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Ali diplomatiche. In Svezia con le cordelline

titolo: Ali diplomatiche

autore: Bruno Servadei

editore: Amazon (autopubblicazione)

pagine: 285

anno di pubblicazione: 2019 (seconda edizione)

ISBN: 978-1679497445




Dopo un decennio di “Vita da cacciabombardiere e alcuni anni di servizio presso il Ministero Difesa Aeronautica dove le sue ali sono diventate “Ali di travertino“, per Bruno Servadei si apre un altro capitolo della sua carriera.

Deve andare in Svezia come Addetto Aeronautico presso le Ambasciate di Svezia e di Norvegia. Un compito non certo facile, diverso da quello di pilota. Ma un ufficiale che esce dall’Accademia è soprattutto un professionista del comando, non solo del pilotaggio. E la sua carriera passa attraverso diversi tipi di incarichi, anche attraverso incarichi diplomatici come questo. Le sue, d’ora in poi, saranno “ali diplomatiche”; da qui prende spunto il titolo del libro.

Il primo capitolo è introduttivo, ma fondamentalmente tratta della partenza da Roma e del viaggio verso la Svezia. Inutile dire che la narrazione cattura immediatamente il lettore, questa è una costante, nei libri di Servadei. Così, senza accorgercene, finiamo coinvolti nel viaggio, nella ricerca di casa, nei primi contatti con la nuova realtà.

L’autore ritratto con indosso la divisa adorna delle famose cordelline mentre si intrattiene in compagnia dell’allora capo delle Forze Armate svedesi in occasione di una delle svariate cerimonie ufficiali cui dovette partecipare per dovere d’ufficio (foto fornita dall’autore)

I capitoli si susseguono e prendono in esame una moltitudine di aspetti che riguardano non solo la Svezia, ma anche la Norvegia. Riguardano gli usi e costumi tipici dei popoli scandinavi, le cerimonie ufficiali e la vita comune.

Lentamente, pagina dopo pagina, conosciamo i paesaggi, le automobili dell’epoca, le leggi locali…

Le associazioni, e le attività che queste svolgono, e alle quali Servadei deve prendere parte, senza potersi sottrarre se non in casi estremamente rari, finiscono per introdurre il lettore in una realtà che ben poco ha a che vedere con la nostra. Tutto è diverso a quella latitudine. Tanto da farci temere che per un italiano sia troppo difficile uniformarvisi.

Scopriamo sin da subito, invece, che l’autore non è davvero un italiano tipico. Lui si uniforma senza difficoltà.

Da ottimo sportivo, entra facilmente negli usi e costumi svedesi. Ha esperienza di tanti tipi di sport, sci, bob, pattinaggio, tennis, sport nautici, tiro con armi di ogni tipo.

In uno dei primi capitoli Bruno Servadei ci ricorda che: “In quei tempi la piccola Svezia, con le sue centinaia di Draken bisonici, era la terza forza aerea del mondo, dopo USA e Unione Sovietica, e questo ci impressionò molto”. Un aspetto non proprio trascurabile tenuto conto che la “piccola Svezia” era anche una nazione neutrale benché a ridosso del colosso bolscevico, esposta in tutti i suoi confini terrestri e marini a un possibile improvviso attacco (come la Blitzkrieg – la guerra lampo operata dai tedeschi aveva ben insegnato nel corso della II Guerra Mondiale). La premessa dell’autore è poi ancora più illuminante: “Bisogna ricordare che noi nel 1961 volavamo sul vecchio T6 e i nostri reparti da caccia viaggiavano ancora su velivoli della classe 80, tutti subsonici, o al massimo, appena supersonici in picchiata (foto proveniente da www.flickr.com)

Un’altra bella immagine del Saab J35 Draken che nelle sue diverse versioni (elaborate nel corso degli anni) ha equipaggiato le forze aeree svedesi a partire dal 1960 fino a tutto il 1999. Si trattava di un caccia inizialmente progettato per essere un ottimo intercettore (dei bombardieri ad alta quota) ma che poi si rivelò capace anche di buone doti di dogfight-combattimento manovrato. In questa foto risalta l’insolita (per non dire rivoluzionaria) ala con architettura a doppio delta. Tuttavia le specifiche più singolarei stabilite dai vertici militari svedesi e ai quali gli ingegneri della Saab risposero con il Draken erano quelle secondo le quali il velivolo avrebbe dovuto essere rifornito e riarmato in soli 10 minuti da personale minimamente addestrato allo scopo e inoltre il suo carrello gli avrebbe dovuto consentire il decollo da strade pubbliche (appena rinforzate), che, in caso di conflitto, avrebbero dovuto sostituire le basi aeree. (foto proveniente da www.flickr.com)

Non solo è all’altezza dei nordici, ma spesso ne sa anche qualcosa di più.

Troviamo descrizioni di pranzi, cene, colazioni. Tutto ciò fa parte della realtà del mondo diplomatico. Tutto è formale, in quel mondo. Tutto si svolge secondo modalità consolidate nel tempo, che bisogna conoscere e seguire alla lettera, altrimenti si rischia di fare figuracce imbarazzanti.

Perfino nei brindisi, con il classico skol, che si dovrebbe scrivere skal, ma col pallino sopra la “a” che si legge “o”, c’è un rigoroso cerimoniale da seguire scrupolosamente.

“Seduti a tavola prima di qualsiasi azione bisognava attendere che il padrone di casa facesse il brindisi di benvenuto, che spesso era anche preceduto da un discorsetto”,

spiega Servadei.

E continua:

“Lo skol iniziale, detto anche round skol perché interessava tutti i convitati, prevedeva che il padrone di casa alzasse il bicchiere fino all’altezza dello sterno invitando tutti a fare lo stesso, guardasse negli occhi ogni invitato, pronunciasse la parola skol, bevesse un sorso dal bicchiere, lo riportasse all’altezza dello sterno, riguardasse tutti i convitati e finalmente posasse il bicchiere e si sedesse”.

La copertina del libro di Bruno Servadei nella sua prima edizione pubblicata a cura delle SBC edizioni

A questa fase iniziale segue tutta una serie di azioni rituali per il tempo dell’intera cena e anche oltre.

Questo, però, è solo l’inizio. Non esistono solo i pranzi e le cerimonie ufficiali nella routine della sua attività diplomatica.

Il libro apre lo sguardo del lettore su una moltitudine di aspetti della diplomazia. Scambi commerciali di ogni tipo, solo alcuni dei quali riguardano gli armamenti e le faccende militari, perché insieme a queste, collegate a volte a doppio filo, ci sono accordi e commesse in ogni settore industriale.

La Svezia, inoltre, specialmente prima del 1989, quando cadde il “muro di Berlino”, ma anche dopo, si trovava pericolosamente stretta tra un mare interno, il Baltico, e il mare del Nord. Da ognuno di questi mari poteva arrivare, veloce e improvvisa, qualunque azione aggressiva da parte dell’Unione Sovietica. E questo apre tutta una serie di considerazioni interessantissime, che Servadei non si risparmia nel trattare.

L’autore presenzia alla manifestazione aerea svedese cui partecipò – evento di tutto rilievo – la PAN – Pattuglia Acrobatica Nazionale italiana nel corso di una turnèe internazionale. La singolare nomina di addetto militare in Svezia – lo ammette l’autore – era stata provocata perché, nel corso del suo precedente incarico presso lo Stato Maggiore dell’Aeronautica a Roma, aveva piantato non poche grane all’industria aeronautica italiana e dunque, presumibilmente, il sistema lo aveva “premiato” sbattendolo nel luogo più remoto e più ostico tra tutte le rappresentanze diplomatiche della Repubblica Italiana: la Svezia, appunto. Bruno Servadei nel ruolo di un Checco Zalone ante litteram? Probabile! (foto fornita dall’autore)

Ciononostante non era raro che qualche sottomarino di oltre cortina sconfinasse fino a raggiungere i dintorni della città di Stoccolma che aveva il mare tutto intorno.

Negli anni di permanenza in Svezia e Norvegia Servadei ha modo di visitare la struttura difensiva e i reparti dei due paesi. Ha modo di collaudare diversi mezzi. E di conoscere i comandanti delle diverse Forze Armate.

Interessante il racconto di una competizione tra addetti e personalità varie che si svolgeva nella parte più a nord del territorio scandinavo. Quella storia, dall’inizio alla fine, viaggio compreso, lascia incollati alle pagine.

Gli addetti militari facevano anche viaggi all’estero e Servadei si trova a visitare l’Islanda, un paese che vorrei tanto visitare anch’io. E forse un giorno lo farò.

Servadei ha modo di partecipare al cinquantenario della Crociera Atlantica di Italo Balbo. Gli Atlantici vi fecero scalo prima di affrontare la difficilissima traversata dell’Oceano. Altra parte interessantissima.

Da sempre spero che si concretizzi la creazione di un museo ad Orbetello, località che fa parte della mia terra di origine e dalla quale la squadriglia di Balbo era partita.

Il celebre pilone di ormeggio che fu utilizzato in occasione delle due missioni polari effettuate a mezzo di dirigibili. Si trova nella famosa Baia del Re o Kingsbay, il fiordo situato nell’isola di Spitsbergen occidentale, la più estesa dell’arcipelago delle isole Svalbard, in Norvegia, in prossimità dell’ex città mineraria di Ny Alesund, Oggi il pilone è un monumento storico nonché un supporto prezioso per tutta una serie di sensori scientifici che vi sono collocati a diverse altezze … ma nel 1926 vi attraccò il dirigibile Norge e nel 1928 lo sfortunato dirigibile Italia (foto fornita dall’autore)

Dulcis in fundo, un’altra escursione di estremo interesse viene descritta da Servadei. Le isole Svalbard, erano state l’ultimo trampolino di lancio della spedizione di Nobile verso il Polo Nord. Parliamo del secondo viaggio di Nobile, quello dove il dirigibile Italia naufragò sui ghiacci.

La vicenda della “tenda rossa” è una delle pagine più dolorose della storia dell’aviazione italiana: una parte dell’equipaggio del dirigibile Italia (8 membri e una cagnetta) visse 48 giorni sul pack in attesa dei soccorsi avendo come riparo una tenda divenuta rossa (ma solo per qualche giorno) grazie all’anilina con la quale era stata tinta affinché fosse più facilmente avvistata. Lo scatto ritrae il monumento dedicato ai caduti della “tenda rossa”, appunto. In concreto si tratta di circa quattro metri quadrati di terreno nella Baia del Re concessi da Olaf V, allora re di Norvegia. Fu inaugurato nel 1963 ed è anche detto il “monumento delle otto croci’ in quanto caratterizzato dalla presenza di otto croci a rappresentare gli otto membri dell’equipaggio periti nella missione. Alla base vi sono racchiuse 20 formelle di marmo provenienti da tutte le regioni italiane mentre un piccolo contenitore custodisce le letterine dei bambini delle scuole italiane e le lettere di Nobile, Biagi, Viglieri e Mariano, gli unici superstiti allora ancora in vita. In realtà gli uomini periti nel corso della missione polare e quelli che perirono per portare soccorso ai sopravvissuti furono in totale 17 e tra questi, sicuramente più famoso è il celebre esploratore polare Roald Amundsen, vero e proprio mito del mondo scandinavo, eroe nazionale norvegese nonché grande amico-nemico del generale Umberto Nobile, capo della missione italiana (foto fornita dall’autore)

Servadei doveva collocare una placca che ricordasse l’episodio e il sacrificio di coloro che persero la vita nell’impresa.

Gli altri, Nobile compreso, furono protagonisti di un salvataggio che ormai tutti conoscono per via del famoso film “La tenda rossa“. A salvarli fu una nave rompighiaccio sovietica. A questo punto, però, il discorso si farebbe davvero troppo ampio; rimandiamo alla lettura di altri libri di cui sono disponibili le relative recensioni in VOCI DI HANGAR come “La coda di Minosse” o “L’ultimo volo” oppure “Ali e poltrone“. L’equipaggio della nave, dopo aver salvato i naufraghi, ebbe un trattamento inquietante da parte del loro stato. Tipicamente, sparirono non si sa dove.

La nave rompighiaccio con il quale l’autore compì la sua crociera nel profondo Nord del continente europeo. Niente di aeronautico, per carità, ma pur sempre inerente i suoi doveri di rappresentante diplomatico ben inserito nella sua realtà locale. In effetti tutto il romanzo ha una componente aeronautica abbastanza limitata (diversamente dagli altri a firma di Bruno Servadei) tuttavia l’invidiabile capacità narrativa dell’autore fa sì che il lettore rimanga incollato fino all’ultima pagina, letteralmente travolto dal vortice di vicissitudini sapientemente riportate nel romanzo autobiografico (foto fornita dall’autore).

Aggiungo solo che durante gli anni da addetto militare, Servadei ebbe modo di fare anche un viaggetto tra i ghiacci, proprio a bordo di una nave rompighiaccio.

Il libro finisce con l’ordine di rientrare, un po’ in anticipo rispetto a quello che doveva essere il termine stabilito. Gli ordinano, infatti, di tornare in Italia per andare a comandare il poligono di tiro di Decimomannu, in Sardegna.

