Il volo di Uco

In un ampio alveare naturale nell’alta e verde valle del Sol, viveva una numerosa famiglia di api e tra di esse: Uco il più giovane e piccolo fuco. Trascorreva il tempo imitando gli altri maschi, bighellonando nell’alveare, disturbando le api indaffarate e commentando e sparlando su di loro. Ma i discorsi più frequenti ed interessanti riguardavano il mitico incontro con Ozia, la regina; lui, come molti altri, non l’avevano mai vista eppure s’infervoravano nel descriverla facendo leva sulle proprie fantasie giurando agli altri di averla incontrata veramente. Il più loquace del gruppo era Ioluco, il più anziano, più grosso ed arrogante, vantava incontri si prodigava in descrizioni lasciando gli altri stupiti ed invidiosi; fra i tanti, per l’eccessiva manifestazione di ammirazione, spiccava Soluco che non perdeva occasione per imitarlo ed incoraggiarlo. Il piccolo Uco invece era da lui e da tutti gli altri bersagliato, deriso umiliato e, non potendo competere nei racconti, emarginato e, se chiedeva spiegazioni, gli altri per confonderlo gli indicavano le più goffe fra le api comuni giurandogli: “Quella lì è Ozia!”. I fuchi avevano anche individuato un’area da usare come pista di simulazione dove allenarsi a correre, organizzando fra loro gare informali a cui tutti partecipavano ma che terminavano sempre col medesimo risultato: correttamente o scorrettamente il vincitore era sempre l’ irruente Ioluco tallonato da Soluco. Proprio durante lo svolgimento dell’ennesima gara, la stessa zona fu pervasa da un grande fermento per il passaggio del corteo reale; allora tutto il gruppo abbandonò la corsa e s’accalcò per vedere Ozia, ma la calca rese difficile la visione. Uco giunse per ultimo, trafelato e dovette arrampicarsi sugli altri. “Eccola Ozia” gli disse qualcuno e lui seguendo l’indicazione finalmente la vide. “Questa volta l’ho vista veramente, anzi sono sicuro che lei ha guardato nella mia direzione. E’ proprio bella non come le api noiose che ci ronzano intorno cariche di cibarie!” urlò felice e da quel momento non pensò ad altro, si isolò, sopportò indifferente scherzi ed angherie, non s’impegnò più nemmeno nelle gare preferendo rimanere disteso ad immaginare Ozia. Passò del tempo e venne al momento del volo nuziale: Ozia si liberò nell’aria limpida e tutti i fuchi iniziarono ad inseguirla. Caparbio e rapido Ioluco superò gli altri concorrenti ed ingaggiò un vero duello aereo con la regina e riuscì a raggiungerla ma per meglio impressionarla volle superarla e girargli intorno bruciando così importanti energie ed acconsentendo a Soluco, secondo inseguitore, di agganciare Ozia ed accoppiarsi con lei. Il presuntuoso Ioluco non ebbe nemmeno il tempo di stupirsi ed indignarsi perché venne eliminato e dopo di lui tutti gli altri maschi. Solo Uco continuò a volare indisturbato seguendo una sua propria pista: in tutto il tempo trascorso nell’alveare aveva immaginato l’inseguimento della sua regina e quando la vide ancora più bella rispetto la prima fugace visione, ignorando gli altri, si tuffò all’ inseguimento, per ben due volte la raggiunse ma lei riuscì a sfuggire, al terzo tentativo lui l’anticipò parandosi davanti a lei nei pressi di una cima di ciliegio, si meravigliò e si congratulò con se stesso per aver anticipato tutti (infatti nessun altro maschio era ancora nelle vicinanze). Ma con suo stupore l’ape che stava di fronte a lui l’apostrofò così: “Stai perdendo tempo, devi seguire il corteo degli altri perché io non sono Ozia la regina ma solo Jolia la sua ancella! Quindi lasciami” e tentò di riprendere il volo ma lui non volle sentire ragione e continuò a fiancheggiarla allontanandosi sempre più dalla sfida regale e iniziando a tesserle continui elogi e raffronti: ” La regina non è forse l’ape più bella dell’alveare? Ebbene tu sei la più graziosa e leggiadra delle api! La regina sa eseguire con maestria voli acrobatici? Sono sicuro che tu sia ancora più abile basta che provi!” Lentamente Jolia si lasciò convincere, smise di respingerlo e continuò a volare con lui e quando Uco si fermò stremato ed affamato lei lo preservò e lo nutrì pur di continuare ad ascoltare i suoi incoraggiamenti. Poi lo condusse al riparo in un favo situato vicino all’alveare in modo di poterlo visitare e nutrire tutti i giorni volando con lui per sentirsi Regina. L’accordo fra i due proseguì fino alla successiva primavera con reciproco vantaggio: il fuco ignorato dalle altre api visse indisturbato forte e ben pasciuto; l”ancella rinfrancata dai continui incoraggiamenti iniziò a raffrontarsi veramente con Ozia, durante il passaggio del corteo reale spesso riusciva già ad attirare su di se l’attenzione offuscando la sovrana, riuscì anche a creare attorno a se un clan di api convincendone alcune a lavorare per lei. Quando il tempo fu maturo per un nuovo volo nuziale Jolia si prodigò per interferire col viaggio di Ozia per sostituirsi ad essa e riuscì a trascinare a se molti giovani fuchi, giunta nelle vicinanze della cima del noto ciliegio si ricordò di Uco ( che nei giorni precedenti al volo aveva trascurato) e s’accorse che non era tra gli inseguitori! Infatti Uco sbaragliando tutti aveva raggiunto Ozia e … si era accoppiato con lei.


