Da grande farò il pilota perché è un lavoro divertente e facile. Ecco perché ci sono tanti piloti in giro.
I piloti non devono studiare molto, devono imparare a leggere i numeri per poter leggere gli strumenti. Credo però che debbano imparare a leggere le carte stradali, per ritrovare la strada se si perdono.
I piloti devono essere coraggiosi, in modo da non spaventarsi se c’è nebbia e non vedono niente, e se perdono un’ala o il motore devono mantenere la calma.
I piloti devono avere occhi buoni per vedere attraverso le nuvole e non possono avere paura dei fulmini e tuoni, perché loro ci vanno più vicino di noi.
Anche gli stipendi dei piloti sono una cosa che mi piace. Fanno più soldi di quanti riescono a spenderne, perché molti credono che volare con gli aeroplani sia un mestiere pericoloso, tranne i piloti che sanno quanto sia facile.
Non c’è un gran che che non mi piaccia, tranne il fatto che i piloti piacciono a tutte le ragazze e le hostess vogliono sposare un pilota cosi loro devono tenerle lontane per non farsi sfinire.
Spero di non soffrire di mal d’aria, visto che soffro di mal d’auto.
Se soffro di mal d’aria non potrò fare il pilota e mi toccherà andare a lavorare.
# dal compito in classe di un bambino inglese di 10 anni #
Non sappiamo praticamente nulla di lui … tranne che è un bambino di 10 anni di nazionalità inglese.
Sappiamo infine che ha scritto: “Da grande farò il pilota” nel corso di un compito in classe. Non sappiamo altro.
Anzi, chiunque dovesse avere sue notizie, ce lo faccia sapere e saremo lieti di dare un volto e soprattutto un nome a questo nuovo virgulto della narrativa aeronautica.
Per inviare impressioni, minacce ed improperi all’autore:
collana: Edizioni tascabili / I libri pocket (nr 8)
anno di pubblicazione: 1965
ISBN:non presente
“[…] and in the narrow cockpit I wept, as I shall never weep again, when I felt the concrete brush agains his wheels and, with a great sweep of the wrist, dropped him on the ground like a cut flower […]”
“[…] Ed ho pianto, nella stretta cabina, come non piangerò più in vita mia, quando ho sentito il cemento della piasta sfiorare le sue ruote e con una pressione della mano l’ho costretto al suolo come un fiore reciso […]“.
Ho deciso di cominciare questa recensione con alcune delle ultime parole del libro di Clostermann, versione inglese, perché … per tanti motivi. Ma uno fra tutti, perché sono la naturale chiusura di un capitolo della vita di una persona, un pilota da caccia, che ha vissuto avvenimenti talmente intensi e concentrati in un periodo relativamente troppo breve per essere realmente assimilati o perfino compresi, da rimanere impressi nella memoria di chi ne è stato protagonista e di chi oggi li legge soltanto, per sempre.
Clostermann ha scritto questo libro riferendosi alle sue registrazioni giornaliere che aveva conservato per suo padre e sua madre. Si era impegnato fermamente ad annotare su un quaderno tutti i fatti importanti della sua vita di pilota da caccia. Alla fine i quaderni erano diventati tre. Pensava che, se non fosse arrivato vivo al termine del conflitto, quei diari avrebbero comunque permesso ai suoi genitori di conoscere come era stata la vita del loro figlio fino all’ultimo giorno. Ma non fu necessario. Poté raccontare lui stesso tutto quanto. Allora decise di scrivere un libro, per condividere con tutti la sua guerra.
Una delle copertine delle varie edizioni pubblicate da Longanesi & C. Da notare lo strappo nella parte bassa a dimostrazione che si tratta di un volume veramente vissuto
“Le Grande Circle”, questo era il titolo originale in francese, è stato scritto nel 1948, quando la guerra era da poco terminata. Pierre Henry Clostermann era nato a Curitiba, Brasile, il 28 febbraio 1921, ed è morto a Montesquieu-des-Albères, un paesino sui Pirenei, il 22 marzo 2006.
