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Vietato fumare


– Hai sentito le novità, Clara?

– No: quali sono? Che chiudiamo bottega per sempre e ce ne torniamo a casa?

– Per fortuna non è così. La Shark Investor ha comprato la nostra compagnia aerea e quindi è proprio il contrario: non chiuderemo.

– Questa è una bella notizia: io ho smesso di fumare da appena un giorno ed ero già un po’ nervosa.

– Ovviamente circolano voci sul fatto che ci saranno tagli al personale.

– Ecco: ora mi fai venir voglia di fumare. Figurati: una compagnia aerea con gravi perdite e con dei tagli da fare. Secondo te chi saranno le prime che lasceranno a casa? Io e te, Lisa: le uniche due donne comandanti in tutta questa società al testosterone. Hai una sigaretta?

– Non fumo. E poi aspettiamo gli avvenimenti. Intanto tu tieni duro che già sei stata bravissima a smettere di fumare.

§§§§§

Il giorno seguente i quotidiani riportarono la notizia dell’acquisizione della Iron Air Ltd da parte della Shark Investor.

Il consiglio d’amministrazione fu la prima cosa che cadde nella compagnia aerea.

Al suo posto venne messo un certo Frank Arrivabene, direttore unico.

Frank Arrivabene non aveva alcuna laurea e nemmeno nessuna esperienza pregressa nella gestione di compagnie aeree. Era un ragazzo di venticinque anni che girava con una lussuosissima Mercedes insieme alla sua fidanzata. Il suo unico e grandissimo vantaggio era l’essere il figlio di Joseph Arrivabene, magnate e proprietario della Shark Investor, società che spaziava tra mille operazioni di alta finanza, tutte di successo. Insomma: Frank era il figlio del padrone. Il padre Joseph, sapendo che il figlio era un inetto, lo fece affiancare da uno dei più grandi esperti di aviazione civile del momento, il Comandante in pensione Ascanio Barretta.

Ascanio Baretta aveva già fatto risorgere dalle ceneri diverse compagnie aeree ormai decotte.

Il padre avrebbe voluto in questo modo far sì che il figlio cominciasse a svegliarsi un po’ e a interessarsi al mondo degli affari.

Ma torniamo ai nostri comandanti Clara e Lisa che vennero convocati dal neoproprietario Frank dopo appena due giorni dal suo insediamento.

– Eccoci qua Lisa: i primi e forse unici due tagli della Iron Air Ltd.

– Sinceramente me lo immaginavo. Andiamo a sentire cosa vogliono fare.

– Hai una caramella? – chiese Clara a Lisa.

– Sì, certo. Stai tenendo duro col fumo?

– Al momento sì ma mi sa che dopo questo incontro mi metterò a fumare il sigaro.

Le due donne entrarono negli uffici amministrativi che si trovavano accanto all’aeroporto e la segretaria di sempre, la signora Mary Ann, le accolse calorosamente.

– Ciao Clara. Ciao Lisa. Aspettate qui un minuto. I due sono in riunione.

– I due chi? – chiese Clara.

– Frank Arrivabene e il comandante Ascanio Barretta. Posso offrirvi un caffè o un tè nel frattempo?

– Un caffè? Un tè? No, grazie. Per caso hai qualche caramella?

– Come no! Prenditene una manciata di queste. Sono le caramelle che mettiamo nelle sale riunioni. Lo so che hai smesso di fumare: tutti ne parlano e sei stata bravissima.

Clara sorrise mentre si stava riempiendo le tasche di caramelle.

In quel momento la porta dell’ufficio dirigenziale si aprì e il comandante Ascanio, un bell’uomo dall’aspetto giovanile, di quasi 65 anni, fece cenno loro di entrare.

– Accomodatevi, comandante Clara Chase e comandante Lisa Devy. Io sono il comandante Ascanio Barretta, incaricato della ristrutturazione della Iron Air Ltd e questo giovanotto è il neoproprietario della Iron Air Ltd, il signor Frank Arrivabene.

Clara, dopo le consuete strette di mano, senza farsi vedere, tirò fuori una caramella e la mangiò. Era nervosissima. Così come lo era Lisa.

– Voglio subito tranquillizzarvi. Le voci che avete sentito in giro sul ridimensionamento dell’azienda sono del tutto infondate. Addirittura è il contrario. Il gruppo Shark Investor vuole far crescere la compagnia e quindi, nei prossimi tre anni, assumeremo una ventina di piloti e prenderemo tre nuovi aerei.

Clara tossì quasi strozzandosi.

– Tutto bene Comandante? – chiese Ascanio.

– Sì: mi scusi. Mi è andata di traverso una caramella.

– Diamoci pure del tu: siamo tutti piloti. – disse Ascanio mentre offriva un bicchiere d’acqua a Clara e continuò dicendo: – Ovviamente siete già a conoscenza del fatto che il mondo odierno giri intorno ai media e ai social. E, oggi come oggi, la discriminazione tra i sessi è vista come la nuova peste. Le donne hanno un peso uguale agli uomini e noi, come ben sapete, siamo un po’ fuori dagli standard: ci siete solo voi due ragazze in mezzo a 120 piloti uomini. Per questo motivo vorremmo lanciare una campagna di reclutamento riservato esclusivamente al sesso femminile, per cercare di riequilibrare un po’ questo divario. Per fare questo vorremmo girare un piccolo documentario che metteremo su Facebook, Instagram e YouTube con voi due ai comandi di uno dei nostri aerei, su di una rotta un po’ lunga, un sei o otto ore, dove faremo quattro chiacchiere conoscitive e qualche intervista per invogliare le future assunzioni. In cabina ci sarò anch’io, come voce narrante, un cameraman e fuori, tra i passeggeri, il tecnico del suono.

– Ci saranno dei passeggeri veri o saranno solo comparse? – chiese Lisa.

– Passeggeri veri. Non dobbiamo perdere soldi in nessuna occasione, non sei d’accordo?

– Certo. Mi pare un’idea eccellente. E quando partirebbero le riprese?

– Tra due giorni esatti.

Durante tutti questi discorsi, Frank Arrivabene guardava il suo cellulare senza prestare particolare attenzione ai discorsi dei tre piloti e senza mai aprire bocca.

Finito il colloquio, le due donne si congedarono e iniziarono a parlare tra di loro mentre tornavano a casa.

– E allora? Come ti sembra che sia andata?

– Bene. Non immaginavo proprio questo cambiamento. Addirittura sono previste delle assunzioni e saremo noi a fare da testimonial per l’azienda.

– Ti rimetterai a fumare?

– No. Per il momento no. Magari il giorno delle riprese sì: sarò nervosissima.

– Ma ci pensi? Finalmente avremo un bagno tutto nostro. Trenta nuove colleghe!

– Mi pare di ricordare che abbia detto venti.

– Va bene: venti o trenta poco cambia. Piuttosto che te ne pare del nuovo padrone?

– Chi? Ascanio?

– Ma no! Quello lo vedi che sa il fatto suo. E poi avevo già sentito parlare di lui. Quando Ascanio prende in mano le compagnie aeree a pezzi, queste, nel giro di un paio d’anni, decollano. Mi riferivo al ragazzino.

– Ah! Quello? Mi pare un idiota messo lì senza alcun motivo. Non ha detto una parola. A me è sembrato che durante i nostri colloqui guardasse dei filmati su TikTok. E poi aveva un pacchetto di sigarette sulla scrivania. E, dall’odore, direi che fuma in ufficio.

– E avresti voluto anche tu fumare?

– All’inizio sì ma poi a sentire le belle notizie mi è passata la voglia.

– Così ti voglio, Clara! Sei la migliore! Tieni duro!

A Clara e Lisa venne cambiato il programma di volo. Due giorni a casa, di riposo, prima delle riprese. La rotta che avrebbero usato per il filmato promozionale era una comunissima Londra Mumbai di circa nove ore: partenza, ora locale, alle 07:00 e arrivo previsto alle ore 21:00, sempre ora locale. Per una migliore riuscita del documentario, i primi sei posti della business class non erano stati venduti, lasciandoli a disposizione per le attrezzature e per i vari tecnici.

E finalmente arrivò il fatidico giorno: era il 7 Luglio, alle 05:00 del mattino.

– Clara: hai visto il bollettino meteo?

– Sì: all’arrivo ci saranno i monsoni. Non so se sarà un documentario sugli aerei o sugli ottovolanti.

– Nervosa?

ra di celebrità come diceva Andy Warhol.

Arrivarono in sede e la segretaria Mary Ann le accolse: – Prendete qualcosa? Un tè? Un caffè?

– Grazie. Io no. Hai ancora caramelle?

– No, tesoro: mi spiace. Se le mangia tutte Frank. In fin dei conti le paga lui.

In quel momento uscirono dalla stanza Ascanio, Frank, un cameraman e un tecnico del suono.

– Buongiorno a tutte. Se ora volete aspettarci dentro l’ufficio di Frank, noi gireremo qua con Mary Ann per qualche minuto e poi rientreremo per fare la parte con voi due.

Le due pilote entrarono nella stanza del neoproprietario e si sedettero.

l’attenzione di Clara fu calamitata dal portacenere del suo capo: vi erano le cicche di diverse sigarette spente.

La ragazza si fermò ad ammirarle, quasi in estasi.

Sulla scrivania c’era anche il pacchetto di sigarette del suo capo.

Lo prese, lo aprì e annusò il profumo del tabacco.

Lisa la guardò male e la sua collega, con fare risoluto, lo rimise al posto.

Vide sempre sullo stesso tavolo una caramella bianca già scartata, la prese e se la mise in tasca.

Lisa alzò le spalle e acconsentì a quel piccolo furto.

Il gruppo entrò di nuovo nell’ufficio e l’intervista continuò con Ascanio come speaker.

– Stiamo per partire per Mumbai con le nostre due colleghe Clara e Lisa: saranno loro che ci porteranno a destinazione senza problemi. In volo avremo modo di conoscerle meglio. Ma ora salutiamo il nostro direttore, Frank Arrivabene, che a causa di pregressi impegni di lavoro non potrà seguirci sino a Mumbai. Lo ritroveremo tra tre giorni di nuovo qui, a Londra. Dirigiamoci al nostro aereo, un moderno Airbus A350, che sarà pronto al decollo dopo che Clara e Lisa avranno fatto i controlli di routine e avranno avuto il via libera per la partenza dalla torre di controllo. Chi lo dice che pilotare aerei non è un lavoro da donne? Noi qui ne abbiamo addirittura due e aspettiamo con ansia le vostre candidature. Forza! Qui sotto troverete il link per le vostre iscrizioni.