#proprietà letteraria riservata#


Dario Biancotti

18 marzo 1986

Era il 18/3/86, e alle 15.50 decollavo col mio “Spillone” totalmente “pulito” per un volo prova supersonico.  Per un pilota caccia-bombardiere abituato ad andare in giro con tips, pylons, dispenser e talvolta anche razziere, volare con l’avione pulito rappresenta sempre una sensazione particolare! Decollo, salgo come una “spia” ed in men che non si dica mi ritrovo a 37.000 ft.; accelero e, dopo i primi controlli supersonici, salgo a 39.500 ft per il “rush” finale . L’ A/B è ancora tutto dentro, l’avione corre, mach 2.2, la “SLOW” si accende : devo rallentare. Sono di nuovo subsonico, a destra c’è il Conero, un attimo prima c’era il delta del Po. Viro a destra in discesa per quote più “umane” inbound alla base per effettuare gli altri test, e a metà virata una prima luce antipatica: Fix Freq Out (l’F104 ha energia elettrica a frequenza fissa  – Fixed Frequency) e a corrente alternata (A.C.). Fix Freq Out è una luce del pannellino avarie che indica che si è persa l’energia a Frequenza Fissa). Quante volte mi sarà successo nelle (allora)quasi 2000 ore di volo che ho passato sullo Starfighter: premo quel famoso pulsante e tutto torna come prima! E allora lo faccio, ma non succede assolutamente niente, la Frequenza fissa rimane Out. OK, lo faccio di nuovo, e qui cominciano le grandi sorprese. In un attimo mi trovo “al buio”: Gen1 Out e Gen2 Out, completa avaria elettrica. La cosa si fa seria : sono in Emergenza. La dichiaro subito a Romagna APP, e subito si inserisce la SOR (la sala operativa (Squadron Operation Room- Sala operativa del Reparto) per darmi manforte – Biagio che hai ?- – Sono in completa avaria elettrica, adesso imposto il “precauzionale”,e vengo giù. – OK, ricordati che dovrai tirare fuori la “R.A.T.”. (Ram Air Turbine, è un generatore esterno di energia elettrica. Si tratta sostanzialmente di un’elica che viene estratta dalla fusoliera del velivolo e, investita dall’aria, comincia a girare generando, con questo movimento rotatorio, l’energia elettrica necessaria per gli impianti base dell’aeroplano). – Sì, ora applico tutta la procedura e la tiro fuori. Ho già tanta esperienza, ne ho viste di cotte e di crude e adesso devo fare una cosa che non avevo mai fatto prima, devo usare la R.A.T. OK, tiriamo questa maniglietta gialla … quanto rumore, ma almeno le lancette degli strumenti hanno ripreso la loro vita “guizzante”: ho di nuovo energia elettrica. La velocità va bene, fuori i flaps. Intanto scendo, scendo, e scendo ancora : il campo si avvicina. OK, la pista è là davanti, la velocità l’ho ridotta e ora è giusta, 1600 ft, è ora di tirar giù il carrello : OK, è fuori. Cribbio, cos’è questo silenzio improvviso? E perché il muso ha preso a puntare il suolo? – SOR, ha piantato il motore, mi lancio! – OK – NO, HO UN PAESE DAVANTI, CERCO DI SALTARLO E POI MI LANCIO !!! – OK Sto puntando un prato; DIO si avvicina troppo, è ora di tirare la maniglia, quella più vicina !!! Ma quanto tempo ci vuole prima che parta il tettuccio ed io venga cacciato fuori da questa trappola mortale !? Che botta, ho male alla schiena, i fogli del cosciale mi volano attorno, che male alla schiena, sto facendo la capriola, che male alla schiena, un’altra botta, dev’essere l’apertura, guardo in alto, si è aperto bene, ora devo pensare all’atterraggio, ero molto vicino al suolo, guardo in bas … , DIO ho male alla schiena e alla caviglia. Sono sdraiato su di un fianco con gli occhi chiusi, ma dove? In quale mondo? Sono ancora vivo o no? Apro gli occhi, c’è l’autostrada, ci sono delle automobili che corrono, altre si fermano, sono ancora vivo, oppure “di là” ci sono le stesse cose che c’erano “laggiù”. Mi alzo e mi guardo attorno, ho molto male alla schiena, vedo il fumo nero, arriva gente, una donnetta si avvicina con un bicchiere di Sangiovese in mano : ” beva, la tirerà su ” mi dice tutta affannata . Le chiedo : “Dov’è caduto l’aereo, ci sono feriti, morti ?” Ci sono stati tre morti ed alcuni feriti !!! Il seguito è costituito da una storia giudiziaria ed una vicenda umana che si sono protratte per nove anni prima di arrivare finalmente alla completa chiusura la prima, mentre la seconda ha comunque lasciato dei segni indelebili.


#proprietà letteraria riservata#


Alberto Biagetti

Ultima aria

La distesa blu notte è interrotta a perdita d’occhio da creste spumose sferzate dal vento, decine di arcobaleni guizzano spinti da raffiche ghiacciate. Gocce sottili come spilli mi bagnano il viso e l’uniforme: in piedi ritto nel mezzo del piatto isolotto respiro l’aria carica di salsedine. Scatto sull’attenti, il generale mi fissa severo, la grossa automatica nichelata che porta al fianco manda lucidi bagliori di morte. -Hai compiuto il tuo dovere? Cerco di rispondere, voglio che sappia il perché di tutto questo ma le parole non escono, inchiodate nel buio dell’anima. Il generale sorride. -So che lo hai fatto, tutti noi siamo fieri di te. Si avvicina sollevando una mano, la medaglia brilla nell’aria carica di umidità. Ho uno scatto improvviso all’indietro. -No! Lasciami in pace! Il freddo mi fa lacrimare gli occhi, il vento si insinua sotto la divisa azzurra, rabbrividisco conficcando le unghie nella pelle. La donna e la bambina si tengono per mano, muovono le labbra ma nessun suono rompe il fischio della tempesta. Cerco ancora una volta le parole, tendo le braccia in avanti le palme rivolte verso l’alto, il sangue gocciola sul terreno roccioso. La donna e la bambina annuiscono lentamente, un vago sorriso illumina i visi devastati. Mi aggrappo con forza a quel sorriso, forse potrò riposare.

I due uomini in camice bianco osservano il vecchio disteso nel letto, il più giovane solleva lo stetoscopio dal petto raggrinzito. -E’ la fine, non passerà la notte. Il colonnello medico si avvicina e prende il polso con delicatezza controllando le pulsazioni. -Ora sembra più tranquillo. Le rughe sul viso del vecchio si distendono, le labbra si aprono lentamente ad assaporare l’ultima aria; sul comodino alla destra del cuscino sei giovani in tenuta di volo sorridono all’obbiettivo in una foto d’epoca, alle loro spalle la scritta ” Enola Gay ” scintilla sulla fusoliera del mastodonte d’acciaio.