Era figlio di un diplomatico francese. Studiò dapprima a Parigi, ma poi proseguì gli studi negli Stati Uniti, dove si laureò in Ingegneria. A diciassette anni aveva già conseguito il brevetto di pilota di aeroplano.
Nel 1942 rispose all’appello del generale Charles de Gaulle arruolandosi nelle Forces aériennes françaises libres, la componente aerea della Francia libera.
Il libro comincia con il suo arrivo in Inghilterra, dove frequenta la scuola caccia e vola sul famoso Spitfire sin dall’inizio.
Chiunque abbia anche solo un minimo interesse per la storia della guerra aerea nella Seconda Guerra Mondiale non riuscirà a smettere di leggere questo libro. E lo stesso vale per chiunque abbia la passione per il volo.
Dall’inizio alla fine il libro contiene la descrizione magistrale di tutto ciò che riguarda le vicende di un pilota di guerra, compresi i fatti collaterali della vita di tutti i giorni, i criteri con i quali si effettuavano tutte le operazioni militari e non, la radiotelefonia dell’epoca, i rapporti tra i commilitoni, i trasferimenti, gli incidenti, l’esaltazione e la disperazione dovute all’alternarsi delle sorti della guerra etc.
Non c’è neanche una sola frase nella quale l’interesse venga meno un istante.
Questo libro è destinato ad essere, non solo letto, ma riletto diverse volte. E alla fine si ha l’impressione di aver vissuto la guerra insieme a Clostermann.
La descrizione dei combattimenti aerei, degli abbattimenti, degli immancabili incidenti (l’aeroplano ha ucciso più piloti di quanto abbiano fatto gli avversari), della tempesta di emozioni che travolge l’autore ogni istante, è talmente vivida che ci si trova coinvolti come se si fosse lì in quel momento.
Un pilota di oggi difficilmente riesce ad immaginare fino in fondo una simile realtà che però era quella di ogni giorno. Per questo è tanto interessante questo libro. Perché ce la racconta.
Clostermann ha volato dapprima sullo Spitfire, che era un mito già allora. Poi è passato sul Thypoon e infine sul Tempest. Tutti aerei potenti, ben armati e difficili da pilotare.
Di estremo interesse sono anche le impressioni di pilotaggio di questi famosi aerei, che oggi possiamo vedere solo sulle foto dell’epoca oppure nei musei.
Quando un libro riscuote successo, le edizioni si sussegguono. Longanesi & C. ebbero il buon senso di non stravolgere la copertina iniziale e anzi la riproposero inserendola in miniatura nelle collane pubblicate successivamente. Da notare il prezzo di vendita
Durante la lettura del libro sono incappato in un punto nel quale Clostermann descrive un combattimento aereo tra le nuvole. Arrivato all’apice di una risalita, in condizioni di visibilità marginali, si attarda un po’ troppo nella rimessa in volo normale. Il Tempest stalla ed accenna ad entrare in vite. Così Clostermann descrive il momento:
“Il Tempest risale a tremila metri veloce come un razzo e mi ritrovo, madido per la paura e l’angoscia, rovesciato sul dorso. Il motore dà una scossa violenta, poi pianta e mi arriva in faccia una pioggia di terriccio, di ferraglia, d’olio; l’apparecchio cade in vite. La vite del Tempest è la cosa più pericolosa che vi sia: un giro, due giri e si è come un cencio, sbattuti con forza contro le pareti della cabina nonostante le cinghie che tengono legato al seggiolino”.
Un aereo del genere non dovrebbe entrare in vite accidentale per tanti motivi. Il lettore troverà tutte queste informazioni durante la lettura. Ma un aereo che arriva a sfiorare velocità soniche, dell’ordine dei milleduecento chilometri orari, pesante e con inerzie notevoli, se entra in vite non esce certo dopo mezzo giro e neanche dopo un giro. Se questo avviene a quota troppo bassa è finita.
Personalmente, ma su mezzi moderni, ho eseguito la vite intenzionale con parecchi aerei e alianti e so cosa significa.
Mentre Clostermann descriveva il momento in cui il suo Tempest stallava e cominciava ad avvitarsi ho provato una specie di capogiro, come se avessi già vissuto quel momento, esattamente nello stesso modo, ma in una vita precedente.
