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Racconti tra le nuvole 2017 – Chiusura Vᵃ edizione

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E’ scaduta lo scorso sabato 30 settembre la data ultima di presentazione dei racconti e delle fotografie per la partecipazione alla V edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole”.

L’iniziativa, che si prefigge la diffusione della cultura aeronautica a mezzo della scrittura creativa e della moderna arte figurativa, è organizzata dall’associazione di velivoli storici HAG, Historical Aircraft Group e dal nostro sito di letteratura aeronautica con la collaborazione con la rivista VFR AVIATION e il supporto della FISA, Fondazione Internazionale per lo sviluppo aeronautico.

L’edizione 2017 ha visto l’adesione di ben 38 racconti e di 15 immagini.

Come nella precedente, anche in questa edizione la partecipazione alla sezione narrativa vede la perfetta parità di genere in quanto 19 maschietti e 19 femminucce hanno inviato alla Segreteria del Premio le loro composizioni mentre, fatta eccezione per una sola partecipante, sono tutti di sesso maschile coloro che hanno preferito rubare l’immagine fuggente a mezzo di una fotocamera.

Molti autori hanno ritenuto opportuno coccolare fino all’ultimo istante la propria creatura tanto che, l’ultimo giorno utile, si sono aggiunte 3 fotografie e ben 7 racconti, l’ultimo dei quali è stato virtualmente consegnato alla Segreteria addirittura alle 23:40, ora locale del meridiano di Rieti (centro d’Italia).

Inoltre, a dimostrazione che il Premio costituisce un ottimo stimolo creativo, occorre riportare il seguente dato statistico: una buona metà dei partecipanti di questa edizione era già sceso in lizza nelle precedenti. Dunque un gradito appuntamento cui hanno aderito diversi affezionati praticanti della narrativa a tema.

A questo si aggiunge la conferma di uno strano fenomeno già manifestatosi in passato: la presenza preponderante degli amanti “terrestri” del volo e della scrittura rispetto ai praticanti di attività aeronautiche o comunque ex piloti di aeromobili. Che pure ci sono ma rappresentano una minoranza. Da qui la presenza di racconti di ampio respiro aeronautico, ossia non solo cronache di voli e di vicissitudini aeree ma anche storie di cielo e di nuvole, talvolta surreali o di purissima fantasia.

In questo senso, si rinnova, come già accaduto nella precedente edizione: la significativa partecipazione di autori/autrici che si dilettano con una certa convinzione nella frequentazione di Premi letterari, i cosiddetti “concorsisti”, già blasonati e dunque avvezzi all’arte scrittoria.

Tra di loro, in questa V edizione del premio, si annoverano: un giornalista televisivo professionista, una giovanissima liceale e diversi autori che hanno già dato alle stampe romanzi, raccolte di racconti, saggi e manuali addestrativi di volo, mentre quasi tutti hanno vinto o comunque sono giunti finalisti in altri premi letterari.

Come da bando di concorso, tutto il materiale raccolto è stato girato alla giuria i cui membri – è bene sottolinearlo – saranno noti solo all’atto della pubblicazione dell’antologia del Premio. A loro spetta l’ingrato compito di valutare serenamente racconti e fotografie.

Appuntamento dunque al 1 novembre per apprendere l’elenco dei 20 finalisti della sezione letteraria e le 5 migliori immagini che accederanno di diritto alla fase terminale del Premio. Occorrerà invece attendere fino al 10 novembre per apprendere finalmente i vincitori nonché le classifiche generali con l’elenco dettagliato dei piazzamenti.

Ovviamente sarà cura della Segreteria del Premio informare a mezzo e-mail tutti gli autori e fotografi circa l’esito finale della loro partecipazione alla V edizione di  “Racconti tra le nuvole.

La giuria del Premio, nel frattempo, è impegnata nel febbrile lavoro di valutazione del materiale ricevuto. Ai sette giurati, proveniente dal mondo dell’editoria e del volo, l’ingrato compito di decretare i 3 vincitori e i 17 finalisti della sezione letteraria nonché il vincitore della sezione fotografica che, di diritto, vedrà il proprio scatto in bella mostra sulla copertina dell’antologia del Premio pubblicata dall’editore Logisma.

Appuntamento dunque al 10 novembre per apprendere il nome dei vincitori e, non più tardi di metà dicembre, per poter leggere/vedere tutte le loro opere.

Per qualsiasi informazione:                         www.raccontitralenuvole.it

                                                                                   www.vocidihangar.it

                                                                                   www.hag-italy.it

                                                                                

I falchi del deserto

I falchi del deserto copertinatitolo: I falchi del deserto

autore: Sergio Flaccomio

editore: Longanesi & C.

anno di pubblicazione: 1959

ISBN: non disponibile





Come si legge sulla copertina del libro, una edizione Longanesi § C., si tratta dei ricordi di un pilota d’assalto italiano nei cieli infuocati dell’Africa Settentrionale.

Infatti il volumetto contiene una lunga serie di racconti di guerra, ambientati in quel teatro drammatico quale è stato quello libico.

Se dovessi sintetizzare in poche parole l’intero libro direi che, fondamentalmente, si tratta dell’ennesima testimonianza di come, in quegli anni, si siano contrapposti due elementi: l’eroismo degli italiani in guerra (in qualunque corpo e in qualunque luogo), costretti a combattere una guerra che non sentivano come loro, senza equipaggiamenti e senza organizzazione e la diffusa sciatteria e meschinità, inadeguatezza e, a volte, criminale colpevolezza di coloro che stavano ai vertici del potere politico italiano.

i falchi del deserto copertina interna
La copertina interna de; “I falchi del deserto”, volume di memoria storica ma anche di denuncia

Il libro è scritto da un pilota, cioè da un combattente che poteva vedere le cose dall’alto. Un punto di vista elevato, dal quale era più facile avere una visione d’insieme. In particolare, all’autore appariva ben evidente quale fosse il terreno sul quale si combatteva, l’orografia del paesaggio, le distanze, enormi e spesso costituite da solo deserto, le frequenti tempeste di sabbia e la loro grande estensione, la distanza dal mare degli accampamenti di fortuna nei quali i soldati erano precariamente sistemati etc. Gli aeroporti erano semplici strisce di deserto, livellate alla meglio.

Uno dei pochi scatti disponibili in rete che ritrae un CR42 Falco in volo. Lo abbiamo trovato nell’ottimo sito fotografico http://www.wwiiaircraftphotos.com. E dire che il Falco – come tutti i biplani – era a dir poco molto fotogenico

Gli aerei di cui parla il nostro pilota erano i CR 32 e 42. Biplani, superati ormai da anni, ma che il governo di allora manteneva in produzione, probabilmente per non scontentare qualche personaggio dell’industria. Ma intanto gli alleati, gli Inglesi prima e gli americani dopo, avevano aerei molto più performanti, terribilmente meglio armati, veloci, maneggevoli e dotati di maggiore autonomia.

Contro questi aerei i nostri piloti andavano ad ingaggiare combattimento, spesso in numero molto inferiore, magari ad alta quota, con l’handicap delle cabine aperte, senza protezione adeguata dal freddo e spesso senza neanche l’impianto dell’ossigeno.