La telecamera si spense e il gruppo uscì per andare sulla pista, vicino all’aereo.

Il cameraman continuò le riprese: – Ora la nostra Clara sta controllando che tutto sia a posto mentre Lisa ha fatto i conti del carburante necessario per il viaggio.

Finita l’ispezione esterna, una volta a bordo l’equipaggio, continuarono le riprese: – Ed ecco che il nostro magnifico duo sta facendo il controllo prevolo dell’aereo. Ragazze! Questo è un lavoro di responsabilità! E chi, se non le donne, sono precise e responsabili? Forza! Qui sotto troverete il link per le vostre iscrizioni.

Poi spensero la telecamera e tutti si misero ai propri posti: – Hai visto Ascanio il meteo a Mumbai? Sei proprio sicuro di fare oggi le riprese?

– Ho visto: non c’erano stati questi monsoni con piogge torrenziali dai tempi di Visnù. Casomai alcune parti le gireremo al ritorno: voi non preoccupatevi e siate naturali. Ad ogni modo ti vedo un po’ tesa Clara. Sono per caso le riprese che ti innervosiscono?

– Oh, no: – rispose Clara – oggi è il quinto giorno che non fumo ma un po’ di nervosismo per la nicotina c’è ancora.

– Che brava. Tieni duro, Clara! Io ho smesso sedici anni fa e non mi sono mai pentito di questa scelta. Si vive meglio senza sigarette. Forza! Siamo tutti con te. E ora iniziamo: voglio che mi facciate un decollo da manuale. Ah! Non ho ancora fatto le presentazioni: lui è Phil, il nostro cameraman; loro sono il comandante Clara e il comandante Lisa. In prima fila, di là, c’è Andrea, la nostra tecnica del suono.

Ci furono le consuete strette di mano e finalmente tutto era pronto.

– Clara: quando vuoi, puoi partire. Phil riprendile pure.

Clara fece un decollo da manuale e iniziò a salire in quota. Dopo qualche minuto fece l’annuncio ai passeggeri: – Buongiorno. Qui è il vostro comandante Clara Chase che vi parla. Sono le ore 7 e 4 minuti, il decollo è avvenuto in orario e prevediamo di arrivare a Mumbai per le ore 20:50, ora locale. Il volo durerà circa 8 ore e 40 minuti. In più vi segnaliamo che dovendo girare a bordo un video commerciale della nostra compagnia, la Iron Air Ltd, la prima fila di poltrone della business class e i relativi bagni non saranno fruibili. Durante il volo la troupe potrebbe passare a intervistarvi. Segnalate subito all’operatore se desiderate non farvi riprendere. Vi auguro un sereno volo.

– Magnifico Clara: ti vedo un po’ più tranquilla adesso.

– Magari! La voglia di fumare è sempre dietro l’angolo. Mangerò l’ennesima caramella. – e mentre diceva ciò tirò fuori dalla tasca quella che aveva preso nell’ufficio di Frank Arrivabene. La masticò per un po’ ma poi la sputò in un fazzoletto: – Ma fa schifo! Ma che roba è? Ha un saporaccio amaro. Sembra vaniglia ma è immangiabile!

Allora prese una delle caramelle che le aveva comperato Lisa e la mangiò: – Queste sì che sono buone. Ho ancora in bocca quel sapore schifoso.

Dopo circa mezz’ora di volo Clara cominciava a sudare freddo. Decise di controllare il Flight Management Guidance Computer, ovvero il computer di bordo per controllare il consumo di carburante.

Invece della solita indicazione comparve la scritta: «System error – Do you want to save your life?» (Errore di sistema – Vuoi salvare la tua vita?)

La finestra di dialogo dava le tre solite scelte: «Sì – No – Annulla»

Clara, sudatissima, scelse all’istante «Sì».

Poi ripensò all’accaduto e lo trovò assurdo.

Sempre più nervosa, riprendendo la freddezza e la logica di chi fa il pilota da molti anni, guardò il display e vide che mostrava solo la quantità di carburante come da lei richiesto.

Ora la scritta era logica e aveva un senso.

Pensò che il tutto fosse stato solo un miraggio, una svista: nulla di più.

Tirò fuori dalla tasca una delle caramelle regalate da Lisa e iniziò a sgranocchiarla nervosamente.

– Che ne dite se facciamo un cinque minuti di riprese, mentre pilotate nel cielo? – chiese Ascanio – Lasciate pure inserito l’autopilota e tenete la cloche tanto per fare un po’ di scena. Magari chiederò a Lisa cosa l’abbia spinta a diventare pilota e poi chiederò a Clara quale sia stato il suo percorso formativo. Oppure, se volete, facciamo al contrario: cosa ha spinto Clara a diventare pilota e il percorso formativo di Lisa.

– Per me va bene la prima. – disse Lisa.

– Anche per me. – aggiunse Clara.

– Perfetto: Phil, quando vuoi, iniziamo. E voi mettete le mani sulla cloche e fate finta di pilotare.

Phil fece ad Ascanio il segno di “ok” per confermargli che stava girando.

– Ed eccoci ancora qui, a bordo del nostro Airbus A350 della Iron Air Ltd con il comandante Clara Chase e Lisa Devy. Dovremmo essere ancora sopra la Francia, diretti in India. Dato che al momento non ci sono difficoltà e la strada è tutta dritta, vediamo di conoscere un po’ meglio le nostre due amiche disturbandole solo cinque minuti. Lisa: potresti spiegare un po’ ai nostri ascoltatori cosa ti abbia spinto a diventare un pilota?

In quel momento Clara li interruppe e disse: – Silenzio! Non sentite anche voi un sibilo? Come quello di un serpente?

Tutti si zittirono e ascoltarono attentamente. Clara avvicinò la sua mano alla cloche, la guardò e poi urlò: – Argh! La cloche! È lì! Il serpente! – e mentre diceva ciò si slacciò le cinture e si alzò andando in fondo alla cabina.

Phil spense la telecamera all’istante e con Ascanio cercarono subito l’animale. Lisa, terrorizzata, guardava verso Clara.

Ascanio, coraggiosamente, prese un ombrello da usarsi come arma improvvisata e si mise a frugare tra i pedali e i vari anfratti della cabina di pilotaggio. Dopo qualche minuto di attente ricerche Ascanio disse a Clara: – Ti senti bene? Sei sudatissima e pallida ma qui di serpenti non ce n’é nemmeno l’ombra. Sei proprio sicura di aver visto un serpente?

Un po’ confusa, la ragazza, in fondo alla cabina, ancora tremante, disse: – La cloche: mi era sembrato che ci fosse un serpente lì vicino. In realtà non mi sento molto bene. Forse sarà il nervoso per le riprese o forse il fatto che non stia fumando: non lo so.

Ascanio prese l’interfono e chiamò una delle hostess: – Mi porti per favore tre caffé per noi e una camomilla per Clara con quattro brioche, grazie.

Dopo qualche minuto entrò l’hostess e portò la colazione a tutti. Si fermò a guardare Clara e le disse: – Ma sei bianca come un cadavere: stai bene?

– Non lo so: mi sento molto strana. Forse la camomilla mi farà stare meglio. Saranno quelle maledette sigarette che mi mancano e il mio corpo le chiama a gran voce.

– Lo sappiamo tutti che stai smettendo di fumare e tutti facciamo il tifo per te, Clara. – disse l’hostess mentre usciva dalla cabina.

– Ho una voglia pazza di fumare.

– Clara: sii professionale. Tieni duro. Bevi la camomilla e mangiati un paio di caramelle. È tutta scena: dopo la prima settimana andrà meglio. Credimi. Io ci sono passato.

– Certo: lo so. Scusate per prima.

– Facciamo così: adesso ti riposi per un’ora e poi rifacciamo l’intervista. D’accordo? Anzi: io e Phil usciamo così non vi disturbiamo. Andiamo di là, in cabina con la nostra fonica e cominciamo a montare il materiale che abbiamo già girato. Ci vediamo tra un’ora.

Clara, ancora sudata e bianca, disse: – D’accordo.

Dopo una ventina di minuti di volo in cui non era successo nulla, Clara sentì un picchiettare sul suo vetro di sinistra.

Si girò e vide fuori dall’aereo un’anatra che volava.

– Ti ricordi di me? – disse l’anatra.

Clara strabuzzò gli occhi e rispose: – Le anatre non parlano. E non volano nemmeno a 33.000 piedi a quasi 900 chilometri orari.

– Ti ricordi di me? – chiese nuovamente l’anatra.

Clara, in un bagno di sudore, disse: – No. Non mi ricordo di te.

– Te lo dico io allora: Tel Aviv, 4 aprile 2016. Decollo dall’aeroporto Ben Gurion. Ti dice qualcosa?

Clara, con la testa che le scoppiava, stava pensando e ripensando a quella data: – No. Non mi ricordo di te.

– Avresti dovuto: rejected take-off, decollo abortito per un’ingestione di un’anatra nei motori.

– Ora mi ricordo! – disse a voce alta Clara.

Lisa le chiese: – Ti ricordi cosa?

– Quello che mi sta dicendo quest’anatra dal finestrino. Un decollo abortito a Tel-Aviv.

– Clara? Ma cosa stai dicendo? Quale decollo abortito? A Tel-Aviv? Un’anatra al finestrino? Ti senti bene?

Clara si voltò nuovamente verso il finestrino e non c’era ovviamente nessuna anatra.

– Clara. Seriamente: chiedo la pilot incapacitation[1] per te. Ascanio è ancora un pilota con brevetto valido: faccio mettere lui al tuo posto oppure invertiamo e torniamo a Londra. Sei sudatissima e bianca come un cadavere: tu non stai bene.

– Sto bene! – urlò Clara – È quella maledetta nicotina che mi manca. Tutto qui.

– Come vuoi: ora riposati un po’ che poi andrà meglio. Ti faccio portare qualcosa?

– Sì: delle sigarette.

– Sii seria, Clara. Vuoi mangiare qualcosa così ti dimentichi il fumo?

– No. Sto benissimo. – urlò a Lisa.

Lisa la ignorò.

Passarono un quarto d’ora in silenzio.

Ora Clara cominciava ad avere caldo e mise la mano vicino alla bocchetta dell’aria.

– Ahi! – gridò.

Seccata, Lisa le chiese: – E ora che c’è?

– C’è che questo stupido aereo mi ha morso.

– Clara: – disse pacatamente Lisa – un aereo non morde. Un aereo vola, decolla, atterra. A volte precipita. Ma non morde.

– Questo mi ha morso.

– Clara: lascia la cabina. Sei esonerata. È un ordine. Fai entrare Ascanio.