Non credo a queste suggestioni, ne ho solo sentite parlare, ma è ciò che ho provato. Probabilmente, sulla mia reazione hanno influito sia l’esperienza personale che la capacità descrittiva dell’autore, insieme alla tragicità di quegli eventi.
Un altro punto interessantissimo del libro riguarda il racconto della morte di un pilota tedesco, quindi un avversario, ma ben conosciuto dagli alleati per il suo indiscutibile valore, onorato anche al di qua delle linee. Si tratta di Walter Novotny del quale, chi vuole, può cercare informazioni su Internet.
Le notizie sulla morte di questo asso sono un po’ contrastanti. Di sicuro si sa che pilotava un bireattore di modernissima concezione che aveva fatto la sua comparsa nei cieli di Normandia in quel periodo finale della guerra. Si tratta del Messerschmitt Me 262. Era talmente veloce che riusciva a colpire e ad allontanarsi sottraendosi così alla caccia avversaria. Gli alleati potevano riuscire a prenderlo soltanto quando rallentava per atterrare. E infatti ne avevano abbattuti alcuni in questo modo. Ma i tedeschi avevano predisposto le loro difese. Avevano piazzato file di affusti di cannone di contraerea lungo il sentiero di avvicinamento all’aeroporto, su entrambi i lati. Un corridoio di fuoco nel quale il Me 262 entrava e rallentava in relativa sicurezza, mentre l’inseguitore doveva rimanere lontano per non essere colpito.
Novotny aveva abbattuto più di una sessantina di aerei nemici. Era veramente un valoroso.
Scrive Clostermann:
“Stasera il suo nome ricorre spesso nelle conversazioni alla mensa. Ne parliamo senza rancore e senza odio… Oggi è una rivincita per noi, salutare un nemico appena morto, proclamare che Novotny ci appartiene, ch’egli fa parte del nostro mondo nel quale non ammettiamo né ideologie, né odi, né frontiere.”
Il modello di velivolo, un Hawker Tempest, che Pierre Clostermann pilotò durante il conflitto mondiale. Da: http://www.world-war-2-planes.com/hawker_tempest.html
Un pilota del gruppo, poco dopo, dirà:
“Il primo che ha osato dipingere una coccarda sull’ala di un velivolo era un porco”.
Dicevo che le notizie sulla morte di Novotny sono incerte. Esistono testimonianze contrastanti e sarebbe davvero interessante sapere la verità.
Clostermann scrive sul suo libro:
“Il quindici marzo scorso, io conducevo una sezione di quattro Tempest in una caccia al topo su Rheine-Hopsten, a duemila e cinquecento metri di quota. Improvvisamente vedemmo apparire a volo radente un Messerschitt 262 senza mimetizzazione, con le ali lucide, brillanti al sole. Era già nel corridoio della contraerea e si apprestava ad atterrare. Lo sbarramento di traccianti si alzava per proteggere il suo avvicinamento. Io avevo deciso, conformandomi alle nuove disposizioni, di non attaccare in quelle condizioni, allorché senza preavvertirmi, il numero quattro della mia pattuglia si lanciò in candela verso il piccolo punto lucente che si avvicinava alla lunga pista in cemento. Bob Clark, lanciato come un bolide, attraversò per miracolo, senza essere colpito, il baluardo di fuoco e sparò una lunga raffica sull’Me 262 argenteo che era nella fase finale del suo atterraggio. Il Me 262 si fracassò in fiamme proprio al limite del campo”.
La notizia che quel Me 262 era di Novotny arrivò dopo due settimane. Un tempo sufficiente a deformarla e renderla imprecisa, specie in giorni tanto difficili.
Dopo che per anni la guerra aveva causato tanta distruzione e innumerevoli vittime, dopo tanti combattimenti aerei molto cruenti, mitragliamenti di aeroporti, treni, truppe, paesi, Clostermann era stanchissimo, come tutti i piloti della sua squadriglia. Il medico della base lo voleva mettere a terra, ma c’era bisogno di tutti e ognuno doveva continuare a volare, aiutato da dosi sempre maggiori di farmaci. I piloti cadevano come mosche, di giorno e di notte, in una palla di fuoco, in cielo come a terra.
