli del Gruppo vi andavano spesso durante le ore di libertà.
Perciò cominciarono a riferirsi a loro stessi come gli “Yoxford Boys”.
“So this book and the others that will surely follow are dedicated to you Muff, and Hibbie and Butch and Arch and Aline and Jerry, and so on and so on and so on. Your loved ones will never be forgotten as long as I can hold a pen in my hand. I thank each and every one of you for allowing me to tell the stories of these eroic Yoxford Boys“.
“Così questo libro e gli altri che sicuramente seguiranno sono dedicati a te Muff, e Hibbie e Butch e Arch e Aline e Jerry, e così via e così via e così via. I vostri cari non saranno mai dimenticati finché potrò tenere una penna in mano. Ringrazio ognuno di voi per avermi permesso di raccontare le storie di questi eroici Yoxford Boys“.
In questo libro, di storie, ce ne sono tante. E tutte interessantissime. Storie di combattimenti aerei, piantate motore a quote stratosferiche e anche raso terra, lanci con il paracadute, sul mare, sulla terra inglese, sulla Francia occupata, su paesi liberati e perfino sulla Germania.
Storie di prigionia, storie di piloti che si sono lanciati su città occupate dai tedeschi, subito dopo un bombardamento o dopo una missione di mitragliamento al suolo. In questi casi il pilota veniva catturato e ucciso.
C’è una storia di queste, infatti. Ma quella città venne subito dopo riconquistata dagli alleati, venne trovato il luogo di sepoltura del pilota. I responsabili della sua uccisione, in totale dispregio dei trattati di Ginevra, vennero individuati, processati e imprigionati. Il materiale esecutore dell’omicidio venne impiccato.
Ci sono un paio di racconti sullo sbarco in Normandia.
Il primo giorno i soldati alleati uccisi furono circa diecimila.
Nemmeno un caccia tedesco si fece vedere, quel giorno.
Ma una coppia di P-51 Mustang partirono dall’Inghilterra prima dell’alba, sorvolarono il canale della Manica e penetrarono nell’interno della Francia per mitragliare a bassissima quota i treni in movimento, che probabilmente trasportavano truppe o armi.
Durante un passaggio radente su un obiettivo il leader della coppia venne colpito e qualche istante dopo si schiantò al suolo.
Il gregario rimase da solo. E’ lui che racconta la storia. E la racconta con una tale vividezza che ci sentiamo coinvolti totalmente. Si percepisce lo sconcerto per ciò che è successo, per il senso di abbandono, per la solitudine e lo sconforto. Deve tornare in Inghilterra, ma non sa bene neanche dove si trova. Era arrivato lì seguendo il leader, ha soltanto una vaga idea della prua da mantenere per tornare verso casa.
Ogni tanto qualcuno gli spara.
Sale a quota abbastanza alta da sperare di evitare i colpi della contraerea nel momento di attraversare la linea della costa. Assume una prua approssimativa e si allontana sul mare.
E’ interessante anche quello che dice delle cinquemila imbarcazioni di ogni tipo, con palloni frenati di difesa, che vede di sfuggita mentre li sorvola.
Uno spettacolo unico. E irripetibile.
Lui sa bene di essere un privilegiato, perché essere in quel punto e in quel momento gli consente di essere testimone di un fatto epocale che pochissimi possono aver visto.
E in una visione d’insieme, come non può fare nessun altro partecipante allo sbarco.
Ognuno vede vicino a sé. Vede solo ciò che lo circonda. E spesso neanche quello perché per la maggior parte del tempo ognuno deve stare riparato il più possibile, con la testa protetta, il viso a contatto con il suolo.
Lo sbarco, specialmente il primo giorno, avvenne sotto un fuoco feroce.
Molti videro solo pochi metri di acqua e di spiaggia disseminati di ostacoli e cadaveri.
Un pilota no. Lui vede tutto, per chilometri e chilometri da un orizzonte all’altro.
Privilegio di chi vola. Se non viene abbattuto.
Finalmente riesce a ritrovare l’aeroporto di Leiston e atterra.
Il racconto si conclude con un’amara considerazione: quel giorno, secondo i resoconti del primo giorno dello sbarco, il sei giugno 1944, solo un pilota del 357° perse la vita, quello del presente racconto.
Che fu anche il primo pilota di caccia a morire.
Ecco il genere di racconti che si trovano in questo interessantissimo libro. Oggi possiamo conoscere meglio cos’è stata la guerra aerea di quei giorni famosi, ma terribili, ai quali dobbiamo la libertà di adesso.
E’ bene conoscerla questa Storia. Mai come nel presente periodo storico ci servirebbe fare riferimento al passato per capire quanto stiamo rischiando di dover ripetere quei momenti.
Esorto, quindi, tutti coloro che sono interessati all’argomento e conoscono un po’ l’inglese, a scaricare questo libro per il Kobo e a leggerlo. Altrimenti è possibile visitare il sito web del Museo di Ida dedicato al 357° Gruppo Caccia e intitolato al Capitano Fletcher E. Adams all’indirizzo:
http://357th.idamuseums.org/omeka-1.4.2/
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
The Silver Spitfire – The legendary WWII RAF fighter pilot in his own words.
Autore: Tom Neil
Editore: Orion House – The Orion Publishing Group Ltd
Ebook ISBN: 978 0 2978 6814 9
Hardback ISBN: 978 0 2978 6813 2
Prima pubblicazione in Gran Bretagna: 2013
Prima di scrivere anche una sola sillaba di questa recensione voglio dire subito che questo è un libro perfetto per i piloti di HAG, Historical Aircraft Group. Tutti dovrebbero leggerlo, perché nell’ultimo terzo del libro, quello che riguarda la storia dello Spitfire da cui è scaturito il titolo, viene descritto un percorso che quasi tutti i piloti di HAG hanno seguito nel reperire, acquisire, riparare, ricostruire, provare e infine, vendere a qualcun altro il loro aereo d’epoca. C’è tutto, qui. Le soddisfazioni, le ansie, le burocrazie, gli stratagemmi e spesso anche i sotterfugi che ogni proprietario di aereo d’epoca conosce bene. Non mi sarei mai aspettato di poter leggere qualcosa di così interessante, ma per fortuna è accaduto.
Ne parliamo subito.
Un altro libro di Tom Neil, che considero il seguito di “Gun button to fire“, di cui potete leggere la recensione in questa pagina per VOCI DI HANGAR. Il volume arriva via etere nel mio fantastico Kobo.
Neanche a dirlo, ho cominciato subito a leggerlo.
L’autore, inglese purosangue, scrive in una maniera talmente lineare e precisa che mi dimentico di leggere un testo, ovviamente, in inglese. Pochissime sono le parole che devo cercare nel vocabolario associato al lettore digitale. Ma, devo dire, quando lo faccio scopro che questo vocabolario si è notevolmente evoluto nel corso dei frequenti aggiornamenti del sistema operativo del Kobo. Ora è più completo, pieno di esempi chiarificatori che riportano non solo la traduzione letterale, ma anche il significato idiomatico in frasi diverse.
Forse è meglio ricordare che se non si dispone di un vero lettore Kobo si possono scaricare e leggere i libri anche su un tablet. Basta cercare la relativa applicazione Kobo-reader nello Store del tablet. In questo caso, dal momento che il tablet è a colori e anche retro illuminato, non solo si legge meglio, ma le foto inserite nel libro si presentano più larghe ed eventualmente a colori. Anche quelle in bianco e nero hanno un aspetto migliore. Il mio è un tablet Samsung A6, con sistema operativo Android, non certo dell’ultima versione. Lo schermo è HD, e per questo le foto si vedono decisamente bene, ma ormai in commercio ci sono modelli di gran lunga migliori.
Così come nel libro precedente, anche in questo, Tom Neil dedica la propria opera a sua moglie.
“For my beautiful wife, the former Flight Officer Eileen Hampton, WAAF, who not only provided me with three wonderful sons but who has also loved, guided, encouraged and supported me throughout 68 years of married life“.
“Alla mia bellissima moglie, ex Ufficiale di Volo Eileen Hampton, WAAF (Women’s Auxiliary Air Force, Forza Aerea Ausiliaria Femminile), che non solo mi ha dato tre figli meravigliosi, ma mi ha pure amato, guidato, incoraggiato e supportato attraverso 68 anni di vita matrimoniale”.
In “Gun button to fire” era stata chiusa l’ultima pagina sugli eventi finali della cosiddetta Battaglia d’Inghilterra. Erano i primi mesi del 1942 e gli Stati Uniti non erano ancore entrati in guerra.
Ora, in “The Silver Spitfire” ci troviamo invece nella seconda parte del 1944: quasi tre anni di guerra più tardi.
Tom Neil ha 23 anni. Ed è già Capo Squadriglia.