– Mi prendete tutti per pazza?

Clara spense il segnale di “vietato fumare”, si alzò e uscì dalla cabina di pilotaggio. Passò davanti a Phil, Andrea e ad Ascanio che le chiese: – Stai un po’ meglio?

Clara gli urlò: – No! – e continuò a vagare tra i passeggeri della business class che la guardavano meravigliati.

– Qualcuno di voi ha per caso una sigaretta? – urlò a tutti i passeggeri.

Timidamente, dopo qualche istante, un distinto uomo d’affari londinese tirò fuori un pacchetto.

Clara, come un’indemoniata, andò vicino all’uomo e prese una sigaretta e si allontanò. Poi ritornò sui suoi passi e gliene prese un’altra. La gente la guardava senza capire cosa stesse accadendo.

Clara andò in una poltrona libera, si tolse le scarpe, allungò la sedia fino a farla diventare un divanetto e si accese la sigaretta.

Un’anziana donna indiana che stava vedendo la scena chiese all’hostess che le era accanto: – Mi scusi signorina: ma si può fumare sull’aereo?

L’hostess, anch’essa un po’ confusa da tutti gli avvenimenti, presa in contropiede, rispose: – Forse sì ma solo in alcuni posti. Vede che il segnale di “vietato fumare” è stato spento? Comunque ora le porto alcuni stuzzichini. Da bere cosa gradisce?

Ascanio intanto entrava in cabina di pilotaggio e a voce alta chiese: – Dimmi che cavolo sta succedendo. Clara è di là che fuma e tu sei qui da sola.

– Non lo so: è impazzita. Prendi tu con me i comandi. Torniamo indietro?

– No: non torniamo indietro. Prendo io i comandi con te. Andiamo a Mumbai.

Ascanio prese il posto di Clara, si mise le cinture e la cuffia e spense l’allarme di “fumo in cabina” causato dalla sigaretta.

Intanto nella business class Clara aveva finito la sua sigaretta. Si accese anche la seconda e la fumò tutta. E si addormentò.

La signora indiana chiese nuovamente alla hostess: – Signorina: ma lei è proprio sicura che si possa fumare?

– Certo: vede il segnale che è ancora spento. Le porto qualcos’altro da bere? Vuole un libro? Le presto il mio. È molto bello. Non l’ho ancora finito ma l’ho trovato molto avvincente. Glielo regalo, non si preoccupi. Io, poi, me ne acquisterò uno nuovo.

Dopo quasi quattro ore di volo Clara si risvegliò, si stiracchiò, si rimise le scarpe e andò in cabina. Aveva ripreso un colorito normale e non sudava più.

– Che ci fai al mio posto, Ascanio?

Ascanio e Lisa la guardarono come si guarda un matto.

– Lo sapete che di là, in business class, c’è odore di sigaretta? Secondo me qualche furbetto ha fumato.

– Ti vedo meglio ora. – disse Lisa.

– Non mi ricordo bene cosa sia accaduto: forse non sono stata molto bene ma ora va molto meglio. Quanto manca all’arrivo?

– Siamo già sul sentiero di discesa. Il tempo a Mumbai è uno schifo. Ci hanno segnalato 11 millimetri di pioggia. Temo che dovremo divergere su di un altro aeroporto.

Clara, non ricordandosi bene ciò che era accaduto, prese posto dietro, lasciando Ascanio ai comandi.

Quando furono sul sentiero di discesa, verso i tremila metri, Ascanio disse: – Rinunciamo e riattacchiamo. Proviamo a chiedere che ci diano un aeroporto con condizioni meteo migliori di questo.

E l’aereo riprese quota.

Fu allora che Clara disse: – Sbaglio o sono ancora il Comandante di questo aeromobile?

– Io ho chiesto la tua rimozione dato che vaneggiavi.

– L’hai verbalizzata ai controllori di volo?

– Effettivamente no.

– Grazie Lisa. Ti devo un favore. E ora, Comandante Ascanio, se gentilmente volesse alzarsi e cedermi il posto.

Ascanio la guardò, si slacciò la cintura, aprì la porticina e chiamò il cameraman.

– Phil: inizia a riprendere tutto. Ho studiato i rapporti di volo su questa ragazza e sono incredibili. Quindi, se tutto andrà bene, avrai filmato uno degli atterraggi più difficili della tua vita; se andrà male avrai filmato uno dei disastri peggiori della Iron Air Ltd.

Clara sorrise ad Ascanio che le strizzò l’occhio e iniziò la checklist per la discesa e l’atterraggio.

La pioggia era veramente forte.

Poi si voltò verso la telecamera e disse: – Sugli aerei non ci sono uomini o donne ma ci sono solo piloti. Persone che amano volare perché ce l’hanno scritto nel loro DNA. E chiunque sieda in questo posto farà di tutto per portarvi a casa, al lavoro, in vacanza, presso la vostra famiglia o presso i vostri amici senza che vi accada nulla. L’unica differenza è che se pilota una donna tutto sarà più preciso e delicato. E ora allacciatevi le cinture di sicurezza dato che dobbiamo atterrare per non fare arrivare in ritardo tutti questi simpatici passeggeri. Forza! Qui sotto troverete il link per le vostre iscrizioni.

Ascanio, sottovoce, disse a Phil: – Mi piace quello che ha detto: lo useremo per la nostra campagna di reclutamento.

Pur con alcune difficoltà Clara riuscì a far atterrare al primo colpo il suo Airbus sotto una pioggia torrenziale. I passeggeri applaudirono per la manovra perfetta nonostante il maltempo.

– Qui è il vostro comandante Clara Chase che vi dà il benvenuto a Mumbai dove sono le ore 20:55. Vi preghiamo ancora di stare con le cinture allacciate sino all’apertura delle porte. Non scordatevi il vostro bagaglio a mano e vi ricordiamo che sull’aereo e nell’aeroporto è vietato fumare. Vi ringraziamo per aver scelto la Iron Air Ltd e ci auguriamo di avervi ancora a bordo con noi. Una buona serata a tutti.

Spento l’interfono Clara, rivolgendosi ad Ascanio disse: – È possibile sapere se in una certa data un nostro aeromobile abbia avuto un incidente?

– Penso di sì. Chiamiamo la sede e glielo chiediamo.

– Cercami tutti gli incidenti del 4 aprile 2016 a Tel-Aviv.

Ascanio fece un lungo giro di telefonate mentre i passeggeri stavano scendendo e dopo un po’ disse: – Ecco qua: 4 aprile 2016, aeroporto Ben Gurion di Tel-Aviv. Un Airbus A321 comandato da te, Clara Chase. Ingestione di volatile nel motore due. Danni minimi. Partenza ritardata di tre ore.

Clara sorrise e disse: – Però! Quell’anatra aveva proprio ragione.

Sorrise.

Si alzò, uscì dalla cabina di pilotaggio e andò dal distinto uomo d’affari londinese che, per sua sfortuna, non era ancora sceso e gli disse: – Mi offrirebbe un’ultima sigaretta?

L’uomo si alzò, le diede tutto il pacchetto, prese il suo bagaglio a mano e si avviò di corsa verso l’uscita.

– Che gente strana che c’è in giro. – disse Clara.

Poi tornò in cabina, si sedette, aprì il finestrino sotto una pioggia torrenziale e si accese una sigaretta.

– Ah! Sto benissimo. Settimana prossima smetterò di fumare.

– È vietato fumare sugli aerei. – disse Lisa.

– È vietato fumare sugli aerei. – disse Ascanio.

Clara raggiunse l’interruttore del segnale del divieto di fumo e lo spense: – Ora si può.

Nel frattempo, alla stessa ora notturna, in un bellissimo attico del centro storico di Londra, c’era Frank Arrivabene, direttore unico della Iron Air Ltd, molto agitato, insieme alla sua compagna.

– Io non so proprio spiegarmelo che fine abbia fatto. Era sul mio tavolo, in ufficio, da me, e poi è sparita. Non c’era più. L’ho cercata dovunque.

– Non ce l’hai in tasca?

– Ti ho già detto di no! Ho già controllato. E poi son sicuro di averla lasciata sul tavolo. Guarda che da me non entra nessuno. Sono il padrone della compagnia! E la mia nuova segretaria è fidatissima.

– Sarà pure fidatissima ma questa sera la nostra pastiglia di ecstasy da dividerci in due non ce l’abbiamo.

– Mah? Chissà che fine avrà fatto?

– Mah?

 

[1] Situazione in cui uno (o più) dei piloti non viene ritenuto più in grado di gestire le normali operazioni di volo e per questo motivo viene esonerato da ogni compito relativo al velivolo.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Ma infatti io piango!

Una canzone degli Abba, uscita nel 1978, è tra le mie preferite. La ascolto volentieri mentre viaggio in macchina e spesso la rimetto daccapo per risentirla, non mi stanca mai. Le parole sono in inglese, ma come spesso accade con questa lingua, sono talmente efficaci da proiettarmi indietro nel passato e farmi rivivere momenti di vita vissuta come in un sogno.

La canzone parla di aquile. Quelle vere, forse, ma io ne ho conosciute altre che potrebbero essere inserite pari pari nella canzone.

They came from far away, now I’m under their spell. I love  earing the stories that they tell. They’ve seen places beyond my land. They’ve found new horizons. They speak strangely, but I understand“.

“Sono venuti da molto lontano, ora sono sotto il loro incantesimo. Mi piace ascoltare le storie che raccontano. Hanno visto luoghi al di là della mia terra. Hanno trovato nuovi orizzonti. Parlano in maniera strana, ma io capisco.”

Le aquile di cui parlo sono venute davvero da molto lontano. Non solo beyond my land – oltre la mia terra, ma anche beyond my time – oltre il mio tempo. Non ero ancora nato quando loro già volavano verso altri orizzonti. E mi piace ascoltare le loro storie, quando sono in vena di raccontarle.

Parlano strano, è vero. Usano termini antichi, parole ormai sostituite da altre più moderne, frasi idiomatiche che sembrano conoscere solo loro. Ma basta poco tempo per apprenderle. E inevitabilmente conquistano l’ascoltatore, che resta incantato ad ascoltare.

Parlano strano. Ma io capisco.

Alla fine degli anni sessanta e nei primi anni settanta ne incontravo molte, di queste aquile, appena entrato in Aeronautica Militare. Ufficiali e sottufficiali, marescialli anziani, tutti riconoscibili nella loro divisa impeccabile, con l’immancabile aquila turrita di pilota militare sul petto, giusto al di sopra di un largo rettangolo di nastrini e onorificenze. Medaglie al valore, guadagnate in azioni di guerra, chissà dove, come e in quali azioni.