Ma questo è l’argomento del suo libro successivo dal titolo:  – Deci 83-86. Ricordi di “tiro zero

Per concludere vorrei esprimere qui un pensiero che mi ha accompagnato lungo tutta la lettura. Questo libro, come anche “Ali di travertino” e “Un pilota a palazzo“, ma perfino “Ali in valigia“, si possono considerare dei veri e propri testi di studio universitario. Sono ideali come testi complementari in diversi esami per il conseguimento della laurea in Scienze politiche e non solo. Li vedo bene anche nel corso di laurea in Scienza della comunicazione.

E perché no? … anche per qualche materia del corso di laurea in Giurisprudenza.





Recensione di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer) e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR






Ali di travertino

Un pilota a palazzo

Un mondo ultraleggero

Vita da Cacciabombardiere

Deci 83-86. I Ricordi di "Tiro 0"





 

 

 

Deci 83-86. I Ricordi di “Tiro 0”

titolo:  Deci 83-86. I ricordi di “Tiro 0” 

autore: Bruno Servadei 

editore: Amazon

anno di pubblicazione: 2008 (I edizione), 2014 e 2019 (II edizione)

ISBN: 1679471880 oppure 978-1679471889





 

Bruno Servadei, l’autore, si trovava in Svezia come addetto militare. Era lì da tre anni e il periodo di servizio all’estero stava per scadere. Infatti già si stava organizzando per il rientro in patria. Ma qualche mese prima del previsto ricevette un ordine di rientro anticipato. Il motivo? Doveva andare a comandare la base aerea e il poligono di tiro di Decimomannu, in Sardegna.

Questo bel libro autobiografico di Bruno Sevadei è disponibile con ben quattro copertine diverse. La prima è relativa alla prima pubblicazione a cura dell’editore SBC edizioni e ritrae due Fiat G91T che volano in coppia mentre le restanti tre sono il frutto di una diversificazione tra l’edizione cartacea ed elettronica del libro  nonché di un banale errore dell’autore che nel 2019 aveva immaginato di non aver terminato la procedura di autopubblicazione (già andata a buon fine dal 2014). Il contenuto, ovviamente è il medesimo. Nel corso della lettura del libro – precisamente nello spassoso capitolo dedicato alla cerimonia di festeggiamento del  venticinquennale della base di Decimomannu – l’autore ci racconterà la genesi dell’enigmatico disegno che adorna le copertine del volume e che fu realizzato per l’occasione da: “la matita magica del capo dell’SST, autore del magnifico disegno rappresentante la storia del volo che adornava la sala mensa, lo feci aggiornare inserendo i velivoli dell’ultima generazione. Poi pensai di riprodurlo su alcuni quadri in zinco, da consegnare agli ospiti di rilievo partecipanti alla celebrazione.”

Servadei descrive lo scompiglio che un ordine del genere portò in tutta l’organizzazione del rientro da una località tanto lontana come la Svezia, dovendo fare tutto in fretta, quasi senza respiro. Per scoprire, poi, che tutta questa urgenza, in realtà non c’era. Tipico della vita militare.

Comunque, a parte il rientro precipitoso, arrivato a Decimo, come veniva chiamata per brevità la base aerea, cominciò subito il periodo di affiancamento per prenderne il comando.

I ventisette capitoli del libro, per un totale di 343 pagine, prendono in rassegna tutti gli aspetti che il comando di un simile sito militare comporta.

Con il suo tipico stile chiaro, semplice, efficace nelle descrizioni, Servadei riesce a sintetizzare la complessità della vita operativa nella quale si svolgevano operazioni militari di altissima specializzazione.

Sulla base di Decimomannu erano presenti contemporaneamente diversi gruppi di volo, non solo italiani, ma soprattutto stranieri. Tutti erano lì per addestrarsi  con diversi tipi di armi. Veniva utilizzato un poligono di tiro appositamente attrezzato su una penisoletta selvaggia che si trova sulla costa ovest: capo Frasca. Su questo lembo di terra selvaggia erano presenti diversi bersagli, che si dovevano colpire con bombe o con mitragliatrici e cannoncini di bordo. Diverse squadriglie, in sequenza e con cronometrica precisione si alternavano nei passaggi. Poi, a terra, tutti prendevano visione dei punteggi conseguiti da ogni pilota.

Nel corso del suo comando della base di Decimo, contrariamente a quanto avevano fatto i suoi predecessori, il com.te della base Bruno Servadei, colse l’occasione offerta dalle presenza di numerosi diversi tipi di jet – tra i migliori disponibili nell’arsenale della NATO – per effettuare dei voli di prova rendendosi conto, ad esempio a proposito del F-15 Eagle che: “Trattandosi di una delle prime versioni aveva la strumentazione analogica che mi ha consentito di essere a mio agio e di poterlo pilotare senza problemi: in più il pilota USA mi ha lasciato ampia libertà di manovra fino all’entrata in ACMI e al rientro. E poi era un F 15, con due bestie di motori con una spinta incredibile ed una maneggevolezza da sogno anche a basse velocità.”. L’autore è quello ritratto a bordo del mastodontico F-15 statunitense e nel volume ci confida che: “Non era un fatto tipico di Decimo; l’esperienza di anni di reparto mi ha fatto costatare che nella nostra aeronautica i comandanti di stormo in genere non sono mai stati particolarmente interessati all’attività di volo.”
(foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

All’epoca, dal 1983 al 1986, esistevano già strumenti elettronici abbastanza sofisticati da poter simulare l’uso di armi aria-aria nei combattimenti aerei, i cosiddetti dog fighting.

Per questi combattimenti era stato implementato un apposito spazio aereo, dove i piloti potevano addestrarsi a combattere fra loro. I risultati apparivano su tabelloni elettronici, in una sala apposita, in modo da poter agevolmente valutare le prestazioni di ogni partecipante.

A guardarli oggi mettono i brividi ma anche all’epoca – ne siamo certi – non ispiravano certo grande fiducia … e infatti ecco cosa ricorda l’autore a proposito di: “alcune foto fatte in Sardegna nel 1984 sull’aviosuperficie che oggi si chiama “La tana del volo”, dove ho fatto il mio primo volo su un Barouder. Trovai il volo interessante, ma di certo non la ritenni un’attività su cui basare sogni futuri per volare in pensione. Del resto il passaggio dall’F104 con cui ancora volavo al Barouder è stato significativo! Quello che spiace è che oggi tutti questi velivoli sono praticamente scomparsi, e con loro una parte importante della storia del volo che invece sarebbe stato opportuno preservare in qualche museo, o tramite qualche manifestazione ad hoc, magari sponsorizzata ufficialmente dall’AeCI. Ci vorrebbe un HAG anche per i trespoli del volo, un HULMAG!” Parola di Bruno Servadei. (foto provenienti dalla pagina Facebook dell’autore)

Ecco cosa c’è nel libro. C’è la descrizione di ogni aspetto della vita che per i tre anni suddetti ha riguardato i frequentatori della base, piloti e non piloti, compreso il comandante e la sua famiglia. Qualcosa che difficilmente troveremmo, dovessimo cercare in tutte le librerie del mondo.

Non credo esista un altro libro come questo.

Non mi sono mai imbattuto in nulla che andasse oltre un semplice articolo, più o meno stringato.

Normalmente le faccende militari sono celate in una cortina di mistero, se ne parla a mezza bocca, quasi con timore e con la sensazione di rivelare segreti indefiniti.

Invece in questo libro, una volta di più, l’autore ci fa entrare nel suo mondo, ci porta con sé dentro la base di Decimomannu, ci fa conoscere le persone, gli aerei, le procedure, le difficoltà e le soluzioni, a volte geniali, di problemi complicati.

Sì, certo, non è un’immagine propriamente aeronautica ma costituisce comunque la testimonianza visiva di un incontro memorabile che l’autore così ha commentato: “La visita in Sardegna del Papa, quello tosto, che atterrò a Decimo a causa della chiusura di Elmas creandomi non pochi problemi.” (dalla pagina Facebook dell’autore)

Senza rivelare alcunché di segreto, Servadei ci permette di conoscere la realtà misteriosa che si cela oltre la garitta del personale di guardia all’ingresso dell’aeroporto militare. Un mondo che altrimenti non conosceremmo mai.

Dagli anni ottanta a oggi tante cose sono cambiate. Ma, anche se diverse, le linee guida di certe operazioni non dovrebbero essere troppo dissimili da allora. Leggere questo libro mette il lettore in grado, non solo di conoscere la storia passata della difesa aerea, ma di comprendere meglio le modalità di quella odierna, perché in molti casi ci mostra come ci siamo arrivati.

E proprio in quegli anni ottanta prendeva piede il fenomeno del volo ultraleggero. Gli ULM (Ultra Light Machine) erano tubi e tela, modelli davvero basici, con qualche esemplare un po’ più perfezionato, tanto da avere, ad esempio, una parvenza di cabina semichiusa. Sembrava che si reggessero in aria per miracolo e stessero sempre sul punto di cadere. In realtà parecchi cadevano davvero.

A parte questo, il dilagare di mezzi aerei, che allora erano classificati come attrezzi sportivi, al pari di una racchetta da tennis, pilotati da gente che poco conosceva di norme aeronautiche, era visto come una minaccia per l’aviazione commerciale e ancor più per quella militare.

Una ripresa aerea della famosa penisola di Capo Frasca con i suoi caratteristici cerchi concentrici utilizzati per identificare il punto di sgancio degli ordigni (all’occorrenza anche nucleari) (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Nel libro Servadei parla di un’aviosuperficie, o meglio, un campo di volo, che era stata costruita nei dintorni della base e dove operava proprio un club di ULM. C’era il rischio che qualcuno di loro sconfinasse in aree non consentite ed entrasse in conflitto con l’attività militare. Da molte parti si erano levate voci di protesta e Servadei, come comandante della base, era stato sollecitato a far chiudere l’attività di quei “banditi dell’aria“.

Questo episodio narrato nel libro mi ha fatto fare un vero salto dalla sedia.

C’era da aspettarsi che il comandante di una base aerea come quella di Decimo mandasse un contingente di carabinieri a sequestrare i mezzi, arrestare i piloti, recintare l’area e ad applicare sigilli affinché nessuno potesse più entrare là dentro. Mi aspettavo questa reazione, e lessi con il fiato sospeso il seguito del capitolo.

Servadei andò a visitare l’aviosuperficie e a conoscere uomini e mezzi.

Nella sua pagina Facebook così commenta l’autore questo scatto : “Decimo quando era al massimo del suo splendore. La linea di volo tedesca che feci fare in occasione del primo rischieramento dei loro Tornado, nel 1983. Poi c’erano le linee di volo inglese, quella americana e infine la nostra, sempre la più misera.” Da notare le lunghe scie nere posizionate appena dietro i velivoli che testimoniano come quelle piazzole fossero usate abitualmente per la messa in moto e le prove motori dei velivoli. Quelli tedeschi, inoltre erano i velivoli che svolgevano l’attività preponderante nel poligono di Deci in quanto, come spiega ancora nel suo libro Bruno Servadei: “La ricerca di aree idonee a svolgere attività con velivoli a getto costrinse molte forze aeree di paesi densamente popolati a cercare zone libere anche in paesi terzi.
Per questo la Germania, oberata dall’attività di volo a bassa quota dei propri cacciabombardieri, di quelli delle unità NATO ivi dislocate (USA, UK, Francia e Canada) e di quelle dei paesi più piccoli, come Olanda, Belgio e Danimarca, cercò uno sfogo all’estero. Insieme al Canada che, avendo i propri reparti di volo schierati in Germania, condivideva la stessa esigenza, prese contatto con l’Italia per l’utilizzazione di Decimomannu”

Provò anche qualche ULM in volo.

Poi, senza proibire l’attività di questi appassionati, stabilì alcune regole, limiti e altezze massime. E li lasciò volare senza problemi.

Non solo, ma dopo un po’ di tempo, approfittando di qualche giorno di chiusura della base di Decimo, invitò quel club e altri piloti di ultraleggero a venire ad atterrare sulla pista dell’aeroporto per una festa. Così i piloti militari poterono conoscere i civili e viceversa.

Ci fu un vero e proprio scambio culturale. I piloti ULM poterono vedere da vicino gli aerei militari, sapere di più della loro attività e delle loro esigenze operative e imparare soprattutto come comportarsi per non interferire nelle loro operazioni.

Complimenti, Comandante Servadei. Questa parte mi ha addirittura commosso. Come si dice in gergo… tanto di cappello!

Nel 1986 e 1987 facevo anch’io già parte del mondo ultraleggero. Volavo come istruttore su un’aviosuperficie nei dintorni di Roma, in una località dei Castelli romani denominata Pratoni del Vivaro. E questo mi fa apprezzare particolarmente l’orientamento mentale di un Comandante che, invece di proibire e chiudere, stabilisce regole e lascia volare.

Sebbene in modo marginale, la base di Decimo era utilizzate anche dall’AMI e questo è uno dei velivoli con cui l’autore usufruì dei servizi del poligono ben prima di assumerne in comando. Questo scatto vede il G-91T di Servadei in volo di rientro a Decimo da una missione di tiri Aria/Suolo durante il 10°Corso Istruttori di Tiro e Tattiche del 1968. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Un paio di capitoli, il sedicesimo e diciassettesimo, parlano dell’attività di volo che l’autore fece, per mantenere le proprie abilitazioni e il proprio addestramento, sia con velivoli italiani che con quelli stranieri.