Nella recensione del primo libro non avevo messo in evidenza il fatto che i piloti di cui si parlava erano tutti giovanissimi. Erano ragazzini, veramente. Poco più che diciottenni, già volavano e combattevano contro ben più esperti piloti avversari.
Appena gli Stati Uniti d’America entrano in guerra l’Inghilterra si riempie letteralmente di truppe, gruppi aerei, aeroplani e mezzi di ogni tipo. E navi che saturano ogni porto.
Termina lo sforzo estremo delle squadriglie inglesi che tante perdite avevano subito nello scontro con gli aerei attaccanti tedeschi. O almeno si attenua.
Gli americani entrano in gioco e il gioco stesso prende subito un altro aspetto.
Ora non si tratta più di difendersi dagli attacchi, da qui in poi l’attacco parte dall’Inghilterra e si spinge profondamente nel territorio nemico fino a colpire il cuore della Germania. Non è più scontro nei cieli sopra Londra, che non impedisce tuttavia ai bombardieri tedeschi di distruggere interi quartieri della città di Londra, ma anche di altre città inglesi e di molti aeroporti.
Non più bombardamenti notturni da parte degli aerei britannici a qualche città tedesca, con enormi perdite di bombardieri indifesi, perché i caccia, quasi tutti Hurricane e Spitfire, non avevano l’autonomia necessaria per accompagnare i Lancaster e gli Halifax tanto lontano all’interno dell’Europa invasa dalla Germania.
Ora quest’ultima si vede improvvisamente colpita, di giorno, da enormi formazioni di possenti bombardieri, scortati da altrettanto enormi formazioni di caccia che hanno tutta l’autonomia necessaria per arrivare anch’essi sugli obiettivi, combattere contro i caccia tedeschi, tornare indietro e magari, dopo aver scortato i bombardieri al sicuro sulla Manica, tornare ancora indietro e mitragliare obiettivi di opportunità nel territorio nemico, prima di dirigere finalmente la prua verso casa.
Gli inglesi possono ora tirare un sospiro di sollievo.
Certamente continuano a combattere. Ma in modo meno cruento.
In questo libro ci sono alcuni riferimenti ai tre anni successivi al primissimo periodo di guerra. Ma l’autore si limita a dire che fu trasferito a Malta, dove pilotava un Hurricane etc. E qui aveva certamente combattuto contro tedeschi e italiani. Poi finalmente torna in patria e incontra per la prima volta gli americani.
La guerra volge al termine. Siamo nel 1944 e ci sono i preparativi per lo sbarco in Normandia e l’invasione dell’Europa continentale. Lo scopo è quello di liberare la Francia e proseguire verso i Paesi Bassi fino a penetrare in Germania e raggiungere Berlino. L’attacco alleato avveniva contemporaneamente anche da sud, con lo sbarco in Sicilia e ad Anzio. Intanto, da est, i Russi avanzavano verso Berlino.
A questo punto la stretta collaborazione tra inglesi e americani era una necessità essenziale. Tutti i problemi logistici, oltre a quelli strettamente operativi, richiedevano la più rapida ed efficace risoluzione, senza che si verificassero tensioni e attriti di nessun tipo.
Tom Neil finisce a ricoprire il ruolo di ufficiale di collegamento tra inglesi e americani. Lo assegnano al 100° Gruppo Caccia, 19° Comando Aero-tattico, 9° USAAF (Aeronautica degli Stati Uniti d’America) di stanza in un aeroporto in Inghilterra, molto vicino al suo aeroporto di appartenenza. Un viaggio davvero molto breve.
Il secondo capitolo, dal titolo: “My first americans“, è uno spasso. La descrizioni dei primi contatti con il carattere e i modi tipicamente americani, visti con occhi inglesi, è tutto da leggere.
All’inizio anche gli americani restano un po’ perplessi dal personaggio che si trovano davanti. Lo trattano con sufficienza. Lui aveva dato soltanto il suo nome, ma non il grado. Poi uno degli ufficiali comandanti finisce per chiedergli: “OK, Tom. And how d’you style yourself? Sergeant? “Lootenant” or what“?
“Ok, Tom. E cosa saresti? Sergente? Tenente o cosa?”
Notare come viene storpiata la parola tenente, che in inglese si scrive Lieutenant.
E lui risponde, con tono noncurante: “Well, I’m a sort of “lootenant”, except that I’m called Squadron Leader“.
“Beh, sono una specie di tenente, solo che sono un capo squadriglia”.
Non dimentichiamo che il nostro autore ha circa ventitré anni.
“Squadron Leader? What’s that, Tom?”
“Squadron Leader? Che cos’è, Tom?”
“Well, in the RAF, I fly fighter aircraft and lead a squadron. I’m a sort of major“.
“Bene, nella RAF, piloto aerei da caccia e comando una squadriglia. Sono una specie di maggiore”.
La reazione degli ufficiali americani fu di incredula meraviglia. Ma il tono semi derisorio terminò istantaneamente.
“Major! No kiddin! You a major? Then, boy! You don’t look old enaugh to be even a “lootenant”.
“Maggiore! Non scherziamo! Tu un maggiore! Allora, ragazzo! Non sembri abbastanza grande da essere nemmeno un lootenant”.
Sempre con la “strana” pronuncia della parola lieutenant.
Questa conversazione avvenne in una mensa, dove Tom era andato per fare colazione. Dopo aver saputo con chi avevano a che fare lo fecero sedere al tavolo, dove di solito si sedeva lo staff del comandante e gli portarono un mare di cose da mangiare.
E questo è solo un esempio degli ameni episodi descritti nel libro.
La fama di Tom Neil fece presto ad arrivare in quel reparto. al punto che ormai lo consideravano per quello che era: un asso.
Infatti, dato che appena lì fuori c’era un P47, il grosso caccia americano dal grande muso, chiamato colloquialmente “la bottiglia del latte” per via della forma tozza, Neil ebbe solo il tempo di chiedere informazioni su quell’aereo. Immediatamente lo invitarono a salire al posto di pilotaggio, gli spiegarono tutto il cruscotto e lo esortarono a provarlo in volo.
Lui fece molte domande ed ebbe tutte le risposte. Ma in conclusione, prima di lasciarlo andare gli dissero semplicemente:
“Keep everything in the green“. -“Tieni tutto nel verde”.
E qui, per piloti come noi, che siamo eredi proprio del metodo americano e abbiamo assimilato da sempre i loro standard, non c’è niente di cui stupirsi. Ad ogni volo, per quanto mi riguarda, ho sempre a che fare con la necessità di tenere tutto nel verde. E’ normale.
Ma non lo era per Neil, il quale probabilmente, sugli strumenti del cruscotto degli aerei inglesi, non aveva mai visto nessun settore bianco, verde, giallo o rosso, almeno in quegli anni.
E’ interessantissimo leggere il suo pensiero, a questa esortazione:
“In the green? To me, a new expression. I then saw that almost every instrument was marked with little coloured lines indicating the proper range of operating temperatures and pressures. What a super idea! I was absolutely in favour and have been ever since. Surprisingly, it was something the RAF, in my time away, never adopted“.
“Nel verde? Per me, un’espressione nuova. Allora vidi che quasi ogni strumento era marcato con piccole linee colorate indicanti la giusta escursione delle temperature e pressioni di esercizio. Che super idea! Ero assolutamente in favore di un simile sistema e lo sono sempre rimasto, da allora. Sorprendentemente, era qualcosa che la RAF, in quei tempi, non aveva mai adottato”.
Neil non spreca molte parole per descrivere la preparazione che precedette quel primo volo su un aereo tanto diverso da quelli ai quali era abituato. Il P47 era monoposto e non c’era modo di fare prima qualche doppio comando. Ma ho letto in tanti altri libri come gli americani affrontavano e risolvevano il problema, anche se oggi una tale pratica ci può risultare incredibile.
Però, a ben vedere, la faccenda è piuttosto logica, efficace e fa risparmiare un sacco di tempo.
Loro mettevano in atto una procedura che chiamavano “cockpit orientation“. – “Orientamento nel posto di pilotaggio“.
L’idea si basa sul fatto che tutti gli aerei, dal più piccolo al più grande, volano allo stesso modo. Un pilota sa volare. Punto.
Quello che gli serve e che può non sapere è la collocazione degli strumenti, dei vari comandi (sebbene la cloche, la pedaliera e la manetta stiano sempre nello stesso posto, più o meno), dei bottoni e degli interruttori. Poi ci sono le procedure di utilizzo del carrello e dei flaps e le velocità alle quali certi sistemi si possono azionare.
Quindi, il pilota viene posto a bordo e ivi lasciato per ore. Gli viene spiegato tutto ciò che ha a disposizione, viene istruito a tutte le sequenze di movimento, a toccare ogni comando non appena questo gli viene nominato.