Li incontravo ovunque.

Guidonia è sempre stato un luogo molto attraente per tutti noi appassionati di aviazione. La sua storia ha profonde radici nel passato. Non tanto la cittadina quanto il suo aeroporto.

L’aeroporto di Guidonia è stato teatro di infiniti eventi aeronautici che meriterebbero una enciclopedia intera ad essi dedicata.

Oggi esistono ancora molti indizi degli antichi fasti, ma certamente, per vederli, bisogna avere un’adeguata conoscenza della Storia e un occhio ben attento. L’ambiente è profondamente cambiato nei decenni. Tutto si è modernizzato, non solo nelle infrastrutture, che non sono cambiate così tanto dagli anni ruggenti dell’Aviazione italiana, ma anche e soprattutto nell’ambiente umano. Oggi l’aeroporto rispecchia le condizioni generali della forza armata che lo gestisce, l’Aeronautica Militare Italiana. Oggi sono soprattutto giovani quelli che girano per i reparti.

Sui piazzali vediamo parcheggiati velivoli di diverso tipo, alcuni sono jet e altri sono ancora aerei ad elica. Poi ci sono gli alianti, qui ha sede una sezione del volo a vela militare. I monomotori ad elica servono proprio a trainare gli alianti, che sono quasi esattamente uguali ai nostri, ma con le classiche coccarde sulle ali.

Qualche decennio fa l’Aeronautica usava questa sede per ospitare reparti in via di estinzione, di trasformazione o di ricollocazione, aerei e personale. Per alcuni piloti anziani questo aeroporto ha costituito l’ultima pietra miliare del loro percorso operativo. La successiva era la pensione.

Ma qui, per un breve periodo, continuavano a volare sui loro vecchi aerei, che successivamente sarebbero stati pensionati anch’essi, cioè radiati. E’ stato il caso dei C45 bimotori, dei T6 della scuola di Alghero e dei Siai 208 che oggi continuano a volare come aerei di collegamento e di traino alianti.

Non appartenevo a quei reparti, ma spesso andavo a trovare i miei colleghi che invece vi appartenevano. C’ero anch’io tra quei militari e li ho visti. Loro e i loro aerei.

Ero di casa a Guidonia, già dieci anni prima di andarci per cominciare il corso di pilota di aliante, nella sezione di volo a vela dell’Aeroclub di Roma, che in quell’aeroporto aveva sede.

Ho conosciuto quei piloti, anziani e prossimi alla pensione, ma ancora ben validi. Li ho visti salire sui C45, accendere i motori e rullare verso il punto attesa. Li ho visti decollare e atterrare, sempre in maniera impeccabile. Molti avevano sulla divisa il simbolo di ferite di guerra. Avrei voluto domandare loro tante cose, ma non parlavano volentieri di certi argomenti e comunque i loro atteggiamenti e l’espressione di quei visi non mi incoraggiavano certo a fare domande. Sembravano appartenere a un altro mondo.

Devo dire che, in genere, facevano caso all’ aquiletta dorata che portavo sulla divisa, quella di pilota civile di aeroplano. Qualcuno mi chiedeva dove avessi preso il brevetto (allora la licenza di volo si chiamava così). Quando rispondevo di averlo preso all’Aeroclub di Viterbo mostravano subito segni di grande apprezzamento. In genere sembrava che conoscessero molto bene  l’aeroporto di Viterbo, come se fosse stato un loro luogo di predilezione, come se vi avessero operato tanto tempo prima, in un tempo lontano di cui io non sapevo nulla. Come se si fosse trattato di una vita precedente.

Ogni tanto, appena nominavo Viterbo e il suo Aeroclub, mi sentivo dire sempre la stessa frase: “Ah, ottimo Aeroclub. Una vera fucina di piloti. Lì nascono piloti veri …“.

Era come se, all’improvviso, mi avessero collocato su uno scalino più in alto.

Questo era l’atteggiamento generale, del quale, però, non avevo idea di quale fosse il motivo. Nelle discussioni, che immancabilmente seguivano, venivano nominati altri piloti, mi chiedevano se conoscevo questo o quello, personaggi che a Viterbo vivevano o semplicemente frequentavano l’Aeroclub. Non solo piloti, anche specialisti. La loro fama era qualcosa di vago e misterioso, noi giovani eravamo poco consci di quale storia e quali avvenimenti celassero dietro i loro sguardi profondi, a volti persi nel vuoto, a volte duri e intransigenti, a volte però, perfino gentili e indulgenti.

Al di là dell’apprezzamento per essere un pilota, tuttavia, percepivo anche una sorta di sfiducia generalizzata verso i piloti civili come me. All’inizio la attribuivo al fatto di essere tanto giovane, di fronte a persone molto più anziane. Ovviamente, alla mia età, ero all’inizio. Per avere la loro esperienza avrei dovuto volare per tutta la vita. E magari fare anche qualche anno di guerra. Insomma … come biasimarli! Ero un principiante. Poco ma sicuro.

Nel corso delle chiacchierate, dove non mi dicevano nulla delle loro storie, specialmente quelle del periodo bellico, si parlava degli aerei moderni. In particolare emergeva un elemento fra tutti: la differenza fra gli aerei con il carrello cosiddetto triciclo, quello con la terza ruota sotto il muso e quelli che avevano il ruotino sotto la coda, detti bicicli. Sembrava che, nella loro considerazione, i primi fossero troppo facili, i secondi difficili e, manco a dirlo, gli unici che si potessero considerare aerei veri. E giù discussioni su tendenze ad imbardare, coppia dell’elica, quanto piede serviva per contrastare certe forze con il cosiddetto timone di direzione che si comanda, appunto, con la pedaliera. Con gli aerei di oggi, beh! tutto è diventato facile. Troppo facile. Sui tricicli sono tutti piloti, ormai … Ai loro tempi, invece … e frasi di questo genere.

Tra racconti di imbardate ed episodi di uscite di pista, prima o poi riuscivo a dire che conoscevo il problema, perché a Viterbo volavamo su entrambi i tipi di aeroplani. I bicicli erano i PA 19. Li avevamo avuti dall’Esercito Italiano che, pur conservandone un certo numero per sé, alcuni li passavano agli Aeroclub.

Appena venivano a sapere che volavo anche con i bicicli … la mia quotazione saliva istantaneamente. Nonostante fossi un principiante, venivo dall’Aeroclub di Viterbo, volavo con aerei bicicli, quindi … mi sentivo collocato ben due scalini più in alto.

Ogni tanto mi invitavano anche al bar con loro. Meravigliosa sensazione. In quelle occasioni era come se fossi uno di loro. Quasi.

Veterani. Alcuni erano veterani di guerra. Gente che emanava durezza, ma anche una straordinaria gentilezza, nobiltà di modi, inclinazione naturale alla solidarietà e alla disponibilità. Emanavano esperienza e capacità. E si vedeva chiaramente che erano alla fine di una carriera cominciata in un tempo lontanissimo; che arrivavano da un percorso a me oscuro, ma che avevano attraversato l’inferno, una guerra tremenda, vicende dolorose e terribili, tanto da non poterne neppure parlare.

Infatti non se ne parlava. Al primo accenno a quegli avvenimenti si chiudevano, smettevano di parlare o cambiavano discorso. Sembravano trattenere il respiro per evitare di commuoversi, forse erano troppo travolgenti i ricordi. Qualcuno guardava da un’altra parte…

Quei vecchi marescialli sembravano alieni venuti da un’altra galassia.

Qualcuno di loro aveva sulla divisa una striscia dorata che sapevo rappresentare ferite di guerra. E non potevo fare a meno di averne rispetto, ma anche di questo non osavo chiedere notizie di dove e come erano stati feriti.

La canzone degli Abba, ad un certo punto, dice:

As all good friends we talk all night, and we fly wing to wing. I have questions and they know everything

Come tutti i buoni amici parliamo tutta la notte, e voliamo ala contro ala. Ho tante domande e loro sanno tutto

Avrei volato volentieri con loro. Forse avrei potuto provare a ottenere il permesso di farlo, ma non mi ricordo di averlo chiesto. Forse no. Peccato, perché per me sarebbe stato un grande privilegio e un notevole onore.

Ma un giorno accadde una cosa che ricordo ancora molto vividamente.

Tornavo da un volo a Siena, solo a bordo di un Morane Saulnier dell’Aeroclub, e stavo sorvolando Montefiascone, diretto a Viterbo per l’atterraggio. C’erano molte nuvole e mi divertivo a passarci vicino, sfiorandole con l’ala. Addirittura, se ne vedevo qualcuna abbastanza piccola e sfilacciata, ci passavo dentro.

Mentre sbucavo da dietro una nube piuttosto grande, a rispettosa distanza, improvvisamente vidi un aereo al mio stesso livello, quasi in senso opposto. Passò tra me e la nuvola ad una velocità incredibile, ma feci in tempo a vedere la faccia del pilota di sinistra che si girò verso di me. Uno sguardo fuggevole, di sorpresa, come del resto, forse, dovette apparire il mio verso di lui.

Era un C45, bimotore con doppia deriva. Uno di quelli di Guidonia. Di sicuro anche i piloti lo erano.

Avevo rischiato una collisione. C’era mancato poco. Eppure, invece di sentirmi spaventato ero rimasto calmissimo. Ricordo che controllai di essere ad una quota giusta secondo la normativa in vigore che prescriveva di volare rispettando i cosiddetti livelli semicircolari. Quindi non dovevo temere rapporti da parte dell’aereo militare. I due piloti potevano forse aver avuto il tempo di leggere il nominativo del mio aereo, scritto a lettere grandi sulla fusoliera. Ma ero a posto, anche se mi ripugnava dover dire che loro, invece, volavano ad una quota sbagliata. Ero già sulla frequenza della Torre di Controllo di Viterbo, tuttavia non sentii alcuna comunicazione da parte del C-45. Era andata bene. Cominciai la discesa rassicurato.

E poi mi sentivo onorato di essere in volo insieme a quei veterani. Non nello stesso aereo, ma nello stesso cielo.

Non ho mai saputo chi ci fosse sul C-45, dopo quell’incontro, per lungo tempo, non ebbi più occasione di andare a Guidonia.

I veterani di cui sto parlando erano persone veramente affascinanti. Ne ho conosciuti tanti in quegli anni. Ero giovane e loro anziani. Alcuni di loro, come ho detto, sembravano duri e intransigenti. Da noi giovani pretendevano molto e, naturalmente a noi questo atteggiamento urtava non poco. Il ’68 era appena passato e in Aeronautica molte cose stavano cambiando. Lentamente, a dire il vero, ma cambiavano. E lo scontro tra generazioni non poteva essere indolore.