Sempre proveniente dal sito http://www.wwiiaircraftphotos.com, ecco una singolarissima immagine della cabina di pilotaggio ripresa dal dorso dell’ala superiore. Inutile dire che i piloti amarono molto il CR42 per la sua formidabile maneggevolezza ma che soffrirono il suo scarso armamento, l’autonomia limitata e la velocità non paragonabile con i caccia nemici con i quali si dovettero confrontare. Ormai, a distanza di tanti anni, i loro ricordi, le loro esperienze si possono trovare solo nei libri di storia come quello di Sergio Flaccomio, appunto.

Questo descrive il libro.

Una lettura, ancora una volta, illuminante. L’eroismo è una cosa. La capacità strategica e la dotazione tecnica sono un’altra faccenda.

Si percepisce chiaramente, anche dove non viene detto esplicitamente, quanto fosse sofferta una simile situazione. E si coglie anche una sorta di fatalismo, di rassegnazione, nei confronti di tragici episodi, frequentissimi, dove si moriva, si restava feriti gravemente, ci si salvava per pura casualità.

Lo stesso progettista (l’ing Celestino Rosatelli) considerò il suo Falco un ottimo progetto ma tecnologicamente incapace di tenere testa a macchine più moderne benché minate da quei problemi di messa a punto, difetti progettuali e complicazioni tecniche di cui il Falco era pressoché privo. Quel divario tecnologico provarono comunque a colmarlo i piloti della Regia Aeronautica che, poco e male armati (due mitragliatrici SAFAT da 12,7 mm. montate sulla cappottatura motore, sincronizzate e sparanti attraverso il disco dell’elica con 400 colpi ciascuna) ricorsero spesso all’”acrobazia difensiva” piuttosto che all’esubero di potenza del modesto quanto onesto motore (un FIAT A.74 R.1C.38 con circa 840 cavalli). Così equipaggiati tentarono di tenere testa agli Hurricane, agli Spitfire. E se questo non fu uno scontro impari … (foto fornita da http://www.wwiiaircraftphotos.com)

E non si poteva in alcun modo protestare. La più lieve parvenza di critica sarebbe stata considerata disfattismo.

Due sono gli elementi che descrivono meglio l’inadeguatezza della politica italiana e tedesca in quella disgraziata guerra del Nord Africa.

Il primo riguarda il fatto che tutti i convogli di navi ed anche le squadriglie di aerei che dall’Italia dovevano rifornire, di truppe e materiali, il Nord Africa, erano soggetti agli attacchi, per mare e per aria, dalla vicina Malta, che non si era pensato di dover neutralizzare prima. Ci si era provato, ma con il pressappochismo e l’improvvisazione soliti, per cui Malta era rimasta lì. Risultato: tantissime navi affondate, squadriglie di aerei, da trasporto e non, abbattuti, migliaia di militari e civili morti e preziose merci perdute. Per anni.

Nel corso del II conflitto mondiale, se è vero che la ridotta incisività bellica della Regia Aeronautica – opinione diffusa e condivisa degli storici dell’aviazione – fu minata inesorabilmente anche dal gran numero di velivoli disponibili in termini di modelli e allestimenti – spesso validissimi per il voli da record ma assai meno poco per scopi militari – è altrettanto vero che il FIAT CR42 Falco costituì la panacea a tutti i problemi di impiego operativo cui l’Arma azzurra dovette fare fronte. Ed ecco allora che Il Falco diventò caccia notturno, cacciabombardiere, intercettore, aeroplano d’assolto per l’attacco al suolo e appoggio alle truppe di terra, antiguerriglia, disturbatore notturno, velivolo aviotrasportato, traino alianti, addestratore e – poco mancò – addirittura idrocaccia e aerosilurante. Per farne un caccia notturno o disturbatore notturno si presuppone almeno che fosse dotato di adeguato strumentazione per il volo notturno e invece … Un cacciabombardiere che trasporta due “bombette” da 100 chili ciascuna e che per farlo deve rinunciare ad una delle due mitragliatrici, può davvero continuare a chiamarsi “caccia” e anche “bombardiere”? Di sicuro l’italica capacità di adattarsi agli eventi più improbabili non venne meno quando, dovendo trasferire la bellezza di 52 velivoli fino al fronte dell’Africa Orientale, i CR42 furono disassemblati, infilati nella capiente stiva del SM82 Marsupiale (antesignano del blasonato C5 Galaxie statunitense) e lì aviotrasportati. Dovendo poi sostituire gli ormai vetusti idrovolanti IMAM Ro.43/44 chi pensate che fu proposto? … ma certo! Il CR42 versione idrovolante giusto appunto denominato ICR42. Fortunatamente non se ne fece nulla, salvo un prototipo. E se invece delle bombette da 100 kg piazzassimo un proiettile d’artiglieria navale da 381 mm denominato “bomba 630PD”, (P)erforante e (D)irompente del peso di 630 kg? Avremmo creato un nuovo caccia-aerosilurante. Anche in questo caso, fortunatamente, non se ne fece nulla. E se, al posto dell’ingombrante motore radiale Fiat montassimo il favoloso motore in linea Daimler-Benz DB601? … beh, otterremmo un Falco capace di volare a 500 km/h ma nulla più. No, meglio destinare i preziosissimi motori tedeschi alle cellule dei Macchi Mc.202 e i Reggiane Re.2001. Fortunatamente il Fiat Cr.42DB601 rimase solo allo stadio di prototipo e i famosi motori equipaggiarono effettivamente caccia moderni. (http://www.wwiiaircraftphotos.com)

Un po’ di numeri. Il Fiat CR42 Falco fu l’aeroplano più costruito dall’industria aeronautica italiana durante tutto il periodo bellico: un totale complessivo di circa 1800 esemplari assemblati con una cadenza mensile attorno ai 50 mensili. Se si tiene conto del decennio a cavallo dal ’34 al ’44, questo modello velivolo costituì da solo il 20% della produzione aeronautica nazionale. E dire che ne furono realizzati pure altri a beneficio di alcune alle forze aeree straniere. Il 10 giugno 1940 – momento dell’entrata in guerra dell’Italia – questo fu il velivolo che rappresentò il 40% dei caccia di pronto impiego della Regia Aereonautica. Cesserà di essere utilizzato nel ruolo di addestratore biposto nell’ambito dei Centri Addestramento al Volo delle Z.A.T. (Zone Aeree Territoriali, ossia le attuali regioni aeree chiamate zone aeree) dalla rinata Aeronautica Militare italiana nel ’52. In altri termini, un buon 70% dei piloti della vecchia nonché della nuovissima Aeronautica italiana “metteranno le ali” sul biplano di Celestino Rosatelli. (http://www.wwiiaircraftphotos.com)

L’altra questione riguarda la geografia del teatro di guerra. Il nemico era stato respinto attraverso migliaia di chilometri, dalla Libia verso l’Egitto. Negli anni le vicende di guerra sono state altalenanti, con perdite e riconquiste di posizione continue. Chi vuole si può documentare meglio attraverso tanti libri. Ma in sintesi, alla fine, il nemico si stava ritirando verso l’Egitto. Mancavano davvero poche decine di chilometri dal confine. L’autore descrive l’arrivo di un’altissima personalità del regime, con macchine al seguito e perfino un cavallo bianco. Si era portato anche la spada dell’Islam che gli era stata donata. Era pronto a fare il suo ingresso trionfale ad Alessandria d’Egitto.