Quando tutto risulta acquisito, il pilota viene bendato. E si ricomincia daccapo l’addestramento, solo che ora il pilota deve fare tutto senza neanche poter vedere.
Quando è pronto, non ci sono più molte difficoltà da superare.
Il decollo è piuttosto facile. Una volta in volo, per circa un’ora, si possono fare tutte le manovre necessarie a prendere confidenza con il carattere della macchina.
E quando viene all’atterraggio, il pilota ha già un’ora di esperienza su quel nuovo aereo.
Tuttavia, proprio l’atterraggio, è forse la fase in cui deve davvero stare parecchio attento.
Metodi antichi. Oggi sarebbero impensabili. Ma per alcuni aerei che esistono solo nella versione monoposto, come certi aerei acrobatici moderni, o alcuni alianti, ancora si opera in questo modo (fase bendata esclusa).
Neil scopre subito la natura degli americani. Gente dura, chiassosa, apparentemente poco rispettosa delle gerarchie, tranne quando davvero serve, ma anche gente avversa a troppe burocrazie. Vuoi provare il P47? O il P 51? Nessun problema. Ordini vengono emessi affinché l’aereo interessato sia messo in linea (In linea: altro modo di dire sconosciuto in Inghilterra, che Neil scopre qui, in ambiente americano), le persone giuste vengono incaricate e rese disponibili per lo scopo e questo è tutto.
Tutto bene anche nelle relazioni con il comandante , Il colonnello “Tex” Sanders, un nome molto famoso all’epoca.
Sanders ha un P51 a lui assegnato, con il quale può andare dove serve e dove vuole.
E Sanders autorizza Neil a fare uso di quel caccia come desidera. Tanto, a lui serve poco.
E’ interessante leggere il racconto del primo volo che un pilota britannico come lui si trova a fare sul meraviglioso Mustang P 51.
Nel 100th Fighter Wing Neil ha ormai consolidato la propria autorevolezza e gli americani lo trattano alla pari. Nessuna riserva. Può davvero fare quello che vuole.
“As a young RAF officer of 23, who had been flying a fighter aircraft for almost four years, I had infinitely more war experience than the other 30-odd officers and senior NCOs who worked with and around me during those early months, despite the many “rubber” medal ribbons some of them wore on their uniforms. Aware that I had flown throughout the Battle of Britain, in the siege of Malta and more recently in the bitter duels that had taken place over the Englih Channel, they viewed me with perhaps exaggerated respect, tolerating my strange remarks and habits and always acquiescing my whims, whether or not they agreed with them. In short, everyone – including colonel “Tex” Sanders – dealt with me gererously and very circumspectly and, not to put fine a point on it, I took advantage of their good nature“.
“Come giovane ufficiale della RAF di ventitré anni, che aveva pilotato caccia per quasi quattro anni, avevo infinitamente più esperienza di guerra degli altri ufficiali di 30 e più anni e degli anziani ufficiali di complemento che lavoravano con me e intorno a me durante quei primi mesi, nonostante il nastro di medaglie “di gomma” che alcuni di loro avevano sulle uniformi. Sapendo che avevo operato attraverso la Battaglia d’Inghilterra, nell’assedio (italiano) di Malta e più recentemente negli amari duelli che ebbero luogo sopra il Canale della Manica, mi consideravano forse con un rispetto esagerato, tollerando le mie strane osservazioni e abitudini e sempre tollerando i miei capricci, sia che fossero d’accordo o meno con essi. Per farla corta, ognuno , compreso il colonnello “Tex” Sanders – trattò con me in maniera generosa e circospetta e, per non mettere un punto troppo sottile su questo, approfittai della loro buona natura”.
Eccome, se ne approfittò.
In quasi metà del libro si parla di come l’autore svolgeva il suo ruolo di ufficiale di collegamento, facendo ampio uso di aerei statunitensi di ogni tipo, compresi alcuni grossi bimotori, ma anche di piccoli monomotori, uno dei quali ben conosciuto nei nostri aeroclub, specialmente dove si pratica volo a vela: lo Stinson L 5.
Con questi aerei faceva addirittura voli di piacere, oppure voli di collaudo o voli officina, portando a bordo un certo numero di specialisti o passeggeri vari che lo richiedevano.
Alcuni di questi passeggeri, addirittura salivano furtivamente, senza farsi scorgere.
Ma in uno di questi voli ci fu un’avaria che costrinse Neil a rimanere in volo a lungo, in attesa di capire come risolvere il problema. E allora questi clandestini spuntarono sulla porta della cabina di pilotaggio, guardando dentro con le facce pallide e preoccupate. Così Neil venne a conoscenza di avere a bordo più persone di quanto sapesse. E che a farli salire era stato uno dei motoristi, anch’egli a bordo, senza avvisare il comandante.
E se una stranezza del genere, che da noi non potrebbe avvenire, può sorprendere, ce ne sono altre, ancora più incredibili.
Nel collaudare questi grossi aerei, Neil non aveva un secondo pilota. O meglio, ne aveva uno, ma non era un pilota come lui. Era un medico chirurgo, il dottor Patterson.
Si proprio così. Il medico del 100th Fighter Wing, appassionato di volo, chiedeva di continuo di poter volare. E, figuriamoci, tutti erano ben felici di accontentarlo. Era riuscito a frequentare la stessa scuola di pilotaggio attraverso la quale erano passati tutti. Anche gli istruttori erano ben felici di insegnargli a volare.
Poi era riuscito ad addestrarsi ulteriormente e infine aveva volato abbastanza anche sui caccia statunitensi, compreso il P 51 Mustang. E secondo la mentalità americana, quando chiedeva di fare un volo, gli tiravano fuori subito un aereo e lo lasciavano andare.
Neil si era trovato a tenerlo in considerazione allo stesso modo. Avevano finito per diventare amici e andava a chiamarlo ogni volta che aveva bisogno di un copilota. Ma, per precauzione, si portava a bordo anche due esperti specialisti, che certamente sapevano meglio di lui dove, all’occorrenza, andavano messe le mani.
Come ho detto, mentalità americana.
E deve essere anche piuttosto contagiosa, perché Neil, alla richiesta del medico di fare un giro anche con lo Spitfire, acconsentì. Per precauzione gli fece un bel briefing, per ricordargli la disposizione dei comandi e i parametri di volo.
Il medico mise in moto e cominciò il rullaggio.
Dal modo come si muoveva al suolo per raggiungere la pista e dal tempo troppo lungo che il medico – pilota impiegò per fare la prova motore e decollare, un’idea cominciò ad affacciarsi alla mente di Neil. Sembrava che il suo amico non avesse mai volato sullo Spitfire.
Il volo doveva durare una mezz’oretta. Ma dopo un’ora non era ancora tornato.
Poi finalmente lo Spitfire apparve a bassissima quota e sorvolò il campo. Fece il circuito in maniera incerta, si presentò all’atterraggio in maniera errata e dovette fare un altro giro. Ma alla fine atterrò.
Nella concitata discussione che seguì il ritorno del medico venne fuori che si era perso e aveva faticato non poco a ritrovare l’aeroporto.
“Il vostro dannato paese è tutto uguale. Tutto squadrato e simmetrico. Ci sono pochi punti di riferimento“,
disse.
E, si, effettivamente non aveva mai volato su uno Spitfire. Proprio per questo aveva chiesto di provarlo.
A proposito di Spitfire, Quando arriva quello argentato di cui si accenna nel titolo? Ho letto due terzi di libro senza quasi poter smettere e ancora non se ne parla.
Ma poi, nel quindicesimo di venti capitoli, intitolato “Enter the Spitfire“, eccolo qua.
Fino a questo punto avevo seguito l’autore in una marea di avventure di ogni tipo, comprese le vicende che riguardavano la conoscenza di una ragazza, una WAAF, cioè un ufficiale donna che svolgeva un ruolo ausiliario nell’Aeronautica inglese. Si trattava di una specie di controllore di volo.
Questa ragazza diventerà sua moglie.
E durante i mesi del 1944 e anche del 1945 Neil si era trovato ad operare in Francia, dopo lo sbarco in Normandia (di cui si parla abbastanza nel libro). Seguendo le vicende della liberazione della Francia, il 100th Fighter Wing veniva spostato da un aeroporto francese all’altro, appena i tedeschi lo abbandonavano.
In uno di questi trasferimenti, in un aeroporto non molto distante dalla città di Le Mans, appena arrivato, Neil stava cercando un locale in cui scaricare il suo equipaggiamento e in cui soggiornare. C’erano alcuni caccia P 47 parcheggiati in un punto dell’aeroporto e qualche altro aereo americano.
Ma, in mezzo a loro, cosa vede?