Per i veterani, che venivano dalle tragedie della guerra, finita da poco più di un ventennio, doveva essere duro veder scomparire valori nei quali avevano tanto fermamente creduto e per i quali avevano sofferto immensamente. Del resto, a noi giovani interessava già avere i capelli un po’ più lunghi e magari, mi ricordo bene, i pantaloni della divisa leggermente scampanati, secondo la moda del momento. La convivenza tra le due generazioni, a quel tempo, non era sempre tranquilla.

Ma loro, i veterani, stavano meglio per conto proprio, parlando delle loro cose, che a noi apparivano misteriose.

L’aria di mistero era quella che mi impressionava di più. E il distintivo di ferite di guerra mi faceva più impressione di altro. Mi chiedevo che tipo di ferite avessero riportato, e in che situazione.  Non sembrava opportuno chiederlo, anche se per il resto rispondevano a tante domande e sembravano sapere tutto, specialmente le cose di volo, del pilotaggio e della navigazione.

Erano venuti da oltre il mio tempo, da oltre il mio orizzonte, come dice la canzone, ed emanavano un fortissimo magnetismo, al punto tale che rispettavo quei veterani con tutto il cuore. Accettando perfino i rimbrotti di qualcuno di loro. E quanto avrei voluto conoscere le loro storie!

Un giorno venni a sapere di un brutto episodio accaduto in una caserma dell’Aeronautica, adiacente al luogo dove prestavo servizio. Un anziano maresciallo si era suicidato gettandosi dalla finestra. Non andai a vedere, ma mi dissero che molto probabilmente l’uomo, che soffriva da tempo per i traumi di guerra, aveva minuziosamente progettato il proprio suicidio. Si era lanciato dalla finestra, in modo tale da cadere all’indietro e sbattere la testa sulla sporgenza di un cornicione sottostante, così da arrivare a terra già privo di sensi. Un episodio che mi colpì profondamente.

Era uno di quei veterani.

Voglio raccontare anche un altro episodio che riguarda uno di loro. Un tipo taciturno, abbastanza incline a brutalizzare chiunque, se ne avesse avuto il motivo. Faceva il direttore della linea di volo dell’Aeroclub di Roma. Normalmente stava in piedi, appoggiato alla porta dell’hangar, oppure seduto su una delle sedie disseminate qua e là. Spesso sonnecchiava. Sospetto che bevesse anche un poco, specialmente al circolo o alla mensa militare.

Tutti ne avevamo un sacrosanto rispetto. Sapevamo che aveva fatto la guerra. E si vedeva che ne conservava ancora il ricordo, doloroso e praticamente costante.

Lo avevo visto tante volte prendere a brutte parole qualche pilota, cacciandolo anche via in malo modo. Ma di solito era gentile e disponibile.

Un giorno che era in vena di parlare descrisse una delle sue azioni di guerra. Poche parole, ma furono come i fotogrammi di un film proiettati brevemente sullo schermo. Aveva mitragliato mezzi nemici e truppe in marcia. E si chiedeva come avesse potuto fare certe cose, forse gli avevano messo qualcosa nel rancio … Lui, altrimenti, non avrebbe potuto.

Un flash. Poi il silenzio. E aveva ripreso a camminare per la linea di volo, mani dietro la schiena, solo con sé stesso e con i suoi ricordi.

Un giorno arrivai in linea con un amico per fare un voletto. Era tempo brutto, nubi basse, vento e rischio di pioggia. Tutti stavano davanti all’hangar ad aspettare un improbabile miglioramento. Le porte dell’hangar erano semichiuse e gli aerei erano dentro.

Senza convinzione chiesi se potevo prendere un P66B, aspettandomi un secco no. Ma con mia grande sorpresa l’anziano pilota chiamò lo specialista e gli disse di tirarmi fuori un aereo.

Nel vedere questo, alcuni piloti presenti protestarono, perché si sentirono discriminati. Ma lui, con fermezza, disse che non siamo tutti uguali. Io venivo dall’Aeroclub di Viterbo, una fucina di piloti veri. Perciò …

Che piacere può fare una tale fiducia! Comunque, subito dopo mi si avvicinò e mi disse: “Stia attento, perché con le nuvole basse, il paesaggio, anche quello che conosce bene, appare in maniera diversa. Resti a sinistra del Tevere, se dovesse avere problemi, metta prua est e quando il Tevere le passa sotto, novanta gradi a destra e lo segue fino a tornare al campo“…

Un altro giorno un pilota dell’Aeroclub di Roma volò a Viterbo. All’atterraggio finì in una pozza d’acqua che stagnava al centro della pista di erba. L’aereo sbandò paurosamente, ma ne uscì indenne. Il pilota rullò al piazzale aeroclub, scese tutto spaventato e disse che lui da lì non sarebbe ripartito. Si fece accompagnare alla stazione e tornò a Roma con il treno.

Il giorno dopo ero all’Urbe e il veterano mi chiese di andare a riprendere quell’aereo. Ci andai. A Viterbo mi fecero problemi. Non erano sicuri che davvero mi avesse mandato lui e fecero una telefonata di controllo. Sentii la segretaria dire al telefono: “Accidenti, com’è categorico lei, Comandante“!

Poi la segretaria disse che il veterano aveva detto solo “Dategli l’aereo“. E subito dopo aveva chiuso.

Questi personaggi erano fatti così. Non ho volato ala contro ala con loro, come dice la canzone, ma è quasi come se lo avessi fatto.

L’Aeronautica mi aveva assegnato un alloggio militare in un palazzo, uno di quelli che, all’epoca,  possedeva e utilizzava proprio per alloggiare i sottufficiali e qualche ufficiale. Ad ogni piano gli appartamenti erano divisi in camere, ognuna destinata a due persone. Nella mia dormivo solo io. Il primo piano, però, era tutto allestito come sala convegno e c’era pure un bar molto fornito. Di fianco c’era una sala TV e oltre quella c’era la porta di un appartamento destinato al direttore di tutto il palazzo. Lui risiedeva lì con la famiglia, una moglie e un figlio. Li avevo visti di sfuggita, ma non avevo mai avuto modo di vederli da vicino. Sapevo solo che il direttore era un maresciallo prossimo alla pensione.

Un giorno ero seduto al bar di quegli alloggi e conversavo con un amico. Eravamo in divisa. Il mio amico era un ex allievo ufficiale pilota che era stato appena dimesso da un corso di pilotaggio, se non ricordo male a causa di qualche problema disciplinare ed era di passaggio, in attesa di riassegnazione ad altri incarichi. Il maresciallo entrò nella stanza, ci vide e, dopo aver parlato un po’ con l’aviere del bar, venne a parlare con noi. Fu così che lo conobbi.

Naturalmente parlammo di aeroplani. Volle sapere tutto sul mio amico, dei suoi voli sull’MB 326, perché era stato dimesso e dove sarebbe andato dopo. Poi chiese anche di me.

Solito copione. Viterbo, l’aeroclub, i tipi di aerei etc.

Anche lui sembrava unire un’aria autorevole, tipicamente militare, ad una gran gentilezza di modi. Mostrava interesse per le nostre storie, considerazione mista ad un sincero dispiacere per l’esito del corso di pilotaggio del mio amico.

Nel frattempo lo avevo osservato bene. Impeccabile nella divisa, l’aquila turrita al suo posto, una sfilza di onorificenze allineate al di sotto dell’aquila e… una striscia dorata, simbolo di ferita di guerra, sul lato della manica. Un altro veterano.

Parlammo a lungo. Ci dava del lei, nonostante la differenza di età, come facevano in molti, forse altra abitudine che veniva dal passato. Era prossimo alla pensione, questione di una manciata di mesi. Non ricordo se volasse ancora oppure no. Per tutto il tempo gli parlammo di noi, ma di sé  non ci disse nulla.

Lo incontrammo ancora diverse volte e sempre ci sedevamo da una parte, a parlare di aeroplani.

Un giorno entrai nel bar e trovai il maresciallo seduto con una rivista davanti. Gli chiesi se potevo offrirgli qualcosa e accettò un caffè. Presi due caffè dal banco e andai a sedermi vicino a lui.

Quel giorno decisi di fare qualche domanda discreta.

All’inizio sembrava titubante, rispondeva con poche parole e molte pause. Ma volevo sapere se aveva combattuto con un caccia, se aveva abbattuto altri caccia, insomma cosa aveva fatto durante la guerra.

Pian piano sembrava sciogliersi, come se fosse addirittura lieto che qualcuno gli avesse chiesto di parlare di queste cose. Ogni volta che titubava, smettendo di parlare, con lo sguardo fermo in un punto, come a ricordare i particolari, lo incitavo gentilmente a proseguire. Mi aspettavo di sentirgli raccontare della guerra sul Mediterraneo, forse contro Malta, come avevo sentito altri parlarne. E mi aspettavo di sentirlo parlare dei Macchi 202 o 205, se non addirittura dei CR32 e 42…

No. Niente di tutto questo. Lui pilotava aerei da bombardamento. Ora non ricordo se fossero gli SM 79 o qualche altro tipo. Ma non era sui caccia.

E niente Mediterraneo. Lui aveva fatto la campagna di Russia e volava sul Don.

Così lo pregai di parlarmi di quella guerra. Ormai non avevo più timori reverenziali, ma solo interesse. E lui mi raccontò un sacco di cose. Mi spiegò dei problemi climatici, di come tenevano caldi i motori durante le ore di stazionamento a terra degli aerei, in condizioni di ghiaccio, neve e venti gelati. Di come vivevano la vita di tutti i giorni. Come mangiavano, dormivano, e anche come volavano.

Sapevo tante cose della guerra su quel fronte, ma devo dire che sentirne parlare da parte di chi c’era stato era diverso.

Ad un certo punto mi disse che per i piloti moderni è difficile immaginare cosa era stata l’aviazione negli anni di guerra. Allora mi sembrò il caso di comunicargli l’impressione che avevo sempre avuto di non dover fare domande perché mi sembrava che non sarebbero state gradite. E invece, dissi, sarebbe stato opportuno che loro, i veterani, raccontassero a noi giovani le loro storie, in modo da farci comprendere quei tempi. Lui disse che invece no, non era il caso. Troppo crude sarebbero state le loro vicende e soprattutto sarebbe stato inutile, visto che ormai era tutto passato. Anche i ricordi, a dispetto del tempo ormai trascorso, erano troppo vividi e dolorosi per poterne parlare. E i giovani non li avrebbero compresi, perché impossibili da comprendere. Impensabile addirittura farsene un’idea appena più che vaga.