La linea di volo italiana a Decimo nel 1968 in una delle tante missione addestrative effettuate dall’autore quando ancora prestava servizio a Gioia del Colle in qualità di cacciabombardiere. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore). Oggi la logica d’impiego dell’ex poligono è completamente cambiata come si evince dall’articolo pubblicato di cui alla pagina: https://www.lanuovasardegna.it/regione/2022/11/14/news/i-migliori-top-gun-si-addestrano-alla-scuola-di-decimomannu-1.100150806

Anche un comandante deve mantenersi allenato al pilotaggio di tutti i velivoli in dotazione alla propria forza armata, ma non è male se riesce a volare anche con quelli stranieri, che utilizzano la base e il poligono. Gli aerei non sono proprio identici, anche se dello stesso tipo. Chi comanda deve ben sapere le esigenze di tutti. Serve a fare un lavoro migliore, a gestire meglio un’attività così complessa.

Dai capitoli traspare una certa difficoltà nell’ottenere l’autorizzazione a effettuare questi voli, anche se, devo dire, nel caso dell’autore, alla fine riusciva a volare abbastanza.

La retrocopertina del libro di Bruno Servadei che, a differenza di “Vita da cacciabombardiere”, ha un contenuto meno volato ma ugualmente ben narrato secondo lo stile e la sagacia cui ci ha abituato questo autore talentuoso e, a suo modo, prolifico.

Ma la situazione deve essere peggiorata negli anni successivi, perché un mio amico, generale di brigata, in servizio proprio da quelle parti, non riusciva a volare e doveva ogni volta venire a Guidonia a fare qualche oretta per il mantenimento.

Nel libro si parla anche di feste, cerimonie, visite, giuramenti, vacanze estive. E naturalmente non mancano accenni all’interazione con il popolo sardo.

E questo è davvero un argomento interessante. Tutto da leggere.

Alla fine, però, oltre le difficoltà che immancabilmente può incontrare una struttura militare così grande, immersa in una realtà territoriale che la percepisce come qualcosa di scomodo e ingombrante, emerge la bellezza di un’isola straordinaria come la Sardegna. E si finisce per amare la regione e il suo popolo.

Servadei lasciò il comando di Decimo nel 1986 e tornò nel continente. Avrebbe preso servizio come consigliere militare presso il Quirinale. Ma questa parte della sua vita è raccontata in un altro suo libro dal titolo “Un pilota a Palazzo“, di cui potete leggere la mia recensione in questo sito.

Ovviamente ci fu una cerimonia ufficiale. C’è sempre una cerimonia ufficiale nella faccende militari.

Scrive Servadei:

“Il giorno prima di lasciare il comando feci l’ultimo volo con il mio amato F104S. Poi, fra presentat’arm e fanfare, discorsi e saluti, mollai la bandiera di guerra dell’RSSTA nelle mani del mio successore”.

 

 





Recensione di Brutus Flyer (Evandro Detti) e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Dello stesso autore sono disponibili le recensioni di: 


Ali di travertino

Un pilota a palazzo

Un mondo ultraleggero

Vita da Cacciabombardiere

Ali diplomatiche. In Svezia con le cordelline

 

 

Vita da Cacciabombardiere

titolo:  Vita da Cacciabombardiere

autore: Bruno Servadei 

editore: Amazon

anno di pubblicazione: 2008 (I edizione), 2018 (II edizione)

ISBN: 1730700632 oppure 978-1730700637





Questo è uno dei migliori libri che mi sia capitato di leggere. Almeno nel campo aeronautico.

Spiegare perché lo considero al top assoluto non è facile, ma sono certo che molti piloti, dopo averlo letto, sarebbero d’accordo con me. E’ possibile che una recensione non arrivi a trasmettere ad altri potenziali lettori cosa li attende nella lettura di questa pregevole opera. Si tratta di 429 pagine scritte con caratteri piccoli e dense di vita vissuta. Che tipo di vita? Quella di un pilota che, dopo gli anni dell’Accademia Aeronautica, si ritrova ad operare nel pieno della cosiddetta Guerra Fredda, dove per decenni ci si deve confrontare con il rischio costante di una guerra, possibilmente anche nucleare, con le forze del Patto di Varsavia.

La splendida immagine di un nuovissimo F-35 al suolo. E’ il tipo di velivoli che verranno progressivamente acquisiti dall’AMI e che dovrebbero andare a ricoprire il ruolo di cacciabombardieri che fu degli F-84 prima, poi degli F-104 e infine dei Tornado. L’autore del volume, dall’alto della sua esperienza di pilota cacciabombardiere (e non solo), ha espresso alcune considerazioni assolutamente autorevoli nella pagina web:http://www.cybernaua.it/rubriche/rubricadett.php?idnews=4083 a proposito di quei nuovi velivoli di 5° generazione che in passato sono stati al centro di numerose critiche per i costi spropositati e a causa degli innumerevoli problemi del programma di sviluppo giacché si tratta effettivamente di una macchina da combattimento multiruolo tecnologicamente molto sofisticata per non dire “rivoluzionaria” (foto proveniente da www.flickr.com)

L’autore, Bruno Servadei, è un tipo formidabile, la cui carriera comincia così, come pilota operativo di un prestigioso Gruppo di volo. Utilizza alcuni dei caccia di quel periodo, dall’inizio degli anni Sessanta in poi, macchine affascinanti che sono state il sogno di migliaia di piloti. Poi, la sua carriera prende altre strade e si inoltra in ambienti non meno interessanti, verso avventure forse ancora più prestigiose.

Comunque continua a volare, anche dopo essere andato in pensione.

Bruno Servadei ha molti meriti. Ma solamente alla fine di questa recensione rivelerò uno dei suoi meriti più importanti.

Il libro comincia con il racconto del viaggio di trasferimento da Rimini, dove l’autore aveva una casa di famiglia, verso il reparto presso il quale avrebbe dovuto prendere servizio. Infatti, il capitolo si intitola: Verso il mio reparto.

Il periodo dell’Accademia era terminato e ora lo attendeva la vera vita di Reparto di volo, la vera vita del pilota di caccia dell’Aeronautica Militare Italiana.

La macchina era una piccola BMW con motore bicilindrico di derivazione motociclistica. Un motore boxer di piccola cilindrata.

Era l’Agosto del 1963.

Già alla seconda riga si fa riferimento ad una strada che l’autore stava percorrendo: la Romea.

Ecco come un libro ghermisce il lettore sin da subito.

Una recensione, infatti, non è altro che il resoconto di quanto e come un lettore ha trovato o meno interesse a leggere il libro. Nel mio caso, già alla prima riga la mia attenzione era stata ghermita e alla seconda la mia mente già vedeva la scena come in un film.

In realtà io vedevo due film.

Lo stemma del 6° Stormo – innegabilmente uno dei più belli tra quelli dei reparti di volo dell’AMI, in termini grafici, s’intende – fu adottato quasi subito dal reparto. Rappresenta  un diavolo rosso ghignante con le mani adunche; fu disegnato da Giuseppe Zanini e non era altro che una geniale caricatura dell’allora capitano pilota Giovanni Borzoni, il quale successivamente divenne capoformazione proprio della pattuglia acrobatica “Diavoli Rossi” nata in seno al reparto. Secondo la storia ufficiale dello Stormo, quel gruppo di piloti fu all’inizio riserva della pattuglia titolare del “Cavallino Rampante”, tuttavia i “Diavoli Rossi” passarono naturalmente a pattuglia acrobatica ufficiale nel 1958. La loro prima esibizione avvenne infatti nel marzo 1958 a Bitburg in Germania, mentre l’ultima ebbe luogo nel maggio del 1959 a New York. All’epoca ogni anno, a rotazione, la pattuglia acrobatica era appannaggio di un diverso reparto da caccia dell’AMI ma nel 1961, proprio il comandante Squarcina, in quel periodo a capo della pattuglia, fu incaricato dallo Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare di costituire quella che poi divenne la Pattuglia Acrobatica Nazionale (P.A.N.), ossia una pattuglia acrobatica in pianta stabile benché composta da piloti provenienti da tutti i reparti dell’Aeronautica Militare. Ma questa è un’altra vicenda … tuttavia resta indiscutibile il dato storico che dalla pattuglia acrobatica “Diavoli rossi” nacque l’odierno 313º Gruppo Addestramento Acrobatico proverbialmente chiamato “Frecce Tricolori”. Viceversa l’appellativo “Diavoli Rossi” è rimasto una prerogativa dei membri del 6° Stormo di Ghedi.

Questa scena, molto vivida, di un ragazzo appena ventenne che percorreva la Romea in direzione di Mestre, a bordo di una piccola utilitaria, nel mondo del 1963, tanto diverso da quello di oggi, mi riportava indietro nel tempo, a quando, pochi anni dopo, anch’io viaggiavo verso un reparto dell’Aeronautica Militare dove avrei dovuto prendere servizio.

Le emozioni del passato, rievocate dalle prime due righe del primo capitolo del liro di Bruno Servadei, continuavano a emergere riga dopo riga.

Anche se la mia realtà e la sua erano certamente molto diverse (lui andava a cominciare la sua vita di pilota, io no) a quell’età l’avventura aveva comunque lo stesso sapore.

Anche questo è il distintivo dei “Diavoli rossi” ma da giacca  (quella di Bruno Servadei) e con la particolarità che riporta la dicitura 6° Aerobrigata anziché 6° Stormo, segno evidente che risale a prima del settembre 1967, data in cui l’Aeronautica Militare Italiana riorganizzò e rinominò i suoi reparti (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore:  https://www.facebook.com/photo/?fbid=10200225847597701&set=a.1045415544460)

E forse non c’entra neanche l’età, perché parecchi anni dopo, mi capitò di percorrere proprio la Romea per raggiungere una Torre di controllo di un aeroporto del Nord-Est, dove avrei preso servizio come controllore del traffico aereo. E il sapore dell’avventura era probabilmente lo stesso.

Servadei stava andando a Ghedi, in Lombardia, vicino a Brescia, dove aveva sede la Sesta Aerobrigata, famosa per un prestigioso Reparto di volo, quello dei “Diavoli Rossi“.

Il secondo capitolo descrive l’arrivo. E anche qui la sua descrizione del mondo di allora riporta alla mia mente sensazioni di vita vissuta e dimenticata.

La descrizione dei luoghi, degli ambienti, dell’umanità e dei modi di fare del tempo, sia in ambito militare che non, è talmente efficace da essere, in alcuni punti, travolgente.

Chi ha conosciuto l’Aeronautica degli anni Sessanta si sente riportare indietro nel tempo.

Oggi è tutto diverso.

Nei capitoli successivi si parla dell’assegnazione ad un reparto di volo. Non erano tutti uguali. Servadei spiega bene le differenze. A lui capita un reparto di cacciabombardieri.

Questo deciderà la sua vita operativa futura. E anche il titolo del libro.

Nel corso della lettura, dopo la descrizione del primo periodo dove le giornate erano quasi esclusivamente destinate all’immersione nella realtà del Reparto, senza prospettiva di volare se non davvero saltuariamente e comunque con un jet biposto, un T33, come quello usato alla scuola, subito dopo la fase basica, pian piano si comincia ad intravedere la linea di volo vera e propria.

Sembra trascorso un’eternità da quando, nella primavera del ’56, i primi F-84F “Thunderstreak” giunsero a Ghedi (Brescia), in quella che all’epoca veniva chiamata alla 6° Aerobrigata e che tornò a essere il vecchio 6º Stormo.
Nel 1973, dopo diciassette anni di onorato servizio, l’F-84F concluse la sua vita operativa e dunque nell’agosto del ’63 Bruno Servadei, allora giovanissimo pilota appena uscito dall’Accademia Aeronautica, se li trovò davanti appena giunto al reparto. Ma era “un verme” e, come racconta nel suo libro, per alcuni mesi li osservò solo da lontano. 
Oggi gli F84F si trovano solo al Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, in altri musei minori o negli aeroporti che li ospitarono ma solo in qualità di gate guadian o di cimelio storico.  Ad ogni modo, proprio nel giugno del ’63 giunse a Ghedi il primo F-104G dando inizio alla lunga saga dello Starfighter o “Spillone” (come lo soprannominarono i piloti dell’AMI) che si concluse il 31 dicembre 1982 dopo circa 67 mila ore di volo e dopo aver superato con successo ben 16 valutazioni tattiche a livello NATO. Non è dunque un caso che la foto di copertina del libro di Bruno Servadei mostri appaiati i due velivoli che hanno segnato la storia del 6° Stormo e, inevitabilmente, anche quella sua personale (foto proveniente da www.flickr.com).

Gli aerei erano gli F84F, un modello già superato, ma ancora valido, sebbene avesse già fatto la sua comparsa il famoso F104, che però solo pochi fortunati avrebbero utilizzato, almeno nel futuro prossimo.

E da qui in poi, per un pilota di qualsiasi tipo, l’interesse sale a livelli stratosferici. Ma è altrettanto interessante anche per i non piloti.

Servadei ci racconta tutte le fasi della transizione su questa macchina; ed è interessante seguirlo nei suoi primi voli. Conoscere le sue impressioni, le sue soddisfazioni e i suoi timori.

Il tutto, immerso nella vita quotidiana di reparto. Possiamo così “conoscere” i suoi colleghi, i comandanti, i sottufficiali specialisti e anche piloti. Si, perché a quell’epoca esistevano ancora i sottufficiali piloti. Bruno Servadei ne parla molto bene, del resto si è sempre saputo che i sottufficiali piloti erano generalmente eccellenti.