#proprietà letteraria riservata#


Umberto Bertani

Dichiarazione in volo

Soltanto una cosa volevo veramente: portarla in volo e svelarle, solo per aria, il sentimento che provavo per lei, dirle che quello era l’unico posto dove mi sentivo padrone delle mie idee. Un detto americano narra però che gli aviatori sono persone confuse, che parlano di donne quando sono in volo e che parlano di volo quando stanno con le donne. Maledizione, è vero. E si tratta di un errore clamoroso, da non fare mai. Era un sabato mattina di quelli bellissimi, quando il cielo di Lombardia, così bello quando è bello, per citare il Manzoni, ti lascia vedere tutte le Alpi e, dal mio campo volo, anche le colline dell’Oltrepò pavese. Ma quelle condizioni meteo, lo sapevo bene, erano solo una fantastica coincidenza: la cosa importante era che lei aveva detto sì, sarebbe venuta con me al campo e, magari, avrebbe deciso anche di sedersi al posto del passeggero Passai a prenderla alle nove in punto. Per arrivare in aeroporto ci sarebbero voluti circa trenta minuti e poi, finalmente, avrei soddisfatto la mia voglia di volare con lei, nmessa a tacere per tutta la settimana. In più c’era Laura, ancora solo un’amica, ma sapevo per poco, almeno considerato il numero di volte che c’eravamo cercati, un po’ al telefono, un po’ via e-mail. Va bene, ve lo dico: è castana, occhi scuri, snella e con un sorriso capace di farti perdere l’assetto. Insomma, quando l’avevo vista per la prima volta, con la minigonna e la camicetta senza maniche un po’ anni Sessanta, mi aveva colpito subito. Anzi, mi aveva abbattuto come un missile aria-aria partito da dietro l’orizzonte. Di lei mi piaceva tutt: la voce, il modo elegante di muoversi, come vestiva, le mani, le caviglie sottili, il didietro e il collo. Ero proprio cotto, anzi, come diciamo noi della combriccola, ero “in bonza”. Mentre andavo a prenderla la mia mente creava pensieri di ogni tipo: i controlli di fare al motore si accavallavano a immagini di Laura, immagini che si manifestavano come lampi di luce improvvisi, velocissimi ma dettagliati in ogni particolare, tanto che a momenti stavo per passare con il rosso proprio sui piedi di un vigile urbano. Concentrazione, soprattutto quella mi mancava, dovevo stare calmo e non farmi trascinare via la mente. Ecco il pensiero giusto: spreme le meningi per scegliere quale canzone avrei dovuto mettere durante il viaggio: Ligabue? gli Ottottotrè oppure qualcosa di più ricercato come i Queen o addirittura un brano alternativo come la Penguin Cafè Orchestra? Mah … Comunque arrivai sotto casa sua, citofonai e mi rispose con un “Arrivo”, così tornai in macchina e aspettai. Comparve dopo i canonici cinque minuti, davvero bella e vestita come l’avrei vestita io, perfetta nei suoi movimenti e nel suo sorridere. Salì in macchina e mi diede subito un bacio sulla guancia, spiazzandomi completamente, mentre io ne uscii con un “Come te la passi?” completamente fuori luogo, ben sapendo che stava attraversando un periodo non troppo spensierato per via del lavoro e dei suoi fratelli. Recuperai con un discorso un po’ troppo verticale, nel senso che mi stavo arrampicando sui vetri, ma si trattava nello stesso tempo di un modo come un altro per saggiare le sue reazioni al contatto con l’ambiente aeronautico. Le chiesi se mi avrebbe aiutato a fare i controlli, lasciandole intuire che fossi, prima di tutto, quel pilota prudente e meticoloso che invece so di non essere, o almeno non mi credo tale. Laura sembrava interessata a tutto, anche alle cose tecniche, in un modo così ortodosso da non sembrare neppure vero, ma completamente circostanziale. Arrivati al campo, attraversammo la linea di volo per arrivare all’hangar numero tre, mentre io, sperando di non incontrare nessuno che potesse rompere la nostra intimità, mi ritrovai invece a salutare anche chi non vedevo da anni, e tutti, chissà perché, trovavano mille argomenti strettamente tecnici e comunque pesantissimi. I cento metri a piedi fino alle porte dell’hangar mi sembrarono un racconto senza fine, un percorso minato. L’unico che aveva capito la situazione era stato il mio istruttore, il quale si era limitato a dire a Laura che ero stato uno dei suoi migliori allievi. Avrei dovuto poi offrirgli da bere, almeno perché ancora mi ricordavo le sberle sulle mani e gli improperi che mi lanciava quando volavo male. “Sai”, dissi a Laura cercando di darmi un’aria modesta, “in realtà, quando sbagliavo qualche manovra mi urlava: – Dio delle tempeste cosa fai! – ” E’ un bravo istruttore il mio, e anche ora che volo da tempo non perde occasione per darmi modo di migliorare. “In realtà la voce dell’istruttore la senti sempre quando voli, un po’ come quella che ti che ti vuole bene, che viene fuori proprio quando stai facendo qualche … “. Incredibile, dissi anche stupidaggine al posto di cazzata, e in quel momento mi congratulai con me stesso per non essere mai stato volgare, ben sapendo invece quali orribili sequenze di turpiloqui sono capace di confezionare. Mi guardò con quei due mondi scuri fissandomi negli occhi, e la voglia di baciarla per un momento fu più forte di quella di volare. Avrei fatto l’amore con lei anche dentro ad u biplano monoposto, oppure a cavallo di un deltaplano a motore proprio lì, nell’hangar aperto Ma come fare? Abbracciarla e tentare di baciarla? In modo casto o via di pennello? No, avrei rovinato tutto, anche in volo, che magari non ci sarebbe neppure stato. Meglio sorriderle, prenderla per mano e dirle: “Vieni!” portandola davanti al mio aereo, la cosa della quale vado più fiero, come se fosse l’unico al mondo, anche se so benissimo che dovrei cambiare l’elica ammaccata, reintelarlo e magari riparare quel conta-ore che è fermo da sempre. “Che bello quello lì” disse però Laura contrastando la mia camminata, “che bella linea, che bei colori, è bellissimo”. Ce l’aveva con quella meraviglia di aereo francese del Verilli, 300 all’ora da volare dentro un salotto, con tanto di stereo. Accidenti, perché le donne ti devono sempre mettere in competizione con la realtà? Quel gioiello della scienza e della tecnica costava 140 milioni che il padrone aveva pagato con un solo assegno, mentre io per comprare il mio accrocchio di tubi e tela c’avevo messo tre anni facendo sacrifici disumani, perdendomi tante serate con i ragazzi e un numero incalcolabile di prime visioni. Le dissi la verità, che costava molto denaro e che io non me lo sarei potuto permettere almeno per trent’anni. ma che il mio coso colorato le sarebbe piaciuto di più. Non ci crederete, ma quando lo spinsi fuori e il sole accese il colore delle tele, lei mi disse che era il più bello, il più colorato e il più tenero perchè, al posto di una linea e una livrea aggressive, era un po’ “sgarrupato”, come il suo padrone, e dicendo questo mi accarezzò i capelli, mentre io sentii la gioia riempirmi anche i polmoni. Ma durò poco, perché disse anche che non ci sarebbe mai salita. Ancora una volta sentii dentro di me la sensazione di essere stato abbattuto, ed ero tanto preso a cercare di rimettermi dalla “vite piatta” in cui mi trovavo che qyuasi non mi resi conto che Laura aveva detto qualcosa d’altro. “Scusa, non ho capito” dissi con dolcezza “stavo controllando le condizioni di questoi cavetto”. “ho detto che se prima fai un giro tu magari vedendoti poi mi convincerei a provare”. “Occhei” risposi sorridendo, e aggiunsi “farò un giro campo e poi atterro, ritorno qui al parcheggio e spengo. Se ti va prendi il casco e ti siedi qui, non preoccuparti delle cinture, te le allaccerò io.” Completai i controlli che mi sentivo già in volo. Del resto tutto il mio progetto di dichiararmi in aria stava per avverarsi; dovevo fare solo un giro campo, come per l’esame pratico: decollo, virata, volo in sottovento, virata in base, allineamento finale ed era fatta, da Laura mi separavano solo quattro manovre. Avviai il motore e le sorrisi. E sapendo che