Uno Spitfire.
Incuriosito si avvicina e scopre che questo Spitfire, un vecchio modello IX-B, appariva piuttosto malconcio. Tuttavia si adopera subito ad ispezionarlo e metterlo in moto. Poi cerca la documentazione di bordo per scoprirne la provenienza e il reparto di appartenenza.
Non trova nulla. Niente documenti, niente informazioni. Perfino il numero di serie era stato abraso dalla scalcinata colorazione mimetica.
Essendo lui un inglese, sperduto sul suolo della Francia, provava una sorta di sentimento di solidarietà per quell’aereo, inglese anch’esso.
Sulla fusoliera era riportato solo il nominativo: 3W-K, che indicava l’appartenenza ad una squadriglia alleata e quindi non della RAF.
Neil chiese se qualcuno sapesse quando l’aereo era arrivato e se qualcuno lo avesse visto atterrare.
Gli dissero che era atterrato poco tempo prima, il pilota aveva una divisa blu, ma era straniero e non parlava neanche bene l’inglese. Se ne era andato immediatamente con un aereo da trasporto, forse un Anson. E non aveva detto nulla su chi era, dove andava, né se sarebbe tornato a riprenderlo, ma di sicuro non lo avrebbe fatto, perché appena atterrato aveva inveito verso l’aereo, blaterando di non volerne più sapere.
Neil capisce che forse può prendere possesso della macchina.
Chiama subito alcuni specialisti. Ma incontra dei problemi, perché gli americani non hanno nulla che possa servire ad un aereo britannico. Perfino la batteria è diversa. Gli inglesi usano quella a 12 volt. Gli americani quella a 24.
Comunque fanno tutto il possibile e infine, il giorno seguente, Neil è pronto a provare il vecchi Spit in volo.
In tutto il volo prova durò una mezz’ora, sorvolando le città francesi di Rennes e Nantes.
Nella settimana seguente volò ancora per circa un’ora. Poi parcheggiò l’aereo al solito posto, aspettandosi che prima o poi non lo avrebbe più visto perché qualcuno era tornato a riprenderselo.
Invece no. Dopo altro considerevole tempo lo Spitfire era ancora lì. Solo e triste come un cane abbandonato.
Neil aveva già un pensiero, in fondo alla mente. Quello di appropriarsi del povero Spitfire, di farlo restaurare e di servirsene come mezzo di trasporto per ogni sua necessità operativa.
“Spitfires, like bad debits, tend to linger in the mind… I took a further hour off to fly it a second time – to keep its morale up, so to speak – and was surprised to see it several days later, still as silent and so lonely as ever, sitting on its hardstanding. Clearly, the owner was not too keen on having it back“.
“Gli Spitfire, come i brutti debiti, tendono a indugiare nella mente… mi presi un’altra ora libera per volarci una seconda volta – per tenergli su il morale, per così dire – e fui sorpreso di vederlo alcuni giorni dopo, ancora silenzioso e solitario, seduto sul suo carrello. Chiaramente, il proprietario non aveva nessuna fretta di averlo indietro”.
Passa tutto il mese di Agosto e Neil vola con altri aerei, compreso il P 51. Ma lo Spitfire era ancora lì. E anche l’idea di prenderlo era ancora lì.
Il 26 agosto 1944 il 100th Fighter Wing ricevette l’ordine di trasferirsi a Le Mans, a 80 miglia di distanza. Tutti cominciarono a impacchettare i loro equipaggiamenti e a caricarli sui camion.
Lo Spitfire era ancora là. Presto l’aeroporto sarebbe rimasto abbandonato e Neil già vedeva l’unica possibile fine dell’aereo: vandalizzato e ridotto a un rottame dai francesi residenti nei dintorni.
Un pensiero terribile e insostenibile.
Non ci mise molto a prendere una drastica decisione.
“It took me all of five seconds to make up my mind… I would take the Spitfire to Le Mans“.
“Impiegai cinque secondi a decidere… lo avrei preso e portato a Le Mans”.
Trovò una matita e una penna e scrisse un avviso che attaccò alla parete della baracca della torre di controllo.
“To whom it may concern. Have taken Spitfire 3W-K to Le Mans. Pick it up there“.
“A chi può essere interessato. Ho portato lo Spitfire 3W-K a Le Mans. Venga a prenderlo là”.
E firmò con il suo nome.
L’aeroporto di Le Mans non era niente di buono. Appena evacuato dai tedeschi, era pieno di relitti, aerei bruciati, mezzi di ogni genere abbandonati in giro, rottami ovunque.
Lo Spitfire andava portato via anche da lì.
Ma ora tutti avevano cominciato a considerare quell’aereo come di proprietà di Neil. E proprio i suoi meccanici presero a fargli pressioni affinché decidesse cosa fare dello Spitfire.
“Squadron Leader, they said, you are gonna have to do something about this heap“.
“Comandante, gli dissero, ti tocca fare qualcosa per questo affare”.
Ok. L’aereo fu controllato, rifornito, messo in moto. Neil salì a bordo e decollò per l’Inghilterra.
Il volo non fu proprio tranquillo. L’apprensione per le condizioni del motore si alleviò soltanto quando, attraversato il canale della Manica, l’isola di Wight passò rapidamente sotto la rotta verso la madre patria del glorioso Spitfire.
Bene. Da qui in poi comincia quel percorso che ogni pilota di HAG sarebbe ben felice di leggere.
E poiché non ho alcuna intensione di rovinare il piacere della lettura a nessuno, tantomeno ad un amico pilota appassionato di aerei d’epoca, termino qui il racconto degli avvenimenti successivi.
Ma, giusto per non troncare il filo degli eventi tanto bruscamente, diciamo che nel momento in cui Neil superava la linea della costa britannica, un certo Bert, specialista aeronautico inglese, vero mago della riparazione, manutenzione e restauro di ogni tipo di aereo, la persona che ogni proprietario di aereo d’epoca vorrebbe conoscere e avere per amico, aspettava a terra l’arrivo dello Spitfire per accoglierlo a braccia aperte.
Bert rimise a nuovo il glorioso Spit. E tra gli interventi che fece sulla fusoliera dell’aereo, per prima cosa tolse tutta la vernice mimetica fino a lasciare solo la superficie metallica.
Per questo, d’ora in poi, si parla di Spitfire argentato, come suggerisce il titolo del libro.
The Silver Spitfire, appunto.
Neil lo usò per un anno ancora come aereo executive, per spostarsi ovunque, per motivi di servizio e anche per motivi personali. Lo usò addirittura per andare a trovare la sua fidanzata ovunque lei venisse trasferita nella Francia liberata.
E lo ruppe, perfino. Più di una volta. Ma sempre Bert, allertato immediatamente, arrivava. Sostituiva motore, parti di fusoliera, carrello… Lo Spitfire tornava efficiente e perfetto più di prima.
Si. Bert era un mago. E fu la garanzia di sopravvivenza dello Spit per più di un anno.
Come finisce questa storia?
Questo proprio non lo posso dire. Altrimenti, davvero, rovinerei la sorpresa.
Diciamo che nel corso del tempo venne fuori che il possesso dello Spitfire diventò un problema. Non era esattamente legale averlo, né usarlo.
Ma era divenuto difficile anche disfarsene.
Una storia tutta da leggere.
Alla fine si venne a sapere a chi era appartenuto l’aereo prima che Neil lo ritrovasse?
Eh, questo è un altro punto forte del racconto. Il mistero, che ci lascia senza respiro, dura a lungo.
Fino, addirittura a non molti anni fa.
Ma anche questa è una parte talmente sorprendente che bisogna proprio leggerla dalle parole di Tom Neil.
Recensione a cura di Evandro A. Detti (Brutus Flyer)
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: Gun button to fire: A Hurricane Pilot Story of the Battle of Britain“. – [Bottone delle armi in posizione di “fuoco”: La storia di un pilota di Hurricane della Battaglia d’Inghilterra]
autore: Tom Neil
editore: Amberley Publishing
anno di pubblicazione: 2010
edizione ebook: 2010
eISBN: 978 1 84868 843 3
Dopo aver letto tanti libri scritti da piloti americani, neozelandesi, australiani o francesi, che hanno combattuto nei cieli europei e basati su qualche aeroporto inglese, ecco un altro libro che descrive i giorni, o meglio, gli anni della Seconda Guerra Mondiale.
Guerra aerea, ovviamente.
Stavolta, però, il pilota è proprio inglese.
Anche questo libro comincia con la descrizione della prima parte della vita del suo autore.
Gli anni dell’adolescenza e della giovinezza sono trattati brevemente, ma come di consueto, sin dall’inizio il libro coinvolge e lascia gli occhi del lettore incollati alle pagine.