No, disse, la guerra va solo dimenticata. E lasciata sprofondare nel passato, sperando che non torni mai più. Nel dire questo aveva distolto lo sguardo, girando la testa, come a voler scacciare un’immagine che non avrebbe voluto vedere. Aveva gli occhi lucidi e un po’ arrossati, ma cercai di non dare a vedere che me ne ero accorto.

All’improvviso cambiò discorso e mi disse che con il mio brevetto di pilota ci avrei fatto ben poco. Ne fui sorpreso e chiesi il perché.

Mi disse che volare da privati era troppo costoso. E non permetteva di fare abbastanza esperienza. Non diventi un pilota facendo voletti locali, con il tempo buono, solo per diletto. E non c’è paragone con un pilota che vola per professione, che compie missioni di ogni tipo e soprattutto, che si trova a dover affrontare situazioni improvvise e difficili.

Certo, tutto chiaro, tra un pilota di guerra e un pilotino di aeroclub… neanche a parlarne.

Di colpo, mi fece una domanda a bruciapelo. Mi disse che poco tempo prima era partito da Guidonia pilotando un aereo che aveva solo un’oretta di volo di vita operativa, prima di essere radiato. Si trovava dalle parti dell’aeroporto di Centocelle, che all’epoca aveva ancora la sua pista in buone condizioni, quando vide del fumo venire fuori dal cruscotto. E mi chiese: “Lei che decisione avrebbe preso“?

Colto alla sprovvista, risposi che sarei atterrato subito a Centocelle. Ma replicò che un po’ di fumo, in volo, potrebbe diventare una palla di fuoco in pochi istanti. Atterrare richiede tempo. Troppo.

Suggerii altre soluzioni, ma devo dire che anche a me non sembrarono troppo attuabili. E comunque, per ognuna, lui aveva da ridire. E poi, intanto che ne parlavamo, l’aereo sarebbe stato già in fiamme. Magari esploso.

Alla fine, mi arresi. E chiesi:”Maresciallo, che cosa ha fatto, lei“?

Ho spento la radio“, rispose.

Dannazione. A quella non avevo neanche pensato.

Mi resi conto, in quella conversazione, che il maresciallo era diventato stranamente loquace. Sembrava triste e sospettai che prima del nostro caffè avesse bevuto ben altro.

L’attacco ai brevetti civili, ai pilotini di aeroclub, mi aveva spiazzato. Che ne restava della mia blasonata provenienza dall’aeroclub di Viterbo, della fucina di piloti, dei carrelli bicicli?

Avevo provato a replicare, ma questo lo aveva caricato di più. E parlò. Mi raccontò tante cose, tanto terribili che rimasi ammutolito ad ascoltare.

Aveva una medaglia sul petto e, ad un certo punto, mi sembrò il caso di chiedergli di quella.

Mi disse che l’aveva guadagnata sul Don. Aveva partecipato ad una missione nella quale doveva anche sorvolare un reparto che stazionava in una zona in attesa di ordini. Aveva a bordo un cilindro che doveva essere lanciato a bassa quota su quel reparto. Gli ordini erano nel cilindro. Ma il suo aereo era stato colpito. Aveva a bordo un morto e qualche ferito. Forse anche lui stesso lo era e l’aereo era danneggiato. In quelle condizioni, nonostante tutto, l’aereo era ancora governabile e lui decise di portare a termine la missione, prima di rientrare. Lanciò il contenitore con gli ordini, nonostante tutto.

Ebbe così la sua medaglia.

Con gli occhi un po’ arrossati, continuò a raccontare altri fatti. Non nominò nessuno di coloro che erano andati con lui su quel fronte e che non erano tornati, ma capii che furono tanti. E lui li ricordava tutti. Ricordava tutti i suoi voli, uno per uno. E di ogni volo, i cui dati erano allineati sulle righe del libretto, sapeva cosa era successo, chi si era salvato, chi era stato ferito, chi aveva perduto la vita.

Le ore passavano. Restai ad ascoltarlo, rapito e affascinato, ma anche rattristato e travolto dalla tragicità delle vicende di guerra. E comunque, nonostante tutto, sapevo che ascoltare il racconto era ben diverso dall’essere stato protagonista di certi avvenimenti. Aveva proprio ragione.

Avevano ragione, i veterani, a non voler parlare di quella parte di storia.

Infine, le pause si fecero più frequenti. Gli occhi del maresciallo erano decisamente arrossati. Sembrava un po’ a disagio e forse era sul punto di alzarsi per andarsene, scomparendo nella porta del suo appartamento, come gli avevo visto fare tante volte.

Anch’io ero un po’ provato. E mi sentivo in colpa per averlo fatto parlare.

Gli dissi:” Beh, maresciallo, se io avessi vissuto le vicende che mi ha raccontato, sicuramente prenderei il libretto di volo, scorrerei le righe e piangerei tutte le mie lacrime…”

Lui mi guardò. Fece una breve pausa, girando intorno lo sguardo come ormai faceva di continuo. Poi si piegò decisamente verso di me e, quasi con disperazione, disse:

Ma infatti io piango! Prendo proprio i miei libretti di volo. Ricordo ogni volo che c’è registrato sopra. Scorro le righe. E piango“…

Si alzò, leggermente insicuro nei movimenti, mi diede la mano nel salutarmi, mi sorrise con la solita antica gentilezza, attraversò la stanza, uscì nel corridoio e scomparve oltre la porta della sua casa.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #



Evandro Detti

Nota della Redazione: nella foto in evidenza è ritratto l’autore negli anni ’80 presso l’aeroporto di Foligno accanto a un L-18 all’epoca in forza presso l’Aeroclub di Viterbo .

Il volo di Indiana Jones a Guidonia


Era l’anno 1984 e si giravano a Guidonia alcune scene del film: “Indiana Jones e il tempio maledetto”. Si era costruito in aeroporto, zona hangar militare, un aereo degli anni ’30, al cui interno, nella trama del film, Indiana Jones, mentre precipitava, ormai senza guida e senza piloti, lottava per la sopravvivenza sua e della sua accompagnatrice cantante; la lotta per altro era ben riuscita, perché in maniera rocambolesca, potevano Indiana e compagna separarsi dall’aereo, che invece all’impatto si distruggeva.

Noi piloti guidoniani ignoravamo la presenza in aeroporto, sia degli attori che di tutta la troupe che girava il film…e si giustifica perciò, come in un giorno, in cui si volava normalmente con gli alianti dell’aeroclub di Roma, ci fosse la presenza di Harrison Ford a Guidonia e il suo arrivo improvviso, presso la biga di Antonietta e di tutti noi piloti e istruttori.

Quel giorno l’istruttore di turno era Giovanni Quai.

Harrison Ford amante del volo, come tutti sanno, con il suo “slang americano”, chiese se fosse possibile fare un volo in aliante.

Il bello è che nessuno lo riconobbe un po’ per la faccia un po’gonfia e arrossata, (un po’ diversa da quella perfetta presentata nei film) un po’ perché chi se l’aspettava mai: era un tizio” americano che chiedeva, come spesso accade, un “volo turistico”. Tanto meno Giovanni Quai lo riconobbe ma, primo perché parlava inglese meglio di tutti, poi perché era il pilota più rispondente dei presenti, decise di portare in volo quello strano tizio.

Il volo ebbe luogo, l’americano si divertì, fece i complimenti per la bellezza dell’esperienza e magnificò il volo a vela e gli appassionati piloti, che lo praticavano. Si congedò salutando i presenti alla biga e in linea e non fece nulla, per farsi riconoscere …

Tutto ciò fino a sera, quando apparve alla tv di stato, in un’intervista, proprio quel “tizio americano, dalla faccia ora pulita, rimessa a posto e ben pettinato.

Intervistavano il famoso attore Harrison Ford, che parlava del nuovo film di Indiana Jones, che lo vedeva protagonista e che in quel momento era a Roma, perché giravano all’aeroporto di Guidonia, dove avevano costruito un modello di aereo, anni trenta, per girare delle scene importanti.

Allora Giovanni Quai, ritornato a casa guardando la tv serale, disse alla figlia presente in quel momento: “Io quello oggi l’ho portato in volo”, e di rimando la figlia gli confermò che aveva portato in volo “Indiana Jones” alias Harrison Ford”.

Giovanni raccontava l’evento come una storia curiosa e ricordo in alcuni stages di volo a Rieti a inizio anni 2000, che i guidoniani facevano in “gruppo”, che, quando ciascuno raccontava fatti accaduti in volo e a terra a Guidonia con protagonisti sempre piloti dell’Aeroclub, lui Giovanni ricordava la sua storia con: Indiana Jones …. 



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

## proprietà letteraria riservata ##


Giulio Cesare Chiarini


NOTA: in copertina la cabina di pilotaggio e i comandi di volo originali del Ford Trimotor

 

Good luck, Ugo




Ugo Paolillo ci ha lasciato per sempre a causa di un tragico incidente di volo avvenuto ieri, 11 luglio 2023, nei cieli di Rieti a bordo del suo amato “Papero” – come affettuosamente lo avevamo soprannominato -, il suo Fournier RF-3 ultraleggero.

Ci ha lasciato alla veneranda età di 83 anni, 60 dei quali vissuti volando ovunque e indifferentemente con aeroplani, alianti, motoalianti e ultraleggeri vari, biplani compresi.

Nonostante il suo vigore fisico e intellettuale, letterariamente parlando era assai timido tanto che aveva deciso di celarsi dietro uno pseudonimo, A-hug, e poi dietro il cognome della mamma danese firmandosi con un anonimo Hugo Christensen.

E’ stato autore di alcuni pezzi giornalistici di notevole fattura, peraltro pubblicati nella rivista VOLO A VELA, ma lo ricordiamo con particolare affetto per aver partecipato – dietro minacce neanche troppo velate – alla prima e alla seconda edizione del nostro Premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE. Al primo tentativo si era classificato al X posto con uno stralcio del romanzo – allora inedito – intitolato “Dove il tempo non era mai stato” che poi pubblicherà con l’editore Logisma dopo una lunga e faticosa elaborazione cui abbiamo avuto l’onore e il privilegio di collaborare.

E’ con questo racconto, “Good luck, Pesciolino“, inserito nella I antologia del Premio della I edizione del Premio,  che intendiamo ricordare Ugo. Perché da questo testo si evince non solo la sua conoscenza enciclopedica del mondo del volo ma anche e soprattutto quella sottile ironia molto “british” nonché la sua promettente capacità narrativa che aveva solo necessità di maturare accresciuta dall’esercizio.