mi stava guardando feci tutto come da manuale, compresa la prova motore. Dopo la corsa staccai e salii con un angolo piuttosto basso ma costante, virai in modo perfetto, con una coordinazione degna del migliore autopilota e poi completai il circuito senza la minima oscillazione. Dopo poco più di un minuto ero in finale, perfettamente allineato e deciso a fare il migliore atterraggio della mia vita: via motore in corto, assetto tre gradi sopra l’orizzonte e ali livellate. Sulla soglia pista avevo circa un metro e mezzo di quota, lasciai scendere l’aereo ancoira un momento e poi, dolcemente, ricentralizzai la barra per la richiamata. L’ultraleggero obbediva: con la ruota anteriore alzata toccai la pista con una dolcezza quasi commovente, non sentii neppure le ruote appoggiate per terra, cominciarono solo a rotolare velocemente. Misi giù anche il ruotino e quindi lo lasciai rallentare un po’, fino a quando non frenai con decisione e diedi piede sinistro per liberare la pista. Mentre rullavo per il parcheggio cercavo Laura, doveva essere lì a guardarmi ma non la vedevo. “Eppure sarà qui, non può certo essere andata via, magari ha avuto bisogno di andare in bagno ma porca miseria, proprio adesso?” Le uniche persone che vedevo erano nascoste dalle porte dell’ahangr, ma una cosa individuai subito: la camicetta. Ora ero geloso, chi era quell’individuo vestito da topgun che le stava parlando? Per un attimo cercai nella memori chi, fra i piloti, non avrebbe perso l’occasione di tacchinarmi l’amica, anche se ormai ero abbastanza vicino per riconoscerlo: era il pericolosissimo Verilli, viscido quanto ricco ma maledettamente abile nel rimorchiare le fanciulle. Ero in pericolo, avevo un asso in coda pronto a tritarmi le penne, e cercavo dentro di me il modo per eliminarlo nel più breve tempo possibile. Spensi, scesi e mi tolsi il casco in fretta, mi avvicinai ai due, lanciai un ciao a lui sorridendo a denti stretti e dissi a Laura con un tono meravigliosamente calmo: “Eccomi, se te la senti andiamo”. Annuì. “Mi ha spiegato che con il suo aereo si può arrivare all’isola d’Elba con meno di due ore …” “Bè, sì, è molto veloce” blaterai “però anche con questo, in meno di due giorni ce la possiamo fare …” “andiamo dai” aggiunsi “il cielo ci aspetta”. Avevo fretta di portarla via dal campo visivo del Verilli, così, senza badare al suo stato d’animo, le misi il casco in testa e le feci sedere sul seggiolino. Le spiegai che cosa non doveva fare e dove non doveva mettere le mani, quindi mi infilai di nuovo il casco e mi sedetti. Con un gesto lento inserii gli spinotti dell’interfono  e dissi: “Mi senti?Tutto bene?” “Sìì” rispose, e mi sembrava che il tono della sua voce fosse tranquillo, un po’ emozionato ma nulla di più. “Se hai paura me lo dici e scendiamo, senza afferrare i comandi e soprattutto senza panico” “Va bene” rispose, e per la prima volta mi resi conto che ce l’avevo quasi fatta. Avviai il motore, controllai i comandi, che i caschi fossero allacciati, mi guardai in giro e tolsi i freni. Rullavamo tranquilli verso la testata pista, dove mi fermai per controllare che il circuito fosse libero e poi, con un “Andiamo!” diedi tutta manetta. Mentre acceleravamo le parlai, spiegando che stavamo per ruotare e quindi, ecco il momento, che ci eravamo staccati da terra. Presi quota con estrema dolcezza, le chiesi se andava tutto bene e rispose di sì, quindi virai verso il fiume per raggiungere un punto preciso, un posto che avevo trovato durante i miei voli in quei paraggi. Il mondo scorreva lento sotto di noi, ogni tanto rompevo il rumore di sottofondo con qualche commento sul paesaggio o sulla lettura degli strumenti, quando mi ricordai di aver preparato un’arma segreta: la musica! Diedi motore per prendere un po’ più di velocità, mi frugai nella tasca più grossa del giubbetto e trovai al tatto la presa della cuffia del lettore CD. Avevo masterizzato una compilation romanticissima: ora toccava a loro, a Baglioni, Phil Collins e Vasco aiutarmi, per trasformare quel volo in qualcosa di irripetibile. Cominciai col dire nel microfono: “Metto un po’ di musica” e spinsi sul pulsante play. Volare con la musica è qualcosa di stupendo, di indescrivibile. Del motore non rimangono che le vibrazioni e tutto sembra diverso, un po’ come vivere in un film. Eccoci, cercai il suo sguardo e lo trovai, volevo il suo sorriso ed era lì, era il momento di dirle tutto ciò che dovevo. Ancora un momento, oltrepassare quella collina e poi, la vista della cascata e della valle avrebbero fatto tutto, mentre io dovevo solo aprire la bocca e dirle le tre parole che avrebbero messo la musica in sottofondo e mandato il mio cuore ancora più in alto. Vedevo la collina, Laura, le ali, ma smisi di sentire l’accompagnamento del motore, che dopo aver borbottato per qualche interminabile manciata di secondi si spense. Laura mi guardò quasi incuriosita, mentre io mi voltai e capii subito: “Che pirla, la benzina!”. Mi ero dimenticato di fare carburante, possibile, proprio io? Eh già, prima volevo controllare tutto facendo quel circuito, poi c’era stato quel cretino di Verilli da evitare, ma accidenti, la colpa era solo dannatamente mia. “Tranquilla! Dobbiamo atterrare ma non è niente di grave” dissi in modo perentorio, “abbiamo quota e spazio a sufficienza”. La quota l’avevo, e tanta, ma su quelle colline lo spazio non lo vedevo proprio, e agitando la testa per vedere meglio trovai un prato in leggera pendenza, apparentemente senza fili elettrici in giro. Alla fine c’era una casa, se avessi messo giù il mezzo lì magari ci avrebbero soccorso subito, almeno lo speravo. Spensi l’interruttore generale, chiusi il rubinetto della benzina e, già con la barra a scendere,virai stretto per allinearmi al prato. Molti pensieri si accavallavano nella mia mente: ero preoccupato che non ci facessimo male, la figura di merda che ormai era inevitabile, e le parole di un vecchio pilota che volava in montagna, il quale un giorno mi aveva spiegato come atterrare sulle piste in pendenza. Picchiai il più possibile, incrociai i comandi per perdere quota e sentii Laura urlare. Le dissi di stare tranquilla ma con un tono irreale. Eccoci, ecco l’erba, ero ancora lungo ma non potevo farci niente, la collina era davanti a noi, sotto di noi, dieci metri di quota ed ero picchiato, richiamai e cercai di buttare giù le ruote ma eravamo troppo veloci, ci inclinammo a destra, provai a correggere ma toccai con il ruotino davanti. Il colpo fu forte, rimbalzai sul carrello principale, cercai di allineare e stavolta toccai giusto, eravamo per terra e interi, ma tutt’altro che fermi. C’erano arbusti che volavano dappertutto, rami che si spaccavano, ero andato troppo a sinistra e l’ala aveva toccato sui rami, diedi piede ma ci stavamo già girando e andavamo dritti verso un grosso cespuglio verde. Buttai le braccia verso di lei come per proteggerla ma sentii solo una gran botta, l’ultraleggero che si rialzava e poi un’altra botta terribile. Fermi. Riaprii gli occhi e vidi il viso di Laura con le lacrime. “Stai bene?” Un singhiozzo precedette un sì, “Riesci a muoverti?” “Sì” “Ti slaccio le cinture” aggiunsi, ma quando tentai di muovere il braccio sentii un dolore bestiale alla spalla. capii che un montante dell’abitacolo si era piegato e che il punto della piega era esattamente la mia clavicola. Usai l’altro braccio, mi alzai scavalcando tubi e rami e quindi la tirai fuori. Aveva un graffio sulla fronte che sanguinava un po’ ma stava bene. Un avolta in piedi tirai fuori il telefonino e le dissi di chiamare i suoi, dicendo loro che avrebbero dovuto accompagnarmi al pronto soccorso, ma non riuscii a finire la frase. Mi svegliai in ospedale ascoltando un brano di quel disco, avevo il collare rigido e una spalla fasciata. Lei era in piedi vicino al al letto, con un cerotto sulla fronte e il sorriso sulle labbra sottili. Le stesse che incontrarono le mie qualche secondo dopo.