L’autore aveva appena intrapreso una carriera di impiegato in una banca. Il padre, insieme ad un amico e collega già inserito nell’ambiente bancario, era riuscito a procurare questo lavoro al proprio figlio, che però non era molto entusiasta della soluzione. Infatti traspare dal libro una sorta di rassegnazione nei confronti di un impegno che non gli piaceva per niente. Ma cercava di fare buon viso a cattiva sorte. Nel frattempo si guardava intorno alla ricerca di qualche soluzione ben diversa.
Poi arrivano i giorni in cui si cominciano a percepire venti di guerra provenienti dalla Germania nazista.
Tom Neil, l’autore, ci porta con sé sulla tortuosa strada che, dalla porta della sua casa in un paesino dell’Inghilterra, conduce fino alla scuola di volo, al reparto della Royal Air Force nel quale prende servizio e comincia la sua vita di pilota militare.
Un classico, si potrebbe dire.
Sì. Un classico. Tutti questi libri cominciano più o meno così.
L’unica cosa che cambia è che qui il pilota è inglese. Si trova, quindi, già in Inghilterra.
Gli altri autori, invece, raccontano tutti il viaggio, lunghissimo e a volte periglioso, che da luoghi lontanissimi, come gli Stati Uniti, la Nuova Zelanda, l’Australia, il Sud Africa o la Francia (ma altri venivano da Cecoslovacchia, Polonia e altri paesi relativamente più vicini) li aveva condotti in Inghilterra per prendere parte alle operazioni belliche alleate contro l’aggressione della Germania e delle forze dell’Asse.
E comunque Tom Neil, l’autore, non deve fare molta strada per arruolarsi. Esce di casa, percorre un breve tragitto e arriva subito. Infatti, durante il primo periodo di servizio torna regolarmente a casa a dormire. E i suoi genitori lo possono andare a trovare in aeroporto ogni volta che lo desiderano.
Ma l’idillio non dura molto. La guerra travolge tutti con la sua furia cieca e le cose cambiano rapidamente.
Gli attacchi delle formazioni di aerei tedeschi diventano quasi giornalieri, poi si intensificano. In breve tempo i piloti devono partire immediatamente a ogni allarme e questo accade anche quattro o cinque volte al giorno. E anche di notte.
La Luftwaffe non dà tregua alle città inglesi. Bombardamenti continui devastano ogni obiettivo, militare e civile, con metodica regolarità.
Addirittura girano voci di un’imminente invasione del Regno Unito da parte della Germania. Ed erano voci veritiere. Infatti questo piano era presente nelle intenzioni di Hitler, che però, più o meno inspiegabilmente, non lo mise mai in atto.
Comincia così quella che oggi conosciamo come “la Battaglia d’Inghilterra“.
All’inizio, prima che anche gli Stati Uniti entrassero in guerra, solo uno sparuto gruppo di piloti si oppose agli attacchi. Gli aerei erano gli Spitfire e gli Hurricane.
Questi aerei sono diventati famosi.
Tom Neil divenne pilota di Spitfire. Ma solo per un breve periodo.
Dopo, transitò in un gruppo che aveva in dotazione il più datato Hurricane.
Questo libro, come tutti gli altri, ha una dedica. E anche questo è un classico.
La dedica, immancabile, nel caso nostro è rivolta alla moglie e ai figli.
“To my wife, who also served, and who was, and is, much more capable on the ground than ever I was in the air; and my three sons, who should at list know something of these events”.
“A mia moglie, che era anch’essa in servizio, e che era ed è, molto più capace a terra di quanto lo fossi io in aria; e ai miei tre figli, che possano almeno conoscere qualcosa di questo eventi”.
Già dalla dedica si percepisce una sorta di delicatezza che caratterizza il personaggio. Ed è effettivamente così. A fronte della rudezza di tante descrizioni, troviamo spesso frasi delicate nei confronti di familiari, amici, colleghi e perfino animali. Sembra incredibile che la stessa persona possa avere allo stesso tempo atteggiamenti tanto amorevoli e altrettanta indifferenza verso simili tragedie, come quelle che ogni giorni facevano parte della sua vita quotidiana.
Però, se una recensione deve mettere in evidenza i punti forti, o anche quelli deboli, di un libro, allora è meglio chiarire subito: a raccontarci tante storie di guerra, almeno del periodo iniziale in cui la Gran Bretagna faceva fronte da sola al nemico germanico, è un inglese. E trasferisce nei racconti tutta la sua mentalità inglese. O almeno, la mentalità di un inglese di quegli anni, che presumibilmente era abbastanza diversa, più forte e più marcata, di quella di un suo connazionale di oggi, in un mondo decisamente più globalizzato.
Sin dalle prime pagine risulta evidente una estrema imperturbabilità, quasi un’indifferenza totale verso gli episodi e le tragedie di molti avvenimenti di guerra.
Di notte, quando il silenzio veniva rotto dal rumore tipico di una squadriglia di bombardieri tedeschi che sorvolavano la zona, dal rumore sordo dei colpi della contraerea e dallo scoppio delle bombe nelle zone vicinissime alla baracca dove i piloti dormivano, alcuni uscivano fuori a guardare verso il cielo, altri si giravano nel letto e cercavano di riprendere il sonno. Come se la faccenda non li riguardasse.
“As if nothing really matters“,
direbbero loro. Che tradotto suona più o meno:
“Come se niente avesse davvero importanza”
Sconcertante. Ma non c’è solo questo.
In ogni capitolo Tom Neil descrive avvenimenti tragici e devastanti, aggiungendo alla fine di ogni descrizione che a lui e ad altri protagonisti presenti non importava davvero nulla. Subito dopo ognuno se ne andava per i fatti propri. E se appena il fattaccio aveva creato un qualche tipo di sconcerto, bastava andare alla mensa a prendere una birra, oppure bastava una scrollata di spalle per scacciare dalla mente la brutta sensazione.
A ogni sortita, generalmente su allarme, qualcuno non tornava. Molti cadevano verso terra con l’aereo in fiamme. E l’Hurricane aveva una spiccata tendenza a prendere fuoco in un attimo, per via della disposizione dei serbatoi, senza nessun sistema di auto sigillo.
Neil descrive un aereo colpito a quota più alta della sua, i pezzi volano via, uno di questi precipita giù e passa di poco al di sopra del suo cockpit. Una sagoma scura che sul momento non sa identificare, ma subito dopo scorge, in una frazione di secondo, gambe e braccia che si agitano nella caduta. Un uomo, il pilota.
Forse il paracadute non si era aperto.
La sua considerazione? Che brutta discesa, da 18.000 piedi (circa 7000 metri), per andarsi a sfracellare giù a terra…
Comunque il vedere colleghi di squadriglia cadere in fiamme o con il paracadute chiuso non turbava più di tanto e con il passare del tempo ci si faceva il callo sempre più.
In questo caso, però, si scopre nei giorni successivi, il paracadute, anche se non si era aperto del tutto, era uscito abbastanza da frenare la caduta e mantenere il pilota in posizione verticale. In questo modo l’uomo era andato a cadere nell’estuario del fiume Tamigi. L’impatto con l’acqua era stato violento, ma il pilota aveva riportato solo alcune ferite. Trasportato in ospedale, era poi guarito fino a tornare al reparto nei mesi successivi.
I raid aerei notturni, come ho detto, lasciavano molti abbastanza indifferenti, alla tipica maniera inglese.
“A noiser night… with a few bombs and guns going off from time to time… who would have thought a year before that we would be able to live quite serenely under an almost unending succession of nocturnal air raids? And hardly give them a thought”?
“Una notte più rumorosa… con poche bombe e cannoni che sparano di tanto in tanto… chi avrebbe mai pensato un anno prima che saremmo stati capaci di vivere abbastanza serenamente sotto una quasi continua successione di incursioni aeree notturne? E di dedicare loro solo un pensiero di sfuggita”?
Vero aplomb britannico…
Non tutti lo avevano, però.
In un altro punto Neil descrive un attacco aereo durante il decollo della squadriglia. Una bomba cade appena fuori dal loro alloggio devastando il prato con i cespugli di rose che lo circondavano.
Così scrive l’autore:
“Outside, everywhere was smoke, hovering dust and smell… Fifty paces away, a huge thick-lipped crater in the rosebush- encircled lawn in front of the mess. The Lawn, for God sake! That must have been the last bang. And an old man, a gardner, shocked into petrified silence, was shaking uncontrollably and standing as though transixed.
We collected the poor creature, who must have been seventy, and sat him on the steps of the hat, breathing words of sympaty and encouragement in his ear…. A cup of tea? Not even a nod. The eyes blankly vacant, the spirit crushed. An urgent nod toward my batman. Tea! Sweet tea. Quickly”!