La vita di reparto viene descritta in tutti i suoi aspetti, quelli belli e… quelli meno belli. O meglio, quelli piuttosto brutti.

Con il suo modo delicato l’autore non manca di mettere a nudo gli aspetti più duri della vita nei reparti di volo di quel periodo storico.

Va detto, infatti, che gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, fino alla caduta del cosiddetto muro di Berlino, l’Unione Sovietica e i suoi paesi satelliti, costituivano una sorta di minaccia sempre presente. Parliamo, come ho detto, del periodo della Guerra Fredda, quando era lecito aspettarci un attacco, anche con armi nucleari, all’improvviso e senza preavviso. A questa minaccia si doveva far fronte subito e senza mezze misure.

Una splendida immagine che ritrae un F-104 Starfighter che sembra puntare verso il cielo. Si tratta di un velivolo che, come indica chiaramente il simbolo del reparto verniciato della deriva e il numero “6” sulla fiancata della fusoliera, era in forza al 6° Stormo. Chissà se questo esemplare fu effettivamente pilotato da Bruno Servadei? (foto proveniente da www.flickr.com)

Le forze della NATO disponevano di Reparti di caccia intercettori e cacciabombardieri, di diverse nazionalità, lungo tutta la linea di confine con i paesi sotto il controllo dell’Unione Sovietica.

Il reparto di Servadei era solo uno di questi. Gli aerei che utilizzava il suo reparto potevano essere equipaggiati con armi convenzionali, ma anche con armi nucleari. In altre parole potevano portare appesa sotto la fusoliera una bomba atomica. All’occorrenza, che ci si augurava non si verificasse mai, i piloti di questi F84 avrebbero dovuto partire, penetrare a bassissima quota nel territorio nemico, per sfuggire ai radar, raggiungere l’obiettivo stabilito, sganciare la bomba e mettere in atto la procedura di scampo per poi tornare, sempre che ci si riuscisse, alla base.

Ecco qual era il compito operativo del nostro giovane pilota e di tutti i suoi colleghi.

Oggi sarebbe difficile raccontare ai nostri giovani la realtà di quegli anni. E dubito molto che la stragrande maggioranza di loro prenderebbe l’iniziativa di leggere un libro come questo.

Una formazione serrata di Tornado, i velivoli che dal gennaio 1983 costituiscono il nerbo del 6° Stormo e che, a partire dal giugno 2022, sono stati progressivamente sostituiti dal caccia multiruolo di 5° generazione Lockeed-Martin F-35 Lightining II. Ancora oggi, come già accadeva ai tempi in cui l’autore era uno dei piloti impegnati nel servizio di allarme, il compito dello Stormo e dei suoi Tornado è quello di mantenere la prontezza al combattimento (Combat Readiness) degli equipaggi di volo, predisporre i rischieramenti in ambito IRF (Immediate Reaction Force) e, in caso di conflitto, condurre operazioni di attacco e ricognizione per difendere l’area di interesse assegnata. In realtà, in tempo di pace, lo Stormo è istituzionalmente tenuto a cooperare con le autorità civili in caso di calamità naturali (foto proveniente da www.flickr.com).

Chissà se qualche giovane, leggendo la mia recensione, si incuriosirà al punto da prendere l’iniziativa di cercare questo libro e di procurarselo per leggere di una realtà tanto estranea a quella odierna.

Ma una cosa è certa: ogni capitolo rappresenta una sorta di cortina che cela una realtà appassionante, sorprendente, illuminante.

Riga dopo riga la cortina si scosta e la realtà celata si rivela. Poco a poco, le parole di Servadei, magistralmente scelte e combinate tra loro, ci fanno entrare nei suoi ambienti quotidiani, dove viveva ogni giorno senza quasi mai uscire dalla base aerea, per settimane intere.

Non era una vita facile la sua. Neppure quella del circolo ufficiali, dove si giocava assiduamente a carte per ore e ore, quando non c’era attività di volo. A volte la nebbia fittissima della pianura dove aveva sede l’aeroporto di Ghedi non permetteva l’attività di volo e ci si trovava a dover superare la noia di giorni di inattività.

Tuttavia la nebbia, appena si diradava un poco, non riusciva a impedire l’attività di volo, che avveniva ugualmente, sebbene in condizioni di estrema difficoltà.

Servadei ci parla dei diversi profili di missione ai quali prese parte a Ghedi, mentre si formava la sua preparazione per divenire Combat Ready, cioè pronto al combattimento.

Possiamo così leggere di come avvenivano le sessioni di addestramento al poligono di tiro, con diversi tipi di armamento. Le armi erano spesso inerti, ma a volte erano vere.

E poi c’era l’addestramento al lancio della bomba nucleare. E questa era una procedura tutta particolare.

La descrizione dell’attività di volo operativo è lunga e complessa e prende una discreta parte del libro, perciò non posso neppure provare a riassumerla tutta.

Ma non mancano momenti divertenti, qua e là.

La retrocopertina del bel libro di Bruno Servadei nella sua edizione più recente pubblicata in regime di autopubblicazione attraverso il canale Amazon a partire dal 2018. Come nella migliore tradizione editoriale contiene una breve sinossi e note biografiche dell’autore (intento piuttosto arduo perché Bruno Servadei ne ha fatte davvero tante nel corso della sua carriera)

Un giorno la squadriglia di Servadei doveva fare da bersaglio ai serventi dei cannoncini della contraerea aeroportuale. Non che gli dovessero sparare davvero addosso per abbatterli. Si usava una procedura di sicurezza, come ci descrive Servadei. I cannoni avrebbero dovuto sparare dalla parte esattamente opposta a dove si trovavano gli aerei e verso il mare, per ovvi motivi.

Ma per un errore, forse di coordinamento, il radar che guidava la squadriglia li diresse verso il mare, proprio dove passavano i proiettili traccianti dei cannoni.

I piloti videro i traccianti salire verso di loro e il caposquadriglia:

“fece uno strillo per radio che probabilmente giù lo sentirono anche senza: ci fu un po’ di silenzio, poi qualcuno, con voce mesta, chiese umilmente scusa”.

Ma una situazione come questa non era un evento raro.

Poco prima Servadei aveva detto:

“… provavo un vero fastidio nel vedere che, a volte, le canne dei cannoncini ci seguivano mentre rullavamo: sarà anche stato un buon addestramento, ma era come se qualcuno ti puntasse una pistola. Va a sapere chi ci stava dietro a quell’arma e se avesse adottato tutte le precauzioni previste”.

Ancora una volta torno indietro nel tempo, agli anni settanta, quando ero in servizio. Nell’uscire dal reparto di servizio, dopo un turno di notte, stavo attraversando un piazzale e fui attirato da alcuni “click” ripetuti che provenivano da una scala d’ingresso all’ala del palazzo. C’era un aviere VAM (Vigilanza Aeronautica Militare) che mi puntava addosso il MAB (Moschetto Automatico Beretta), un mitra.

La copertina di “Vita da cacciabombardiere”, libro autobiografico di esordio del gen. pilota Bruno Servadei pubblicato nel 2008 nella sua prima edizione a cura dell’editore SBC edizioni nel formato di 438 pagine cui si riferisce il recensore. Le differenze con la seconda edizione sono effettivamente minime ed è possibile imbattersi in qualche vecchia copia attraverso i canali dell’editoria usata … ma non temete: dentro c’è comunque roba buona!

Sapevo bene che il mitra aveva un caricatore vuoto montato e che i caricatori pieni, avvolti nel cartoncino e nastrati, il VAM li teneva nella giberne. Ma… come dice Servadei, vai a sapere chi ci stava dietro a quell’arma

Il VAM sghignazzava, sopra gli scalini, e faceva scattare la sua arma, quasi a cercare la mia approvazione per il suo modo di scherzare.

All’uscita andai dall’ufficiale di picchetto, gli riferii il fatto e subito dopo andarono a sostituire quella guardia. Credo che non se la sia passata tanto liscia.

Un’altra occasione del genere avvenne a Guidonia. Trainavo gli alianti con un aereo ad elica, un Robin DR 400. Dopo ogni traino, lasciato l’aliante in quota, scendevo a duecentocinquanta chilometri orari, passavo di fianco alla testata della pista, pochi metri fuori asse e sganciavo il cavo di traino. Poi risalivo, entravo nel circuito e atterravo. Di solito c’era già un altro aliante da portare su, con il cavo appena sganciato attaccato al musetto. E la faccenda si ripeteva.

In uno di questi avvicinamenti, a qualche decina di metri di quota e ridotta la velocità a centottanta-duecento Km/h, scendevo verso la testata pista e il prato dove avrei sganciato il cavo, quando vidi, con la coda dell’occhio, un movimento sulla sommità di una specie di garitta, sopraelevata di alcuni metri da terra.

C’era una guardia, appoggiata alla ringhiera di protezione della garitta. Un VAM in servizio. Mi era sembrato che mi avesse preso di mira con il mitra, ma in quel punto ero basso, veloce e dovevo stare attento a troppe cose e non potei verificare.

L’autore ritratto accanto al velivolo con cui inizierà la sua vita/carriera di cacciabombardiere. Così racconta il primo contatto con questo tipo di velivolo: “Giunto sul rettilineo che portava al corpo di guardia all’ingresso dell’aeroporto vidi, in lontananza al di là della recinzione, quasi protetti da una foschia densa che ne rendeva vaghi i contorni, un lungo schieramento di F84F che mi procurò un brivido di emozione” (foto proveniente dal volume “Vita da cacciabombardiere”). 

Al traino successivo, però, guardai bene.

Sì. Effettivamente il furbacchione mi puntava il mitra, seguendomi nella traiettoria.

Capisco la sua noia, penso che l’arma fosse scarica e che comunque non mi volesse veramente sparare, però… non sai mai chi c’è dietro quell’arma

Andai al parcheggio. Dal telefono della nostra roulotte che fungeva da ufficio per il volo a vela civile, chiamai l’ufficiale di picchetto.

Dopo poco arrivò una campagnola militare. La guardia venne tirata giù e sostituita. Poi la campagnola tornò al corpo di guardia.

Anche in questo caso non credo che non ci sia stata alcuna punizione.

Non credo neanche che quella guardia possa aver visto chi c’era sul Robin. Ad ogni buon conto, dopo l’episodio, mi guardavo sempre intorno con circospezione, quando ero in aeroporto.

Servadei descrive l’attività al poligono in modo davvero chiaro e preciso. Così che il lettore possa avere un’idea chiara di quale sia il lavoro di un pilota cacciabombardiere.

Ma la massima espressione di questo lavoro riguarda un altro poligono, il più grande d’Europa, che si trova in Sardegna a Decimomannu. Qui si andavano ad addestrare tutti i reparti come il suo, appartenenti agli altri stati della NATO.

Andare in Sardegna, dal continente, implica la necessità di attraversare il mare. C’erano piloti che avevano un certo timore a volare sul mare. Dall’Elba alla Corsica il tratto di mare è il più breve, non ci vuole molto a superare la distanza con un jet. Quasi non ce se ne accorge.

La descrizione di quel trasferimento è un capolavoro. Conosco bene il percorso, le coste, il paesaggio. La breve distanza tra la Corsica e la Sardegna, e lo stupendo paesaggio di quella zona. Poi giù verso Decimomannu.

Ancora un’istantanea della vita da cacciabombardiere dell’autore. Qui è ritratto assieme ai suoi compagni di lavoro e davanti al loro attrezzo di lavoro. (foto proveniente dalla pagina Facebook di Bruno Servadei).  Benché la carriera di un pilota dell’Aeronautica Militare sia pressoché pianificata già a partire dal momento in cui viene accettata la domanda di ammissione all’Accademia Aeronautica, quella vissuta dall’autore non può certo dirsi monotona o prevedibile. A Bruno Servadei va il merito di avercela raccontata in tutte le sue pieghe ma soprattutto di averlo fatto con la sua proverbiale sagacia e spirito critico, in questo come negli altri libri pubblicati successivamente. Inoltre gli va riconosciuta una notevole capacità narrativa che lascia poco spazio a sentimentalismi o inutili fronzoli: il suo racconto è sempre piacevole e in taluni casi addirittura avvincente, specie per coloro che non hanno confidenza con il mondo aeronautico, militare e non. C’è inoltre un altro aspetto da non sottovalutare: il coraggio di raccontarsi e di renderne partecipi dei perfetti sconosciuti quali i suoi lettori. Qualcuno di loro lo ha tacciato di essere “autoreferenziale e autocelebrativo” ma inevitabilmente, quando si preferisce la formula autobiografica, l’autore è l’elemento fondamentale della narrazione. In realtà, in questo come pure negli altri volumi successivi a questo, Bruno Servadei non smette di regalarci battute spiritose o riflessioni profonde del tutto condivisibili e che, talvolta, sono piuttosto critiche nei confronti dell’Arma Azzurra ma anche della politica, dell’industria aeronautica nazionale e di certi malcostumi tipicamente italici. Per inciso … l’autore è quello in alto a sinistra. 

Servadei ha dedicato un altro libro, dal titolo “Deci 83-86 ricordi di tiro 0“, al suo periodo di servizio, anni più tardi, in questo poligono. Deci è l’abbreviazione di Decimomannu, in Sardegna, di cui ho appena fatto menzione.