Peccato che nel suo genio strategico non abbia fatto caso che, durante la ritirata, il nemico si avvicinava alla sua roccaforte, con maggiore abbondanza e rapidità di rifornimenti, con più possibilità di sostituzione delle truppe stremante con forze fresche. Mentre per Italiani e tedeschi avveniva il contrario. I rari rifornimenti, quando arrivavano, prendevano terra in Libia, poi dovevano percorrere migliaia di chilometri per raggiungere il fronte avanzato, con i rischi che c’erano. Alle porte dell’Egitto l’epilogo è stato quello che tutti conoscono. L’altissimo personaggio dovette tornare indietro senza neppure il cavallo bianco.

Il Fiat CR42 Falco fu la creatura volante meglio riuscita e prodotta in maggior numero di esemplari che partorì la mente geniale dell’ingegnere reatino Celestino Rosatelli. Alla fine degli anni ’30, divenuto capo dello studio di progettazione aeronautica della FIAT di Torino, Rosatelli creò probabilmente il migliore biplano della storia dell’aviazione … peccato che fu anche l’ultimo. Nato come progetto migliorato del suo precedessore CR32 Freccia, il Falco era vetusto già quando compì il suo primo rullaggio sulla pista di Torino Aeritalia nel maggio del ’38 e il confronto con i monoplani avversari fu sempre impari. In questo scatto memorabile quanto inusuale (http://www.wwiiaircraftphotos.com) si può intuire la linea di montaggio del Falco organizzata negli enormi capannoni della FIAT.

Quanto somigliano, le vicende di allora, a quelle di oggi.

Di sicuro, parlando con tante persone, ci potranno essere molti convinti che le cose siano interpretabili in altri modi. E ognuno fornirebbe la propria chiave di lettura.

Ma qui parliamo di un libro. “I falchi del deserto” parla di quelle vicende e il suo autore ci offre la sua pacata e diplomatica (a volte non tanto) chiave di lettura.

I falchi del deserto retrocopertina
La retrocopertina dello splendido libro di Sergio Flaccomio, autore anche del volume: “… Obbedire e combattere … senza credere”, pubblicato sempre dalla casa editrice Longanesi nel 1966.

Sergio Flaccomio è toscano. E anch’io lo sono. Nonostante ciò, spesso ho fatto un po’ di fatica a seguirlo, nei suoi modi prudenti, fatti di frasi idiomatiche, che capisco certamente, ma la sua toscanità è un po’ più antica della mia. Non fa molto uso delle virgole. Tuttavia, anche in questo libro come è stato per altri, ho ritrovato gli stessi fatti, descritti da altri autori. Mi è sembrato di ripercorrere strade e ambienti già conosciuti. Soltanto visti con altri occhi e da un’angolazione leggermente diversa.



Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer)





L’U-2

titolo: L’U2 

sottottolo: I retroscena del più esplosivo caso di spionaggio del nostro secolo

autore: David Wise e Thomas B. Ross

editore: Longanesi & C.

anno di pubblicazione: 1963

ISBN: non disponibile





Ecco un libro molto interessante e che varrebbe la pena di andare a cercare su internet o sulle bancarelle dei mercatini. L’edizione in mio possesso è quella con la copertina rigida e senza illustrazioni. Né la ricopre una sovra copertina come è d’uso in questi casi. Il titolo, poi… “L’U-2”, sembra fare riferimento al gruppo musicale U2.

Invece si tratta di uno splendido lavoro, un resoconto dettagliatissimo di una vicenda avvenuta all’inizio degli anni cinquanta, continuata fino ai primi anni sessanta, in piena guerra fredda tra gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica. Una vicenda di spionaggio, ma non banale come può essere quella di informatori inseriti nella società del paese nemico. Qui si parla di un pilota americano che, a bordo di un aereo, sorvola il territorio sovietico e fotografa i siti più segreti, dove si pensa possano esistere infrastrutture capaci di nascondere armi nucleari.

Una delle rare immagini d’epoca dell’U-2. Rare perchè il programma fu subito classificato “segreto” e il velivolo fu presentato alla stampa quando era operativo già da qualche anno. Rare perché, almeno all’inizio della loro attività spionistica, i velivoli non erano dotati di contrassegni dell’USAF e i vari componenti che costituivano il velivolo erano completamente anonimi. Questo affinchè, in caso d’incidente, non consentissero di risalire al loro costruttore a stelle e strisce. Inizialmente anche i piloti, ovviamente militari, venivano momentaneamente congedati dall’USAF e formalmente “civilizzati” in quanto alle dirette dipendenze della CIA (Central Intelligence Service), la famosa agenzia spionistica statunitense. Così almeno le apparenze erano salve.

 

Il pilota è un normale ragazzo, nato e vissuto in campagna da una famiglia di umile lignaggio. La sua storia è altrettanto normale: si arruola in aviazione e poco dopo finisce in un gruppo di piloti ai quali viene affidato un compito speciale. E qui comincia l’avventura, che all’inizio sembra normale routine, ma poi…

L’aereo, invece, non è normale.

I mutati scenari internazionali, l’avvento dei famosi droni (velivoli a pilotaggio remoto senza pilota a bordo) e l’elevato costo di gestione degli U-2, unito alla vetustà della flotta disponibile, aveva indotto l’USAF (l’Aviazione militare statunitense) a programmare la loro progressiva radiazione entro il biennio 2019-2020 tuttavia, secondo indiscrezioni giornalistiche trapelate nel marzo del 2017, sembrerebbe ormai certo che il gioellino della Lockeed rimarrà in servizio ben oltre quella data e anzi godrà di nuova vita. La ditta di Skunk Works in Palmdale, California, sta infatti collaudando una cospicua serie di aggiornamenti degli apparati avionici di bordo, in particolare sensori e sistemi di comunicazione, un nuovo sistema di difesa, un rivoluzionario apparato offensivo di guerra elettronica, un nuovo radar avanzato e molto altro ancora che non ci è dato sapere ma che – e questo invece è una certezza – renderanno questo velivolo insostituibile per diversi anni. Ne ha dato indirettamente conferma Kyle Franklin, il nuovo responsabile della Lockeed per il programma U-2 che, intervistato al riguardo, ha dichiarato con il tono di chi la sa lunga: “C’è ancora molta pista per questo jet” e ha aggiunto, a conferma della portata enorme delle modifiche apportate al velivolo: “Potremo offrire un salto quantico delle sue capacità operative”. Staremo vedere.

E’ un jet, uno di quelli del primo periodo. Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gli aerei ad elica furono sostituiti dai jet, i cui motori a reazione consentivano di raggiungere velocità ed altezze nettamente maggiori. E già questo è un fatto speciale.

L’autonomia dei jet è ancora oggi molto limitata. Questo aereo, invece, può rimanere in volo moltissime ore.

Normalmente i jet raggiungono una quota massima di dieci o dodicimila metri. Forse qualcosa oltre. Nel mondo intero, nessuno, in quel periodo era in grado di salire di più.

Questo aereo vola tranquillamente a ventuno mila metri, ma potrebbe raggiungere i ventiseimila. Infatti il pilota usa una tuta speciale che ricorda le odierne tute spaziali.