“Fuori (dalla baracca), era tutto fumo, polvere sospesa e odore… Cinquanta passi lontano, uno spesso cratere orlato nel prato circondato da cespugli di rose di fronte alla mensa. Il prato, perdio! doveva essere stata l’ultima deflagrazione. E un uomo anziano, un giardiniere, shoccato e pietrificato in silenzio, tremava incontrollabilmente in piedi come se fosse in trance. Prendemmo su la povera creatura, che doveva avere circa settant’anni, e lo mettemmo a sedere sugli scalini della baracca, sussurrandogli parole di compassione e incoraggiamento all’orecchio… Una tazza di thè? Neanche un cenno del capo. Gli occhi persi nel vuoto, l’animo affranto. Un rapido assenso verso il mio attendente. Thé! Thè dolce. Veloce”!
Anche in questo racconto si percepisce la tipica mentalità inglese.
Fin qui ho solo voluto mettere in evidenza qualcosa che ho riscontrato quasi soltanto in questo libro. La cruda descrizione di eventi terrificanti che altri autori hanno cercato di evitare. In definitiva, le stesse reazioni possono esserci state in qualunque azione di guerra, in qualunque luogo del mondo. Ma la scelta del thè dolce… Forse altrove si sarebbe parlato più di caffè o di whisky…
Ok. Ma ora arriviamo ad una descrizione veramente tremenda. La riporto, non certo per scoraggiare l’interesse di un eventuale, remoto lettore di questo libro bensì per prepararlo a ciò che leggerà. Ce ne sono un’infinità, di queste descrizioni.
Nell’aeroporto arriva un raid aereo.
Una colonna di fumo grigio scuro si alza nel cielo.
“Qualcosa di terribile deve essere accaduto laggiù, perdio”!
Ci vuole fegato per leggere ciò che segue. Chiunque non se la senta, salti pure questa parte.
“A Hurricane, pointing west, sat outside our dispersal hut. On its belly and on fire. I hurried towards it to find Crossey and others standing beyond the circle of intense heat with their hands in there pockets. I peered through the smoke and flames… I turned to Crossey. Where was the pilot? A nod. Inside!
It was like a funeral pyre. As the flames took a hold, we watched a blackened and unrecognizable ball that was a human head sink lower and lower into the well of the cockpit until, mercifully, it disappeared. Then the fuel tanks gaped with Whoof of flame the ammunition began to explode, causing us all to step back a pace, and the fuselage and wings began to bend and crumble in glowing agony. Finally, there was only heat and crackling silence and ashes.
And all time we watched. And talked quietly”.
“Un Hurricane, puntando ad ovest, si fermò fuori dalla nostra baracca. Poggiato sulla pancia (con il carrello dentro) e in fiamme. Mi affrettai verso di esso e trovai Crossey (un altro pilota) e altri in piedi al di là del cerchio di intenso calore con le mani nelle loro tasche. Sbirciai attraverso il fumo e le fiamme…. Mi rivolsi a Crossey. Dov’era il pilota? Un cenno di assenso con il capo. Dentro!
Era come una pira funeraria. Appena le fiamme si placarono un po’, vedemmo una palla annerita e irriconoscibile che era stata una testa umana sprofondare sempre più in basso in fondo alla cabina di pilotaggio finché, misericordiosamente, scomparve. Poi i serbatoi del carburante si squarciarono con una ventata di fiamme e le munizioni cominciarono ad esplodere, facendoci arretrare di un passo, e la fusoliera e le ali cominciarono a piegarsi e a sbriciolarsi in una incandescente agonia.
Alla fine rimase solo calore e scoppiettante silenzio e cenere.
E noi guardavamo per tutto il tempo. E parlavamo tranquillamente”.
Alcune pagine dopo Neil scrive, riguardo a questo tragico spettacolo:
“I retired that night more than a little concerned that I treaded the cremation of 357’s chap so lightly. What on earth was coming over me? I had watched a collegue burnt to a cinder and had felt… well… almost nothing.”
“Rientrai quella notte un po’ preoccupato per aver seguito tutta la cremazione di quel ragazzo del 357esimo così alla leggera. Cosa mi stava accadendo? Avevo guardato un collega ridotto in cenere e mi ero sentito… be!.. quasi nulla”.
Per pagine e pagine, anzi, per interi capitoli, troviamo descrizioni di battaglie aeree, combattimenti contro altri caccia, aerei abbattuti, piloti che scompaiono, aerei in fiamme che scendono come meteore verso terra. E sempre l’autore accenna a quanto tutto questo gli fosse pressoché indifferente.
Muore un pilota. E’ uno che ha nella sua baracca un cane e un’oca. I poveri anomali restano soli. Dice Neil: “se soltanto sapessero. Ma forse lo sanno…”.
Poi capita a lui di essere abbattuto. Si lancia con il paracadute e si salva. Tutto il lancio viene raccontato nei minimi particolari ed è interessantissimo leggerlo. Specialmente per chi, come me, vola in aliante con un paracadute sulla schiena. Il solo fatto di averlo lascia intendere che potrebbe essere necessario usarlo e questo provoca una sottile preoccupazione a molti piloti.
Nella descrizione che Neil fa dell’episodio c’è un elemento di spicco: la straordinaria determinazione nel non perdere la maniglia che provoca l’apertura del paracadute. La vuole assolutamente tenere per ricordo.
La Storia della Seconda Guerra Mondiale ci ha insegnato che l’Italia, purtroppo, era alleata della Germania. Mussolini mandò un certo numero di aerei a “dare man forte” alla Luftwaffe nelle missioni sull’Inghilterra. Erano CR42 Falco, biplani di antica concezione, assolutamente inadeguati a ogni profilo di volo. Tranne, forse, al combattimento manovrato.
Anche i piloti erano scarsamente equipaggiati. Le cabine aperte non si prestavano certo al volo ad alta quota, per via del freddo e della mancanza di impianti di ossigeno. I tedeschi, loro malgrado, accettarono l’aiuto italiano, ma dovettero fornire l’equipaggiamento mancante agli italiani.
Alcuni CR42 furono abbattuti o dovettero rientrare.
Uno di quei CR42 si trova ad Hendon, un museo della RAF vicinissimo a Londra. Il caccia è in ottime condizioni e fino a poco tempo fa era l’unico esistente al mondo. L’ho visto e fotografato durante una visita a quel museo. Non sapevo che ci fosse e rimasi molto sorpreso.
Bene. Nel libro si parla degli italiani che presero parte a queste azioni di guerra. Neil ha combattuto contro i nostri aerei.
E descrive i nostri piloti con parole di elogio, per l’eroismo e l’abilità nel combattimento.
Mi ha fatto una certa impressione leggere questa storia, vista dall’altra parte della barricata…
Molte pagine sono dedicate alle fotografie dell’epoca. Sono in bianco e nero, ovviamente. E troppo piccole, per essere viste bene, ma sono molte e ritraggono i momenti salienti della vita di reparto. Oltre alle foto dei piloti e degli aerei ci sono anche foto delle pagine del libretto di volo dell’autore.
E qui, le ridotte dimensioni sono un vero peccato. Si riesce a malapena a leggerle.
La parte finale del libro è dedicata a una sorta di curriculum vitae di molti dei piloti che combatterono durante la Battaglia d’Inghilterra.
Sono descrizioni succinte, riportano solo i fatti salienti della vita di ognuno di loro. La maggior parte sono scomparsi e appare sconcertante quanto sia semplice, in definitiva, l’andamento di una vita umana, specialmente quando di essa possiamo vedere sia l’inizio che la fine.
E questi piloti erano tutti giovanissimi.
Alcuni erano poco più che ventenni. La loro vita è stata davvero troppo breve.
A loro dobbiamo molto. Forse la nostra stessa libertà.
Per concludere, questo libro è davvero impressionante. Una volta letto, si conosce molto più a fondo quella parte di storia della guerra aerea del periodo iniziale della Seconda Guerra Mondiale.
Si finisce per conoscere più a fondo quello che doveva essere il combattimento di un caccia contro un altro caccia o contro le mitragliatrici dei bombardieri. Neil parla di come preferisse attaccare da certe posizioni dove sapeva che i mitraglieri avevano un angolo cieco e non potevano colpirlo. Ma poi, nel disimpegno, finiva per essere un bersaglio ugualmente.
Durante tutta la lettura sono rimasto molto impressionato dalla crudezza dei fatti narrati. E, come ho detto, dall’atteggiamento indifferente che accompagnava ogni tragedia.
Nothing really matters ... sempre la stessa frase mi risuonava nella mente. Sono le parole di una canzone.