I tiri, comunque, erano un esercizio costante nell’attività di un pilota cacciabombardiere. Molte pagine, anzi, interi capitoli parlano di addestramento al tiro con armi di vario tipo, con armi inerti o reali. Ed è veramente accattivante seguire il suo racconto. Pare di essere lì e finalmente possiamo sapere cosa facevano questi piloti durante il servizio in quel famoso poligono.

La vita operativa di Bruno Servadei si snoda nel corso degli anni e passa attraverso molte esperienze.

Ad un certo momento viene trasferito al Sud. Un cambiamento di non poco conto, considerato che in quegli anni le differenze tra le realtà del Nord e del Sud erano notevoli. Questi sono capitoli tutti da leggere.

Nella sua nuova collocazione, a Gioia del Colle, in Puglia, si deve adattare a condizioni e mentalità molto diverse. Le strade, ad esempio, non erano certamente come quelle di oggi e le automobili nemmeno. Per tornare a casa doveva affrontare una specie di odissea.

Ma, a onor del vero, l’Aeronautica di allora, nei weekend, concedeva ai suoi piloti di poter usare il jet per tornare a Ghedi. Come dire, invece di prendere la macchina, prendi pure l’aereo. Basta che domenica sera lo riporti alla base. Che meraviglia!

In questa fase c’è un altro evento importantissimo che lo riguarda: il matrimonio. Vicende che si collegano e si amalgamano con la vita di reparto, in un aeroporto del Sud.

Servadei è stato anche uno sportivo. In quegli anni si addestrava nello sport del bob. E questa è una storia nella storia. Tutta da leggere, sia per i risultati conseguiti, sia per gli aspetti sorprendenti di uno sport così poco conosciuto, ma che ha, a mio avviso, molto in comune con il pilotaggio di un aereo. Furono soltanto impellenti ragioni di servizio che gli impedirono di partecipare alle Olimpiadi del 1972, a Sapporo, in Giappone.

La bontà storico/letteraria di “Vita da cacciabombardiere” è stata riconosciuta ufficialmente dalla stessa Associazione Arma Aeronautica che, per mezzo della giuria presieduta dal generale Mario Arpino (assurto alle cronache nazionali per aver guidato la missione italiana durante la Guerra del Golfo ed essere stato dapprima capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare e poi nato capo di Stato Maggiore della Difesa), ha dichiarato il libro di Bruno Servadei quale vincitore della VII edizione del Premio Letterario Aerospaziale “Giulio Douhet” per la sezione narrativa. Alla pagina: http://www.cybernaua.it/rubriche/rubricadett.php?idnews=2392 troverete la cronaca giornalistica della premiazione. Non male per un libro di esordio! (foto proveniente dalla pagina Facebook di Bruno Servadei). Così ha invece ha commentato la fotografia della consegna del premio il diretto interessato nella sua pagina Facebook: “Eravamo a Trento, e stavo ricevendo un premio letterario per il mio primo libro ” Vita da cacciabombardiere”, un evento a cui avrei voluto volentieri far assistere mia madre, insegnante di italiano, di cui sono stato a lungo la disperazione!” 

Nel frattempo ci sono da affrontare anche alcune missioni estere. E queste costituiscono un altro elemento di attrazione per un lettore appassionato di volo. Lo svolgimento di queste missioni, nell’ottica di uno scambio di esperienze tra gruppi di volo di nazionalità diverse, rivela aspetti sorprendenti sotto molti punti di vista.

E purtroppo nel libro ci sono parecchie descrizioni di incidenti.

I vecchi F84 e F86 stavano per essere sostituiti, anche se molto gradualmente, dai G91 e dagli F104.

Quest’ultimo, come molti sanno, era un ottimo aereo, ma per una serie di ragioni legate all’impiego che ne venne fatto e ad altri motivi, fu protagonista di frequenti incidenti, che costarono la vita di tanti piloti. Non per nulla venne chiamato “fabbricante di vedove“.

E qui la storia sarebbe lunga. Ma chiunque la volesse conoscere non ha da far altro che leggere questo libro.

Con la sua consueta delicatezza, Servadei affronta l’argomento nell’ultima parte del libro. E anche con competenza, visto che ha utilizzato l’F104 per molto tempo.

Ho trovato molto interessante leggere il resoconto dei suoi primi voli, le sue prime sensazioni, l’impressione che ne aveva avuto.

Il 16 giugno del 1966, una formazione di 16 F84F prese il volo da Ghedi con destinazione Gioia del Colle, nessun rientro previsto. Io facevo parte di quella formazione”. E’ così che l’autore ricorda il suo trasferimento nel profondo Sud pugliese partendo dal pari profondo Nord bresciano. Una pagina della sua vita di cacciabombardiere si era appena conclusa (presso il 6° Stormo) e una nuova si era aperta ma stavolta con la bandiera del redivivo 36° Stormo.  La foto, scattata da un T-33, non si riferisce esattamente a quell’evento ma ci piace pensare che Bruno Servadei (probabilmente capoformazione) sia stato immortalato in questo scatto mentre sta per raggiungere la nuova destinazione di Gioia del Colle. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore). Riportando aneddoti e spigolature varie sull’uso della radio o sulla scelta del simbolo del reparto, l’autore testimonia come il trasferimento a Gioia non fu indolore e, sintetizzando al massimo, dichiara che fu vittima della crisi dei missili di Cuba! Un capitolo tutto da leggere quello dedicato all’esperienza al 36°.

Si sentiva tanto parlare, all’epoca, della famigerata spinta iniziale del decollo, dato che il post bruciatore, del quale l’F104 era dotato, si conosceva ancora poco. Avevo sentito storie di piloti che, affondata la manetta per decollare, si erano girati di lato a guardare qualcosa e non erano più riusciti a girare di nuova la testa in avanti …

Storie metropolitane. Servadei sfata il mito della poderosa spinta. Il 104 aveva certamente potenza, ma niente di così estremo.

Anche riguardo alla transizione dal volo a velocità subsonica a quella supersonica, Servadei cancella tutte le storie di vibrazioni, scuotimenti e sbandate. L’indice del machmetro passa semplicemente da Mach 0,9 a 1. E poi continua a salire verso valori maggiori. Tutto qui. Anche se dopo ci sono altri fattori da tenere in considerazione, ben descritti e di grande interesse per chi non ha mai pilotato un F104, ma avrebbe tanto voluto farlo.

Arriviamo in fondo al libro. Alla postfazione.

Se questo libro mi era così piaciuto, quando lo lessi nel 2008 o all’inizio del 2009, tanto che ho voluto rileggerlo prima di scrivere questa recensione, devo dire che stavolta mi è piaciuto ancora di più.

Ho dovuto prendere il telefono ed esortare alcuni miei amici ex Aeronautica Militare a tirare fuori il libro e rileggerlo a loro volta, cosa che hanno fatto. Uno di loro era controllore al GCA (Ground Controlled Approach) dell’aeroporto di Grosseto e si è ricordato di alcuni episodi, compreso un incidente di volo proprio sul cielo campo dell’aeroporto, dove si sono scontrati due F104 e alcuni dei pezzi erano caduti a pochi metri da lui, vicino alla capannina del GCA. Uno dei piloti si era dovuto lanciare, l’aereo era finito in un campo appena fuori dall’aeroporto.

La caduta del muro di Berlino (avvenuta nel novembre del 1989) sancì virtualmente la fine della “Guerra fredda” che aveva gelato gli animi degli europei nel corso degli anni ’60, ’70 e quasi tutti gli ’80. Il “Muro” era stato il simbolo concreto della cosiddetta “cortina di ferro”, ossia quella linea immaginaria che divideva il continente europeo in due blocchi separati e per alcuni versi contrapposti: la zona occidentale, composta principalmente dalle nazioni che aderivano alla NATO (ossia sotto l’influenza statunitense), e quella orientale denominata del “Patto di Varsavia” di chiaro indirizzo comunista e sotto il controllo (neanche troppo mascherato) dell’URSS. Il rischio di una guerra nucleare in Europa si mantenne verosimile durante tutto il periodo della guerra fredda tuttavia, salvo occasionali schermaglie a carattere diplomatico, si consumò senza particolari tensioni. In altri termini  non si verificarono scontri militari sul campo di battaglia ma solo azioni di spionaggio, epurazioni di agenti segreti e diplomatici o similari; la pace scoppiò solo all’indomani della caduta del muro. Con l’avvento poi dell’Europa politica/monetaria e soprattutto con la libera circolazione di uomini e merci nei paesi della comunità europea (avvenuta intorno verso la fine degli anni ’90), il divario divenne sempre più labile e oggi, se chiedessimo a un figlio degli anni 2000 cosa sia stata la “Cortina di ferro” … probabilmente ci risponderebbe che fu una particolare soluzione architettonica dell’edilizia degli anni ’70 … Purtroppo la recente invasione dell’Ucraina da parte della Russia ci ha condotto indietro di trenta anni e ha fatto riapparire nei mass media la notizia della minaccia di una paventata guerra nucleare. Quello ritratto è un F84F molto speciale in quanto, non a caso, fece coppia con la bomba nucleare Mark 7 che gli si trova accanto. Manca solo Bruno Servadei che, assieme a loro, trascorse due anni di servizio di allarme a Ghedi negli anni ’60. Il velivolo e l’ordigno si trovano all’USAF Museum di Wright Patterson (foto proveniente dalla pagina Facebook di Bruno Servadei: https://www.facebook.com/photo/?fbid=1491595418678&set=a.1045415544460) mentre l’autore è posizionato abitualmente a casa sua, tranne quando vola con il suo ultraleggero! Così l’autore commenta la sua esperienza: “Ciascuno di noi, giovani ufficiali e sottufficiali piloti, aveva passato sei mesi di quei due anni chiuso dentro un doppio recinto in compagnia di quattro bombe nucleari, pronto a partire in 20’ per un viaggio senza ritorno.”

L’epoca dell’F104 è rimasta indimenticabile.

Ma torniamo alla postfazione. Avevo dimenticato questa parte.

Servadei scrive:

“L’idea di scrivere queste memorie mi è venuta parecchi anni fa, quando mi fu chiaro che mio padre non avrebbe mai scritto le sue, che sarebbero state di gran lunga più interessanti. Allora mi sembrò un delitto lasciare che tanti eventi vissuti in prima persona da mio padre in un periodo così complesso e discusso, come quello degli ultimi anni del fascismo e dei primi anni del dopoguerra, andassero dimenticati solo perché riteneva inutile scriverli, convinto com’era che nessuno avrebbe avuto il coraggio di pubblicarli.

Così la mia reiterata richiesta di mettere su carta le sue memorie andò del tutto disattesa, nonostante la mia promessa che le avrei conservate in vista di tempi migliori per renderle pubbliche. Dopo la sua scomparsa mi ripromisi che non avrei fatto altrettanto. Per quanto poco significativi rispetto a quelli che avevano riguardato la sua vita, gli eventi che avevano riguardato la mia li avrei registrati, a futura memoria. Forse non li avrebbe letti nessuno, ma se a qualcuno, nel tempo, fosse venuta la curiosità di sapere ciò che si faceva e come si viveva in alcuni particolari reparti da caccia dell’Aeronautica Italiana durante la Guerra fredda, avrebbe potuto trovare nei miei scritti qualche spunto interessante”.

Condivido ogni sillaba delle parole di Servadei. Come ho scritto in altre recensioni, ho sempre esortato tutti coloro che avessero qualcosa di interessante da tramandare ai posteri, di scrivere. Senza riguardo verso questioni di opportunità, specialmente quando gli argomenti si vanno ad intrecciare con le vicende del ventennio fascista. La Storia è Storia. E il fascismo ne ha fatto parte. Tanti eroi si sono mossi in quella realtà, compiendo atti di coraggio senza pari. Scrivere le loro vicende e farle conoscere non significa essere d’accordo con le follie perpetrate da qualcuno. Non significa essere fascisti oggi.

Che l’autore avesse volato con tutto quanto disponibile nell’arsenale velivoli italiano e dei paesi della NATO (leggasi. F-15, F-16, Mirage, Harrier, F5, Hawk, Jaguar, ecc ecc) era noto e facilmente prevedibile … ma che si fosse librato in volo anche con un aliante (nello specifico un Grob Twin Astir del Centro di Volo a Vela militare di Guidonia- Roma) … beh, questo ci ha sorpreso un poco. Probabilmente neanche lui se ne ricordava se non avesse ritrovato – come ha confessato in un post della sua pagina Facebook – la check list del Twin Astir nella pila di carte e cartacce che conserva gelosamente nella cattedrale di documenti del suo studio. Ma voi lo immaginate un cacciabombardiere come Bruno Servadei che vola su un aeromobile privo di motore – a reazione, per giunta -, senza piloni subalari, senza ordigni nucleari al seguito, senza neanche uno straccio di cannoncino utile al combattimento ravvicinato? Beh, sembra impossibile … eppure lo ha confessato! Chissà che non abbia meditato di armare il povero aliante?! Una specie di drone ante litteram? Un’arma subdola che potrebbe giungere silenziosamente sull’obiettivo, invisibile ai radar? … non lo sapremo mai … ma che il buon generale Servadei si sia librato con ali silenziose ora ne abbiamo la prova inconfutabile (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Anni fa ho scritto un libro, una sorta di biografia di un pilota che aveva compiuto imprese mirabili ed era infine diventato un pioniere del trasporto aereo civile. Ma tutto questo si era svolto nel ventennio. Alla pubblicazione del libro ho riscontrato molte perplessità, come se avessi fatto qualcosa di male. E ho perfino perso qualche amico. Eppure nel libro la parola fascismo non compare. Inoltre, il personaggio non era troppo allineato con la mentalità del periodo. Infatti dovette scontare due mesi di arresti nella fortezza di Nisida, per insubordinazione.