Se il nomignolo “Dragon Lady” è stato sicuramente tratto dal nome del personaggio di un fumetto di grande successo negli anni ’50, la denominazione U-2 è avvolta letteralmente nella leggenda. Normalmente il programma di sviluppo di un nuovo aeromobile, cioè progettato e costruito completamente ex novo, prevede delle procedure di verifica intensive del prototipo; occorre verificarne le doti di volo, la bontà di pilotaggio e dunque la corrispondenza dei dati di progetto con quanto realizzato. Anche il prototipo dell’U-2 non venne meno a questa sacra regola e quindi, prima di procedere alle prove in volo vere e proprie, il velivolo fu sottoposto ad una verifica preliminare: un semplice rullaggio veloce. Pare – e sottolineiamo pare – che, a causa dell’ala con il forte allungamento (e dunque bassissime velocità di decollo/atterraggio), il collaudatore dell’epoca, certo LeVier, si trovò improvvisamente in volo anziché correre solamente lungo la pista iperchilometrica. La disavventura non rimase inosservata (possiamo solo immaginare quanti occhi fossero puntati addosso all’U-2) tanto che lo stesso progettista Clarence Johnson, via radio, lo invitò perentoriamente a tornare a terra. Ne seguì un risposta ugualmente seccata di LeVier il quale replicò che, nonostante picchiasse con convinzione, il velivolo continuava a galleggiare imperterrito. All’ennesimo rimbrotto di Johnson, seguì un violento battibecco tanto che il collaudatore – alquanto scocciato – decise di portare l’U-2 fino all’assetto di stallo per averne ragione. La manovra sorti l’effetto desiderato e i velivolo toccò finalmente l’asfalto – aggiungiamo noi – non proprio delicatamente. Giunto al parcheggio, la discussione tra i due riprese ancora più virulenta tanto che il botta e risposta si fece esponenzialmente più scurrile. Esasperato, LeVier sbottò urlando: “Che diavolo stavi cercando di fare? … ammazzarmi?” Non ricevendo risposta alcuna, il pilota collaudatore mostrò un inequivocabile indice medio verso l’alto e aggiunse: “Beh, vaf*****lo”. Letteralmente fuori di sé il progettista replicò ruggendo: «E vaf*****lo pure tu» Pare – e sottolineiamo pare – che quell’intercalare “anche tu” o meglio, “you too” in inglese, divenne dapprima il nomignolo dell’aereo e poi addirittura il suo codice identificativo. Pare – e sottolineiamo pare -. Nella splendida foto possiamo ammirare l’armonia delle forme dell’U-2 che è tipica degli alianti cui idealmente s’ispira.

 

 

Le ali dei jet sono normalmente piuttosto corte. Questo jet ha ali lunghissime, da aliante. Un motoaliante, per essere più precisi. Ma molto, molto più grande.

A bordo non ci sono soltanto gli strumenti tipici degli aerei. C’è un autopilota capace di seguire un percorso estremamente preciso. Ci sono apparati fotografici capaci di riprendere immagini del suolo assolutamente nitide. Sorprendentemente dettagliate.

Il nome dell’aereo è: U-2.

Nel periodo in cui l’U-2 veniva impiegato per i voli sull’Unione Sovietica, a quella quota, era difficile da rilevare. Spesso non veniva neanche visto. E poi non esistevano aerei in grado di salire lassù per abbatterlo.

Neanche i missili potevano raggiungerlo e colpirlo con la necessaria precisione.

Ma un giorno l’impensabile accade. Un missile lo raggiunge. Non lo colpisce direttamente, ma gli esplode vicino. Tanto basta perché l’aereo venga destabilizzato e cada in una specie di vite. Il pilota si lancia e atterra sul territorio sovietico. Ne segue un incidente diplomatico molto complesso.

E’ noto che la designazione degli aeromobili dell’enorme flotta delle forze armate statunitensi, dalla notte dei tempi fino ancora ad oggi, segua una logica ben precisa. Ad esempio, i velivoli che godono del prefisso “F” sono dei “fighter” (caccia), i velivoli che sono identificati con la “B” sono dei “bombardment” (bombardieri) oppure “C” per “cargo” (trasporti) e così via. Possiamo immaginare l’imbarazzo dei militari dell’USAF quando, dovendo denominare il nuovo aeroplano della Lockeed, non riuscirono a trovarne la giusta collocazione. Già dalle prime fasi embrionali, il programma U-2 fu classificato come segreto e dunque la soluzione del problema non fu così assillante. Pungolata però da una serie continua di indiscrezioni giornalistiche, di insinuazioni diplomatiche e da una selva di cosiddetti “rumors”, nel corso del 1959, l’USAF si decise a presentarlo finalmente alla stampa. A quel punto il problema andava risolto, il dilemma si riapriva. Certo, un ricognitore strategico ad alta quota sarebbe stato di difficile denominazione, specie se dotato – così com’era dotato – di apparecchiature fotografiche ad alta definizione con pellicole chilometriche a colori sensibili ai raggi infrarossi, soprattutto se aveva degli innocui quanto avanzatissimi congegni capaci di rilevare le emissioni radar e le trasmissioni radio nonché imprecisati apparati di guerra elettronica. Per non parlare dei sensori che rilevavano la radioattività dell’aria. Insomma non esisteva una designazione specifica per un aereo da spionaggio che non poteva essere dichiarato tale. Fu allora che qualche faccia di bronzo dell’amministrazione USA – probabilmente della CIA -, colto da una sfrenata fantasia, scovò la soluzione geniale quanto patetica:  quello dell’U-2 era o non era un programma segreto? … dunque nessuno, salvo gli addetti ai lavori e i militari, conoscevano queste informazioni. In fin dei conti, ufficialmente, era o non era un velivolo per ricognizione meteorologica? Era o non era destinato alla raccolta dati per gli studi sull’alta atmosfera e le sue “correnti a getto”? E i raggi cosmici? E la turbolenza atmosferica in aria serena? Sempre quella faccia di bronzo della CIA sentenziò: “U” come “utility”! Da qui a “U-2” il passo fu immediato … e il gioco era fatto!? Intanto godiamoci lo scatto meraviglioso che ha colto l’U-2 in fase di atterraggio con i flaps abbassati e gli aerofreni estesi. La foto è stata scattata probabilmente dal personale addetto a prestare assistenza al suolo al velivolo in quanto, una volta arrestata la sua corsa, le tips alari tendono a toccare la pista e dunque necessitano di qualcuno (a bordo di un veicolo) che le sostenga.

 

Il pilota si chiama Francis Gary Powers. E adesso molti possono ricordare qualcosa, perché questo episodio ha impressionato il mondo intero in quegli anni.

Powers venne scambiato, alla fine, con una spia sovietica catturata in America e tornò a casa.

Il libro comincia con la descrizione di questo scambio. Poi la storia ritorna all’inizio e si snocciola lungo tutti i capitoli successivi.

L’aspetto straordinario dell’egregio lavoro dei due autori è l’accuratezza dei dettagli. Segno evidente che hanno avuto a disposizione ogni possibile documento. La lettura ne risulta davvero piacevole.