C’è una canzone dei Queen, gruppo inglese, guarda caso, intitolata “Bohemian Rhapsody”. Nel testo di questa canzone, a mio avviso, c’è lo stesso spirito di estrema indifferenza verso un povero uomo condannato a morte, sia quello della storia, sia il cantante stesso, Freddy Mercury, ammalato di AIDS e che sa che dovrà morire. E dall’inizio si rivolge alla madre dicendole che “non significa che devi piangere se domani non sarò tornato a casa. Carry on carry on. Vai avanti, vai avanti. As if nothing really matters. Come se nulla conti davvero.
E il personaggio della rapsodia, allo stesso modo, indifferente alla propria sorte, ripete sempre lo stesso concetto. Che non gliene importa nulla.
Infatti la canzone si conclude con la sua lamentosa, ennesima dichiarazione:
“Nothing really matters. Anyone can see… Nothing really matters…
To me”….
“Non importa davvero niente. Ognuno lo può vedere… Non importa davvero niente… a me”…
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Prefazione a cura di:“Johnnie” Johnson (Air Vice Marshall)
Seconda prefazione a cura di:Johnny Iremonger (Group captain OC 486 – New Zeland – Squadron nel 1944)
Qui in Italia siamo abituati a pensare alla Seconda Guerra Mondiale come ad un conflitto fra Germania e Gran Bretagna. Si sa che erano coinvolte altre nazioni, come la Russia e il Giappone. E, ovviamente il resto dell’Europa. Solo in un secondo tempo vennero coinvolti gli Stati Uniti d’America.
Nelle scuole non si tratta questo argomento con sufficiente cura, come purtroppo accade anche per altri argomenti. Infatti, basterebbe fare quattro domande ad un certo numero di persone e avremmo conferma di quanto poco si sappia di Storia in questo Paese.
Peccato.
Anche quando si parli in maniera approfondita della Seconda Guerra Mondiale, difficilmente si arriverebbe a prendere in considerazione il coinvolgimento di nazioni come la Cecoslovacchia, la Romania, ecc.
Figuriamoci se emergono nomi come Australia e Nuova Zelanda.
Ma il conflitto era mondiale. Tutti erano coinvolti, anche se c’erano paesi neutrali, come la Spagna e la Svizzera.
Quando ho cominciato a leggere “Tempest pilot” conoscevo già le vicende che riguardavano Johnnie Johnson, quello che ha scritto la prima prefazione di questo libro.
Nel proseguire la lettura mi sono però trovato parecchio spiazzato da qualcosa di nuovo, mai incontrato prima. Intanto ho capito che qui si parlava di un gruppo di piloti che erano basati in Inghilterra, ma non erano né britannici né statunitensi. Erano Neozelandesi.
Inoltre, sin dalle prime pagine avevo avuto una notevole difficoltà a leggere il testo, scritto in inglese, ma con frasi talmente inusuali, a volte così ermetiche, da farmi persino dubitare che fosse inglese davvero.
Il libro comincia, come quasi tutti gli altri libri scritti da piloti, dalla prima esperienza di volo. E comunque dall’infanzia. E questo non fa eccezione. Solo che qui l’autore, dopo aver detto di essere cresciuto in una fattoria, in una famiglia di sei figli e amorevoli genitori, precisa subito che il luogo si trovava in una remota area della Nuova Zelanda …
“L’avversario più pericoloso del Messerschmitt Me 262 era il British Hawker Tempest: estremamente veloce a basse altitudini, altamente manovrabile e armato fino ai denti.”
(Hubert Lange, pilota Me262)
Ah, ecco! Questo particolare spiegherà, più avanti, il motivo per cui l’inglese del testo appare tanto arcano e insolito. Avevo già sperimentato una stranezza del genere in Canada, dove il francese parlato da quelle parti era altrettanto arcano e insolito. Infatti, spesso preferivo usare l’inglese.
Non che non ci si capisse, ma … venivo dagli Stati Uniti e dopo poche frasi in francese, con la mia evidente pronuncia italiana e il loro idioma antico, mi usciva automaticamente qualche frase in inglese.
Così si continuava in inglese. Per loro era lo stesso.
L’autore, Sheddan, parla subito della scuola di volo in Nuova Zelanda. L’aereo era un Tiger Moth.
Dopo la scuola basica in Nuova Zelanda, Sheddan andò in Canada a continuare la scuola e qui l’aereo utilizzato era il “T6 Texan, un aereo che ha dato le ali a generazioni di piloti.
Dopo un addestramento adeguato sul T6 si poteva passare abbastanza agevolmente ad altri aerei più performanti, come gli Hurricane, gli Spitfire e perfino i Typhoon e, appunto, i Tempest, che erano un’ evoluzione del Typhoon.
Forse pochi sanno che il Canada ha sempre avuto eccellenti scuole di volo, dalle quali uscivano piloti talmente ben addestrati, specialmente nel volo strumentale, da essere nettamente al di sopra della media degli altri piloti.
In Canada, ad esempio, l’addestramento al volo cieco veniva eseguito dall’allievo dal sedile posteriore, chiuso da una tendina in modo che non potesse vedere fuori, mentre l’istruttore stava davanti e vedeva tutto. In questo modo si svolgeva tutto il programma di volo, acrobazia compresa.
E anche la vite.
L‘istruttore metteva in vite l’aereo e l’allievo, solo con gli strumenti del cruscotto, doveva uscirne.
I piloti addestrati in Canada si trovavano molto avvantaggiati in un clima come quello inglese, o nord-europeo in genere, nella foschia densa, dentro le nuvole e nella pioggia, condizioni tipiche e quasi una costante in Gran Bretagna, specialmente in inverno.
Di questi esempi ce ne sono moltissimi in tutto il libro.
Già dal secondo capitolo, intitolato “England“, troviamo ampie descrizioni di queste giornate uggiose.
Nei primi capitoli ho riscontrato un’altra stranezza. Avevo la netta impressione di avere già letto esattamente gli stessi avvenimenti. Una cosa del genere capita quando si leggono tanti libri scritti da piloti diversi ma che raccontano la stessa guerra aerea.
Poi mi sono accorto che c’era un libro in particolare dove erano state raccolte parti di altri libri, compreso questo. Si tratta di; “Raise against Eagles“, che ho letto solo a metà e devo ancora finirlo.
Ma le vicende di quegli anni, sempre le stesse per tutti coloro che le hanno vissute e raccontate, sono quelle che ho letto anche nel libro di Pierre Clostermann, di Johnnie Johnson, di Chuck Yeager e di Anderson.
Davvero ho la netta impressione di averle vissute io stesso, quelle vicende.
Il contenuto dei capitoli fa sentire il lettore come se fosse davvero lì.
E a questo proposito vorrei riportare un’altra caratteristica particolare di questo libro, anche se un po’ difficile da presentare in maniera adeguata, senza il rischio di urtare la sensibilità di chi leggerà questa recensione.
Un Hawker Tempest Mk V del 501mo Squadron nella piazzola decentrata dell’aeroporto della RAF a Bradwell Bay, in Essex. Splendida foto a colori scattata nell’ottobre 1944. A titolo di informazione tecnico/storica riportiamo i dati relativi alla versione Mark V del Tempest. Velocità max: 702 km/h alla quota di circa 5’600 m; velocità di salita: 24 m/sec, tangenza massima: 11’100 m; armamento: 4 cannoncini Mark II Hispano calibro 20 mm (con 150 colpi per arma), 2 bombe da 230 kg o una da 450 kg, 8 razzi RP-3 da 76 mm). – Foto proveniente da www.flick.com
La natura neozelandese dell’autore non ha remore nel descrivere scene scabrose tipiche del periodo e forse anche dei luoghi e forse di ogni teatro di guerra, anche se, secondo me, in tempo di pace succede la stessa cosa. Nessuno prende l’iniziativa di riportare certe faccende su un libro. Si preferisce ometterle, oppure semplicemente accennarle, lasciarle vagamente sottintese.
Lui no. Lui le descrive con tutti i particolari del caso, anche se l’inglese neozelandese è più difficile da capire e le frasi idiomatiche che usa costringono ad uno sforzo ulteriore.
Alla fine, però, è tutto chiaro.
Si tratta delle ubriacature sistematiche di ogni giornata nella quale non si è di servizio, o delle feste, ovunque queste avessero luogo, anche a casa di ospiti illustri, delle conseguenze successive e degli incidenti di automobile nella fase di rientro alla base e così via.