#tutti i diritti riservati# §§ pubblicazione autorizzata dall’Editore per il sito “Voci di hangar” §§

© 2001 Alberto Benchimol – Libreria Benchimol – Bologna << estratto dal volume “Azzurro Perfetto” >>


Sergio Barlocchetti

Mio figlio, il pilota

La signora Redward era partita presto, quel mattino, perché aveva curato di pensare ad ogni cosa per tempo fin dalla sera prima. Si era preparata delle tartine, di quelle che piacevano a suo figlio John, che lei sapeva fare così bene fin da prima del suo matrimonio; aveva disposto, di fianco alla porta, per non dimenticarsene, la borsa con dentro l’impermeabile, perché di quella stagione non si sa mai, ed il termos pieno di tè, dissetante e senza zucchero; gli abiti che avrebbe indossato erano già pronti sulla poltrona in camera sua: la gonna scura e la camicetta pesante, lo scialle che le aveva portato suo marito da Boston e il cappotto, quello con le due ampie tasche che erano tanto comode quando si doveva spostare. Aveva anche fatto la sera prima quelle pulizie che poteva, giusto per evitare di trovare un disastro in casa al suo ritorno. Quel mattino, dunque, la signora Redward non perse tempo e fu alla stazione degli autobus un buon quarto d’ora prima della partenza. Non fu difficile, per lei tanto mattiniera, uscire così presto, benché le prime ore dei suoi giorni si svolgessero solitamente in casa, indaffarata alle faccende domestiche. Di solito usciva solo più tardi, per le spese. La signora Redward approfittò dell’attesa per annotare mentalmente i conti e gli acquisti che le sarebbe toccato fare l’indomani, perché quel giorno non avrebbe avuto tempo per altro che per John. D’altronde, da quando suo marito Arnold era morto, non aveva più molte cose di cui occuparsi nell’appartamento troppo grande. L’autobus non era affollato alla partenza, ma lei sapeva che si sarebbe riempito alle fermate successive. Quelle poche volte che aveva potuto recarsi alla base aerea, parecchi chilometri lontano, aveva sempre trovato qualche persona simpatica con cui passare il tempo del viaggio. Come montò fu salutato dall’autista, il figlio di una cara amica. “Buongiorno, signora Redward, andiamo alla base?” “Certo, caro Mick, però non sapevo se partire, questa mattina. Non vedo l’ora di arrivare, sapesse la gamba come mi ha dato fastidio ieri… Spero di non avere problemi durante il viaggio, sa com’è lungo.” “Non si preoccupi, signora, andrò tanto leggero che le sembrerà di stare seduta a casa davanti al televisore.” “Ma non è colpa sua, Mick, è che quando si diventa vecchi non va mai bene niente.” Mick sorrise, perché sua madre era piuttosto simile alla signora Redward, che nonostante la sua età parlava di vecchiaia solo per amore di dialogo. Era stata spesso malata, anche da giovane, ma non si era mai lamentata. Ora però… “A proposito di televisione, sa che oggi c’era una puntata che mi interessava, sul canale sei? – disse lei – stanno per prendere il colpevole della truffa all’agenzia di Rhoda News, e…” Mick trattenne a stento una risata. Quel giorno aveva accolto con piacere la notizia di un altro viaggio nel pomeriggio, proprio perché in tal modo non si sarebbe trovato a casa mentre trasmettevano quella robaccia. La signora Redward guardò fuori dal finestrino tutto quello che della cittadina era visibile. “Guarda, pensò, hanno affittato la vecchia casa di Mildred.” Continuò a rimuginare: “Il tetto sopra alla drogheria sarebbe ormai da rifare. Chissà cosa aspettano, una casa tanto bella.” L’autobus si avviò con moderata pigrizia verso il consueto viaggio, ed in breve arrivò alla fermata successiva, dove si riempì di pendolari. Erano tutte facce sconosciute, e vicino alla signora Redward si mise un signore assonnato e poco incline alla conversazione. “Buongiorno” fece alla donna, che lo guardava cordiale. “Buongiorno” rispose lei e, dopo un attimo: “Mi chiamo Clara Redward, sta andando al lavoro?” Senza attendere la conferma scontata aggiunse: “Io vado a trovare mio figlio alla base aerea.” Era orgogliosa di questo. “È lontano” commentò l’uomo. “Oh, ma non troppo. Sa, ho portato delle provviste, perché allo snack a metà strada alle volte le cose non sono preparate troppo bene. Comunque in una giornata vado e torno, e ho tempo di stare un poco con mio figlio. È pilota, sa?” “Pilota?” “Sì, pilota di quegli apparecchi che usano adesso, i jet da caccia. Ma mio figlio li collauda pure, quei cosi.” Il signore si limitò ad un sorriso e Clara Redward cambiò argomento. “Ha fatto colazione? Vuole una tartina?” e trasse rapidamente un pacchettino dalla sua borsa. “Le ho preparate io. Senta se non suono buone.” Il signore accettò perché non sapeva come rifiutare. “Buono” disse, un po’ sorpreso. “Sì, vero? Le preparo da anni sempre con la stessa ricetta, che ho imparato da ragazza. Ma ogni tanto ci aggiungo qualcosa di fantasia.” Il signore sorrise ancora e si accomodò più comodamente sul sedile. La signora Redward ricambiò il sorriso e si mise a guardare il paesaggio. Pensava che suo figlio, con la giornata che era, doveva essere uscito leggero, e ora che minacciava pioggia magari si trovava lontano dal suo alloggio. Glielo aveva detto fino alla nausea di stare attento al clima, prima di uscire, ma John non aveva mai fatto caso a niente, sempre perso nelle sue fantasie. Fin da ragazzo aveva avuto un carattere sognante, la testa fra le nuvole, e ora fra le nuvole ci stava davvero spesso. I chilometri si susseguirono rapidamente; il signore la salutò di fretta e scese. Due fermate dopo il posto venne preso da una donna ancora piuttosto giovane. Il suo aspetto era fresco, ma aveva un’espressione