Sto parlando di Cesare Carra. La recensione del mio libro, a cura della Redazione di Voci di hangar, è presente nel sito in questa pagina.

Peccato che il padre di Bruno Servadei non abbia scritto. Peccato davvero.

Scrive Servadei:

“Era anche un grande appassionato di fotografia: girava sempre con la sua Laica… Sviluppava e stampava le foto in casa, in una camera oscura arrangiata della quale ricordo ancora la luce rossa e l’ingranditore”.

Quando gli inverni mordevano! (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Questo signore ha tutta la mia simpatia. Anch’io ho passato la vita, dai diciassette anni in poi, con una macchina fotografica sempre appresso. Varie macchine, ma quella più longeva è stata una Olympus OM1n, meccanica e manuale che ancora conservo. Con la mia piccola reflex ho documentato due terzi della mia vita. E naturalmente, avevo una camera oscura arrangiata, con l’ingranditore. Passavo le notti intere a stampare le mie foto. E la mattina dopo, con le stampe asciutte e stirate, andavo a proporle a diverse redazioni. Era un hobby, vivevo di altro, ma ci ho guadagnato un po’ di soldi per pagare i miei voli…

D’accordo, c’era la guerra fredda e gli statunitensi riversavano sull’AMI un fiume di materiale di volo (per loro già un po’ obsoleto), ma uno schieramento così nutrito di velivoli oggi sarebbe impensabile! E inoltre mancherebbero i piloti perché, con quello che costa formare e mantenere allenato un pilota militare, molti di questi velivoli rimarrebbero inutilizzati. La foto ritrae gli F84F allora in forza al 6° stormo di Ghedi dove l’autore fece il “diavolo” all’inizio della sua carriera operativa. Da notare il cielo pieno di cumuli che, solo a guardarli, farebbe venire la voglia di volare a qualunque pilota. Episodio non frequente a Ghedi che, a detta dell’autore godeva – e gode tuttora – di un clima inclemente con nebbie quasi perenni e maltempo non raro che spesso condizionava l’attività di volo del reparto o le procedure di decollo/atterraggio. Lo testimonia un passo di “Vita da cacciabombardiere in cui l’autore racconta la sua esperienza di trasfertista presso l’aeroporto di Villafranca: “Un atterraggio da manuale, non quello ufficiale, quello della 6°! Pensai subito che era venuto tutto troppo bene perché qualcuno  se ne fosse accorto. Invece la sera, al circolo, mi resi conto che anche a Villa non mancava chi passava il tempo a guardare cosa fanno gli altri, per poter poi criticare. La mia performance non era affatto passata inosservata. Purtroppo l’aveva notata anche l’ufficiale addetto alla sicurezza volo,  il quale, con aria pretesca, mi venne a fare la predica sul fatto che non mi ero attenuto alle procedure: avrei dovuto estrarre  carrello e flaps in volo livellato, al termine dei primi 180°, poi proseguire diritto per un po’ e finalmente iniziare la virata finale. Vero! Forse a Villa si potevano permettere di fare il giro d’Italia per una apertura: noi a Ghedi no. Con la visibilità di merda che c’era sempre se il leader avesse fatto un’apertura normale i gregari si sarebbero persi la pista. Ammetto che tutto mi aspettavo tranne che un appunto del genere: ero tentato di iniziare a disquisire sulle procedure di volo in uso a Ghedi, ma mi convinsi che il mio interlocutore ne sarebbe uscito scioccato e preferii lasciar perdere: non ne valeva la pena e non avrebbe capito.”. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Dopo c’è stato l’avvento del digitale e il mondo è cambiato. Così oggi ho una macchina digitale sempre con me, anzi, più di una.

Bruno Servadei, sull’esempio del padre, ha fatto la stessa cosa. Ha usato tante fotocamere e videocamere, con le quali ha documentato ogni sua attività.

Lo dice nella postfazione.

“Documentare con un obiettivo mi è sempre riuscito naturale, e mi ha abituato a guardare gli eventi con occhio critico e a ricordarli”.

Nonostante non fosse consentito, portava questi apparecchi anche in volo, sin dall’inizio, quando volava sul T6.

E aveva raccolto diversi dei suoi preziosi filmati in un paio di DVD.

Giunto alle ultime righe del libro, Servadei scrive:

“Coloro che fossero interessati a ricevere maggiori informazioni sul contenuto del libro o sul DVD possono contattarmi alla seguente email …”.

All’epoca della prima lettura di questo libro Bruno Servadei mi aveva spedito due DVD, ma non ricordavo come avevo fatto a contattarlo.

Forse l’indirizzo email oggi non è più lo stesso. Ma, giunto a queste ultime righe, di colpo mi sono ricordato come avevo fatto a richiedergli i filmati. Gli avevo mandato una mail a questo indirizzo. E lui mi aveva spedito i DVD, due, non uno.

Li ho ancora. E li conservo con cura.

Allora, qual’é uno dei meriti più importanti di Bruno Servadei?

Lo dice lui stesso, sempre nella postfazione:

“Le difficoltà dello scrivere le ho affrontate perché lo scopo di queste pagine non è tanto di far apprezzare uno stile di scrittura, quanto di raccontare dei fatti. Fatti che rimangano come doverosa documentazione del modo di vivere di personaggi che hanno svolto un difficile compito in un periodo di forte contrapposizione fra NATO e Patto di Varsavia che, fortunatamente, oggi non c’è più, a mio parere anche grazie all’impegno ed ai sacrifici che sono descritti in queste pagine”.

Esatto. Questo è il grande merito: aver registrato qualcosa che altrimenti si sarebbe perduto nelle nebbie del passato.





Recensione di Brutus Flyer (Evandro Detti) e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Dello stesso autore sono disponibili le recensioni di: 


Ali di travertino

Un pilota a palazzo

Un mondo ultraleggero

Deci 83-86. I Ricordi di "Tiro 0"

Ali diplomatiche. In Svezia con le cordelline

Un mondo ultraleggero

titolo: Un mondo ultraleggero

autore: Bruno Servadei

editore: Independently published

anno di pubblicazione: 2019

pagine:  272

ISBN cartaceo: 1085921581

ISBN alternativo: 978-1085921589




Dopo aver acquistato su Amazon alcuni libri di Bruno Servadei, avevo contattato l’autore su Messenger, per informarlo e invitarlo a leggerne le recensioni che, dopo averli letti, avrei scritto e pubblicato su VOCI DI HANGAR. Nel sito era già presente la recensione di un altro dei suoi libri, “Ali di travertino“, scritta dal webmaster qualche tempo prima, e un racconto intitolato “Coppia” che aveva partecipato, senza giungere tra i finalisti, al premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE.

Avevo già letto, nel 2009, “Vita da cacciabombardiere“, il primo libro di Bruno Servadei. Mentre aspettavo l’arrivo dei quattro nuovi libri mi ero messo a rileggere “Vita da cacciabombardiere“, giusto per rinfrescarmi la memoria. A suo tempo mi era piaciuto moltissimo. Servadei aveva scritto un capolavoro, nel campo aeronautico. Non era solo opinione mia, mi ricordo che diversi amici, piloti di aereo o di aliante, avevano espresso lo stesso apprezzamento.

Non saranno la PAN – Pattuglia Acrobatica Nazionale dell’Aeronautica Militare Italiana – le mitiche Frecce Tricolori -, eppure la formazione acrobatica denominata “Blu Circe” non ha nulla da invidiarle … nemmeno il tricolore! Bruno Servadei ne fa parte nel ruolo di analino di coda. A causa della pandemia la formazione ha subito un drastrico rallentamento delle sue attività ma ha potuto archiviare un 2019 letteralmente memorabile giacchè l’ha vista in turnée addirittura in Cina (proveniente da www.flickr.com)

Servadei mi aveva suggerito un ordine di lettura dei libri, basato probabilmente sull’ordine nel quale li aveva scritti. E ovviamente, questo di cui mi accingo a parlare, dal titolo “Un mondo ultraleggero“, essendo il più recente, doveva essere letto per ultimo.

Ma nel messaggio, con mia sorpresa, lo aveva definito “libercolo“.

Intanto, finito di rileggere il primo, ne avevo scritto la recensione. Poi avevo ripreso in esame i nuovi quattro, li avevo messi in ordine e stavo per cominciare la lettura del primo della lista.

ULM, non è una città tedesca della regione Baden-Württemberg nota soprattutto per aver dato i natali ad Albert Einstein, bensì l’acronimo di Ultra Leggero Motorizzato. In effetti la sigla trae origine dalla definizione francese di Ultra-Léger Motorisé da cui ULM, appunto. L’ultra leggero, che si tratti di un velivolo, un elicottero,un aliante o un autogiro è considerato a tutti gli effetti un aeromobile sebbene a esso non è sia applicabile il Codice della Navigazione Aerea. Il concetto di ultra leggero dovrebbe essere sinonimo di macchina volante di piccole dimensioni, costruttivamente semplice, quasi spartana, con prestazioni modeste ossia destinata al volo lento e con autonomia limitata, equipaggiata di pochi strumenti per non dire essenziali. Dovrebbe. O meglio, all’inizio lo era. Oggi, in realtà solo una piccola parte, degli ULM volanti nel nostro paese risponde a questo canone. L’altra parte – la maggioranza –  degli ultra leggeri (davvero leggeri?) sono dotati di carrello retrattile, motore con potenze di tutto rispetto, elica a passo variabile, aerodinamica e struttura sofisticata, autonomia ben più che interregionale mentre possono raggiungere velocità piuttosto elevate (intorno ai 350 km/h). Alcuni sono capaci anche di svolgere attività acrobatica di un certo livello.. Niente male per un ultra leggero, no? In termini di avionica poi, affrancati da tutte le restrizioni e le certificazioni tipiche degli aeromobili dell’Avazione Generale, gli ULM sono spesso e volentieri dotati di una strumentazione che nulla ha da invidiare al cosiddetto “glass cockpit” dei fratelli maggiori pesanti, anzi, semmai il contrario: non c’è ULM che non abbia almeno un paio di schermi digitali a bordo e non imbarchi apparati di radio-navigazione che farebbero impallidire pure un’astronauta della Stazione Spaziale Internazionale! I velivoli che sono ritratti nelle foto sotto e sopra questa didascalia appartengono all’idea primordiale di ULM, quello ritratto nella copertina di “Un mondo ultraleggero” è invece in linea con la filosofia contemporanea. Notate qualche differenza? 

Ma la parola “libercolo” mi risuonava nella mente.

La copertina di “Un mondo ultraleggero” riportava l’immagine di un piccolo aereo immortalato nella fase rovescia all’apice di un looping. Una foto azzeccata, che attrae l’attenzione.

Uno di quei “trespoli” – così come li ha definiti l’autore in uno dei capitoli del suo libro – che animano, o forse è meglio dire, animavano il mondo ultraleggero.

Dopo una veloce scorsa alle pagine, ai capitoli e alle foto all’interno del libro, avevo intuito che il contenuto doveva essere molto interessante. Altro che libercolo!

Ok, avrei cominciato proprio da quello.

Il primo capitolo ripercorre la linea degli eventi che avevano preceduto l’arruolamento nell’aeronautica come pilota militare. Parla di scuola, dell’esame di maturità, delle vacanze a Rimini, di ragazze che frequentavano la riviera romagnola durante l’estate. Parla anche di sport nei quali si era impegnato. E troviamo riferimenti ad aerei, perfino idrovolanti, che però non erano stati quelli che lo avevano ispirato a diventare un pilota, di lì a poco. Parla anche di aeromodellismo, ma forse la passione per il volo non gli è derivata neanche a questo.

Una cosa è sicura: dopo l’Accademia Servadei ha fatto una mirabile carriera, prima come cacciabombardiere, poi è entrato nel mondo diplomatico, è stato all’estero per qualche anno come attaché militare, ma ha sempre continuato a volare. Divenuto Generale di Brigata, alla fine è arrivata la pensione. Ha chiuso con l’Aeronautica e per alcuni anni non ha più pensato al volo.

Finché, un giorno…

Bruno Servadei a bordo del suo velivolo e nell’ambiente che gli è più congeniale: l’aria. Qualche impertinente direbbe anche il fumo … (foto proveniente da www.flickr.com)

Il secondo capitolo si intitola: “Primi contatti con gli ULM”. E da questo punto in poi iniziamo a seguire il tortuoso percorso che lo aveva condotto, dopo essere stato un top gun e aver pilotato gli aerei più potenti, verso il mondo aeronautico più umile e semplice, quello degli aerei ultraleggeri.

Passare dai jet militari agli ULM (Ultra Light Machine) non è un salto da poco, anche se oggi queste macchine non sono più quelle di alcuni decenni fa. Esistono ancora i cosiddetti “tubi e tela”, ma fanno ormai parte di una nicchia di appassionati di volo minimale. Oggi i modelli di punta dell’aviazione ultraleggera sono aerei a tutti gli effetti, con motori di notevole potenza e prestazioni di tutto rispetto. La loro autonomia consente voli abbastanza lunghi da raggiungere mete lontane. E hanno anche una notevole affidabilità.