Questa è una di quelle fotografie che, inevitabilmente, vengono consegnate alle pagine di storia della II Guerra Mondiale. Si tratta dell famoso stormo neozelandese al completo, il 486mo Squadron RNZAF (o Royal New Zealand Air Force) di cui fu membro l’autore del libro e, dal maggio all’ottobre 1945, addirittura comandante. In particolare, egli fu l’ultimo dei suoi comandanti: lo Squadron fu infatti sciolto il 12 ottobre 1945 presso l’aeroporto di Dunsford, in Inghilterra; era stato ufficialmente formato il 7 marzo 1942 presso l’aeroporto di Kirton in Linsday, nel Lincolnshir. In questo arco di tempo, il 486mo Stormo volò effettuando oltre 11.000 sortite, rivendicando l’abbattimento di 81 aerei nemici, (e tra questi due dei famossisimi jet Messerschmitt 262) nonchè la ragguardevole mole di 2231 esemplari di V-1 “bombe volanti”, oltre a 323 veicoli a motore, 14 motori ferroviari e ben16 navi. Niente male per dei neozelandesi! Lo scatto è stato fornito da Ian Calderwood che annota come, per qualche motivo, il padre fosse da qualche altra parte dell’aeroporto quando tutto lo stormo si mise in posa. Per chi volesse saperne di più a proposito, esiste anche una pagina Facebook dedicata al 486 Squadron RNZAF . – Foto proveniente da www.flick.com
Chi è ubriaco deve spesso espletare altre funzioni fisiologiche e allora viene descritto il modo in cui queste venivano espletate, nelle scarpe, oppure dalla finestra, anche quando sotto di essa si trova qualcuno steso a smaltire la propria sbornia.
Ma questo non è ancora il peggio.
Perché viene descritto, in maniera altrettanto cruda ed esplicita, anche come si muore.
Ci sono moltissime descrizioni di mitragliamenti di obiettivi al suolo. Un Typhoon scende a mitragliare un treno, gli sparano, cade in pochi istanti, esplode e fine della storia.
Tizio non rientra dalla missione. Punto.
Questo splendido scatto ritrae un Hawker Tempest MkV che divenne famoso in quanto, con ai comandi quattro diversi piloti, ebbe la meglio su tre Bf109 e un Fw 190. Il velivolo britannico apparteneva al 80mo squdron di stanza a Volkel. L’aspetto peculiare che rese il Tempest uno degli aeroplani con motori alternativo tra i più veloci dei belligeranti della II Guerra Mondiale fu l’adozione di una geniale ala con profilo a flusso laminare, sebbene a pianta ellittica, tanto cara ai britannici. Era tecnicamente lo stesso profilo laminare che lo studio di progettazione della North American Aviation adottò per il proprio velivolo da caccia: il famosissimo P-51 Mustang. E sappiamo con quali risultati. Ricordiamo infine che il Tempest Mark V, equipaggiato di un motore tipo Napier Sabre IIB (con 24 cilindri disposti a “H” ed eroganti quasi 2200 cv), toccava la ragguardevole velocità di 700 km/h. Oggi lo chiameremmo “intercettore”., – Foto proveniente da www.flick.com
Tutti hanno sentito parlare del famoso caccia inglese Spitfire. Anche l’Hurricane è conosciuto, come l’americano P 51, il tedesco Messerschmitt o il FW 109.
Pochi conoscono il Typhoon e il Tempest.
Ho scoperto in questo libro che il Typhoon, caratterizzato da un’ala spessa e da una grande presa d’aria sotto il muso, era molto pericoloso in caso di ammaraggio. Nessuno si era mai salvato da un evento simile.
Sheddan fu costretto ad ammarare e fu il primo a salvarsi, sebbene a costo di ferite al corpo e al viso. Poi rimase tante ore in mare, prima di essere salvato.
Il Tempest aveva l’ala diversa, molto più sottile. Per ragioni dinamiche il Tempest ammarava molto meglio.
Nonostante Pierre Clostermann, nel suo libro “La grande giostra“, parli abbondantemente delle differenza fra i due aerei, sui quali anche lui aveva fatto la guerra, tante caratteristiche non erano emerse.
Sheddan ne rivela molte altre e questo è davvero interessante per un appassionato di cose aeronautiche in generale e di guerra aerea in particolare.
Ma non fu l’unico incidente. Ce ne sono diversi, narrati nel libro.
Uno in particolare, molto grave, avvenuto in Danimarca quando la guerra era già finita, era stato descritto anche da Pierre Clostermann, proprio a conclusione del suo libro.
Sheddan descrive questo incidente, poi aggiunge ben poco. La guerra è finita e tutti tornano ai loro paesi di origine.
Voglio aggiungere un altro episodio, che mi ha lasciato interdetto, ma che forse non è neppure tanto inusuale come potrebbe sembrare.
Di Cornelius James Sheddan (soprannominato “Jimmy”), autore del libro dedicato ai piloti di Hawker Tempest, disponiamo diverse fotografie che lo ritraggono in varie situazioni e pose ma solo queste due fotografie in bianco e nero lo vedono in primo piano. La prima, chiaramente scattata in un set fotografico (come spesso facevano i militari durante la guerra) e la seconda più estemporanea, probabilmente scattata all’aperto con lo sfondo di uno dei suoi Tempest. La biografia dell’autore, nato nel marzo 1918, riporta che egli tornò in Nuova Zelanda alla fine della guerra ove trascorse il resto della sua esistenza … fino al dicembre 2010 quando, novantaduenne, ci ha lasciato per sempre … Nel giugno 1945 gli fu attribuita la Distinguished Flying Cross (DFC per brevità) per aver abbattuto 4 velivoli nemici assieme a 3 condivisi con altri piloti e 8 bombe volanti V1. In basso la motivazione con cui gli fu attribuito il prestigioso riconoscimento . – Foto provenienti da www.flick.com
Questo ufficiale ha dimostrato la massima qualità nell’esecuzione del suo dovere. Ha partecipato a un numero molto elevato di missioni di un’ampia varietà di tipi durante le quali ha causato danni significativi a obiettivi come locomotive, chiatte, veicoli o infrastrutture industriali.
Durante un volo sopra la Francia, l’ufficiale di volo Sheddan fu costretto ad atterrare in mare con il suo aereo danneggiato. Ha quindi dovuto aspettare 19 ore nel suo gommone prima di essere salvato. Al suo ritorno in operazione, Sheddan ha dimostrato rapidamente che questa esperienza non aveva in alcun modo influenzato la sua determinazione a combattere e rimane un esempio di coraggio e spirito combattivo. Tra i suoi successi c’è la distruzione di tre aerei nemici in combattimento aereo.
Tornato in Nuova Zelanda, un gruppo di piloti vengono a sapere che uno di loro ha un ristorante in un certo luogo e pensano di andare a fargli visita.
Dopo tutte le vicende vissute insieme in guerra è lecito credere che sarà una rimpatriata, con successiva grande festa eccetera.
La forza armata indiana e quella pakistana furono le ultime a utilizzarli fino al 1953 sebbene dall’intuizione progettuale che era stata la base del Tempest, l’ing Sydney Camm prese ampiamente spunto per disegnare un altro velivolo davvero notevole: il Sea Fury, l’ultimo aereo da combattimento con motore a pistoni impiegato dalla Fleet Air Arm e, probabilmente, il più veloce aereo con motore a pistoni mai prodotto in serie. Il Tempest rimane tuttavia il velivolo più “maschio” della famiglia Camm. I velivoli al parcheggio appartengono proprio al 486mo Stormo della Royal New Zealand Air Force di “Jimmy” Sheddan. Sono faclmente riconoscibili dalla sigla “SA” applicate sulla fiancata della fusoliera. – Foto proveniente da www.flick.com
Ma quando si presentano al loro amico, dopo il primo approccio, lui si distacca dalla compagnia e si allontana, preso dalle proprie faccende. Come se avesse dimenticato il passato e contasse solo il presente e i propri affari.
Come ho detto, questo è un libro diverso.
La lingua è l’inglese, ma diverso.
Le vicende di guerra sono le stesse, ma riportate in maniera diversa.
Diversi Hawker Tempest sono sopravvissuti alla II Guerra Mondiale e, come questo esemplare conservato a Caen, all’interno del War Memorial, fanno bella mostra di sè a beneficio delle giovani generazioni. Si tratta di un Mark V equipaggiato con il classico amamento da attacco al suolo e, ancora oggi, incute un certo timore. Figuriamoci all’epoca vederselo passare sopra la testa o incrociandolo in volo col rischio di un “dogfight”. – Foto proveniente da www.flick.com
Gli aerei sono gli stessi, ma presentati in una diversa maniera, molto più completa.
Le persone sono le stesse, ma anche di queste si scopre molto di più.
Anche il teatro di guerra è lo stesso. Noi lo conosciamo bene, non solo per aver letto le descrizioni di piloti europei o americani. Lo conosciamo perché è il nostro ambiente. Noi ci viviamo.
Tuttavia, il nostro ambiente europeo, visto dagli occhi di un neozelandese, in parecchie descrizioni del libro, appare diverso.
Recensione a cura di Evandro A. Detti (Brutus Flyer)
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