abbattuta. Salutò distrattamente la gentile anziana signora vicina al finestrino e si sedette rigida guardando avanti a sé. “Buongiorno” le fece Clara “sta andando in città?” “Sì, all’ospedale” rispose lei. “Lavora lì?” La donna scosse il capo. “Oh! C’è qualcuno? Suo marito?” “Sì” mormorò appena la donna. Clara non osò farle subito qualche altra domanda, perché si accorse che aveva gli occhi lucidi. Tirò fuori il termos e con noncuranza riempì due bicchierini. La signora Redward aveva sempre cura di portare diversi bicchierini con sé. Ne porse uno alla donna che lo prese senza parlare, con un fugace sorriso. Sul suo volto si dipinse un attimo di sorpresa. “No, non è caffè. Il tè è più dissetante e non fa così male. Mio figlio John non aveva mai bevuto caffè fino all’età di quindici anni, perché a casa non se ne parlava neppure. Infatti anche mio marito…” Si accorse che stava toccando un argomento penoso. “Coraggio cara” disse, con un gesto di familiarità che la sua età le permetteva “non so cosa sia, ma non può essere tanto grave.” “Oggi si opera, sa, non ha mai avuto nemmeno un raffreddore…” ma non sapeva continuare. “Oh, e mi dica: che operazione è?” chiese la signora Redward. “Si chiama ectasia, sì; è un danno all’aorta.” “Ah, ma ne ho sentito parlare!” disse allegra. La signora Redward era un’assidua ascoltatrice di trasmissioni mediche. Era solo in quelle circostanze che i dottori le davano un qualche affidamento. “Davvero?” fece la donna con interesse. “Certo: è un’operazione ormai comune, la fanno ovunque senza problemi.” “Spero che abbia ragione, signora.” disse la donna con un mezzo sorriso, e in un baleno si ritrovò il bicchierino pieno di tè. Familiarizzarono ancora un poco, finché la donna fu arrivata e scese. Da quel momento l’autobus, che aveva toccato i quartieri periferici della città, si avviava per un tragitto alquanto lungo, attraverso una campagna quasi interamente coltivata e due altri centri abitati. I passeggeri rimasti erano i pochi che quel mattino partivano per qualche destinazione lontana. Intanto il sole aveva preso il posto delle nubi, riscaldando la strada. Poco oltre, un bivio indirizzava fuori dallo Stato sulla sinistra, mentre a destra già si poteva intravedere la base militare. La signora Redward stette da sola a pensare. Ritornò alla volta in cui suo marito si era sottoposto a quell’operazione allo stomaco; alla preoccupazione che provava per lui. Ma suo marito aveva un carattere deciso, ed era seriamente intenzionato, così le disse: “Clara, sono seriamente intenzionato a non permettere ai miei guai di togliermi il buonumore.” Così le disse, la volta che lei aveva per un attimo rivelato la sua ansia. Non le era occorso molto tempo, dopo sposata, per imparare che con suo marito non si poteva nemmeno mostrare disagio; le sembrava che nel suo profondo fosse sicuro di poter conquistare il mondo solo perché così gli andava. Alle volte questo atteggiamento l’aveva infastidita, perché Arnold le ricordava quei politici alla televisione, tutti presi dall’impegno di sembrare la persona giusta, piena di risorse. Suo marito almeno non aveva la pretesa di essere onnipotente, ma lei l’aveva visto spesso interdetto di fronte alle difficoltà, solo per non averle prese in considerazione prima. E spesso lei si era dovuta impegnare per trovare rimedio a qualche guaio di troppo; una volta aveva davvero creduto che non ce l’avrebbero fatta: Arnold aveva deciso di comprare quella casa e aveva cambiato lavoro; si erano ritrovati con debiti da tutte le parti, un figlio piccolo e tanto lavoro per tirare avanti. Anche Clara aveva impedito ai problemi di deprimerla, ovvero ci aveva provato. Suo marito aveva passato la vita studiando il modo di mettersi in difficoltà, e sembrava che non riuscisse a stare tranquillo se tutto andava bene. Clara non capiva il perché di tanto affanno: gli aveva detto in più occasioni: “Stiamocene tranquilli, Arnold, abbiamo fatto la nostra parte, ora godiamoci i risultati.” Ma lui rispondeva: “Lo dobbiamo fare per noi stessi e per John. Voglio che nostro figlio possa dire che abbiamo fatto il meglio per migliorare la nostra posizione.” Non era stata una vita noiosa, con Arnold, e il vuoto improvviso dopo la sua morte le era parso addirittura incolmabile. D’altra parte, adesso la tranquillità le giungeva gradita, ad un’età in cui non si vorrebbe mai dover ricominciare daccapo, con un figlio grande e ormai autonomo. John… anche lui un conquistatore. Aveva un carattere al peperoncino, lo dicevano fin da piccolo; sempre ad arrabbiarsi ogni qualvolta il mondo non gli obbediva. Adesso la base era di fronte a lei, e le batté il cuore più forte al pensiero che stava andando a vedere quel suo figliolo, che ormai nessuno tranne lei ricordava piccolo. Quel giorno doveva essere libero, e solitamente l’aspettava fuori dai cancelli. C’erano spazi in abbondanza, nel parco interno, ma lui l’aspettava sempre fuori. Dov’era? La signora Redward si guardò in giro, appena scesa, ma non lo vide. Entrò nell’ufficio all’ingresso e vi trovò quel capitano, come si chiamava? “Buongiorno, signora!” Il capitano, che era amico di suo figlio, non ebbe difficoltà a riconoscerla, ma sembrava sorpreso di vederla. “Buongiorno, caro, hai visto John?” L’uomo guardò l’altro militare alla scrivania: “Non sapevo che oggi fosse libero.” “È Redward?” disse l’altro “Io so solo che non escono dall’hangar da ieri.” “L’hangar? Quale hangar? Che ci fa?” chiese Clara. “Stanno provando un aereo” disse il capitano “e hanno dei problemi per la messa a punto. Nulla di serio, ma sa com’è; credo che non sappia nemmeno che giorno è oggi. Venga.” Con