Quando gli ULM cominciarono a fare la loro comparsa negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, dopo un periodo di totale anarchia, la famosa legge centosei arrivò a mettere ordine nel settore. I tubi e tela erano divertenti, alla portata di tutti, usavano quasi esclusivamente motori a due tempi. Salivano che era un piacere, molto meglio di qualsiasi Cessnino di Aeroclub.

Dietro un pilota c’è spesso un aermodellista. E’ il caso anche dell’autore del libro che confessa: “Non vi è dubbio che il germe che mi ha nel tempo portato a intraprendere una vita da pilota mi è stato inculcato, di certo inconsapevolmente, da mio padre quando, ancora bambino, mi ha interessato il mondo del volo introducendomi all’aeromodellismo”. Certo, all’epoca, i modelli realizzati dal giovanissimo Bruno Servadei non erano così enormi e maniacalmente perfetti come quello ritratto … ma pur volavano! (foto proveniene da www.flickr.com)

Furono costruite parecchie aviosuperfici, cominciarono a comparire tanti tipi di aeroplanetti cosiddetti tre assi perché avevano i comandi tradizionali uguali agli aerei veri e molti deltaplani a motore, che allora chiamavamo pendolari. Oppure apparecchi ad ala basculante.

Ma era un mondo molto caotico, c’era troppa anarchia, troppa improvvisazione. E ci furono troppi incidenti.

L’Aeroclub d’Italia ebbe il merito di mettere ordine in questo settore con una legge, la centosei, abbastanza ben recepita e apprezzata da tutti. E le cose cominciarono ad andare meglio.

Il mondo ultraleggero si è sviluppato moltissimo nel corso degli anni e, pian piano, i grezzi modelli del primo periodo hanno cominciato ad assumere, sempre più marcatamente, le sembianze di aerei veri.

La Rotax, fabbrica austriaca di motori, quella che già forniva i suddetti motori a due tempi, ha cominciato a produrre motori a quattro tempi.

Così, l’aviazione ultraleggera si è sviluppata lungo lo stesso percorso che aveva caratterizzato l’aviazione generale. Eravamo in molti a credere che prima o poi saremmo giunti a ricostruire gli stessi ambienti dal quale molti si erano allontanati, quello dei tradizionali Aeroclub.

Bruno Servadei è giunto al mondo ULM quando ormai tanta strada era stata percorsa e gli aerei erano già uguali a quelli dell’Aviazione generale, o quasi. Anzi, per certi versi erano anche migliori.

Se dovessimo rappresentare in una singola immagine il mondo ultraleggero, senza indugio alcuno lo faremmo con uno scatto come questo: la pattuglia acrobatica Blu Circe! (foto proveniente da www.flickr.com)

Dopo aver conseguito l’attestato per pilotare gli ultraleggeri e aver sostenuto anche l’esame per poter portare un passeggero, era pronto a comprarsi un ULM tutto suo.

Strano a dirsi, dopo essere uscito dall’Aeronautica, per sette anni non aveva volato affatto. Poi aveva conseguito l’attestato di pilota di ultraleggero, senza aver mai avuto la licenza di pilota privato.

Nel libro racconta il suo approccio a questo nuovo mondo con modestia.

Ma non dimentichiamo chi era stato: un pilota cacciabombardiere che aveva volato con un jet e una bomba atomica attaccata sotto la fusoliera. Uno capace di decollare con ogni tempo, penetrare a bassissima quota in un territorio nemico e colpire l’obiettivo assegnato.

Uno capace di volare in formazione per ore dentro le nubi, senza visibilità, guardando solo gli strumenti.

A dispetto del tono umile con il quale descrive i primi approcci con gli ambienti delle aviosuperfici e degli ultraleggeri, sappiamo chi è l’autore di questo libro. Anche se ha solo l’attestato di volo VDS (Volo da Diporto o Sportivo), neanche del tipo avanzato, che è venuto dopo, Servadei non è un pilota come gli altri.

Basta leggere i capitoli successivi per rendercene conto.

La retrocopertina del bel libro di Bruno Servadei. Al momento è il suo ultimo libro pubblicato in ordine di tempo … speriamo non sia l’ultimo!

Già lo si capisce dal tipo di velivolo che sceglie, un Eurostar, prodotto dalla Evektor-Aerotechnik che ha sede in Repubblica Ceka. Un bellissimo aereo, 100 HP di potenza, ottime prestazioni.

Sebbene un ULM non potrebbe essere usato per fare acrobazia, leggete questo libro e alla fine mi saprete dire se può farla. Servadei non ha fatto altro per decenni, anche in formazione stretta.

Inizia poco alla volta, si allena in modo da prendere la mano sul mezzo, poi comincia ad esibirsi da solo sul cielo campo dell’aviosuperficie.

Nel corso del tempo viene anche osteggiato. In molti non gradiscono la sua esuberanza e le sue capriole. Finché si trova costretto a spostarsi in una diversa aviosuperficie e in un altro club. Ma qui lo trattano in maniera diversa e gli tributano ben altri onori.

Vista la sua capacità di acrobata e anche la capacità di volare in formazione, qualcuno gli chiede di entrare a far parte di una pattuglia acrobatica costituita da tre velivoli ultraleggeri. Mancherebbe un quarto elemento. E mancherebbe anche la sua esperienza.

Ancora una bella immagine del velivolo dell’autore scattata durante una delle tante manifestazioni aeree cui ha partecipato la sua pattuglia acrobatica Blu Circe. Un’altro luogo comune che spesso rieccheggia quando si parla di aviazione è che tuttii i piloti siano fascisti o comunque simpatizzanti del regime fascista. Anche Bruno Servadei, ricordando le sue origini di pilota, indugia sull’argomento ricordando che: “Il volo, e tutto ciò che vi era connesso, ha avuto un grande rilievo al tempo del fascismo. Volare era incentivato e a livello sportivo era di certo più facile di oggi: l’Italia era piena di aeroporti e idroscali, a loro volta pieni di aeroplani”.Il volo da diporto sportivo praticato con gli ultraleggeri ha costituito idealmente la prosecuzione della logica fascista che voleva – o propagandava – un’aviazione sportiva aperta e praticata dalle masse (foto proveniente da www.flickr..com)

E’ così che comincia la storia della famosa pattuglia acrobatica Blue Circe, quella che non manca mai nelle varie manifestazioni aeree, non solo italiane, ma perfino all’estero.

Nel libro la storia che ho appena sintetizzato è molto più lunga e particolareggiata, inframmezzata anche da racconti di vita personale.

Ci sono molte fotografie. In una di queste l’autore compare tra i musetti di due aerei. Si, perché, come leggerete, attraverso varie vicissitudini, ad un certo punto si trova proprietario di due ultraleggeri, l’Evektor e un Fl100.

Quest’ultimo è un mezzo molto più performante e molto più idoneo all’utilizzo in una pattuglia acrobatica.

Questo non è esattamente un libro autobiografico di Bruno Servadei. E’ anche una testimonianza di come si è evoluto il mondo ultraleggero in questi ultimi anni. Ed è la storia della pattuglia acrobatica dei Blue Circe. Ci consente di avvicinarci a un mondo decisamente emozionante, anche per chi non ha la passione del volo. Tutti noi abbiamo visto le evoluzioni di questi aeroplanetti che evoluiscono lasciandosi dietro una scia bianca rossa e verde. I colori della bandiera italiana.

Li abbiamo visti da fuori. Ora, leggendo il libro, abbiamo l’occasione di entrare nel loro mondo, di conoscerli, di vederli da dentro.

 

Con la consueta sagacia che abbiamo imparato ad apprezzare leggendo i volumi già pubblicati, l’autore ci rivela come avvenne il suo primo contatto con il mondo ultraleggero … ed è molto tutto tragicomico: “Un giorno uno del gruppo dei modellisti annunciò che un tizio un po’ svitato, forse un maresciallo dell’Aeronautica, si era costruito uno strano attrezzo volante a motore e lo avrebbe collaudato nel pomeriggio in un campo lì vicino. Ovviamente tutti decidemmo di andare a vedere.” A quest punto, siamo certi che sarete curiosissimi di sapere come andò il famoso volo di collaudo … ebbene non possiamo svelarvelo tuttavia, possiamo rendervi partecipi dell’opinine che maturò l’autore all’indomani di quella rocambolesca esperienza: “Non so se il soggetto abbia continuato i suoi voli con quell’attrezzo: per la sua salute spero di no. In ogni caso a me è rimasta l’impressione che fosse l’attività per aspiranti suicidi e che se quello era il volo ultraleggero degli anni ’70 di certo non aveva creato in me alcun desiderio di praticarlo.” Mai dire mai, caro Bruno Servadei! (foto proveniente da www.flickr.com)

Ma se questo non bastasse, Servadei ha un canale You Tube nel quale ha pubblicato un gran numero di filmati, sia quelli “antichi” di quando volava con il T6, un vecchio e mitico addestratore militare, sia quelli moderni, girati con una delle più recenti versioni di telecamera digitale, la GoPro.

E poiché queste telecamerine possono essere montate ovunque, sia dentro che fuori dal velivolo, nei filmati di You Tube abbiamo davvero la sensazione di essere “dentro” le scene.

Il canale si può raggiungere digitando “Upload Bruno Servadei” nel campo di ricerca di You Tube.

I libri, invece, occorre ordinarli su Amazon. Una scelta dell’autore. Ma arrivano in tre o quattro giorni dall’ordine.

Oppure basta avere un Kindle.

Vorrei ricordare, infine, che se non si possiede un Kindle, è possibile avere questi libri anche con un tablet. Basta scaricare l’applicazione Kindle. Funziona altrettanto bene. Le foto di questo libro sono in bianco e nero, ma l’applicazione Kindle sul tablet consente di leggere tutti i libri, anche quelli che hanno foto a colori, con il vantaggio, non solo di vedere le foto a colori, ma di poter ingrandire le pagine a piacere.

Perciò, non avere un Kindle, se si ha il tablet, non è uno svantaggio, anzi.

Forse è decisamente meglio.






Recensione di Evandro A. Detti (Brutus Flyer)

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR


Ali di travertino

Un pilota a palazzo

Vita da Cacciabombardiere

Deci 83-86. I Ricordi di "Tiro 0"

Ali diplomatiche. In Svezia con le cordelline





Un pilota a palazzo

titolo: Un pilota a palazzo

autore: Bruno Servadei

editore:  in selfpublishing (Amazon)

anno di pubblicazione: dic 2016

ISBN: 9781540636584




Dopo aver letto altri due libri di Bruno Servadei, “Vita da cacciabombardiere” e “Ali di travertino“, mi è capitato tra le mani questo di cui mi accingo a scrivere la recensione, dopo averlo letto con notevole gusto.

I primi due erano molto interessanti. “Vita da cacciabombardiere” era tutto focalizzato sull’attività dell’autore come pilota militare e quindi raccontava tanti episodi di volo. Per un pilota di Aeroclub come me rappresentava l’occasione di poter gettare uno sguardo all’interno di quel tipo di vita che avevo tanto desiderato fare, ma che mi era sfuggita per un soffio.

Avevo chiuso l’ultima pagina augurandomi che l’autore non si fermasse al primo libro e ne scrivesse altri. Ricordo vagamente di aver sentito dire che questa fosse la sua intenzione, così almeno sembra avesse detto a qualcuno.

Se sperate di ritrovarvi tra le mani un libro pieno di avventure di volo, di rocambolesche missioni in territorio nemico, di manovre acrobatiche al limite della resistenza fisica del pilota, beh … ritenetevi pure vittime di un piccolo equivoco: nelle pagine di “Un pilota a palazzo” il nostro pilota (e che pilota!) vola solo “con le scrivanie” e semmai in qualità di passeggero a bordo di velivoli rigorosamente disarmati. Quali? … questo, per esempio. Si tratta di uno splendido Gulfstream III immortalato in uno scatto risalente al 1992 a Edimburgo. Utilizzato dall’Aeronautica Militare Italiana in quelli che vengono chiamati “voli di stato, era in forza presso il 31 Stormo di stanza a Ciampino (Roma). Era, perché è stato radiato nel 2004 dopo anni di onorato servizio spesi per trasportare appunto il Presidente della Repubblica e i suoi assistenti, Bruno Servadei compreso. E chissà quanto avrà sofferto l’autore a non potersi sedere in cabina di pilotaggio … Di certo non soffrirà il lettore perché – ve lo anticipiamo – questo libro si legge che è un vero piacere e scorre via veloce nonostante i precedenti libri di Servadei descrivano situazioni ben più dinamiche. Dunque a maggior ragione va riconosciuta ed elogiata la capacità narrativa dell’autore che, seppure muovendo la narrazione all’interno del Palazzo (o poco più), riesce a catalizzare l’attenzione del lettore fino all’ultima pagina senza annoiarlo. (foto proveniente da www.flickr.com)

Poi, un giorno, mi capitò il suo secondo libro: “Ali di travertino“, focalizzato sul periodo di servizio che l’autore aveva svolto al Ministero dell’Aeronautica di via Castro Pretorio a Roma, presso lo Stato Maggiore Aeronautica.

Anche questo mi aveva interessato moltissimo, perché anch’io avevo passato nove anni di vita militare in quel palazzone, nel reparto telecomunicazioni.