Lo sforzo finale della guerra è descritto da Clostermann in una maniera inedita e altamente espressiva. Sono gli ultimi giorni, i peggiori, ma la vittoria arriva inesorabile e improvvisa.
Dice Clostermann:
“Poi venne l’armistizio e fu come una porta che si chiudesse”.
E inevitabilmente, tutto quel volare non è più necessario. Gli aerei, come i piloti, sono a pezzi. Viene il momento di consegnare le armi, che nel caso di un pilota, significa consegnare l’aereo. E qui, Clostermann scrive qualcosa che, a parer mio, è pura poesia. Parla del suo aereo come se fosse un compagno di avventure umano, vivente. Perché tale è, dopo aver combattuto con lui per tante ore, giorni, anni.
“[…] E nel ritorno sono salito con lui molto alto nel cielo d’estate senza nubi, perché solo là potevo dirgli addio. Per l’ultima volta, insieme io e lui, abbiamo puntato dritto incontro al sole. Abbiamo fatto un looping, forse due, alcuni tonneaux molto lenti, accurati, amorevoli, per poter portare via nelle mie dita la vibrazione delle sue ali obbedienti e agili. Ed ho pianto, nella stretta cabina, come non piangerò più in vita mia, quando ho sentito il cemento della pista sfiorare le sue ruote e con una pressione della mano l’ho costretto al suolo come un fiore reciso …
E quando i piloti e i meccanici che mi attendevano mi hanno visto con la testa bassa e le spalle scosse dai singhiozzi, hanno compreso e si sono avviati in silenzio verso il dispersal […]”.
Dopo tanti anni era utile nonchè doveroso riproporre “La grande giostra” al giovane pubblico del nuovo millennio … e a questo nobile scopo ha provveduto la casa editrice Odoya con un volume dalla nuova copertina, un nuovo sottotitolo e, secondo quanto riporta il catalogo dell’editore, illustrato internamente.
Non è difficile trovare “La Grande Giostra” nei mercatini o su Internet. Compratelo subito, se vi capita. Leggetelo, questo libro. E dopo che lo avrete letto lo collocherete in un posto comodo della vostra libreria, dove lo potrete riprendere con facilità, per leggerlo ancora.
Recensione a cura di Evandro A. Detti
Nota della Redazione
Nel 2014, per iniziativa della casa editrice Odoya, il libro di Pierre Clostermann è stato ripubblicato. In basso le coordinate editoriali:
Titolo: La grande giostra. Nei cieli della seconda guerra mondialeTraduttore: Santarone P.Editore: OdoyaCollana: Odoya libraryData di Pubblicazione: Aprile 2014ISBN: 8862882335ISBN-13: 9788862882330Pagine: 284Formato: brossura
Ero entrato in una libreria di Orbetello, in provincia di Grosseto. Di solito vado in quella libreria a vedere se è uscito qualche nuovo libro sulle trasvolate atlantiche che proprio da Orbetello sono partite. Ogni tanto trovo qualche novità e ne aspettavo una anche in quei giorni. Ormai i gestori mi conoscono e mi tengono informato su eventuali nuove edizioni.
Uno degli addetti alla vendita mi stava parlando con notevole entusiasmo di un piccolo libro che aveva letto tempo prima e che gli era piaciuto moltissimo, ma non riusciva a ricordarsi il nome dell’autore. Ricordava invece il titolo perché era semplicissimo: “La virata”.
Con l’aiuto del computer si mise a cercare nel loro database, ma non lo trovò. Deluso, continuò a parlarmi di questo semplice libro tanto piacevole e interessante. Alla fine mi disse che il libro costava pochissimo e valeva veramente molto e che, se lo avessi voluto leggere, me lo avrebbe ordinato per quando fossi ripassato da lì. Naturalmente accettai.
Nella visita successiva, appena entrato, ecco arrivare l’addetto con in mano il librettino. Mi dice, tutto soddisfatto, che sarei stato felice di leggerlo. Infatti, ora che l’ho letto, sono anche più entusiasta di lui.
