Tre ragazzini e un aereo

Negli ambienti aeronautici si dicono tante cose. Alcune sono cose serie, importanti, anche vitali. Altre sono spesso le solite chiacchiere, racconti dei propri voli, delle proprie o altrui prodezze, pettegolezzi, ma anche dei semplici luoghi comuni. E di questi ce ne sono moltissimi. Fanno parte della vita di tutti i giorni, dilagano per gli hangar, nei piazzali, negli uffici, fanno parte del brusio emesso da gruppetti di piloti riuniti qua e là per i campi di volo. Un luogo comune molto in voga suggerisce che la passione per il volo sia una sorta di “virus che si contrae negli aeroporti”. Molte persone che volano oggi (non solo piloti, ma anche specialisti, controllori, paracadutisti ecc), raccontano di quando erano piccoli e venivano accompagnati dal padre o da un altro membro della famiglia, ad osservare gli aerei nel vicino aeroporto. E lì restavano per ore, aggrappati alla rete di recinzione, a vedere decolli ed atterraggi, sognando di diventare, un giorno, un pilota. Altri ricordano di aver volato, da ragazzini, con qualcuno che aveva il brevetto e magari avevano potuto tenere i comandi per qualche minuto. Certo, per un ragazzino deve essere un’esperienza esaltante mettere le mani sul volantino di un aereo e vedere che questo obbedisce ai suoi comandi. Oppure muovere la manetta del gas e sentire il motore che cambia rumore. In verità non è detto che chi vola da piccolo o osserva le operazioni di volo di un aeroporto poi da grande diventi un pilota. Può succedere, ma non è una regola e neanche una garanzia. Diciamo che spesso è così, ma non sempre. Nel mio caso è stato un aereo tipo “cicogna”, monomotore ad ala alta, che è passato sopra la mia testa mentre giocavo sulla piazzetta davanti casa, a farmi scattare la molla. Quella visione mi ha segnato. Avevo forse quattro anni. Se chiedi a tanti piloti come sono arrivati alla passione per il volo ottieni tante risposte diverse, qualcuno ti dirà perfino che ci è arrivato per caso, senza neanche averlo desiderato. Ma tutti sembrano essere stati contagiati dal virus della passione per il volo, all’improvviso, in un momento della loro vita. Da piccoli, ma anche da grandi. Qualcuno si è “ammalato” in età ben avanzata. Nei miei decenni di attività aeronautica ho assistito parecchie volte, di persona, al contagio. Ecco qualche esempio emblematico.

Un mio amico aveva un bel Piper, un PA 24, potente e veloce, con quattro comodi posti. Abbiamo fatto dei bei voli insieme, tanti anni fa. Molte avventure che ogni tanto ricordiamo volentieri, quando ci incontriamo nei vari aeroporti, dalle nostre parti. Uno dei suoi figli veniva spesso con noi. Di solito non faceva una piega, restando tranquillamente seduto dietro, sprofondato sul sedile tanto grande per lui che aveva sei anni e a malapena riusciva a vedere fuori. Durante un volo, una volta, ma solo una, si sporse in avanti, toccò la spalla del padre e gli disse: “papà, ma quando atterriamo”? Si era annoiato, sotto di noi scorreva una campagna piatta, coperta di neve, bellissima per noi, ma per lui era forse un tantino monotona. Quel ragazzino è cresciuto, ha frequentato l’Accademia dell’Aeronautica, è diventato un ufficiale pilota, poi ha fatto l’istruttore e oggi pilota un Boeing in giro per il mondo. In quei voli deve essersi “contagiato” e non è ancora guarito.