Proprio  il giorno prima del suo ultimo decollo ci eravamo confrontati sulla riedizione del suo romanzo che Ugo voleva più snello, più cinematografico … 

Non amava parlare di sé ma siamo certi – e non avevamo mancato di comunicarglielo – aveva tutte le carte in regola per diventare un giovane talento letterario alla Camilleri maniera.

Deteneva il record di volo con aliante – ancora oggi imbattuto – di oltre 1000 km con punti di partenza e di volo prefissati svolto interamente in territorio italiano, lungo la dorsale appenninica e in termica. E ha compiuto questa impresa lungamente cercata e poi concretizzata con un aliante neanche di ultimissima generazione (Nimbus 2).

Da questa esperienza ha tratto il racconto: “La prima termica del mattino” che è ospitato nel nostro hangar e che ha firmato con lo pseudonimo A-HUG.

Con il medesimo pseudonimo aveva  firmato invece i racconti : “La Daunia brucia! ” e “Imprese inutili“, ugualmente ospitati nel nostro hangar.

Non ultimo aveva già messo mano a un secondo romanzo del genere thriller-poliziesco ispirato e sostenuto da quell’enorme bagaglio materiale accumulato nel corso della sua lunga carriera di magistrato. Chissà …

Vola alto e lontano, Ugo. E, parafrasando il titolo del tuo racconto di esordio: “Good luck, Ugo”!





Nel sito sono ospitati i seguenti racconti:


Nel cielo di Cecenia


La Daunia brucia!

Imprese inutili

La prima termica del mattino

Joseph Heller. Comma 22.

Joseph Heller, autore di “Comma 22”, nato nel maggio del 1923 e scomparso nel dicembre 1999

«Vuoi dire che c’è un comma?».

«Certo che c’è un comma»,

rispose il dottor Daneeka,

«Il comma 22. Che dice: “Tutti quelli che desiderano di essere esonerati dal volo attivo non sono veramente pazzi”».

Se volava era pazzo e non doveva più volare; ma se non voleva volare era sano di mente e doveva volare.

Yossarian fu molto impressionato per l’assoluta semplicità di questa clausola del comma 22 […]

«È davvero un bel comma, quel comma 22», osservò.

Yossarian è un pilota bombardiere dell’ USAF di stanza con il suo gruppo di bombardieri a Pianosa, in Italia, durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il romanzo di Joseph Heller ha conosciuto un’immediato successo a partire sin dalla sua pubblicazione (avvenuta nel 1961) e poi durante tutto il corso degli anni a venire; ecco spiegate le numerose diverse copertine di cui mostriamo una carrellata; sicuramente la copertina più efficace e dunque più indovinata è proprio quella utilizzata a mo’ di copertina di questa recensione

Joseph Heller è lo scrittore aviatore che, nel 1955, ha raccontato le gesta del capitano Yossarian, l’antieroe e suo alter ego, e dei suoi commilitoni nel romanzo Comma 22 (10 milioni di copie vendute), osannato dalla critica letteraria e definito, dal Chicago Times: “Un capolavoro apocalittico” e dall’Espresso, “la Bibbia dell’antimilitarismo”.

«Non ho mai pensato a Catch-22 come a un romanzo a fumetti»,

ha dichiarato Heller sul New York Times,

In occasione del centenario della nascita dell’autore, Massimo Conti ha ritenuto doveroso ricordare la figura di Joseph Heller e quindi recensire brevemente la sua opera letteraria più famosa che, come non si risparmia di sottolineare una delle copertine dell’edizione italiana, è stata stampata nel mondo in ben più di 8 milioni di copie!

«[Ma] … volevo che il lettore si divertisse, e… volevo che si vergognasse di essersi divertito. La mia inclinazione letteraria… è più verso il morboso [raccapricciante] e il tragico. Si sta verificando una grande carneficina [la morte] e la mia idea era di usare l’umorismo per rendere ridicole le cose irrazionali e molto terribili».

Heller, in seguito, affrontò lo stesso tema, ripescando figure, personaggi e situazioni da quella sua esperienza bellica in Italia, in una sua commedia di successo: Bombardammo New Haven.

Assieme agli altri militari e aviatori protagonisti di Catch 22, il titolo in originale in inglese, Il tranello 22 – il cappellano Shipman, il colonello Catchcart, Dunbar, Milo Minderbinder, il maggiore Maggiori – un ruolo importante è riservato all’aeroplano sul quale Yossarian è costretto suo malgrado a volare: il B-25 Mitchell della 265a Squadriglia. Lui è pigiato dentro la prua vetrata dell’aereo con il compito di sganciare le bombe sul nemico al momento opportuno, cosa che spesso fa con molta disattenzione, più preoccupato di andarsene alla svelta dal cielo pieno di sbuffi neri della contraerea tedesca, che di colpire il bersaglio. Non si capacita perché quelli là sotto ce l’abbiano proprio con lui:

Il velivolo su cui operò l’autore del volume in qualità di puntatore-bombardiere in una foto dell’epoca. Fu perduto nel gennaio del 1945 a seguito di una collisione in volo con un altro B-25. (foto proveniente da www.flickr.com)

«Che intendono uccidere della gente che nemmeno conoscono».

Cerca pure una spiegazione logica chiedendo al commilitone e amico Clevinger perché

«Stanno per uccidermi […] perché sparano contro di me».

Tenuto conto del gran numero di velivoli costruiti e di quelli sopravvissuti e/o restaurati, a tutt’oggi risultano perfettamente volanti numerosi B-25 che non mancano mai di nobilitare le manifestazioni aeree statunitensi. Questa immagine è stata scattata nel 2010 all’Auburn-Cord-Duesenberg Festival di Kendallville, Indiana, USA (foto proveniente da www.flickr.com)

Clevinger risponde che:

«Sparano contro tutti»,

e la replica del capitano Yossarian è degna di una battuta di Woddy Allen:

«E che differenza fa?», domanda con stizza.

Yossarian tiene a una sola cosa: portare alla svelta a casa la pelle. E ci si mette d’impegno. I suoi superiori invece fanno di tutto per trattenere lui e suoi compagni sul fronte di guerra aumentando di volta in volta il numero minimo di missioni da compiere per essere congedati: prima quaranta, poi cinquanta, e via via di decina in decina.

Heller, come il protagonista del suo romanzo Yossarian, dieci anni prima di scrivere Comma 22 è ufficiale puntatore a bordo di un B-25 Mitchell che nel libro descrive, come

«macchine molto stabili, scure, color verde opaco, con due timoni e due motori e ali molto lunghe. Il loro unico difetto […] era il troppo stretto passaggio che lo univa al più vicino portello di emergenza. Il passaggio era costituito da un cunicolo aderente, scavato sotto la plancia degli strumenti e un uomo robusto come Yossarian poteva sgattaiolarci dentro con notevole difficoltà».

Il velivolo protagonista del romanzo di Joseph Heller è sicuramente il B-25, monoplano terrestre a doppia coda e ala media alimentato da due motori Wright Cyclone da 1.700 cavalli che prende il nome dal famoso pioniere del “potere aereo”, il generale di brigata William “Billy” Mitchel. Nel ruolo di bombardiere medio, era capace di trasportare una buon carico bellico (circa 2200 chilogrammi di bombe), ma in realtà era dotato di un pesante armamento difensivo che lo rese particolarmente versatile nel corso del conflitto in quanto svolse missioni di bombardamenti ad alto e basso livello, mitragliamento, fotoricognizione, pattugliamento sottomarino e persino come caccia. A partire dal 1939 fino al 1945 ne furono prodotti circa 10’600 esemplari nelle varie versioni. Si dimostrò prezioso in tutti i fronti in cui fu impiegato da quello del Pacifico – in cui si rivelò un’arma fondamentale –  a quello europeo, e nordafricano. Fu la colonna portante dell’USAAF (l’Aviazione dell’esercito USA) e, dopo la guerra, fu utilizzato per alcuni anni anche da altre aviazioni sparse ai quattro angoli del pianeta. (foto proveniente da www.flickr.com)

Così nel naso di plexiglass del suo B-25, Yossarian assieme a sé non ci voleva nessuno, nemmeno l’ufficiale di rotta Aarfy, quando da sotto, già loro sul bersaglio, arrivano i colpi della contraerea. Voleva via libera verso l’agognato portello d’emergenza che significava la salvezza e imprecava ogni volta contro i progettisti del Mitchell perché non avevano ne avevano previsto uno anche in

«quella maledetta vaschetta per pesci rossi sospesa mentre quelle sporche maledette bordate di artiglieria gli tuonavano e rimbombavano ed echeggiavano tutt’intorno e di sopra e di sotto con un malvagità crescente e crepitante e fantasmagorica e cosmologica che screpava e sballottava e fracassava e assordava e perforava, e minacciava di annichilire tutti in un frammento di secondo dentro un ampio lampo di fuoco. Aarfy non gli era mai stato utile come pilota di rotta».

Joseph Heller ha ventidue anni quando raggiunge in Corsica il 488° Squadrone bombardieri, “The Avengers”, del 340° Bomb Group, 12° Air Force. Si è arruolato, a diciannove anni, due anni prima, nel 1942. I suoi genitori sono ebrei emigrati dalla Russia. Il padre, Isaac, è arrivato negli Stati Uniti nel 1913, è un simpatizzante dei socialisti e per mantenere la famiglia fa le consegne per conto di una panetteria. Gli Heller, una famiglia di povera gente, vivono a New York, a Coney Island, nel quartiere di Brooklyn dove Joseph nasce il 1° maggio del 1923. Lui è il più piccolo dei tre figli: ha una sorellastra, Sylvia, e un fratellastro, Lee. A sei anni Joseph perde il padre in seguito alle complicazioni subentrate dopo un intervento chirurgico. La madre ha serie difficoltà con la lingua del paese di adozione e la famiglia, privata dello stipendio di Isaac, non se la passa affatto bene.

Questo B-25, appositamente restaurato e riverniciato secondo la livrea del 488 Bomb Squadron che nel corso della II Guerra Mondiale era basato in Corsica, ha assunto le sembianze del mitico ‘LI’l Critter From The Moon’, proprio quello su cui svolse le sue missioni l’autore di “Catch 22”. La foto è stata scattata nel 2015 all’interno dell’hangar verniciatura del Museo Imperiale della Guerra di Duxford, Cambridgeshire, in Regno Unito, viceversa, oggi lo possiamo trovare appeso a fare bella mostra di sé sempre all’interno del American Air Museum proprio di Duxford (foto proveniente da www.flickr.com).