esagerata gentilezza, il capitano le prese il braccio e la guidò all’interno della base. Clara si sentiva piuttosto delusa. Da settimane avevano progettato l’incontro di quel giorno, e adesso scopriva che suo figlio non se ne ricordava neppure. Seguì il capitano fino ad un palazzo, vicino alle aree riservate, e giunsero ad un ufficio la cui ampia finestra dava sulle piste più lontane. “Resti qui, signora; vedo se riesco a trovarlo” le disse l’uomo, e si allontanò dopo averla fatta accomodare. Clara era un poco perplessa. Rimase a guardarsi attorno, col pacchettino delle provviste che non sapeva dove mettere, in imbarazzo ogni volta che qualcuno, passando, metteva la testa dentro. All’improvviso, da lontano, le giunse il rombo di un aereo; non era il primo da quando era giunta, ma questo la fece avvicinare alla finestra e vide, sulla pista nello sfondo della base, quasi confusa col tremolio del calore che si alzava dal suolo, la forma di un sottile aereo che prendeva quota un po’ troppo rapidamente, così le parve, e che andava un po’ troppo veloce. Per qualche ragione, le venne in mente che avevano parlato di un nuovo caccia, e che suo figlio forse era proprio lì a bordo. Il suo precedente imbarazzo fu dimenticato, mentre lei seguiva le evoluzioni troppo elaborate dell’apparecchio. “Perché tutti quei rigiri?” si chiese Clara. L’aereo stava provando se stesso: provava la sua velocità, assaggiava il morso dell’aria contro le sue lamiere; si spostava di lato, all’improvviso, come per un’idea bizzarra che lo chiamasse altrove. “Non dovrebbe fare così”, pensava Clara, e l’aereo si alzò rapidamente, con l’urgenza di arrivare chissà dove, ma non in linea retta: cercava qui e là, un equilibrio o una sicurezza. Arrivò infatti, là dove doveva. Prese nuovamente l’assetto orizzontale, e cominciò un tragitto più calmo, come se l’altezza raggiunta non richiedesse più l’affanno di chissà quale ricerca, ma con un’aumentata velocità, quasi nella sicurezza della meta. Successe di schianto: Clara ebbe un sobbalzo, mentre qualcosa si staccava e rimaneva indietro, con uno scintillio presto svanito. L’aereo sbandò, si mise per un attimo di pancia, e iniziò una discesa, più lenta ma tanto, tanto più atroce della salita. Clara non poteva pensare ad altro che a quel giocattolo che si abbassava ondeggiando; pareva qualche persona indecisa sulla direzione da prendere, o uno che a letto non trovasse la posizione per dormire. Clara fu sorpresa di ridere alla strana associazione: quell’aereo non aveva nulla di ridicolo nella discesa. Fu con un sospiro di sollievo che lo vide rallentare la caduta, riprendersi. Si rimetteva in linea, ce la faceva! Fu appena ai limiti della sua consapevolezza che annotò l’accorrere di parecchia gente alla pista di arrivo, mentre l’aereo atterrava, dopo tutti i guai, tranquillamente; lo si sarebbe detto lieto di avere finito. Clara si rese conto di avere le mani indolenzite, strette come si erano al davanzale. Non poteva restare a guardare, e se John fosse stato lassù? Si mosse per uscire, ma la pista era troppo lontana. Rimase alla finestra e guardò in giro, cercando John fra quelli che accorrevano, ma non c’era. Dopo un tempo lunghissimo arrivò il capitano. “Tutto bene, signora. Non è successo niente.” “Ma cos’è stato? E John?” “Non è successo niente, signora, venga, la porto da suo figlio.” L’uomo l’accompagnò con un’auto fino ad un’altra palazzina. Lei era tanto stanca, emozionata e confusa; appena giunti si sedette. Nell’altra stanza voci concitate sembravano commentare i fatti. “Ti dico che era quello!” diceva qualcuno “La stabilità era compromessa nelle strutture dell’ala sinistra.” Clara riconobbe la voce di John, e proprio lui arrivò nella stanza insieme ad altre persone. “Succede tutto durante le accelerazioni” stava dicendo “Mamma! … oh!” Solo allora si ricordò di che giorno fosse; si avvicinò alla donna e l’abbracciò. Clara non sapeva cosa dire. “John, cosa succede? Credevo che oggi fossi libero. Cos’è capitato con quell’aereo?” “Niente di grave, mamma. Ci sono dei problemi ma li stiamo risolvendo.” “Ma c’eri tu lassù?” Clara non si era ancora ripresa dall’emozione. “Sì, certo, ma…” “John, è pericoloso!” “Andiamo, mamma, ne abbiamo già parlato.” entrò dell’altra gente “Ora ti devo lasciare con Fred, ma torno subito. Devo discutere qualcosa. Ci vediamo.” Mentre qualcuno lo chiamava e un altro gli prendeva il braccio dette un’occhiata al capitano, che lo guardava con disapprovazione. L’uomo aveva tenuto un atteggiamento protettivo fin da quando si erano incontrati. John e tutti gli altri sparirono in un turbinare di discussioni. Clara rimase con il capitano di prima, frastornata. Fred, ora si ricordava il suo nome, l’accompagnò su un’auto al bar della base. Fu solo dopo aver bevuto lentamente un altro tè che fece la domanda. “Fred?” “Sì, signora?” “John ha rischiato grosso, oggi, è vero?” Fred abbassò lo sguardo, non per evitare l’altro, ma per trovare le parole. “Vede, non è che sia successo qualcosa di grave. Alcune sovrastrutture, nemmeno complete, hanno ceduto, e così l’aereo si è trovato improvvisamente senza l’assetto giusto. John ha dovuto rimediare a naso, e ci è voluto il suo tempo.” “Ma come si fa, dico io. Non è mica il modo, questo. Salire con un aereo che non va ancora bene…” “È proprio per vedere cosa non va che si deve provare. Se nessuno lo usa, un aereo rimane un sogno ad occhi aperti.” Clara ebbe un gesto di fastidio. “Quando ero una ragazzina, feci a tempo a veder volare i biplani, e da allora ne hanno costruiti di tutti i tipi. Ma a che serve? Non ci sono già apparecchi abbastanza