Dopo aver letto il secondo libro contattai Bruno Servadei, ma non ricordo come. Lui aveva promesso che, se qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe inviato un paio di DVD contenenti foto e video della sua vita di pilota militare. Infatti li ricevetti e ancora li conservo con cura.

In quel periodo lavoravo come controllore sulla Torre dell’aeroporto dell’Urbe. Qualche anno dopo andai in pensione.

Francesco Maurizio Cossiga, sassarese di nascita, ci ha lasciato nell’agosto 2010 dopo aver segnato in modo indelebile la politica italiana nel corso di quella che viene abitualmente identificata come “Prima Repubblica”. Tra i tanti incarichi rivestiti, è stato anche l’ottavo presidente della Repubblica dal 1985 al 1992 quando, in anticipo di qualche mese dalla naturale scadenza del mandato, si dimise, giusto per dare l’ennesimo scossone al “sistema”. In effetti è ricordato dagli italiani per essersi definito un “picconatore del sistema” sebbene, più lontano del tempo, fu spesso considerato un “ministro di ferro” in virtù del polso fermo con cui svolse più volte il ruolo di Ministro degli Interni. Certamente fu un politico controverso, un presidente eccentrico per alcuni versi, e rimarrà nella memoria collettiva per le sue celebri “picconate” o “esternazioni”. (foto proveniente da www.flickr.com)

Questo libro, “Un pilota a palazzo” riguarda i tre anni di servizio che Bruno Servadei ha trascorso presso il Quirinale, quale consigliere aggiunto per l’Aeronautica Militare del Presidente della Repubblica, che allora era Francesco Cossiga.

Il bel libro di Bruno Servadei, contrariamente ai suoi precedenti, non si svolge in un aeroporto militare o in un poligono di tiro dell’Aeronautica Militare Italiana bensì nel Palazzo del Quirinale, a Roma. Si tratta di un palazzo storico, eretto sull’omonimo colle e affacciato sull’omonima piazza. Già residenza papale, divenne la residenza ufficiale del Re d’Italia e poi, con l’avvento della Repubblica, dal 1946 ospita il Presidente della Repubblica Italiana. Assieme a Palazzo Madama e a Palazzo Montecitorio, è dunque per antonomasia un simbolo dello Stato italiano. La prima “salita al colle” dell’autore è al limite del tragicomico: egli entra dall’ingresso di rappresentanza ma viene prontamente placcato da un sedicente funzionario che lo invita a ripetere l’operazione da una delle entrate di servizio del Quirinale. Il lettore non potrà fare a meno di ghignare giacché questo pilota, capace di raggiungere un obiettivo in territorio nemico a velocità folle, a bassissima quota e portandosi appresso un carico bellico (anche nucleare), beh … toppa l’ingresso al Quirinale! (foto proveniente da www.flickr.com)

Il primo capitolo comincia proprio con l’arrivo dell’autore al Quirinale, un luogo che per tutti noi rappresenta semplicemente uno dei punti caratteristici di Roma. Non solo per noi che viviamo in questa città, ma anche per ogni turista al quale capiti di passarci davanti.

Il Palazzo del Quirinale ha una dimensione davvero notevole: ben  110 mila e 500 m² di superficie al punto che è annoverato come uno dei palazzi del potere tra i più grandi al mondo. Tanto per fare un confronto, si consideri che il complesso della Casa Bianca (Stati Uniti) ha superficie di circa 1/20 di quella del Palazzo del Quirinale. Chissà quante volte il nostro Bruno Servadei avrà scorrazzato da una parte all’altra del grande cortile interno del Quirinale e chissà se avrà mai esplorato gli sconfinati giardini del Quirinale, naturalmente per motivi di servizio … (foto proveniente da www.flickr.com)

Ma una cosa è vedere da fuori l’ingresso del Quirinale, con i suoi corazzieri di guardia e una cosa ben diversa è presentarsi davanti a loro per entrare a prendere servizio nell’entourage del Presidente della Repubblica Italiana.

Già dalle prime righe del primo capitolo si entra in una realtà così coinvolgente che ci lascia incollati alle pagine. E queste scorrono via veloci da subito, perché lo stile di Bruno Servadei è davvero coinvolgente. Il suo modo chiaro, semplice, anche nelle descrizioni più complesse, fa sentire il lettore come se stesse al suo fianco. E si finisce per provare fisicamente le emozioni descritte dall’autore.

Nel secondo capitolo si parla di quali erano le sue funzioni, ma ci si arriva gradualmente, come passando attraverso una sorta di cortina di incertezza. Non appare subito chiaro ed evidente quali compiti deve assolvere una figura come la sua. Dovremo girare molte pagine prima di saperlo con certezza. Ma l’interesse aumenta a ogni pagina girata, perché non capita spesso di ritrovarci ad esplorare certi ambienti, generalmente troppo lontani dalla nostra realtà.

La figura del Presidente Cossiga resta quasi costantemente un po’ sfocata nelle descrizioni, tranne in poche occasioni, quando si fa più vicina e distinta. Ma Cossiga è stato un personaggio di un certo spessore nella Storia del nostro paese. E proprio il fatto che il Presidente di quel periodo fosse lui rende ancora più avvincente questo libro.

La copertina della versione digitale del libro di Bruno Servadei

Per quanto mi riguarda, ho trovato molto interessanti i riferimenti a certi avvenimenti di rilievo dei quali avevo una conoscenza più diretta. Per esempio, Servadei parla delle esercitazioni Wintex, che ogni due anni avevano luogo e coinvolgevano tutti i reparti dell’Aeronautica, compreso il Centro Comunicazioni dove prestavo servizio. Ero un Marconista, allora. Ma non un operatore, ero un tecnico. In quelle esercitazioni dovevo realizzare, a richiesta, sia di giorno che di notte e quasi immediatamente, nuovi collegamenti telefonici, telegrafici (telescriventi) o addirittura nuovi canali radio.

Interessantissimi sono i riferimenti anche alla cosiddetta “Strage di Ustica“. Pur senza rivelare nulla di inedito, come è ovvio che sia, dal momento che ancora oggi resta un caso irrisolto, è avvincente conoscere il suo parere.

Poi ci fu un altro episodio, in quegli anni. Quello di Abu Abbas, che coinvolse un reparto dei nostri carabinieri nell’aeroporto di Sigonella. La stampa diede molto rilievo al fatto che i nostri carabinieri si opposero alla consegna di Abu Abbas ai Marines americani.

Chi ricorda questi avvenimenti troverà interessante il parere di Servadei.

E il sequestro dell’Achille Lauro?

Servadei mette in evidenza che a quell’epoca non esisteva un centro dove si potesse far fronte ad avvenimenti complessi e sensibili, dove si potessero concentrare specialisti di ogni settore e strumenti idonei a valutare velocemente situazioni da gestire in tempi rapidi, magari dopo un efficace coordinamento con tutte le organizzazioni dello Stato.

L’idea prende corpo e si profila il progetto di un ufficio, una sala, dedicata allo scopo.

E non mancano neppure svariati commenti contrari all’idea e resistenze di vario genere. Ma il progetto, sostenuto dall’alacre lavoro di Servadei, va avanti.

Si arriva così alla creazione di una sala situazione, un centro che fosse in grado di coordinare molti altri servizi importanti, compresi i Servizi Segreti.

Con la sua proverbiale schiettezza, Servadei così liquida il palazzo in cui trascorse tre anni della sua esistenza: “Per descrivere il Quirinale occorrerebbe un libro dedicato, e non intendo nemmeno provarci.” Pratica risolta! Nello scatto si noterà il torrino ove fanno bella mostra tre bandiere: quella dello Stato Italiano, dell’Europa e lo stendardo del Presidente, se presente in sede.(foto proveniente da www.flickr.com)

Nel libro non si parla solo del Quirinale. C’è anche una parte relativa alla tenuta di Castel Porziano, sul litorale laziale, di proprietà della Presidenza della Repubblica. La descrizione di questa grande area, con la sua pineta e la sua spiaggia, inaccessibile e sconosciuta a tutti, anche se si sa bene che esiste, è di grande interesse. Servadei ci conduce all’interno della tenuta e così possiamo “vederla”.

“Al centro dell’ampio portale, un po’ arretrato rispetto alla soglia, troneggiava un corazziere in alta uniforme. Ero anch’io in divisa, da colonnello pilota dell’Aeronautica ma ero ben lungi dall’avere un aspetto così imponente.” Descrive così Servadei l’immagine della Guardia di rappresentanza del Presidente, altrimenti chiamata “Corazzieri”. Neanche a dire che l’autore soffra di nanismo … no, sono proprio i Corazzieri che sono statuari (foto proveniente da www.flickr.com)

Una parte del libro è dedicata ai corazzieri. Li conosciamo tutti, da fuori. Ci stupiscono con la loro statura e la loro divisa che somiglia vagamente ad un’armatura, qualche turista riesce perfino a farsi una foto con qualcuno di loro, ma poi ognuno se ne va, lasciando l’episodio a livello di un semplice incontro.

In questo libro, invece di andarcene, entriamo dentro la loro realtà, nei loro locali, nella loro mensa. E ci sembra di conoscerli come si conoscono dei colleghi di lavoro.

In questo libro si parla poco di aerei, se ne accenna appena, qua e là.

Si parla invece di moto.

Non solo di quelle dei corazzieri, che all’epoca erano delle Moto Guzzi. E servivano ad accompagnare il Presidente nei suoi spostamenti ufficiali.

La retrocopertina di “Un pilota a palazzo” che, secondo la migliore tradizione editoriale, contiene dei brevi cenni biografici dell’autore. E sottolineiamo brevi perché il buon Servadei, nel corso della sua lunga carriera di pilota militare, ne ha viste e ne ha fatte davvero molte. Fortuna nostra vuole che ce le abbia pure raccontate!

Servadei abitava ai Castelli Romani, ad una certa distanza dalla città di Roma. Il traffico della Capitale è micidiale. La mattina si formano code tremende verso Roma e lo stesso avviene nel pomeriggio, verso fuori città. Le ore di punta rendono difficoltosi gli spostamenti. Una moto risolverebbe il problema.

E cosa fa Servadei? Rinuncia alla macchina ministeriale con autista e si compra una moto. Così può arrivare in perfetto orario, se non addirittura in anticipo, alzandosi tre quarti d’ora più tardi.

Che dire, anni fa, sia quando ero militare, sia dopo, quando lavoravo per quella che oggi è l’ENAV, anch’io ho risolto così il problema del traffico romano. Ho sempre avuto una moto, una passione che per me è stata seconda solo a quella per gli aerei e gli alianti.

Con la moto andavo tranquillamente a Ciampino o a Pratica di Mare, alzandomi più tardi e arrivando sempre in tempo nonostante le indescrivibili code del mattino. E tornavo a casa in breve tempo, superando chilometri di automobili che procedevano a passo d’uomo.

Io avevo una Moto Guzzi. Servadei opta, invece, per una Ducati.

Questione di gusti personali.

Una parte del libro parla dei voli di stato. E coinvolge anche i voli del Papa, il quale, come è noto, utilizza un elicottero dell’Aeronautica Militare. Nei viaggi più lunghi utilizza un aereo, all’epoca era un DC 9 oppure un Gulfstream G3, come fanno le alte cariche dello Stato Italiano.

Ma il Papa, formalmente, è il capo di uno Stato estero.

Eh, questa parte del libro è decisamente molto gustosa. Almeno lo è stata per me, durante la lettura.

Il nostro servizio di intelligence ci ha fornito questa preziosissima immagine che ritrae l’autore a colloquio segreto con l’allora il Presidente della Repubblica. In realtà lo scatto è pubblico ed è riportato diligentemente in un archivio a testimonianza storica dell’udienza tenutasi presso il Quirinale esattamente alle ore 10 e 30 di mercoledì 27 settembre 1989 nel corso della quale Il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ricevette il Col. Pil. Bruno Servadei. Con questa stretta di mano congedò formalmente il suo Consigliere Militare Aggiunto per l’Aeronautica e si chiuse così la frequentazione a Palazzo del nostro autore (Foto proveniente dal Portale storico della Presidenza della Repubblica https://archivio.quirinale.it/aspr/fotografico/PHOTO-001-079284/presidente/francesco-cossiga/col-pil-bruno-servadei-consigliere-militare-aggiunto-l-aeronautica-visita-congedo#n)

E le visite di Stato? Altra parte interessantissima. Queste hanno dato all’autore l’occasione di girare mezzo mondo, con molti aneddoti tutti da leggere. Anche in questi viaggi, alcuni dei quali in vari stati africani, abbiamo l’impressione di far parte delle delegazioni diplomatiche. Al punto che, chiuso il libro, ci sembra di essere appena tornati dalle missioni.

E quando il libro finisce veramente, lasciamo Servadei in procinto di essere trasferito.

Ma il nuovo incarico è altrettanto promettente. Si occuperà di cooperazione internazionale nel settore dell’industria della difesa con tutti i paesi della NATO, più alcuni altri.

Nelle ultime pagine, poche parole descrivono la cerimonia di commiato.

Il giorno dopo Servadei è su un volo per Montreal con un gruppo di persone sconosciute.

E mentre il suo aereo rimpicciolisce nell’immensità del cielo, verso nuove avventure, a noi resta una vaga speranza che appena ne avrà il tempo, non mancherà di raccontarcele.






Recensione di Evandro A. Detti (Brutus Flyer),

didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR


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