La copertina interna del volume curato da Matteo Codignola, autore dell’appendice dal titolo: “Il pilota automatico”
Il libro è piccolo davvero, costa 5,50 euro e conta in tutto una settantina di pagine. Ma sono pagine di vera delizia.
Ho letto tanti libri sull’argomento aviatorio: storia aeronautica, racconti di volo di guerra e di pace, biografie di piloti e non, manuali vari. Perfino libri di filosofia aeronautica. Ma questo è stato una sorpresa davvero.
In verità, non parla solo della virata in senso stretto, ma affronta e sviscera aspetti particolari della virata, con un gran numero di riferimenti storici, medici e tecnici. Qualunque pilota, per esperto che sia, pur sapendo di cosa l’autore sta parlando, rimarrà inevitabilmente sorpreso.
Il nome di questo autore, William Langwiesche, non mi diceva assolutamente nulla, all’inizio. Ma poi, verso la fine della lettura, dalle pagine scritte ha cominciato a venir fuori un vago ricordo di qualcosa che già avevo letto altrove …
Il padre di William aveva scritto un libro intitolato “Stick and rudder”. E questo titolo evocherà lo stesso vago ricordo anche a parecchi altri piloti.
Matteo Codignola, il curatore di questo volume, non avrebbe potuto scegliere un aforisma più emblematico se non quello di Wolfgang Langewiesche, autore del libro “Stick and rudder” nonchè padre di William Langewiesche
Sembra impensabile di poter scrivere tanto su una sola manovra come la virata. Oltretutto senza neanche affrontare direttamente la spiegazione di come si esegua questa manovra. Senza formule matematiche o di fisica.
La retrocopertina del volume piccolo nel formato ma grande nei contenuti. Ha come titolo originale: “The turn” e nella copertina, di un bel colore blu cielo, riporta la foto di Peter Marlowe del 2003 dal titolo: “In volo”
Nessuno si aspetta l’esistenza di così tante implicazioni che della virata fanno parte. E che sono passate attraverso la storia di oltre un secolo, senza che ce ne accorgessimo, sebbene in questi decenni, tutti noi piloti abbiamo effettuato innumerevoli virate, in tutte le condizioni possibili.
I francesi sono nostri cugini. E gli spagnoli sono nostri fratelli.
I primi sono antipatici e i secondi simpatici.
Ma è proprio vero?
Il racconto è in fondo un gioco a rimpiattino, che cerca di svelare piccoli stereotipi legati alle diverse popolazioni; e grandi stereotipi che accompagnano normalmente la narrativa gialla o noir.
Il volo, e un detective con la testa tra le nuvole, diventano gli strumenti con cui scardinare le regole ferree del giallo e le atmosfere tipiche di una città come Barcellona. Così, quello che racconto è un mondo fatto soprattutto di volti, rughe, lacrime. Agonie fatta di permanenze infinite. E, ancora, quel senso di solerte abbandono che si appiccica insolente alle facce. Dolore misto a incredulità e sdegnoso rifiuto; una orgogliosa ritrosia che solo con l’inganno a se’ stesso ogni personaggio muta in una smorfia di faticosa rassegnazione.
Che magari è un ghigno sardonico rivolto verso noi che ben pensiamo… Vicina ad una idea di commovente coraggio.
Dunque, gli ospiti delle pagine sono in verità ospiti della vita, e si sentono come i passeggeri nelle sale d’aspetto dei grandi aeroporti: arrivi e partenze dove, nell’attesa, ognuno si interroga con le ultime parole di commiato prima di una scelta voluta o obbligata. Ronzii fastidiosi alle orecchie ben educate. Rumori di fondo incapaci di giusta sintonia. Interferenze, scariche sonore, trasmissioni pirata su frequenze inesistenti. Resti. Rantoli. Rifiuti. Rigetti. Ribrezzi. Ripugnanze. Residui. Rospi da sputare.
Ma, accettate un consiglio da amico, fermatevi ad ascoltarli e non perdete nemmeno una pausa del loro respiro rarefatto: passerà molto e molto tempo prima che aprano di nuovo bocca.
Narrativa / Medio-breve
Inedito; ha partecipato alla III edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2015; in esclusiva per “Voci di hangar”