veloci? Cosa mai avrà questo nuovo, che non abbiano anche altri?” Fred sorrise, senza rispondere. Altri aerei si stavano alzando. Clara si domandò oziosamente dove andassero, e nel figurarselo si abbandonò alla fantasia. Pure a lei sarebbe piaciuto andare in qualche posto, se solo avesse avuto un aereo come quelli… magari indietro negli anni. La sera, ormai, era vicina. Tutti i fatti del giorno le avevano fatto volare la giornata, e Clara pensò che ormai non c’era molto tempo. Guardò il grosso orologio appeso al muro. “Fra poco ripassa l’autobus, signora. Vuole che l’accompagni all’uscita?” “Grazie, Fred. Non mi ero accorta di quanto fosse tardi. È stato molto gentile a tenermi compagnia. Certo, se quello svanito di mio figlio mi avesse almeno avvertita, si poteva rimandare.” “Io un po’ lo capisco;” disse lui avviandosi” ha visto com’era eccitato? Scoprire cosa non andava era il suo chiodo fisso da parecchio, ormai. Credo che gli sarebbe venuto un colpo se non avesse risolto i problemi.” “Vuol dire che è grazie a John se quell’aereo volerà?” Era difficile non farsi contagiare. “Non proprio. Si devono rifare alcuni calcoli, fare prove a terra, ma oggi hanno rotto il guscio della noce.” Clara rise al paragone, anche se in fondo sentiva, chissà perché, una certa tristezza. Erano giunti all’ingresso e si sentiva odore di erba; forse era per quello. “Mi spiace signora, ma fra poco dovrò andarmene.” “Non importa, caro Fred, sei stato proprio un tesoro.” “Vedrò se John potrà liberarsi un attimo.” Il capitano esitò ad allontanarsi; poi, con un cenno impacciato del braccio, si mosse e Clara si voltò a guardare la strada, nella direzione da cui doveva comparire l’autobus. La pianura le permetteva di vedere assai lontano, ma non si vedeva ancora. “Le mattine sono più allegre delle sere.” meditò fra sé. Le venne in mente quando da ragazzi suo marito la portava fuori la sera. I suoi tentativi di fare il romantico fallivano perché Clara non era mai dell’umore giusto. Lei in compenso ricopriva Arnold di moine quando si vedevano al mattino. Arnold… Una nuvoletta lontana attirò la sua attenzione, e con dispiacere capì che era l’autobus. Guardò indietro, ma John non si vedeva. C’era ancora l’altro soldato all’ingresso, e le dava fastidio che la vedesse in quella doppia attesa; non le era mai parso bello farsi vedere ansiosi. I colori della sera stavano cambiando, e Clara, che non aveva più la vista di una volta, doveva socchiudere gli occhi per seguire l’autobus; non voleva perderlo di vista, come quando al cinema c’erano scene paurose e non sapeva distogliere lo sguardo; come un daino che non perde di vista il puma che l’insegue; come di solito si tiene desta l’attenzione su quello che ci preoccupa. Le venne in mente che forse poteva rimanere senza benzina. Magari poteva forare, tanto su quella strada non c’era pericolo. “Mamma!” Clara si voltò. “John, che diamine. Ti pare bello sparire così? Credevo proprio di non vederti nemmeno per un attimo.” “Quel figlio di una vacca ha voluto rifare conti finché non l’ho mandato a quel paese.” “John! È questo il modo di parlare? Cosa ti hanno insegnato in Accademia?” “Scusa mamma… E scusa anche per il bidone.” Clara se lo guardò per benino. “Era così importante?” E gli occhi di lui furono un’esplosione di entusiasmo. “Mamma! Era la prima volta che guidavo le prove pratiche, a terra e in volo. Non poteva esserci una cosa più importante di questa. Cioè, non proprio, voglio dire…” Clara rise, perché se lo conosceva bene quel ragazzo. Lo baciò, mentre sentiva l’autobus fermare davanti alla base. John la seguì fin dentro, si accertò di procurarle un posto al finestrino, e si salutarono semplicemente. “Mamma, credo che dopo questa faccenda potrò essere libero per un po’. Se riesco, vedrai che riusciremo a stare insieme a casa.” Era piuttosto stanca, la signora che si apprestava al lungo tragitto verso casa. Casa… Non vedeva l’ora di mettersi a letto. Per quel giorno aveva fatto tanto e aveva combinato poco. Però, che testaccia di figliolo le doveva capitare. Quel ragazzo era tremendo alle volte. Si corresse: quell’uomo. Quanti anni aveva adesso; e quanti ne aveva lei? Le era sempre piaciuto guardare fuori dai finestrini, ma quella volta non continuò. Si abbandonò a ricordare tutte le volte che aveva guardato dai finestrini lungo la strada; le volte in macchina con suo marito, magari tenendo John in braccio; prima ancora, con suo padre alla guida della loro auto scura e suo fratello che le faceva i dispetti; più tardi, sugli autobus che aveva preso tante volte, prima verso l’Accademia Militare e poi verso la base. Una volta suo figlio aveva comprato un’auto e l’aveva portata un po’ in giro, ma era uno sfasciamacchine il suo John, che preferiva guidare quei cosi per aria. Cosa ci trovava, poi? Anzi, cosa andava cercando tutta quella gente che si dannava l’anima per cose di cui nessun’altro si occupava? Erano davvero soddisfatti quando ottenevano i loro scopi, o nemmeno a loro importava? Era sicura di non aver mai avuto negli occhi uno sguardo come quello di John quella sera. O che aveva visto negli occhi di suo marito tante volte. La signora Redward accolse con gratitudine l’ultima fermata. La gamba prese a dolerle un poco. Si affrettò verso casa, osservando la via illuminata, e riprese il filo dei pensieri interrotti quel mattino. Avrebbe dovuto fare altre spese, l’indomani. Pensò all’album delle fotografie, e si ripromise di dargli un’occhiata, qualche volta.


#proprietà letteraria riservata#


Riccardo Baldinotti

L'unico sito italiano di letteratura inedita (e non) a carattere squisitamente aeronautico.