C’è un’altra leggenda che aleggia attorno all`U-2. Quando la Lockeed cominciò a sviluppare il programma del rivoluzionario ricognitore di alta quota, l’eccezionale grado di segretezza industriale e militare impose ai vertici dell’azienda di trovare un luogo lontano da occhi indiscreti ove procedere ai voli prova e a tutte le operazioni di messa a punto inevitabilmente necessarie. La base abituale dei voli di prova della Lockeed, situata presso la base USAF di Edwards, non si prestava certo allo scopo e dunque, assillati da questa necessità, Clarence Johson, il progettista dell’U-2 e Tony Effe, il miglior collaudatore della Lockeed, partirono alla volta degli aeroporti o di potenziali siti presenti nelle aree interne e piu desolate del sud ovest del paese. Non ne trovarono e questo benché avessero girato in lungo e largo. Quando ormai la disperazione stava prendendo il sopravvento, Johnson si ricordò del racconto che gli aveva fatto tempo prima un funzionario della CIA che, nel corso della II Guerra Mondiale, aveva svolto il suo addestramento in un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini. Si trattava di un angolo sperduto del poligono di tiro della Nellis Air Force Base in Nevada; a quei tempi faceva parte del NTS (Nevada Test Site) per i test nucleari. Lì sul greto di un antico lago salato, Il Groom Lake, giaceva un piccolo nucleo di infrastrutture ex militari ormai in stato semifatiscente ma recuperabili; c’era ancora la vecchia pista dell’aeroporto con un fondo compatto e già pronto per velivoli di grossa stazza …. Insomma l’ideale per le necessità della Lockeed. E non solo. Quel luogo prese il nome di Watertown . A distanza di alcuni anni divenne il luogo deputato per lo sviluppo e la custodia ideale di tutti i programmi segretissimi delle Forze Armate statunitensi che succedettero quello dell’U-2. Praticamente a tutt’oggi. E per segretissimi intendiamo dire anche sedicenti navi aliene comprese. Oggi – sorpresa sorpresa – quello stesso luogo è famoso come “Area 51”.

Un punto che mi ha interessato notevolmente riguarda l’abbattimento dell’U-2. Il pilota aveva a disposizione il classico seggiolino eiettabile, sebbene non certo del tipo perfezionato come quello dei caccia militari odierni. Ma sapeva anche che al meccanismo di espulsione del seggiolino era collegato un sistema di distruzione dell’aereo. Per paura di esplodere mentre si eiettava, Powers apre la cappottina e si lancia in maniera tradizionale, anche se con notevole difficoltà e a quota ormai piuttosto bassa.

Benché il servizio di spionaggio statunitense possa contare su una formidabile rete satellitare, l’U-2 “Dragon Lady” rimane ancora oggi il suo migliore strumento di osservazione e foto-video-ripresa, specie in quei scenari in cui occorra una presenza continua ma discreta. Il velivolo, infatti, a differenza dei satelliti che consentono una “copertura” dell’obbiettivo solo di pochi minuti, è in grado di volare ad altissime quote intorno ad esso, per lunghi periodi temporali e pressoché indisturbato. Non male per un ricognitore strategico che compì il suo primo volo nel lontanissimo 1955. In effetti per correttezza d’informazione, occorre precisare che al primo lotto di 20 velivoli costruiti al “modico” prezzo di 20 milioni di dollari cadauno, sono seguiti, nel corso dei decenni successivi, altri lotti di U-2 puntualmente migliorati e pesantemente modificati pur mantenendo l’architettura di base del prototipo portato in volo appunto nel ’55.

All’aeroporto di Ciampino, qualche decennio fa, atterrò un U-2. Non credo fosse più un aereo-spia. Piuttosto poteva essere davvero usato per rilevamenti atmosferici. Veramente, anche durante il suo impiego come aereo-spia veniva presentato allo stesso modo. Ma a Ciampino chiesi di salire a bordo. C’era una scaletta e mi dissero che potevo salire. La cabina non era molto spaziosa. Le ali erano lunghissime e sostenute da ruotine aggiuntive, dato che il carrello era monotraccia, un po’ come il motoaliante Falke. Ma le punte delle ali arrivavano davvero molto vicine al suolo, come piegate sotto il loro stesso peso. Ricordo con particolare vividezza una specie di tasca laterale dove c’erano un certo numero di albi di fumetti in inglese.

Il pilota, evidentemente, cercava di passare il tempo e di vincere la noia delle lunghe ore a quote così enormi da vedere ben poco della terra.

Sin da subito l’U-2 non piacque ai piloti. In un epoca in cui l’obiettivo dichiarato della tecnologia aeronautica era quella di superare la barriera del suono (il successo dei voli del X-1 era stato raggiunto solo dieci anni prima) e tutte le forze aeree, in particolare quella statunitense, ambivano a dotarsi di velivoli veloci o addirittura velocissimi, maneggevoli, caratterizzati da corte semiali a freccia, dotati di motori potentissimi (addirittura con post-bruciatore), armati di missili a guida infrarossa e con seggiolino eiettabile Martin Baker di ultima generazione, ebbene … ecco che veniva affidato loro un velivolo che era esattamente l’opposto. L’U-2 era enorme benchè avesse un solo pilota a bordo. Era tutto fuorchè maneggevole a causa dell’apertura alare spropositata.. L’ala era così allungata che, affinché non toccasse le estremità sulla pista, era stata dotata di appositi ruotini sganciabili dopo il decollo . Delicati e complicati da gestire, quasi una iattura. Inoltre quell’ala enorme aveva delle criticità congenite che la facevano galleggiare all’inverosimile (con relativi problemi in atterraggio) a bassa quota mentre stallava facilmente alle alte quota se il pilota accennava manovre brusche. E il carrello? vogliamo parlare del carello? … assolutamente inconsueto per un aeroplano militare: monotraccia e con il ruotino centrale talmente alto che sollevava pericolosamente il muso mentre quello posteriore era molto piccolo e delicato. Tutto sembrava studiato per lasciare ben poca visuale in avanti allo sventurato pilota. Praticamente come atterrare con uno spillo mentre si deve tenere una pertica in equilibrio.  Vogliamo poi parlare dell’abitacolo? A dir poco spartano! Mancando la pressurizzazione, il pilota era costretto a indossare una tuta e un casco del tutto simile a quella dei suoi colleghi astronauti. Ora, che I piloti dell’epoca fossero avvezzi all’uso del casco, della maschera e delle prime rudimentali tute anti G, è vero … ma il casco da astronauta con aiutava certo i movimenti , soprattutto in atterraggio e in volo (il pilota doveva osservare in un visore ottico l’area oggetto delle riprese fotografiche prima di far partire le pellicole) Anche le dotazioni di sopravvivenza non rassicuravano certo il pilota: nella prima serie di U-2 non era previsto il seggiolino eiettabile mentre il velivolo non era dotato di alcun sistema di difesa. La quota elevatissima cui volava era la sua unica protezione. A questo punto penserete che, almeno il motore, fosse affidabile e ben proporzionato al velivolo … nemmeno! Premesso che era una pulce se confrontato con la massa a vuoto e, soprattutto quella al decollo, la necessità di ridurre i consumi avevano imposto la scelta di un motore appena adeguato alla cellula ma non certo capace di esubero di potenza. Solo nella seconda generazione di U-2 il motore fu potenziato ma sempre e comunque configurato per funzionare al meglio nelle condizioni di aria molto rarefatta in cui era destinato ad operare prevalentemente. Quanto poi ai problemi di rimessa in moto ad alta quota dopo le lunghe planate a motore spento … beh, l,U-2 ne soffrì, ivi compresa nella situazione tragica che vide coinvolto lo sfortunato Gary Powers. Infine, come tutti i programmi particolarmente originali e rivoluzionari, l’U-2 fu protagonista di diversi incidenti catastrofici e diversi piloti persero la vita durante il loro impiego operativo tuttavia, a distanza di tanti anni, appare evidente che la bontà di questa macchina volante e le sue capacità operative rimangono inalterate. Ad ogni modo un dato è certo: la vista della Terra da bordo dell’U-2 è semplicemente fantasmagorica!

 

 

 

Ho visto decollare quell’U-2. In volo, il diedro negative delle ali era molto meno evidente.