Quando Joseph si diploma alla Abraham Lincoln High School nel 1941 scrive già da tempo racconti e novelle.

Nel dicembre di quello stesso anno, dopo aver subito un attacco dei giapponesi alla base navale di Pearl Harbor, gli USA entrano in guerra. Per risollevare il morale della nazione il presidente Roosevelt approva una rappresaglia contro il Giappone. Una squadriglia di bombardieri compirà un ardito raid per colpire infrastrutture civili e militari a Tokio. Un’azione dimostrativa per lanciare un bellicoso messaggio ai vertici militari giapponesi e all’imperatore Hirohito che regnava dal 1926, per diritto divino, e sognava di dare al suo popolo un vasto impero conquistando più terre possibili nel sud-est asiatico: non siete invincibili e possiamo colpirvi ovunque, anche a casa vostra, c’era scritto sulle bombe che piovvero sulla capitale giapponese. Il compito di guidare la missione quasi sucida è affidato al colonello ed eroe dell’aviazione James Doolittle, Jimmy per gli amici, un californiano già famoso come audace aviatore che nel 1932 aveva stabilito il record di velocità. 

Nello stesso anno in cui i bombardieri Nakajima 97, gli Aichi 99, scortati dai caccia Mitsubishi Zero, indisturbati si fiondano in picchiata sugli incrociatori e le corazzate alla fonda nella baia di Pearl Harbor nell’isola di Ohau nelle Hawaii, a nord-ovest di Honolulu, il futuro scrittore Joseph Heller già lavora. Si era diplomato alla Abraham Lincoln High School, aveva subito iniziato a lavorare in un’agenzia di assicurazioni in qualità di archivista. Poi trovò un impiego come aiutante fabbro presso il Norfolk Navy Yard.

Nell’ottobre del ’42 si arruolò nell’aviazione e ottenne i gradi di ufficiale dopo aver frequentato la scuola cadetti. Quando nel ’44 fu inviato al 488° Squadrone della dodicesima forza aerea in Corsica.

Aveva cucito sulla tenuta di volo il grado di tenente addetto al puntamento per lo sgancio delle bombe, proprio come il pavido Yossarian di Comma 22.

«La guerra è quasi divertente all’inizio, avevi la sensazione che ci fosse qualcosa di glorioso in quello che facevi. Al ritorno a casa mi sono sentito un eroe. La gente pensa che sia stato notevole che io abbia volato su di un aereo da combattimento per sessanta missioni, anche se dico che erano in gran parte milk runs, come si diceva in gergo: lente e noiose missioni, dove non succede niente di che».

Yossarian non sarebbe d’accordo. Heller rimase in Corsica a combattere da maggio a ottobre del 1944. Alla trentesima missione però si dovette ricredere: volare in un cielo di guerra non è certo una passeggiata.

Era in volo verso Avignone, sul fiume Rodano, nel sud-est della Francia che quel giorno era l’obiettivo da bombardare. Lui è accucciato nella “vasca dei pesci rossi” sul muso del suo B-25 quando il copilota perde la testa e quindi il controllo dell’aereo che iniziò a picchiare schiacciando il corpo di Heller contro la parte superiore del vano trasparente di prua, dove lui stava in qualità di puntatore. Il comandante riprese il controllo del loro B-25 e il giovane tenente di Coney Island si rese allora conto che dentro quegli aeroplani si rischiava veramente la pelle; la morte lo aveva sfiorato.

Cosa poteva vedere il mitragliere di prua del B-25 Mitchell? Esattamente quanto testimoniato da questo scatto d’epoca. Le cronache storiche riportano che il B-25 fosse un bombardiere particolarmente rumoroso tanto che costò l’udito a parecchi equipaggi che lo utilizzarono durante il conflitto (foto proveniente da www.flickr.com)

Durante quell’incursione il mitragliere di coda rimase gravemente ferito e Heller rimase molto impressionato tanto da riproporre quell’episodio in Comma 22. La vittima è il compagno di Yossarian, Snowden, un ragazzo che conosceva appena, e che

«era stato ferito malamente e giaceva nel freddo della morte in una pozzanghera di luce gialla e assolata che gli scendeva sul viso da una feritoia dell’aereo […] Dobbs [il pilota, N.d.R.] l’aveva implorato attraverso il collegamento radio di soccorrere il mitragliere. […] Snowden giaceva sul pavimento con le gambe divaricate, appesantito e ostacolato dalla tuta protettiva, con in testa l’elmetto con le cinghie del paracadute e il Mae West sulle spalle».

Heller concentra tutto l’orrore della guerra in cinque dense pagine in cui descrive nel dettaglio l’agonia del compagno, mentre cerca di soccorrerlo tamponando le orribili ferite causate dalle schegge di un colpo di contraerea. Con la cassetta del pronto soccorso, dove qualcuno ha rubato dodici fiale di morfina per rivenderle al mercato nero, cerca in tutti i modi di alleviare il dolore di Snowden che continua a ripetere con un filo di voce

«Ho freddo, ho freddo»,

e lui che gli risponde:

«Andrà tutto bene, ragazzo, su, su andrà tutto bene».

Yossarian si è fatto ricoverare in un letto di ospedale per una finta malattia, per cercare di sfuggire all’ennesima missione di guerra e nel dormiveglia di una notte insonne ripensa alla morte di Snowden. Ma è come fosse Heller in prima persona che racconta e rivive l’episodio, anni dopo nel momento della stesura del libro. Come per Yossarian il ricordo è talmente vivo da togliergli il sonno, allo stesso modo allo scrittore di New York è necessario potersene liberare sublimandolo per mezzo della scrittura.

Una delle foto più memorabili della storia statunitense della II Guerra Mondiale: il decollo di un bombardiere medio terrestre modello B-25 dell’USAAF (Aviazione dell’Esercito USA) dal ponte di volo della … portaerei  statunitense USS Hornet che fu l’inizio dell’operazione organizzata e comandata dal colonnello James H. Doolittle: bombardareTokyo! Il “Doolittle Raid”, così fu chiamata, fu la prima missione statunitense di bombardamento della capitale giapponese e del suolo giapponese. Non ebbe un risvolto militarmente significativo, tuttavia strategicamente e psicologicamente dimostrò che il Giappone non sarebbe rimasto inavvicinabile e soprattutto impunito. In realtà non uno ma ben 16 velivoli B-25B Mitchell furono lanciati in volo con a bordo 5 uomini di equipaggio, privi di armi difensive e di scorta di caccia ma con una quantità minima di bombe. Il loro sarebbe stato un volo senza ritorno giacché non avrebbero potuto atterrare sulla portaerei (o ammarare nei suoi pressi) ma solo raggiungere la Cina. La storia narra che uno solo di essi giunse indenne a Vladivostok (in Unione Sovietica) mentre gli altri tentarono atterraggi di fortuna che, senza più carburante, furono rovinosi ma in territorio cinese. La vicenda è stata raccontata nella parte finale del film “Pearl Harbour” del 2001 (foto proveniente da www.flickr.com)

Heller rientrato in patria dopo la guerra, nel 1945, sposa Shirley Held. Nel 1952 nasce Erica e quattro anni dopo Theodore. Un anno dopo la nascita della prima figlia, Heller inizia a scrivere il suo romanzo partendo da una frase, quella che apre il primo capitolo e che pare gli sia sgorgata come d’incanto. Non pensa subito a un romanzo, ma tutt’al più ad un racconto: non ne è così entusiasta e decide di proseguire a scriverlo solo se qualcuno è disposto a pubblicarlo. Il titolo cui ha pensato è Catch18, ma lo cambia in Catch22 per non confonderlo con un altro libro dal titolo analogo, uscito anni prima: Mila18 dello scrittore Leon Uris, quello di Sfida all’O.K. Corral ed Exodus.

Il romanzo di Heller esce nel 1961: la critica è divisa. Il Chicago Sun-Times parla del «miglior romanzo dell’anno», mentre altri lo considerano «disorganizzato, illeggibile, e grossolano». In Inghilterra diventa subito un best sellers. Per i giovani Yossarian diviene il portabandiera dell’antimilitarismo.

Dopo il coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra in Corea nel 1951, nell’anno di pubblicazione di Comma 22, il governo americano muove i primi passi che porteranno la potenza USA a intervenire in Vietnam.

«Inizialmente Comma-22 istigava ogni addetto alla censura a mettere il proprio nome su ogni lettera incontrata»,

racconta Heller nel 1977 alla rivista The Sixties.

«Poi, andando avanti, creai deliberatamente situazioni contradittorie ed elaborai degli stratagemmi narrativi. Iniziai ad allargare l’applicazione del Comma-22 per abbracciare porzioni sempre più ampie del sistema sociale. Comma-22 divenne una legge: «loro» possono farci qualsiasi cosa che noi non siamo in grado di impedire «loro» di fare. […] Yossarian è convinto che non ci sia nessun comma 22, ma non importa fino a quando la gente crederà che ci sia. Di fatto nessuno dei punti di vista – il sospetto e la sfiducia nei confronti degli ufficiali del governo, il senso d’impotenza e persecuzione – coincideva con le mie esperienze come bombardiere durante la seconda guerra mondiale.

Uno splendido B-25 perfettamente efficiente che potremmo incontrare in tutta la sua folgorante bellezza in una di quelle tante manifestazioni aeree che si tengono periodicamente in ogni dove degli Stati Uniti (foto proveniente da www.flickr.com)

I sentimenti antimilitaristi e antigovernativi del libro appartengono al periodo successivo. Comma 22 era più politico che psicologico. Nel romanzo l’opposizione alla guerra contro Hitler era data per scontata. Il libro affrontava invece i conflitti esistenti tra un uomo e i suoi superiori, tra di lui e le sue istituzioni. La lotta più dura è quando uno non sa chi lo sta minacciando e lo sta sfinendo, ma sa comunque che c’è una tensione, un antagonista, un conflitto di cui non è possibile immaginare la fine. […] In un modo o nell’altro, ogni personaggio nel romanzo è in balia di qualche contesto. Alterno situazioni in cui l’individuo è in conflitto con la società a situazioni in cui la società stessa è il prodotto di qualcosa di oscuro […] che sfugge ai limiti della ragione.

Ma c’è una frase che vale tutto il libro e con questo chiudo questa recensione: 

«Apri gli occhi, Clevinger. Non fa una dannata differenza chi vince la guerra con qualcuno che è morto… Il nemico è chiunque ti prenda. Ucciso, non importa da che parte stia».


Testo a cura di Massimo Conti, didascalie della Redazione di VOCI DI HANGAR



Articolo giornalistico / Medio – lungo

Inedito

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Massimo Conti