Un altro caso riguarda il “contagio” di un signore che aveva da poco superato i sessant’anni, a dimostrazione che questo virus non risparmia proprio nessuno. Se deve colpire colpisce, senza riguardi per l’età anagrafica. Era un amico di mio padre, sapeva che volavo con gli aeroplanetti a elica e in aliante. Sapeva anche dove, così chiese a mio padre di organizzare un incontro perché voleva che lo invitassi a volare con me. Naturalmente lo accontentai, ben lieto di fargli fare questa splendida esperienza. Venne all’aviosuperficie, gli mostrai i nostri mezzi, gli spiegai tutto quello che doveva sapere sulle operazioni di volo alle quali avrebbe di lì a poco partecipato e poi andammo in volo in aliante. Ero un po’ preoccupato per lui, non volevo che si spaventasse, così durante la salita presi ad illustrargli ogni cosa, avvisandolo prima dello sgancio dall’aereo trainatore. Una volta in volo, dal momento che sembrava tranquillo, gli feci provare i comandi. Fece qualche virata, guardandosi intorno. Altro che spaventarsi, era letteralmente estasiato. Gli piaceva e dimostrava tutta la sua felicità di essere in aria con commenti di apprezzamento. Prima del rientro, mentre ci avvicinavamo al campo per entrare in circuito, mi disse che era stato un volo bellissimo, aggiungendo alla fine, varie volte, la parola “peccato!” come ad esprimere un triste rimpianto. “Peccato di cosa?” gli chiesi. Lui esitò a rispondere, poi disse, mestamente: “Peccato per i miei sessant’anni”. A terra parlammo e gli assicurai che anche a sessant’anni si può incominciare a volare, se davvero si è sostenuti da genuina passione. Passò del tempo, non so quanto. Ma un giorno mio padre mi disse che quel signore aveva sorvolato la nostra casa pilotando un deltaplano a motore e lo aveva salutato agitando il braccio nel vento. C’era un campo di volo ad una trentina di chilometri di distanza dove quel signore aveva fatto un corso di delta-motore. Poi si era comprato un mezzo suo e volava spesso anche sopra casa dei miei, mentre andava a fare un giro sopra il suo paese poco distante. Credo che avesse contratto il virus del volo durante la sua visita all’aviosuperficie, quel giorno.

Questi due episodi riguardano un bambino ed un adulto e sono rappresentativi del fatto che l’età non conta. I miei colleghi di lavoro, controllori del traffico aereo come me, sapevano della mia attività di istruttore. Uno venne a Guidonia con il figlio affinché lo facessi volare. Era un giorno di vento forte. A terra lasciai passare qualche ora e intanto spiegai diverse cose al ragazzo, sperando che il vento, nel frattempo, calasse. Non volevo correre il rischio che una volta in volo si spaventasse per la turbolenza dell’aria. Alla fine dissi che era meglio rinunciare e volare un altro giorno perché il vento era ancora troppo forte ma il ragazzo, e anche il padre, insistettero. Così andammo ugualmente. Fu un volo molto agitato. Il vento rinforzò e la turbolenza pure. Si saliva alla grande e feci un po’ di quota per allontanarmi dal suolo, nella speranza che il vento fosse più teso, meno influenzato dai rilievi sottostanti che provocavano l’agitazione dell’aria. Infatti fu così, ma quando scendemmo trovammo raffiche continue fino a pochi metri dalla pista. Pensavo di aver fatto un bel danno, già era stato un miracolo che il figlio del mio collega non si fosse sentito male. Lui sembrava godersela un mondo, ma si sa, all’inizio i passeggeri fanno così e poi ammutoliscono di colpo e … dopo un poco è fatta: stanno male. Al parcheggio il ragazzo era estasiato. Disse che gli era piaciuto un sacco. Peccato che non avessimo fatto anche un po’ di capriole. Oggi è pilota di linea e quando incontro il padre mi porta i suoi saluti e parliamo ancora di quel giorno. Giorno di “contagio”.

Anche un altro collega venne con suo figlio, a Rieti, per farlo volare con me, nella speranza che prendesse la passione per il volo. La prese. Negli anni successivi andò negli Stati Uniti a conseguire le licenze e oggi anche lui è pilota di linea. Alle riunioni dell’associazione Arma Aeronautica, dove ci incontriamo qualche volta all’anno, suo padre mi viene vicino, telefona al figlio e mi passa il telefono. Così lo saluto e spesso ricordiamo quel primo volo di Rieti.

Ma devo anche dire che alcuni sono, o sembrano, immuni dal “virus degli aeroporti”. Avevo portato un nipotino durante il traino di un aliante con un Robin sperando che un giorno diventasse un pilota. Gli piacque molto, ma oggi ha diciassette anni e tutto pensa tranne al volo. Lui vuole fare l’avvocato, come sua madre. E forse è anche una buona idea. Suo fratello più piccolo ha potuto volare con me su un aereo e provare i comandi. Entusiasta. Gli avevo scattato delle foto mentre teneva la cloche e la manetta del gas. Per il momento credo che abbia usato quelle immagini soltanto per impressionare i suoi amici e le sue compagne di scuola. Se il “virus degli aeroporti” lo ha contagiato, ancora non se ne vedono i segni. Ma ancora non è detta l’ultima parola. Potrebbe essere semplicemente un portatore sano, suscettibile di iscriversi a qualche aero-club tra breve, oppure di fare domanda per uno dei corpi militari che hanno un’aviazione, subito dopo aver conseguito il diploma.

Se la leggenda del “virus degli aeroporti” è vera, allora è probabile che il contagio debba necessariamente avvenire per caso. In altre parole, non può essere provocato. Infatti, mi viene alla mente che, tanti anni fa, avevo portato in volo una mia nipotina, nella speranza di averla come mia allieva alcuni anni più tardi. Ma non è andata così. Oggi mia nipote si occupa di cose che non hanno nulla a che fare con il mondo aeronautico. Lei preferisce occuparsi di arte, ma quella classica, non certo l’arte del volo.

Avrei tanti altri aneddoti da raccontare, e mentre scrivo di uno me ne vengono alla mente di nuovi. Potrei riempire pagine e pagine. Ma ne aggiungerò solo un altro, perché anche questo è emblematico e da quando è successo non me lo sono più dimenticato. Ancora oggi ci penso, ogni tanto. Un giorno all’aviosuperficie venne un signore con tre ragazzini. Due erano suoi nipoti e uno era un loro amichetto, tutti di età compresa tra i sette e i dieci anni. Il nonno si avvicinò e chiese informazioni, ma i tre ragazzini avevano già le idee ben chiare: volevano volare. Qualcuno mi chiamò per fare quel volo. Il nonno sarebbe rimasto a terra e avrei portato in aereo solo i tre piccoli. Uno dei nipotini salì davanti. Il fratellino e l’amichetto salirono dietro. Spiegai loro tutto, perché sapessero cosa stava succedendo e stessero più a loro agio. A quello davanti feci tenere la manina sulla cloche perché, come gli dissi, al momento opportuno l’avremmo tirata un po’ indietro per far staccare le ruote da terra. In volo, addirittura, feci fare qualche virata a lui, mettendo le mie mani ben lontane dalla cloche per fargli vedere che era proprio lui a far muovere l’aereo. E perché lo vedessero anche i due che stavano dietro. Dieci minuti, poi tornammo a terra. I ragazzi scesero felici e andarono dal nonno. Ma il fratellino che era stato dietro e aveva visto quello davanti pilotare l’aereo piantò subito una grana al nonno perché anche lui voleva stare davanti e provare i comandi. Il nonno fece resistenza. Forse non voleva pagare un altro volo, in fondo avevano già volato. Ma il nipotino cominciò a piangere disperato. Il nonno provò a portare via i ragazzi, ma non ce la fece. Dovette tornare indietro, pagò un altro volo e si ripeté la storia di prima. Stavolta con l’altro fratellino “ai comandi”. Tornammo a terra e scendemmo dall’aereo. I fratellini erano soddisfatti e si scambiavano animati commenti su come si era mosso l’aereo pilotato da loro. Il nonno ringraziò e si avviò verso la macchina. A questo punto, l’amichetto che aveva volato due volte, ma era stato sempre dietro, cominciò a protestare. Anche lui voleva stare davanti. Il nonno, che non era suo nonno, stavolta non cedette. Il ragazzino pianse e puntò i piedi. Voleva volare anche lui davanti a tutti i costi. Non voleva andare via. Ma dovette andare. Ho ancora l’immagine di lui che piange disperato mentre entra nell’automobile. Andarono via, ma il suo pianto si sentiva ancora attraverso i finestrini aperti mentre si allontanavano. Non so chi fosse quel nonno e non conoscevo i ragazzini. Nei giorni successivi non tornarono più all’aviosuperficie. Chissà cosa hanno fatto da allora in tutti questi anni. Ma ricordo che quel giorno, mentre se ne andavano, provavo pena per il piccolo che aveva volato sempre dietro. Lui non era stato protagonista. Aveva osservato gli altri due volare da protagonisti e forse, nei giorni successivi, a scuola, avrà dovuto sentirli raccontare le loro avventure senza poter fare altrettanto. Anzi, nella crudeltà tipica di quell’età, chissà che non lo abbiano addirittura preso in giro davanti ai compagni, rimarcando impietosi che lui non aveva mai toccato i comandi. Chissà. Certamente quel giorno si era consumata una brutale ingiustizia. Mentre sentivo senza poterci fare niente quel pianto accorato pensai: “Quello da grande farà il pilota”. Se qualcuno quel giorno doveva contrarre la malattia del volo, era lui. Non saprò mai se è andata così, ma forse oggi, in qualche aereo che sento passare nel cielo, ci potrebbe essere un adulto che tanti anni fa, da piccolo, rimase contagiato dal virus del volo, non per aver volato, ma per non aver potuto sedere nel posto anteriore di un aereo.


Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”


Evandro Detti

 

Tre ragazzini e un aereo

jet in avariaIl racconto è basato su un fatto realmente accaduto. Anche se opportunamente sintetizzati, tutti gli accadimenti della storia sono veri. L’elemento fondamentale qui è l’emergenza improvvisa, il riconoscimento rapido della situazione e la risoluzione del problema nei tempi più rapidi. Ma anche la presenza di un pensiero preconcetto, che falsa per un attimo la percezione corretta di ciò che sta accadendo. Portare a conoscenza di tutti gli addetti ai lavori, ma anche a chi è semplicemente appassionato di cose aeronautiche, un episodio che si è verificato, come è stato percepito e come è stato risolto, costituisce una forma di esperienza che può, volendo, essere traslata in ogni altro campo dello scibile umano.

Lo scopo malcelato è che l’episodio non si verifichi più e, soprattutto, che, qualora si verifichi di nuovo, trovi una semplice e felice soluzione. Della serie: le brutte esperienze vanno vissute una volta, evitate spesso, risolte sempre.


Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

Evandro Detti

mustang a coloriE’ assai difficile stilare una breve biografia di Evandro Detti. Come fece un personaggio di biblica memoria, gli abbiamo chiesto perciò di provvedere personalmente. Ed ecco cosa ne è uscito fuori:

Nato a Manciano (Grosseto) nel 1950.

Nove anni nell’Aeronautica Militare.

Controllore del traffico aereo a Lamezia Terme, Ronchi dei Legionari e Roma.

Licenze di pilota di aereo, aliante veleggiatore, e pilota di ultraleggeri.

Abilitazione a tutti i monorotori e al bimotore.

Abilitazione al lancio dei paracadutisti

Abilitazione al pilotaggio dei motoalianti.

Abilitazione al traino degli alianti.

Istruttore di volo a vela.

Istruttore di volo sugli ultraleggeri.

Collaboratore di riviste di volo e di motociclismo, oltre ad alcune riviste culturali.

Fotografo (alcune immagini presenti nella sezione Album di Hangar)

Aggiungiamo inoltre: autore di un manuale ad uso e consumo degli allievi piloti di volo a vela nonchè di libri a carattere divulgativo o storico.

L’ultimo pubblicato lo annoveriamo nella sezione MANUALI DI VOLO del nostro hangar, cui vi rimandiamo.

Per inviare impressioni, minaccie ed improperie all’autore:

evandro.d(chiocciola)libero.it


 

Nel sito sono ospitati i seguenti racconti:

jet in avaria
Tre ragazzini e un aereo
Alianti in atterraggio sull'aeroporto di Rieti in occasione della CIM - Coppa del Mediterraneo, gara internazionale che si tiene ad agosto
Il senso di Smilla per la neve

Franz Stigler e Charlie Brown

MA INFATTI IO PIANGO!

Il maestro e la ballerina

Dal mio piccolo aereo di stelle io ne vedo e seguo i loro segnali (..) la voglio fare tutta questa strada fino al punto esatto in cui si spegne Difficile non è partire contro il vento ma casomai senza un saluto.

(Ivano Fossati – “Lindberg”)

L’uomo si sedette su un sasso. Sollevò il piede destro appoggiando il tallone sul ginocchio sinistro. Con un gesto distratto tirò via il calzino e rimase a guardarsi il piede nudo arrossato e gonfio. Poi girò la testa sul collo e dette uno sguardo alla campagna intorno: risaie, pioppi impolverati, anche tanto mais e vacche che si cacciavano le mosche con la coda. Un orizzonte piatto e afoso. Non vedeva un villaggio da almeno tre giorni. Che avesse sbagliato strada?

Proprio quando pensava di essersi perso, sul fondo all’orizzonte vide una nuvola gialla che turbinava su se stessa. Guardò meglio e gli parve di scorgere una carrozza nera che veniva tirata da due, forse quattro cavalli che però si vedevano male, quasi fossero dello stesso colore della polvere … Doveva muoversi da quel sasso se non voleva diventare come una statua di sale e si accinse a rimettere velocemente il piede nella scarpa. Ma prima che avesse il tempo di infilare il calzino fu investito da un vortice di terra mista a sabbia che quasi lo soffocò. Come poteva una carrozza, per quanto tirata da cavalli galoppanti, correre così tanto? Cercò di vedere al di là della polvere e capì che in verità si trattava di una vettura a motore. Era la prima automobile che vedeva in vita sua. Ne aveva ammirate parecchie sulle pagine dei giornali, ma mai gli era capitato di incontrarne una vera, dal vivo. Accidenti che corsa! disse fra sé.

Ma non era finita. La polvere, che aveva appena finito di dissolversi, per la sgommata finale stava tornando ad avvolgerlo, penetrandogli con prepotenza negli occhi, nel naso. Il rumore del motore si era rifatto vicino e palpitante. Chiuse la bocca e serrò le palpebre per proteggersi. Quando le riaprì, vide i parafanghi di una macchina enorme, scoperta, lucida e nera che borbottava come una pentola che bolle. Affacciata al finestrino, con un braccio appoggiato ad angolo, vide una donna che sorrideva. Non sentì cosa gli chiedesse quella voce, ma il suo sguardo si fissò sul minuscolo orologio d’oro che riconobbe immediatamente come qualcosa di conosciuto. Ma dove l’aveva visto e quando? Non riusciva a ricordare. Rimase lì imbambolato mentre la donna, con voce un poco impaziente, gli ripeteva la domanda.

“Allora, andiamo?” – lo disse col suo accento strano, che poi avrebbe capito, compreso, e portato sotto pelle. Ma non in quell’istante. In quell’attimo gli parve una inflessione vagamente sconosciuta, non priva peraltro di magia. Ma poi: dove mai voleva mai andare? A dire il vero non sapeva chi lei fosse, o forse intimamente lo sapeva ma non lo ricordava in quel frangente. Colpa magari dei piedi gonfi o dell’attenzione che stava prestando al calzino per evitare si vedesse che era bucato: sarebbe stato un cattivo (secondo?) esordio verso la ragazza, e non lo avrebbe sopportato, lui per primo; figurarsi lei che era perfettamente in pandant su quel bolide con un giubbino di pelle nero e la sciarpa svolazzante. Se lo diceva sempre tra sé e sé ogni lunedi mattina: bisognerebbe fare pulizia sulla scrivania, almeno ogni tanto. Bisognerebbe mettere ordine. E’ un buon modo di cominciare la settimana. Anche se magari si prende in mano un foglio che avevamo messo da parte con tanta cura e, questo foglio, davvero, non ci ricordiamo più perché era importante. A volte invece si decide di passare oltre e di non mettere a posto la scrivania, pur sapendo che c’è qualcosa da cercare e che ti magari cambierebbe la vita. Quel foglio rimane sepolto e nulla di particolare accade. Non era mai stato un ordinato. Lui. Dunque tenne quel pezzo di carta per anni. Un foglietto sdrucito che lo riportava a lei. Che l’aveva portata lì. Per cui non si fece domande e salì sul bolide.

Era passata da non molto la fine della guerra. E di automobili in giro se ne vedevano veramente poche, ancora meno nelle campagne dove era vissuto. Come aveva fatto ad averla? E poi un modello così lussuoso … Chissà, forse suo padre era uno degli industriali che a cavallo del secolo si erano arricchiti con la nuova industria legata ai motori; una vera esplosione in meno di dieci anni: nel 1896 la fondazione della Ford e della Renault, nel 1899 la Fiat, nel 1900 la Daimler-Benz e nel 1906 la Alfa Romeo. Di sicuro, da come guidava con portentosa maestria quella carrozza mossa a propulsione liquida, garrivano nel suo cuore i geni di quel Cugnot che nel 1770 inventò il primo veicolo semovente a tre ruote con motrice a vapore, o di quel Marcus che più di sessant’anni prima aveva concepito il primo motore a scoppio.

A causa di tutta questa favola che si era costruito in pochi secondi – ma che già gli pareva assodata – Lei gli appariva qualcosa di illusorio, originario, mai guardato prima. Era diversa da come la ricordava, se i ricordi per caso lo avessero aiutato.

Se possibile ancora più bella vestita da pilota, secondo uno stile sensuale e androgino, dove i capi del guardaroba maschile erano resi iper-femminili attraverso piccoli dettagli. Camicia bianca da uomo, cintura in pelle sempre ben in vista su pantaloni attillati, perfetti se infilati un paio di stivali o anche se lasciati lunghi con un paio di stringate. I piedi non riusciva a vederli, ma un distintivo azzurro e nero da club esclusivo spiccava sul petto.

Arrivarono in mezzo ad un prato. Uno dei pochi non messi a coltura e senza fango. Davanti a loro c’era un aeroplano. Anzi l’aeroplano per eccellenza: un Caudron G3. Lei e la macchina apparivano un insieme del tutto indivisibile, neanche Lei fosse un accessorio magnifico nato nell’officina dell’azienda francese Société des avions Caudron per imbellettare oltre misura l’acciaio e gli interni in pelle avorio. Prese il volo … e io con lei. Il maestro di musica e la ballerina: che coppia surreale.

Dall’alto pareva l’America. Non che l’avessi mai vista ma me la aspettavo così. Invece era il Polesine, in verità l’ultima sua propaggine verso l’interno, dalla parte opposta del delta. Ancora da bonificare del tutto da parte del regime, e quindi ancora denso e grasso di miasmi da Missisippi di provincia. Peraltro l’unico posto, probabilmente, dove per giorni si poteva vagare a piedi senza incontrare traccia di una urbanizzazione qualunque. E anche lei sapeva di America, ma diversamente, come latitudine: profumava di Argentina, di Rio de la Plata. Era nata su una nave. Come da tradizione si potrebbe dire: i messicani discendono dagli Aztechi, i peruviani dagli Incas e gli argentini dalle navi. I suoi genitori erano stati emigranti di fine ottocento, nella ondata composta prevalentemente da genti del nord Italia, soprattutto veneti e liguri. Era dunque argentina per vincolo di sangue. E come tutti gli argentini di origine italiana era anche lei una tanos. E, come tutti i tanos, lei non era mai riuscita a imparare lo spagnolo, ma aveva in bocca il lunfardo, quel misto di italiano e spagnolo che si parlava nei sobborghi di Buenos Aires. Una lingua usata nelle liriche dei tangos. Un idioma pericoloso. Meticcio. Un codice dai contorni mutevoli e biechi, che riprendeva molti termini di derivazione italiana, deviandoli però – in alcuni casi pesantemente – di significato.

Ugualmente mutevoli, e sottoposte al gioco sadico di una lingua di confine, apparivano le prospettive del nostro viaggio. L’essere in volo per la prima volta, e l’impossibilità oramai di scendere a terra, mi costringevano ad una sensazione assolutamente nuova e che nulla aveva in comune con la realtà tradizionalmente costituita dalle prospettive terrestri. In definitiva: dovevo arrendermi a Lei e alle nuvole, senza nessun punto fermo se non la stessa mobilità perenne. Una bolla di vento in cui l’occhio non può che osservare e dipingere partecipando alla loro stessa velocità, e imponendosi dunque un disprezzo profondo per il dettaglio e una necessità di sintetizzare e trasfigurare tutto.

Tutte le parti del paesaggio apparivano in volo come appena cadute dal cielo, accentuando i loro caratteri di eleganza e grandiosità, come se l’aeroplano sostituisse la mano del pittore che muove il pennello, o la bacchetta del maestro che dirige la sinfonia. Il tutto perde un centro e assume una plasticità assurda, quasi spirituale. L’aeroplano creava un’ideale osservatorio ipersensibile appeso dovunque nell’infinito, dove è la coscienza stessa del moto che muta il valore e il ritmo dei minuti e dei secondi. Così, dopo l’iniziale titubanza, mi sembrava di essere in volo da una vita.

Dopo essere rimasta in silenzio per tutto il decollo, arrivata in quota attorno ai quattromila lei mi si girò contro e, puntandomi dentro le pupille nero pece, mi disse: “Guardami”. Anzi: Guarda Me. Voleva andare fino a Roma. Non aveva paura di avvicinarsi troppo al sole, né di bruciarsi le ali. D’un tratto mi fu nitidamente chiaro in che storia ero ed ero stato, e mi ricordai di tutto. Così non smisi per tutto il viaggio di guardarla parlando il minimo indispensabile per respirare, e non smisi nemmeno per un frammento di tempo di vedere attraverso lei tutto quello che passava intorno, e sotto. Vuotammo quasi tutto il serbatoio, con andatura da milonga. Un ritmo fortemente cadenzato, una melodia non uniforme. Più spinta e meno spinta. Accelerazione e decelerazione alternate. Titubanza reiterata. Struggente. Violenta. Da bandoneon. Coacervo di tutte la passioni possibili dell’animo umano.

Erano le mie strade, di me e della mia infanzia, ma giunti a questo punto le riconoscevo solo attraverso Lei: che le illuminava e le rivelava dall’alto. Ora, grazie al volo, potevo dire di conoscerle veramente. Davvero. Riconobbi così ad un tratto da lontano anche una strada sgombra. Quelle strade di campagna larghe, con muri lunghi che tornavano utili per i rimbalzi. Trenta, quaranta metri liberi che delimitavano il “campo”, all’interno dei quali da bambino marcavo le porte. Così si segnava il gol: occorreva mira e piede buono. Giocavo per ore e ore, sino allo sfinimento: spesso il pallone finiva lontano, e chi sbagliava a tirare doveva rincorrere la palla, difenderla dai cani, e recuperarla. Ogni caduta, figliastra perenne e implacabile dei contrasti più accesi a centrocampo, scorticava la pelle. Ma le sbucciature erano come trofei: il ginocchio era quasi sempre una crosta che non si rimarginava mai. Li ricordavo come meravigliosi anni senza pretese. Nonostante le cicatrici alle ginocchia. O forse proprio per quelle.

L’atterraggio avvenne a pochi metri dalla casa dove ero nato. Forse si può dire che il desiderio umano è cercare di recuperare il passato, e fare un futuro di ciò che ci manca. E la memoria dell’amore è la genesi di tutto. Lei lo capiva, da emigrante di ritorno quale era, e per questo aveva deciso di atterrare lì. E non a Roma. Roma era solo l’espediente per farmi paura, e per vedere se avessi il coraggio di seguirla ancora, dopo tanto tempo.

Mi accorsi finalmente che l’orologio che portava era quello che le avevo regalato: non poteva essere casuale. Come non poteva essere una coincidenza che mi avesse trovato sul ciglio di quella strada sperduta. Evidentemente mi aveva cercato. Appositamente. Per riallacciare il filo di quel tempo indietro che le lancette avevano aggredito senza però cancellare. Un amore che mi accorsi in volo sapevo cantare a memoria, come le partiture che eseguivo a occhi chiusi. Emozionante come il primo minuto che viene dopo una guerra, quando per quattro soldi la musica suona di nuovo. Una musica dolce e lontana. Come il primo addio.

Mi ricordai allora anche che avevo continuato a cercarla per tutti gli anni. Tutti i santi giorni. Per lettera ma anche col telefono, ove e quando ce n’era la possibilità; però al recapito non rispondeva mai nessuno. Forse quel numero scritto in fretta su un pezzo di carta da pane con una matita di poca punta era sbagliato. Ma non mi arresi, causa la testa dura dell’amore, così ogni giorno feci una telefonata: ogni volta un numero diverso combinando le cifre singole ormai sbiadite e alla fine la trovai. Si era sposata, con un ricco latifondista. Ecco il perché dell’auto roboante da moglie di villano arricchito, da parvenu. E pure l’aeroplano le aveva regalato …

Appena scesi, proprio davanti all’elica, mi chiese di ballare con lei. Era quasi sera, lei aveva gli stivali e io scarpe luride col pollice che batteva in punta. Seppur tragicamente inesatti rispetto ai manuali, e senza musica a guidarci, fu il più bel tango della mia vita. Anzi, lo fu forse proprio per quella imperfezione. Il segreto del tango sta in quell’istante di improvvisazione che si crea tra passo e passo, che rende possibile ballare il silenzio. Una complicità totale e maliziosa, intuitiva ed istintiva. Una intimità senza parole, molto più profonda del semplice contatto fisico. Avvitati insieme e divisi, con una sorprendente sincronia carica di tensione e languore. Di prepotenza e morbidezza.

Non c’è possibilità di errore nel tango, non è come la vita. Per questo il tango è così bello: commetti uno sbaglio, ma non è mai irreparabile, e seguiti a ballare. Così, mentre ballavamo, imparammo a ballare insieme, dipingendo in pochi minuti rapinosi una comune porzione di felicità: l’intesa fugace e irripetibile della coppia ideale, stretta in una ambigua e contraddittoria volontà di possesso temporaneo.

Anche lei aveva voluto ritrovarmi. Non per dirmi “ti amo”. Ma per dirmi bene “addio”, come non era riuscita a fare dieci anni prima. In Argentina.

Mentre se ne andava mi urlò: “Guarda me” in lunfardo significa “stai attento a me” e non: “guardami”!

Non l’avevo capito allora, in Argentina. E nemmeno oggi. Per questo il mio cuore abbandonato ai lati dell’incrocio al termine di quell’ultima notte aveva adesso la faccia del mio calzino. Bucato. E inutile.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§ # proprietà letteraria riservata #


Emanuele Finardi

Il maestro e la ballerina

fokker dr1Piedi, che li voglio se ho ali per volare? (Frida Kahlo, Diario, 1944-54)

Se per Frida Kahlo, pittrice messicana di matrice surrealista rimasta per molto tempo immobile a letto a causa di un grave incidente, le ali sono ciò che permette di superare i limiti dei piedi … in questo racconto in realtà – oltre alle ali e al volo – anche i piedi sono importanti: perché sono la base del ballo. Un ballo speciale: il tango, che nasconde al suo interno seduzione, mistero, e sorprendenti rivelazioni.


Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

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