Dal punto di vista aeronautico l’U2 costituisce un caso quasi isolato se non a dir poco singolare nella storia delle costruzioni aeronautiche per uso militare.
L’idea che fu alla base del progetto del geniale capo-progettista della Lockeed, certo Clarence L. (Kelly) Johnson, fu semplice e funzionale: progettare e costruire un aereo che era letteralmente alle antipodi rispetto a un’altra sua recente creatura come il velocissimo e potentissimo intercettore  F104 Starfighter. L’U-2, viceversa, avrebbe dovuto essere un aeroplano capace di volare a quote talmente elevate da non poter essere intercettato dai caccia né dai missili antiaerei lanciati da terra, che consumasse poco per avere un autonomia notevolissima (all’epoca prerogativa solo dei grandi bombardieri strategici), che fosse dotato di un solo membro dell’equipaggio, leggero e con un enorme carico pagante (costituito dagli apparati spionistici più assortiti).
Sul tavolo da disegno del sig Jonhson si materializzò allora una sorta di grandissimo aliante (ben 31 metri di apertura alare con un allungamento impressionante) motorizzato da una piccola turboventola (per niente assetata di carburante) che gli consentiva di raggiungere la ragguardevole quota di tangenza pratica di 85 mila piedi (circa 26 mila metri) portandosi addosso la bellezza di circa 10 mila chili di carico bellico utile. Ovviamente il progettista studiò tutto con esasperante minuziosità affinché potesse ottenere la massima robustezza con il peso minore possibile. Neanche a dirlo, anche nell’allestimento della cabina era bandito il superfluo.
Tutti questi sforzi furono comunque coronati da successo perché il grande aliante a motore conseguì un’autonomia accreditata di circa 6 mila chilometri che, ricorrendo alle sue spiccate doti aliantistiche, potevano essere incrementate ulteriormente spegnendo il motore e planando per lunghi tratti.
Della serie: quando i sacrifici pagano! In questo scatto fenomenale è possibile ammirare l’autoritratto del pilota a bordo dell’U-2. Comodo, vero?

 

 

Un libro da leggere e tenere nella propria libreria anche questo. Un libro che parla di spionaggio, ma anche di diplomazia al lavoro, per cercare di mantenere equilibri delicati fra nazioni potenti, i cui capi stanno costantemente con il dito su un pulsante che potrebbe scatenare l’apocalisse.

Gli sarà sufficiente la pista? E possibile vedere da vicino l’U-2 nel bel film diretto da Steven Spielberg intitolato: “Il ponte delle spie”e uscito nei cinema nel 2015, 

 

Questo è il pericolo che abbiamo corso e che corriamo anche adesso.

Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer)


L'U-2





Racconti tra le nuvole 2017 – Decollo Vᵃ edizione

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E’ decollata la V edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole”, organizzato dal nostro sito e dall’associazione di velivoli storici HAG, Historical Aircraft Group, con la collaborazione della FISA, Fondazione Internazionale per lo sviluppo aeronautico e della rivista VFR AVIATION.

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Il padrone del cielo

il padrone del cielo - copertinatitolo: Il padrone del cielo

autore: James Edgar Johnson (Johnnie Johson)

editore: Longanesi & C.

anno di pubblicazione: 1959

ISBN: non disponibile





Da pochi giorni mi è capitato per la prima volta tra le mani questo libro. Avevo letto moltissimi altri libri riguardanti la Seconda Guerra mondiale e in particolare la storia delle battaglie aeree in Europa. Già Pierre Clostermann, con il suo “La Grande Giostra”, aveva descritto tutta la guerra, vista dal suo posto privilegiato nella cabina di pilotaggio del suo Spitfire prima e dei suoi Typhoon e Tempest dopo.

Spitfire ala corta
Gli Spitfire furono costruiti in grandissimo numero e in moltissime versioni contraddistinte, secondo la numerazione della RAF, con l’indicativo MK. Non stupisce perciò che esista, a tutt’oggi, un notevole numero di velivoli perfettamente volanti in ogni angolo del mondo, alcuni restaurati, altri costruiti ex novo e motorizzati con motori moderni. Innumerevoli anche gli Spitfire conservati nei musei dell’aviazione tra cui, in Italia, ricordiamo quello presente a Vigna di Valle (provincia di Roma, sulle rive del lago di Bracciano), sede del Museo Storico dell’Aeronautica Militare italiana. Lo Spit, infatti, prestò servizio anche nella rinata Arma azzurra.

Tutti coloro che hanno scritto libri su questo argomento avevano avuto cura di cominciare proprio dall’inizio, dalla scuola di volo e successivamente dalla battaglia d’Inghilterra, per proseguire negli anni successivi e continuare poi con lo sbarco in Normandia e la lunga marcia verso Berlino. Tanto era il mio interesse per questo argomento che l’ho affrontato con diversi tipi di approccio. Come appassionato di fotografia ero in possesso di tanti libri scritti da famosi fotoreporters di guerra, primo fra tutti Robert Capa. L’approccio fotografico mi ha portato a collezionare centinaia di foto della guerra. E successivamente, da appassionato di viaggi, nel corso degli anni ho visitato ripetutamente i luoghi che avevo trovato descritti da tutti questi autori nei loro libri, fotografici e Spitfire in picchiatanon.

Spitfire visto da sotto
Una serie di bellissimi scatti che pongono in risalto la forma assai particolare dell’ala dello Spitfire, cosiddetta “a pianta ellittica”. Questa è una caratteristica tutta dello Spitfire perché non fu mai più adottata su altri velivoli, salvo il tedesco Heinkel He 70 che però – ad onore di storia – volò ben prima dello Spit (1932 il tedesco mentre solo 1936 per il britannico) dunque, a ben vedere, fu lo Spitfire a ispirarsi all’Heinkel e non viceversa. Il mistero è comunque presto svelato: la progettazione dell’ala fu appannaggio di sir Beverley Shenstone che, prima della guerra, aveva fatto parte dello studio di progettazione diretto da Ernst Heinkel. L’ellisse – secondo Shenstone – era semplicemente la forma che avrebbe permesso di ottenere contemporaneamente un’ala sottile – la più sottile possibile ma strutturalmente solida – con uno spazio adeguato all’interno per alloggiarvi l’armamento – non proprio minuto – e il carrello. Negli anni successivi, quando gli fecero notare l’imbarazzante somiglianza dell’ala dell’Heinkel He 70, Shenstone fu sempre pronto a ripetere che la famosa ala dello Spitfire non fu copiata. Oggi, a distanza di tanti anni, possiamo credergli?

Spitfire ala a pianta ellitticaHo seguito le orme di molti di questi autori. Sono stato dove erano stati loro e ho visto i luoghi. Ho parlato con le persone. Oggi tutto è cambiato. Ma si riconoscono ancora quasi tutti. Ho fatto migliaia di foto e le ho confrontate con quelle d’epoca. Il risultato, in moltissimi casi, è stato entusiasmante.

Quanto sopra per arrivare a dire che, cominciando questo libro, conoscevo già benissimo i luoghi e la storia dove Johnnie Johnsonn ha ambientato tutti i suoi racconti.

Lui inizia da quando, giovanissimo, cercava di entrare nella Riserva Volontaria Inglese o nell’Aviazione Ausiliaria, nella speranza di poter poi proseguire la carriera nella RAF. Non si sa come sarebbero andate le cose se la guerra non avesse creato la necessità di reperire tanti piloti. Ma di fatto questa necessità si è presentata quasi subito e Johnnie ha iniziato la sua vita di pilota militare, prima con il grado di sergente e poi è passato a quello di sottotenente per proseguire la carriera come ufficiale pilota.

Spitfire in volo
La mente geniale che concretizzò l’idea di un caccia purosangue monoplano, moderno, veloce e con grande potenza di fuoco appartenne al progettista britannico sir Reginald Joseph Mitchell. Egli era diventato famoso per aver dato vita agli idrocorsa (idrovolanti per competizioni di velocità) progettati e costruiti esclusivamente per partecipare alla celebre alla Coppa Schneider. L’albo dei vincitori della Coppa contiene più volte il codice dei suoi velivoli (il Supermarine S.5, l’S.6 e l’S6.B) intervallati dai quelli dei nostri italianissimi Macchi

Sin dalle prime pagine ho ritrovato la descrizione della vita delle scuole di volo che tanti altri hanno riportato nei loro libri. E quasi subito, mi è capitato di leggere una sua frase che tanti altri piloti hanno scritto e che per un pilota come me ha un sapore tutto particolare:

Non potrò mai dimenticare quel giorno in cui feci il mio primo volo sullo Spitfire…”.

E questo pezzo, ovviamente, l’ho divorato con gli occhi…

Spitfire cacciabombardiere
Al Supermarine Spitfire non fu risparmiato neanche il compito di cacciabombardiere allorquando la RAF, da prevalente attività difensiva, cominciò a utilizzarli in modalità offensiva contro gli obbiettivi crocenero dislocati sul territorio francese. La foto ritrae appunto un Supermarine Spitfire Mk IXE “AGP” pilotato A.G. Page, Wing Commander del 125° Wing mentre si accinge al decollo per una sortita. Il velivolo è dotato di una bomba da 500 libbre collocata sotto la fusoliera e da due bombe da 250 libbre posizionate nei piloni subalari. Da notare nel ventre delle semiali anche le bande da invasione bianco-nere, segno evidente che questo velivolo fu utilizzato per le operazioni dello sbarco in Normandia

Nei capitoli successivi, nei racconti che vi sono contenuti, ho ritrovato l’atmosfera dell’epoca, i luoghi e la storia dell’epoca, che avevo conosciuto già attraverso le altre letture. Ma proprio per questo mi è sembrato di tornare dopo tanto tempo in posti familiari. Perfino i personaggi, visti con gli occhi di questo pilota, erano gli stessi visti da altri, o conosciuti direttamente attraverso i loro propri libri. Alcuni di questi personaggi, piloti e non, avevano anche prestato la loro opera come controllori ante litteram, guidando gli stormi ad intercettare i velivoli nemici per mezzo del radar di allora. Sono diventati famosi per questo e i loro nomi compaiono anche qui, dando al lettore l’impressione di ritrovare degli amici.

Spitfire a terra
Lo Spitfire fu il velivolo con il quale e grazie al quale molti piloti divennero degli assi. Oltre a Johnnie Johnson che militava nella Tangmere Wing, è impossibile non ricordare il comandante dell suo stesso stormo: Douglas Bader, il famoso pilota con le protesi che sarà proprio l’autore della prefazione de: “Il padrone dell’aria”. Poi, ovviamente, Pierre Clostermann. L’asso francese che volò con i colori della RAF, divenuto famoso anche a livello editoriale in quanto autore di romanzi d’aviazione di universale successo come “La grande giostra” o “Fuoco dal cielo“. Inoltre i pressoché sconosciuti George Beurling, asso canadese, e Colin Gray, neozelandese. Al primo furono accreditati 31 abbattimenti, di cui ventisei sull’isola di Malta. Ma è soprattutto la sua storia personale che merita di essere riportata brevemente: sopravvisse a diverse ferite, malattie varie (tra cui una grave forma di dissenteria) e addirittura a un disastro aereo (un bombardiere B-24 che lo trasferiva da Malta a Gibilterra assieme ai suoi compagni per una breve licenza precipitò). Morì invece nel ‘48, nel rogo di un aereo civile durante l’atterraggio sull’aeroporto dell’Urbe di Roma. Non fu mai svelato il mistero attorno a questa vicenda inspiegabile … certo è che aveva cominciato a trasferire residuati bellici in medio Oriente e, all’epoca, si sospettò che avesse accettato di volare per l’Aeronautica Militare israeliana. Dunque non fu mai escluso che fosse stato eliminato ricorrendo al sabotaggio del suo velivolo. Il secondo asso è stato invece a lungo pressoché ignorato, ancora per anni dopo la fine della guerra. Con il suo Spitfire, durante la battaglia d’Inghilterra, abbatté 14 aerei tedeschi, in gran parte caccia. In seguito, combatté nei cieli del Nord Africa e sull’isola di Malta.

C’è un altro elemento davvero importante ed oltremodo interessante in questo libro: la descrizione minuziosa ed accurata delle strategie e delle tecniche di combattimento aereo. Qualunque pilota nato dopo la guerra vorrebbe sapere come volavano questi aviatori e come combattevano, come si lanciavano da un aereo colpito, cosa provavano nel vedere un caccia nemico andare in pezzi sotto i loro colpi e cadere al suolo. Oggi per noi è una cosa impensabile ma in quei giorni era consuetudine. E quel tipo di guerra aerea, dalla quale deriva quella odierna, non tornerà mai più.

Spitfire visto dall'ogiva elica
Una rara e partcolarissima immagine dello Spitfire ripreso dalla punta dell’ogiva dell’elica. Dire che avesse una linea filante è a dir poco banale.

Sì, decisamente interessante. Entrare nella mentalità di tanti decenni fa, in una situazione drammatica come quella di guerra e soprattutto di guerra aerea, dove già il volo era un pericolo. Non dimentichiamo che il nostro autore volava su un aereo difficile, per quanto stupendo. Non era un mezzo di svago come lo sono oggi i nostri aeroplanetti da turismo o da diporto. Erano strumenti di guerra, di difesa e di attacco, avevano mitragliatrici, otto nel caso dello Spitfire, oppure quattro cannoncini, capaci di un volume di fuoco terrificante. Sotto le ali si potevano collocare delle bombe, anche da duecentocinquanta chili. Tutto questo rendeva le operazioni molto delicate, il decollo e tutte le altre fasi del volo avevano ben altra valenza di quella di un volo di piacere. Eppure i piloti di allora descrivono i loro voli come estremamente piacevoli, il cielo blu, le nubi intorno alle quali giravano o dentro le quali si precipitavano per nascondersi quando serviva, per poi uscirne e attaccare fulmineamente qualche squadriglia nemica. C’era in loro la stessa passione che c’è oggi in noi piloti moderni.

Wing leader ultimissima edizione copertina
L’autore del libro, Johnnie Johnson, dichiarò che lo Spitfire fu “il miglior caccia difensivo convenzionale della guerra”. In effetti, ne furono costruite così tante e variegate versioni che, piuttosto che ritenere il velivolo della Supermarine come un modello unico, si può affermare tranquillamente che si tratti piuttosto di una vera e propria famiglia di velivoli, adattata via via per ogni necessità pratica. Insomma, sulla medesima base solida e versatile dello Spit, gli ingegneri britannici riuscirono a creare tanti diversi velivoli con i quali furono in grado di coprire le varie esigenze operative della RAF. L’unico aspetto che li accomunava restò comunque la sua prerogativa di caccia difensivo enfatizzato dall’asso britannico giacchè il raggio d’azione del velivolo non fu mai sufficiente per le lunghe missioni offensive strategiche.

wing leader copertina edizione recente
Il nome Spitfire, che in italiano si può tradurre letteralmente in “sputafuoco”, secondo la storia – che ha il sapore un po’ della leggenda -, è legato indissolubilmente al caratterino bellicoso e oltremodo vivace della sig.na Ann Mac Lean. Quando si trattò di attribuire un nomignolo al nuovo caccia della Supermarine, l’Air Ministry (il Ministero dell’Aeronautica) suggerì infatti alcuni nomignoli piuttosto improbabili tra cui: Shrew (Megera), e Shrike (Averla). Allorchè il problema fu ventilato a Sir Robert MacLean, il direttore della Vickers-Armstrongs che all’epoca costruiva il velivolo nei suoi stabilimenti, egli non esitò un istante: “little spitfire” (piccola sputafuoco). Era giusto appunto il nomignolo che aveva affibbiato alla figlia Ann per indicarne, in stile puramente “english”, la personalità alquanto impetuosa (per non dire velenosa). E Spitfire fu!

Johnnie Johnson descrive alcuni piloti che sono diventati famosissimi all’epoca e lo sono ancora. Uno di questi è il colonnello Douglas Bader, pilota pluridecorato con alcune delle massime onorificenze. Ma non sono queste che lo hanno reso famoso. Il colonnello Bader aveva perduto le gambe in un incidente e volava con delle protesi, evidentemente neanche troppo sofisticate come potrebbero essere quelle moderne. Nel corso di una battaglia aerea sulla Francia del Nord il colonnello Bader venne colpito e fu costretto a lanciarsi. Nell’emergenza perdette una delle protesi. Quando i tedeschi lo catturarono scoprirono anche di chi si trattava. Lo fecero prigioniero, ma riuscirono anche a far sapere agli Inglesi che Bader era sopravvissuto al lancio, che si trovava in una determinata città e che aveva bisogno di una protesi e offrirono un corridoio sicuro per un aereo inglese che volesse attraversare la Manica per lanciare la protesi in un punto stabilito nei dintorni di quella cittadina. Una storia davvero avvincente.

Spitfire a colori
Costruito in 22.890 unità e 29 versioni diverse, fece il suo primo volo nel marzo del ’36 mentre entrò ufficialmente in servizio nella RAF (Royal Air Force – Aeronautica Militare britannica) circa due anni più tardi. Assieme all’Hawker Hurricane fu il caccia da difesa aerea che si oppose a violenti attacchi della Luftwaffe (l’Aeronautica Militare tedesca) nel corso della Battaglia d’Inghilterra.

Un altro pilota era stato ferito durante un combattimento aereo e aveva perduto un occhio. Dopo la convalescenza tornò a volare. Si potrebbe credere, con il senno di oggi, che una simile menomazione non rendesse possibile riottenere l’idoneità al volo. Ma erano altri tempi e c’era la guerra. I piloti esperti erano oro, perciò il nostro pilota, non solo ebbe l’idoneità (si disse che un veterano con un occhio solo valeva molto più di un pilota inesperto con due), ma fece anche diversi voli notturni!

Wing leader vecchia copertina
Lo Spitfire godette la fama di ottimo velivolo da caccia presso i piloti britannici e in egual misura il rispetto dei piloti dei piloti tedeschi che contro di esso si scontrarono. La leggenda narra che il Reichmarschall (maresciallo del Reich) Hermann Göring, capo supremo della Luftwaffe (l’Aeronautica Militare tedesca), chiamò a rapporto tutti i comandanti dei reparti caccia e bombardieri impegnati nell’operazione Adlerangriff (tradotto letteralmente: “Attacco dell’Aquila”) che avrebbe dovuto annientare la RAF (Royal Air Force – l’Aviazione Militare britannica) e lasciare praticamente indifesa l’isola britannica all’invasione delle forze anfibie e paracadutate dei tedeschi . Molto contrariato per le sorti della Battaglia d’Inghilterra, nottetempo, li radunò nel suo bunker e li passò in rassegna chiedendo loro di cosa necessitassero per avere definitivamente la meglio sugli avversari. Il comandane di un reparto caccia rispose che occorreva estendere l’autonomia dei caccia Messerschmitt Bf 109, un secondo chiese motori più potenti sempre per il Bf 109, poi venne la volta di Adolf “Dolfo” Galland, già famoso asso della caccia tedesca. Con freddezza rispose: “Uno stormo di Spitfire”. Fu l’inizio della fine della carriera di Galland.

Un libro indimenticabile, che andrebbe letto anche in lingua originale, per scoprire le espressioni tipiche di quegli anni, lo slang e le frasi idiomatiche usate dai piloti che hanno combattuto in quei giorni gloriosi.

Wing leader copertina moderna
Il nome Spitfire, che in italiano si può tradurre letteralmente in “sputafuoco”, secondo la storia – che ha il sapore un po’ della leggenda -, è legato indissolubilmente al caratterino bellicoso e oltremodo vivace della sig.na Ann Mac Lean. Quando si trattò di attribuire un nomignolo al nuovo caccia della Supermarine, l’Air Ministry (il Ministero dell’Aeronautica) suggerì infatti alcuni nomignoli piuttosto improbabili tra cui: Shrew (Megera), e Shrike (Averla). Allorchè il problema fu ventilato a Sir Robert MacLean, il direttore della Vickers-Armstrongs che all’epoca costruiva il velivolo nei suoi stabilimenti, egli non esitò un istante: “little spitfire” (piccola sputafuoco). Era giusto appunto il nomignolo che aveva affibbiato alla figlia Ann per indicarne, in stile puramente “english”, la personalità alquanto impetuosa (per non dire velenosa). E Spitfire fu!

Johnnie Johnson non risparmia critiche alla strategia applicata durante la Battaglia d’Inghilterra. Così come non risparmia lodi per il colonnello Bader.

La presentazione del libro, ad opera proprio del colonnello Bader, è breve e bellissima. Vale la pena riportarla qui, perché offre un’idea chiara della qualità di questo libro.

Spitfire al tramonto
Che lo Spitfire sia un aeroplano fotogenico lo dimostrano le numerosissime e bellissime fotografie d’epoca che si trovano facilmente anche oggi nel web tuttavia, un’immagine così ben riuscita si deve solo alla giusta combinazione apparecchio fotografico, tramonto e Spitfire restaurato e volante. Oltre ad un provvidenziale scatto eseguito in epoca “moderna”.

Scrive Bader:

Caro Johnnie, non avrei mai creduto che tu sapessi leggere e scrivere. Nonostante quel che scrivi di me, penso che il tuo sia uno splendido libro nonostante quella dissertazione sulla strategia della Battaglia d’Inghilterra, con la quale assolutamente non concordo. Mi piace il tuo stile, che si mantiene nella tradizione dei nostri famosi predecessori della prima guerra mondiale, Ball, McCudden, Mannock e Bishop. Non dobbiamo mai dimenticare che la nostra generazione di piloti imparò proprio da loro le regole fondamentali del combattimento aereo; quando ero allievo a Cranwell, leggevo e rileggevo più e più volte i loro scritti che non ho, poi, mai dimenticato. Sono certo che questo tuo libro sarà letto con lo stesso entusiasmo dalle future generazioni di allievi, alle quali lo raccomando. Tuo Douglas. Londra 7 giugno 1956”.

Una presentazione che non potrebbe essere più efficace nel suo compito.



Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer)