Flying to the moon

titolo: Flying to the moon. An astronaut story – [Volando alla Luna. La storia di un astronauta]

autore: Michael Collins

editore: I edizione 1976;

II edizione, Sunburst edition 1985;

I edizione libro digitale maggio 2011, editore Harper Collins Canada Ltd

ISBN: 9781429929479





L’Apollo 11 resterà nella storia come la prima missione spaziale ad aver portato il primo uomo sulla Luna.

L’equipaggio era composto da tre piloti americani, divenuti astronauti attraverso un lungo percorso di durissimo addestramento. Tutti avevano già fatto parte delle precedenti missioni Mercury e Gemini, durante le quali avevano sperimentato le tecniche di rendezvous e di EVA (extra veicolar activity- lavoro extra veicolare) nello spazio fuori dell’atmosfera terrestre.

Il ritratto dell’autore divulgato alla vigilia della partenza della missione che lo ha reso famoso a livello planetario: l’Apollo11. Nel 1966, Michael Collins aveva già volato nel corso della missione Gemini 10 nel corso della quale, assieme al suo compagno di viaggio John Young, stabilì l’allora record di altezza mai raggiunta: 475 miglia sopra la superficie terrestre. Una record davvero insignificante se paragonato ai risultati strepitosi della missione Apollo 11 che conquistò la Luna.

Il primo a scendere la scaletta del LM (modulo lunare) fu Neil Armstrong, che entrò nella storia e sarà ricordato per l’eternità. Già il secondo, Buzz Aldrin, pur essendo membro del primo equipaggio a camminare sulla Luna, gode di minor risalto, brilla di meno. E infatti questa condizione ha finito per condizionare la sua vita successiva.

Ma c’era un terzo membro in quell’equipaggio.

Michael Collins, nell’orbita lunare, salutò i suoi compagni, li vide entrare nel LM, denominato “Eagle”, osservò questo staccarsi dal modulo di comando denominato “Colombia” ed iniziare la discesa verso la Luna.

E restò solo, in una cabina tanto piccola, nello spazio immenso, a girare intorno alla Luna.

Durante ogni orbita, mentre la capsula Columbia girava dietro la Luna, ogni comunicazione con la Terra si interrompeva. Collins restava solo, con una grande mole di controlli e calcoli da fare, ignorando la sorte dei suoi due compagni, finché la sua posizione non gli consentiva di tornare in linea ottica con la Terra o con il LM Eagle.

Un compito gravoso il suo, senza nemmeno la soddisfazione di scendere sul suolo lunare, dopo esserci arrivato tanto vicino.

La missione Apollo 11 prese avvio alle 9,32 del mattino, ora locale della Florida, il 16 luglio 1969 dalla piattaforma di lancio 39A del Kennedy Space Center. Il razzo vettore era l’enorme Saturn V. Qui una sua immagine scattata dalla torre di lancio durante il lancio, appunto

In una missione del genere tutto doveva funzionare con la precisione più assoluta. I rischi erano tanti. La ripartenza del LM dal suolo della Luna doveva avvenire in perfetto sincronismo con l’orbita del modulo di comando, per poter eseguire al meglio la ricongiunzione dei due veicoli.

Se il LM non fosse potuto tornare, per qualunque motivo, Collins avrebbe dovuto, suo malgrado, tornare tutto solo verso la Terra, abbandonando i due amici al loro destino. Una risoluzione molto dura da sostenere, seppur doverosa.

La copertina del libro di Michael Collins nella sua prima edizione

Ma c’era anche la possibilità che il LM riuscisse a ridecollare, senza però essere in grado di portarsi alla quota del modulo di comando. Allora Collins avrebbe dovuto calcolare ed eseguire una discesa fino all’orbita dell’ Eagle e manovrare per eseguire il rendezvous d’emergenza a quota più bassa e ad una velocità molto diversa da quella standard.

Il libro di cui stiamo parlando è scritto da quest’uomo. Ed è una cosa fantastica leggerlo.

Il primo capitolo comincia proprio dalla descrizione della separazione dei due veicoli nell’orbita lunare e del commiato tra Collins e gli altri due. La descrizione di questa fase, proprio perché fatta da chi c’era, da chi ha compiuto veramente quelle azioni, è qualcosa di eccezionale (benedetto Kobo).

Questa è invece la copertina del libro “Flying to the Moon” nella veste rivista e corretta della II edizione che è appunto quello oggetto della recensione

Dice Collins:

We were a little nervous that morning. We were concerned about how well our spacecraft and computers would work. We also worried about the rocket blast from Eagle, our lunar module, which might kick up a lot of dust and prevent Neil Armstrong from being able to see well enough to land. Or suppose Neil couldn’t find a spot smooth and level enough to put Eagle down? – [Eravamo un po’ nervosi quella mattina. Eravamo preoccupati su come la nostra capsula spaziale e i computer avrebbero funzionato, Eravamo anche preoccupati del soffio del razzo del modulo lunare Eagle che avrebbe potuto alzare molta polvere e impedire a Neil di vedere abbastanza bene per atterrare. O supponiamo che Neil non riuscisse a trovare un punto abbastanza liscio e livellato per posarci il LM”]

Dal secondo capitolo comincia la narrazione della sua vita aeronautica, a cominciare da quando era un ragazzino di nove anni e voleva tanto imparare a volare. Viveva in San Antonio, Texas e c’erano tanti campi di aviazione nei dintorni. Ad 11 anni, infatti, riuscì a fare un volo su un bimotore e addirittura il pilota gli lasciò i comandi per un po’ di tempo. Questo gli permise di capire che non era semplice pilotare, ma gli piacque al punto che, quando il volo ebbe termine, sapeva cosa avrebbe voluto fare nella vita: il pilota.

Così cominciò la sua vita di pilota militare, addestrandosi su un aereo che è stato per lungo tempo il padre di un gran numero di piloti nel mondo: il T-6.

Ma quella era l’epoca dei primi jets e Collins, in breve entrò nel mondo della propulsione a getto.

La missione Apollo 11 è terminata: l’astronauta Neil A. Armstrong (comandante), Michael Collins, (pilota del modulo di comando) e Edwin E. Aldrin Jr. (pilota del modulo lunare) sono ammarati nell’Oceano Pacifico a circa 2.660 km ad est dell’Isola di Wake, 380 km a sud dell’Atollo Johnston ma a solo circa 23 km dalla nave recupero USS Hornet. Erano le ore 11,49 del mattino, ora locale, del 24 luglio ’69. Da notare che i quattro uomini sul gommone indossano delle apposite tute protettive per l’isolamento biologico. Nell’ipotesi che i tre astronauti potessero accidentalmente recare con loro pericolosi e sconosciuti agenti patogeni presenti solo sulla Luna, la NASA adottò infatti delle misure assai prudenti in termini di contaminazione biologica e dunque, giunti sulla Terra, collocò i tre reduci lunari in una quarantena feroce dalla quale uscirono solo il 10 agosto.

In some ways a jet is easier to fly than a plane with a piston engine and a propeller” – [“Per alcuni versi un jet è più facile da pilotare di un aereo con il motore a pistoni e l’elica”], afferma.

Il libro ripercorre tutta la storia delle missioni spaziali, stavolta vissuta da lui. Una storia che ricalca quella narrata dagli altri astronauti. Ma dal punto di vista di Collins.

Sono rimasto sorpreso dalla strana facilità con la quale ho letto questo lungo libro in inglese. Gli altri astronauti sembrano usare un linguaggio più colloquiale, usano molte frasi idiomatiche, una sorta di slang addomesticato, ma spesso di non facile comprensione, perché non si possono tradurre alla lettera certe frasi e il loro significato non fa certo parte della mia cultura di italiano.

Uno dei due libri di cui Michael Colins è autore

Collins, invece, sembra scrivere in un inglese più classico. Infatti si legge bene e senza dover troppo spesso cercare il significato delle parole. Mi è capitato di scorrere pagine e pagine con l’impressione di leggere in italiano. Forse è solo una sensazione mia personale, tuttavia la confronterei volentieri con qualche altro lettore. Se qualcuno si vorrà avventurare nell’acquisto di questo libro digitale e lo leggerà, gli sarei grato se volesse scrivere qualcosa a commento di questa recensione.

L’inglese è una lingua molto espressiva e non è vero, come sostengono alcuni, che si presta bene solo per le faccende tecniche. Collins descrive l’iter addestrativo con una proprietà di linguaggio che sfocia nella poesia. In alcuni passaggi, descrive le sue sensazioni durante il corso di sopravvivenza, durante i voli parabolici che simulano la condizione di assenza di peso e perfino l’effetto della centrifuga a più di otto G. Sembra di vivere le sue esperienze come se fossimo noi stessi coinvolti nelle situazioni.

In verità, tutto è descritto in maniera molto vivida.

Il libro contiene parecchie foto. Ma purtroppo, la resa delle immagini non è un pregio dell’ebook. Per fortuna, nell’epoca di Internet, non è difficile trovare le stesse foto, e perfino i filmati, relativi a tutto ciò che il libro racconta.

Gli ultimi capitoli riprendono il racconto di tutto il resto delle operazioni di allunaggio e del rientro verso la Terra. Racconto che Collins aveva iniziato nel primo capitolo, che aveva interrotto per parlare di come era arrivato fin lì, e poi riprende da dove l’aveva interrotto. Ma è una narrazione piena di particolari, parla perfino di come dormivano nel ristretto spazio della capsula, di come mangiavano, di cosa parlavano delle battute che si scambiavano con il Centro di Controllo a Terra.

Il modulo lunare LM ( Lunar Module) “Eagle” della missione Apollo 11 come apparve il 20 luglio del ’69 dal modulo di comando e servizi CSM (Command and Service Modules) “Columbia” che si trovava in orbita lunare. A bordo c’era proprio il pilota astronauta Michael Collins al quale dobbiamo il merito di questa fotografia memorabile

Come tutti gli altri autori, racconta la vita comune che ritrova dopo una simile impresa. E come altri dedica una parte all’esame delle possibilità future dell’esplorazione dello spazio e dell’interesse per uno dei pianeti a noi terrestri più cari: Marte.

Di questo argomento si è occupato con più enfasi ed entusiasmo Buzz Aldrin. E continua ancora a farlo.

Sembra che Collins non abbia avuto da affrontare i tracolli familiari che hanno coinvolto i suoi colleghi. E’ rimasto sempre con la moglie Patricia e con i loro tre figli.

Oggi si torna a parlare di spazio. Esistono, e operano, società private che effettuano lanci di veicoli spaziali per scopi commerciali. Alcuni di questi attraccano alla Stazione Spaziale Internazionale. Ma il vero passo in avanti, in questo campo, è lo sviluppo e l’impiego di vettori riutilizzabili. Sono razzi che portano in orbita un veicolo spaziale e poi tornano a terra, atterrando sulla piazzola dalla quale erano partiti, scendendo all’indietro in verticale con assoluta precisione.

Un risparmio non da poco. Come dice Collins, fino adesso abbiamo operato come se si andasse dall’America all’Europa con un aereo di linea e dopo l’atterraggio buttassimo l’aereo.

No, non si tratta di un fotomontaggio. Ancora oggi, a Roma, adiacente all’ingresso del civico 16 di via Tevere – quartiere Salario – è visibile la targa in marmo che l’allora sindaco Darida, in rappresentanza di tutta la cittadinanza romana, volle scoprire in omaggio a Michael Collins, intervenuto per l’occasione assieme alla moglie. L’astronauta dell’Apollo 11 nacque infatti in quella palazzina il 31 ottobre del 1930. Suo padre, all’epoca addetto  dell’Ambasciata degli Stati Uniti, risiedeva lì con la sua famiglia e dunque la prima aria che il neonato Michael respirò fu quella romana. Su Youtube è possibile vedere il filmato risalente al ’69 che testimonia la cerimonia d’inaugurazione della targa e la visita di Collins alla sua casa natale (https://www.youtube.com/watch?v=O7uzXypjtWY)

La riusabilità dei vettori, unita ad altri tipi di ottimizzazioni, con la disponibilità di nuovi materiali, nuove tecnologie e computer più potenti, dovrebbe portare al riaccendersi dell’interesse per i viaggi spaziali e la colonizzazione di asteroidi e del pianeta rosso. Negli anni a venire dovremmo sentir parlare sempre più spesso e diffusamente di questo argomento.

Il duemiladiciannove è l’anno del cinquantesimo anniversario del primo allunaggio. Sono cinque decenni. E’ già passato anche troppo tempo.



 


Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)


Carrying the fire

Carrying the fire, Il mio viaggio verso la Luna



La voce di Badger


 

“In un caldo pomeriggio estivo un pilota mostra ad un amico l’aereo che ha da poco acquistato ed illustra le tante possibilità offerte dalle avioniche digitali. “Gli manca solo la parola” commenta l’amico. Questa frase porta il pilota a realizzare un dispositivo che, interfacciato con il glass cockpit dell’aereo, consente una interazione vocale. Tutto funziona ma… quali funzioni affidare a questo “grillo parlante” perché si renda utile prima, durante e dopo un volo?”

Un esempio di cruscotto di un moderno velivolo che adotta l’apparato citato dall’autore nel suo racconto. Da notare che i due ampi schermi a disposizione di pilota e copilota forniscono, da soli, tutto quanto necessita loro per la condotta del velivolo. A completamento si può riconoscere l’ampio display posto in verticale che riproduce, emulo dei diffusissimi navigatori per uso stradale ormai collocati nelle automobili anche di fascia economica, i dati cartografici in chiave aeronautica. Relegati in basso a sinistra, al solo scopo di sicurezza ridondante, sono infine presenti i due strumenti principi del volo: anemometro e altimetro. Sicuri al 100% perché completamente analogici e meccanici. E bisognosi solo di aria per il loro funzionamento.


Roberto Guidorzi così sintetizza il contenuto del suo racconto intitolato “La voce di Badger” con il quale ha partecipato alla V edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” organizzato dal nostro sito e dai nostri amici dell’HAG.

La giuria del Premio, purtroppo, non lo ha ritenuto meritevole di accedere alla fase finale e dunque alla pubblicazione nell’antologia del Premio tuttavia, come da regolamento, VOCI DI HANGAR ha il piacere di ospitarlo in un angolino del suo grande hangar.

La schermata dell’apparato Skyview in tutta la sua bellezza. La voce che l’autore gli ha conferito non possiamo fornirvela per evidenti motivi ma – ne siamo certi – egli non esiterà a farvela ascoltare, magari abbinata ad un bel volo turistico a bordo del velivolo su cui è installata. O si tratta di una voce solo per pochi eletti?

Nel leggerlo, ci siamo resi conto che, almeno nella parte inziale, il racconto ha una sua valenza letteraria, il testo è fluido e piacevole, sussiste un’alternanza equilibrata del discorso diretto rispetto a quello indiretto, lo stile è moderno e dal sapore piacevolmente giornalistico-narrativo. Anche in termini di trama, si crea nel lettore una sana aspettativa in quanto l’autore riesce a catturare l’attenzione del lettore … purtroppo nel suo svolgimento centrale il racconto scivola in una sorta di resoconto tecnico, una specie di guida per apprendisti elettrotecnici che vogliano far parlare l’avionica del proprio aeroplano.

Ancora un possibile allestimento del cruscotto di un ULM ultimo grido. Tenuto conto dell’elevata affidabilità e della notevole qualità raggiunta, gli apparati “glass cockpit” (letteralmente: “cruscotto di vetro”) possono asservire completamente in un unico grande display tutte le necessità del pilota e del copilota; gli strument a capsula sono superflui e rimane, visibile al centro del cruscotto, la necessità di disporre solo un semplice apparato VHF-COMM per le comunicazioni radio.

Ora, lungi da noi esprimere considerazioni circa la scelta praticata da molti piloti proprietari di velivoli ultraleggeri di dotare la propria macchina volante di costosissimi apparati elettronici, riteniamo invece che stilare la radiocronaca passo passo di quanto operato per creare la “voce di Badger” … beh – in tutta onestà – non si tratti di narrativa di sommo livello. Peccato. Perché neanche l’invenzione del nomignolo e qualche battuta arguta presente nella seconda metà del testo riescono a risollevare il giudizio sul racconto. Che si fa leggere, intendiamoci, ma sempre con maggiore fatica da parte di chi pensava di trovarsi di fronte un racconto di volo, di cielo e di aria e poi, con rammarico, incappa in un “tutorial” per installatori elettroavionici fai-da-te.

Ecco come potrebbe apparirci, visto da terra, un vero velivolo ULM (ultraleggero), ossia coerente con la filosofia cui si ispira il suo nome: leggero, essenziale, spartano, praticamente un semplice attrezzo sportivo che, al pari di una racchetta da tennis o dei pattini a rotelle, consenta di praticare uno degli sport più entusiasmanti eppure così lontani dalla nostra dimensione terrestre: il volo. Dovrebbe essere e che, realisticamente, non è più da anni. Se infatti i primi ULM erano davvero fin troppo leggeri, essenziali e spartani, già da parecchi anni si è giunti a velivoli ben poco leggeri, tutt’altro che essenziali e fuorché spartani. Sicuramente ne ha giovato la sicurezza e l’affidabilità tuttavia, si può ancora avere il coraggio di chiamarli ULM?

Per carità, l’autore non ci deve convincere di conoscere a fondo il suo mestiere: ne siamo certi! E non ci deve neanche convincere di essere ferrato in grammatica o sintassi: lo dimostra ampiamente … certo avremmo sperato da parte sua la scelta di un tema più originale, magari sempre legato alla voce sintetica del suo velivolo; insomma, quantomeno, avremmo caldeggiato uno sviluppo diverso della storia in quanto, onestamente, l’idea di base non è malvagia e avrebbe potuto toccare diversi aspetti ai margini dei quali spesso divampano feroci discussioni tra i piloti “all’ombra del gelso”, “sotto il gazebo” o dentro la club-house che dir si voglia (a seconda dei casi). Questo perché, a prescindere dai nomi dei luoghi o delle latitudini, in qualunque aeroporto, aviosuperficie o campo di volo che si rispetti, ricorre ovunque l’eterna contrapposizione tra chi pratica il volo per il piacere di farlo e chi vola perché costituisce uno status symbol, chi vola volentieri con macchine di basso profilo tecnologico purché si voli e chi non decolla senza aver avviato tutta la strumentazione modello centrale termonucleare, e ancora: ci sono coloro che, purché si vada per aria, farebbero volare una scopa con le ali e coloro che si portano appresso due “televisori” anche se non osano andare oltre il cielo campo, oppure chi spende i propri quattrini per trascorrere in volo più tempo possibile e chi a lustrare il proprio velivolo e magari ha il terrore di sporcarlo con il fango della pista.

Ecco come ci apparirebbe un velivolo ULM da vicino. Non si tratta di una macchina volante ancora in fase di costruzione, né di un eccesso provocatorio bensì l’incarnazione del concetto di ULM.

In definitiva – e lo scriviamo con rammarico – questo ci appare un po’ il racconto delle occasioni mancate. Ma siamo certi che l’autore ci darà modo e occasione per ricrederci. Non vediamo l’ora … praticamente non più tardi della prossima edizione del Premio “Racconti tra le nuvole”. Intesi Badger?

 

Recensione  a cura della Redazione


Narrativa / Breve

Inedito;

ha partecipato alla V edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2017;

in esclusiva per “Voci di hangar”

NOTA: in copertina lo Zigolo Mg12 della AVIAD del giovane Francesco Di Martino. La piccola azienda italiana ha lo fatto volare per la prima volta nell’aprile 2014 riscuotendo un buon successo di vendite (anche in kit). E’ definito un aeroplano “minimalista”

 


 

 

La voce di Badger

Il caldo era soffocante e quasi tutti i presenti si erano rifugiati sotto il grande gelso che sembrava essere il punto più fresco dell’aviosuperficie grazie ad un filo d’aria quasi sempre presente.

“Guarda guarda”, dissi arrivando, “è una riunione del Club del Gelso o dei Sunday Pilots?”

“Visto che ci sei anche tu”, mi venne risposto, “saranno i Sunday Pilots”.

Avuta la risposta che meritavo, mi unii a quella pigra brigata.

Si stava discutendo di eliche a passo variabile e dell’incremento della corsa di decollo causata dalla temperatura quando il mio vicino mi disse che non aveva ancora visto il mio nuovo aereo e mi chiese di dargli un’occhiata.

“Ma non è nuovo”, mi schernii, “lo ho acquistato usato, ha 130 ore”.

“Beh, quasi nuovo”, mi rispose, “e lo vedrei volentieri”.

Con un pizzico di riluttanza abbandonai quell’oasi ombrosa e ci ritrovammo nella penombra dell’hangar a togliere la copertura dal velivolo.

L’amico lo guardò non ben convinto; “Bella bestia”, disse, “ma è un ultraleggero?”

Lo rassicurai facendogli vedere la targhetta di coda con peso a vuoto e quant’altro.

“Beh, beh”, commentò, “meglio comunque che tu voli con un copilota snello, soprattutto se riempi quei due serbatoi, 130 litri di benzina sono un centinaio di Kg”.

Non aveva tutti i torti e cercai di distrarlo accendendo il glass cockpit che sembrò suscitare il suo interesse. Mi lanciai allora in una esposizione dei vantaggi che il passaggio al digitale offre, concentrando in un solo strumento la visualizzazione ed il controllo di una serie di accessori neppure immaginabili con una strumentazione tradizionale, dalla visione sintetica, all’autostrada nel cielo (Highway in the sky) che, se non hai voglia di inserire l’autopilota, ti guida dove sei diretto infilando una serie di porte come in un videogame, all’ADSB, al FLARM ed al PCAS che ti avverte quando hai qualcuno nelle vicinanze (“con il transponder acceso”, aggiunse, con una punta di malizia, il mio ospite).

Alcune sigle non gli erano del tutto familiari e sembrò un po’ confuso poi disse: “Sarà, ma io preferisco gli strumenti tradizionali, quelli almeno sono semplici da usare”.

Leggermente piccato (ma come, la mia esposizione mi sembrava così convincente!) risposi: “Beh, se sei affezionato agli “orologi”, non è un problema, premi un tasto e…”

Così dicendo, feci comparire sul PFD i sei strumenti tradizionali evitando, per non infierire, di lasciare la visione sintetica sullo sfondo.

“Eh, così sì che va meglio”, disse soddisfatto, “gli manca giusto la parola”.

Non era vero neppure questo, scegliendo il livello di “loquacità” poteva diventare anche troppo ciarliero e, comunque, non c’era verso di evitare che strillasse disperato ‘Terrain! Terrain!’ quando riteneva che un finale fosse criticabile (e colorava anche di giallo, perfidamente, la zona dove riteneva possibile un contatto improprio con la madre terra). Altra inquietante ma ineliminabile fissazione il grido, egualmente disperato, ‘Traffic! Traffic!’ quando qualche altro aereo passava, a suo avviso, ad una distanza poco rispettosa. Ma non avevo alcuna voglia di raccontargli l’effetto un tantino lassativo di questi messaggi su alcuni passeggeri, così mi limitai ad un sorriso di assenso.

Mentre ritornavamo sotto il gelso mi chiese, sapendo che dò sempre un nome ai miei aerei, come lo avessi chiamato.

“Badger”, risposi. Mi aspettavo una richiesta di spiegazioni e non mancò.

“Sai”, gli dissi, “di notte il mio giardino è frequentato da una famiglia di tassi e, pur essendo animali un po’ schivi, siamo entrati in buoni rapporti; gradiscono molto gli spicchi di mela che preparo per loro, in particolare quelli di Golden Delicious. Ecco, mi sembra che il musetto del mio aereo assomigli un po’ al loro e per questo lo ho chiamato Badger cioè tasso in inglese”.

“Ah” , disse, poi mi guardò in maniera un po’ strana e non fece altre domande.

Quella domenica non volai, più per pigrizia che per il caldo, ma mentre ritornavo a casa, pensavo che, con ogni probabilità, non sarebbe stato difficile prelevare un certo numero di dati dallo SkyView che faceva bella mostra di sé sul cruscotto e dare a Badger, attraverso un sintetizzatore vocale, la possibilità di interagire con il pilota al di là dello schema, esteso ma prefissato, previsto dal suo Audio Advisory System.

Una volta arrivato sfogliai il corposo manuale di installazione e trovai rapidamente quanto cercavo. Tra i numerosi canali di comunicazione presenti nello SkyView vi erano anche quattro porte seriali, due delle quali, nel mio caso, ancora libere e rapidamente attivabili dal menù di configurazione. Decisamente sorprendente poi scoprire che il numero totale di misure che potevano venire prelevate era di alcune centinaia; fortunatamente era possibile selezionare, sempre da menù, solo quelle che interessavano. 

A questo punto era possibile disegnare uno schema a blocchi del piccolo sistema che avrei potuto realizzare e pensai ai seguenti moduli:

1) Un microcontrollore per leggere le misure inviate dallo SkyView, elaborarle, gestire i comandi inseriti dal pilota, predisporre le sequenze di controllo del sintetizzatore vocale ed inviarle;

2) Un sintetizzatore vocale;

3) Una unità di alimentazione;

4) Una logica di supervisione della priorità dei segnali audio (comunicazioni, sintetizzatore, musica) da inviare al pilota.

Nella configurazione mi sembrò poi opportuno inserire anche un amplificatore stereo di qualità elevata dato che l’impianto presente sull’aereo era monofonico e non prevedeva l’ingresso di una sorgente musicale esterna tipo lettore MP3, cellulare o altro.

Valutai che il costo totale dei componenti potesse aggirarsi sui 150 Euro e posi tra gli obiettivi progettuali quello di non effettuare un solo foro sull’aereo e di non modificare in nulla l’impianto di bordo se non per l’inserzione di due prese stereo al posto di quelle mono per le cuffie. Considerai anche che sarebbe stato quasi impossibile o, comunque, estremamente scomodo, effettuare la messa a punto del sistema in hangar quindi sarebbe stato opportuno mettere in conto anche la preparazione di un simulatore che fornisse, durante le prove, le sequenze di dati che avrei poi prelevato dallo SkyView. Un lavoretto in più che, tuttavia, mi avrebbe fatto risparmiare tempo e fatica.

Vario materiale era già disponibile e, in pratica, mi restava da scegliere il sintetizzatore e poco altro. Per il vero, ne avevo uno nel cassetto ma, vecchio di dieci anni, era poco flessibile e decisamente scomodo da controllare. Quello sul quale misi gli occhi si presentava invece come un piccolo gioiello in grado di pronunciare correttamente frasi sia in inglese che in lingue neolatine, già dotato di sei profili vocali diversi, peraltro ampiamente modificabili, della possibilità di variare accenti, toni e volume persino all’interno di una stessa frase e, dulcis in fundo, stando alle specifiche, molto facile da controllare.

Mi sembrò assolutamente straordinario, lo ordinai immediatamente e in un paio di giorni la Fedex suonava il mio campanello.

Scelsi poi un Burr-Brown high-end per i canali audio e mi chiesi per chi mai fosse stato progettato un oggetto con distorsione totale e rumore inferiore allo 0,00008%, forse per gli alieni visto che un orecchio umano addestrato non avverte granché oltre lo 0,1%.

Con tutte queste meraviglie tecnologiche a disposizione preparai un progettino ed assemblai un prototipo che mi consentì di restare sorpreso dalla qualità della riproduzione musicale ma … anche da qualche problemino non proprio previsto nella gestione del sintetizzatore dato che non lo avevano dotato di alcun modo di segnalare il termine della pronuncia delle frasi ma solo della segnalazione della acquisizione (praticamente istantanea) delle stringhe dei relativi comandi. Ad ogni buon conto, superato questo problema e testata la logica di controllo delle priorità, mi ritrovai con una ubbidiente scatoletta destinata a prendere posto, fissata con il velcro, sotto il sedile del pilota, collegata ad una unità di controllo a sua volta sistemata nel vano portaoggetti presente tra i due sedili. Avevo rispettato il proposito di non fare alcun foro.

L’unica messa a punto riguardò il settaggio del volume del sintetizzatore e, a questo punto, il giocattolone era pronto per essere programmato in modo da svolgere le funzioni desiderate. Non potei fare a meno di pensare a Mastro Geppetto con il Pinnocchietto appena terminato tra le mani e incrociai le dita; questo almeno aveva bisogno di corrente e nel caso, togliendola, non avrebbe potuto combinare troppi danni.

Iniziai scrivendo le piccole routine che intercettano le stringhe spedite dallo SkyView decodificando le misure di mio interesse, convertendo nodi in km/h ed altre bagatelle di questo genere. Avendo sottomano il simulatore che avevo costruito (in pratica solo un microcontrollore opportunamente programmato ed interfacciato) questo lavoretto fu rapido ed indolore. Ora, divertente o meno che fosse, dovevo scegliere le funzioni da implementare e scrivere i relativi software.

Mi sembrò logico partire dai controlli pre-volo senza tralasciare una breve frase di benvenuto e presentazione (Welcome on board. My name is India Bravo ecc.). Scordavo; la scelta era caduta in maniera naturale sull’inglese per la maggiore compattezza lessicale, per l’eccellente pronuncia di ‘perfect Paul’ (il profilo vocale scelto) e per il fatto che, volenti o nolenti, ce la ritroviamo come lingua ufficiale nel mondo dell’aviazione.

Dopo questi convenevoli inizia, con teutonica precisione, una lista di richieste (es. Arm emergency parachute). Al termine di ognuna il pulsante di conferma sull’unità di controllo si illumina di un blu intenso ed occorre premerlo per avere la conferma dell’operazione eseguita ed una nuova richiesta.

Alla fine della litania un beneaugurante “Ready for departure” gratifica, se tutti i controlli sono stati superati, la diligenza del pilota. Ovviamente un foglietto o la checklist caricata sullo stesso SkyView può svolgere la stessa funzione; questa però è più efficace e veloce e vale decisamente il modesto sforzo della sua preparazione. In pratica svolge compiti normalmente gestiti dal secondo pilota ma senza alcuno spiraglio per dimenticanze.

Al secondo modulo (attivato dalla posizione successiva del selettore) affidai una funzione di supporto nella fase di decollo che inizia con la lettura continua della velocità fino a raggiungere quella di rotazione, alla quale arriva il deciso suggerimento: “Rotation!”. Segue la lettura continua di velocità e quota fino al momento di ritrarre i flap al quale, come è facile immaginare, si è raggiunti da un “Retract flaps” che non ammette repliche e si è anche tenuti a confermare questa operazione.

Per la verità, pur non avendo difetti formali o necessità di modifiche, non apprezzo particolarmente questo modulo e non lo attivo quasi mai; a quale velocità effettuare la rotazione preferisco sentirmelo comunicare direttamente dall’aereo e non dal grillo parlante.

Il modulo successivo, dedicato alla crociera, ha un compito di tutto riposo; si limita infatti a ricordare, con la frequenza impostata dal pilota, prua magnetica, velocità indicata e quota barometrica.

Arriviamo così al modulo più delicato ed indaffarato, dedicato alla preparazione dell’aereo per l’atterraggio ed allo stesso atterraggio. E’ piuttosto improbabile che un pilota scordi qualche passaggio in questa fase; in ogni caso la sequenza delle istruzioni specifiche (quota e velocità nelle varie fasi, flap, passo dell’elica, luci e quant’altro) vengono ricordate chiedendo anche conferma per alcune delle operazioni (es. effettiva inserzione dei gradi di flap previsti). Durante il finale l’unica informazione ripetuta (con frequenza elevata) è la velocità.

L’ultimo modulo è dedicato ai controlli post volo, da quelli più ovvi come la ritrazione dei flap a quelli talvolta trascurati come il confronto tra il carburante presente nei serbatoi e quello indicato dal Fuel computer.

Il grillo parlante, come ho battezzato questo oggetto, svolge in maniera accurata il compito che gli è stato affidato, restando in paziente attesa per il tempo necessario ogni volta che una comunicazione interrompe l’operazione che sta svolgendo. Ha però un lessico un po’ limitato e non fa mai osservazioni inattese; magari, quando troverò un momento, gli darò un briciolo di autonomia consentendogli di fare qualche commento tutto suo in maniera non inopportuna ma nemmeno prevedibile. A dire il vero, qualcosa gli avevo già concesso, provvisoriamente, durante la scrittura del software, lasciandogli assemblare, in alcune circostanze, frasette diverse di significato analogo. Lo avevo però rapidamente epurato dopo che, per un modesto ritardo nel ritrarre i flap mi sono sentito apostrofare da un “Would you please retract those bloody flaps?”, più o meno “Ti vuoi decidere a metter dentro quei fo**uti flap?”.

Certamente colorito, magari anche efficace, ma non è quello il modo!


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Roberto Giudorzi

Roberto Giudorzi


E’ un ingegnere elettronico, Professore Emerito di Teoria dei Sistemi presso l’Università di Bologna e si occupa della costruzione di modelli matematici dei sistemi dinamici mediante tecniche di identificazione cioè a partire da misure effettuate sui processi da modellare.

E’ autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche e di alcuni libri. Ha oltre 1000 ore di volo, sia ULM che AG, e le migliori intenzioni di continuare ad incrementarne il totale.

Per inviare impressioni, minacce ed improperi all’autore:

 roberto.guidorzi (chiocciola) unibo.it




Nel sito sono ospitati i seguenti racconti:


La voce di Badger

Un volo indimenticabile

Viene fatta risalire al celeberrimo trasvolatore statunitense Charles Lindenbergh una frase quanto mai pertinente a questo breve racconto. Recita così:

L’avventura giace in ogni soffio di vento.

 

Chissà se l’autore di “Un volo indimenticabile”, l’affabile Sandro Rosati, sottoscriverebbe con doppia firma quanto sintetizzò il mitico Lindy quasi cent’anni fa!?

Di sicuro il nostro buon Rosati ha così sintetizzato la sua fatica letteraria: 

“Il breve racconto di una piacevole gita di fine settimana con un aereo da turismo ci fa comprendere che, nonostante la buona preparazione del volo e le ottime caratteristiche del monomotore impiegato, l’imprevisto è sempre in agguato e che la prudenza non è mai troppa.”

Il vero protagonista di questo racconto: il Pracaer F15E Picchio costruito dalla General Avia. Benchè il velivolo avesse ottime doti di volo (semi acrobatico e con capiente bagagliaio, sedili comodi per quattro persone) non fu costruito in grandi numeri tanto che, nato  alla fine degli anni ’50 come ulteriore sviluppo del Falco e Nibbio, non ebbe il successo che meritava. L’ Aeronautica Militare Italiana, in particolare, dovendo trovare un velivolo ad elica per uso collegamento e traino alianti, gli preferì il SIAI 208 e dunque affossò di fatto la produzione della serie “E” di cui fa parte I-PROD (qui ritratto) e I-PROM che fu invece presentato al Salone Aeronautico di Le Bourget nel maggio del ’73

Parole sante, aggiungiamo noi! Peccato che, dal punto di vista squisitamente letterario, le parole dell’autore non abbiano convinto granchè la giuria della V edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” organizzato dal nostro sito e dall’HAG (Historical Aircraft Group). La giuria – dicevamo – non ha ritenuto questa breve cronaca di volo meritevole  di accedere alla fase finale del Premio e dunque l’ha relegata alla sola pubblicazione nel nostro sito. Ci spiace per il caro Sandro ma per noi si è trattata di una vera manna dal cielo!

Il racconto nasce da un’esperienza realmente vissuta dall’autore e da suoi tre amici/che, che loro malgrado, si sono trovati nella classica situazione imprevedibile e dunque indimenticabile. Anche se in senso negativo, purtroppo per loro.

Gli interni assai conforevoli del Picchio in cui si è consumata la vicenda narrata dall’autore nonchè protagonista, suo malgrado. Non stentiamo a credere che, a seguito di quanto accadde, le tappezzerie siano state completamente rinnovate.

Dunque non un’opera di fantasia ma di cronaca verace che piacerà agli amanti dei testi con taglio giornalistico.

In effetti la prosa è molto abbottonata, asciutta, priva di qualunque artificio narrativo, usando un’espressione calzante: “vola via che è una bellezza”!

In verità appare più vicina a un resoconto tecnico che ad un racconto di volo, volo peraltro tutt’altro che tranquillo.

Con il senno di poi siamo lieti che non sia divenuta una relazione d’incidente aereo o un rapporto assicurativo – per carità – ma i toni, effettivamente, non sono poi così dissimili.

Probabilmente, nel bilancio complessivo del testo, pesa un ruolo determinante l’assenza di personaggi parlanti e dunque la completa mancanza di discorso diretto. Tutta la vicenda è raccontata in terza persona con eccessivo distacco, quasi con asetticità. In questo genere di eventi, non siamo abituati ad una dose così ridotta di pathos; da lettori, vorremmo essere più compartecipi all’azione e invece tutto si sviluppa con freddezza. Peccato.

Ancora una bella immagine a terra dello splendido velivolo uscito dalla matita del grande progettista italiano Stelio Frati. Non si potrà fare a meno di notare una certa affinità con il più ben famoso SF260 con il quale il Picchio F15E condivide la struttura metallica e numerosi soluzioni aerodinamiche/strutturali.

E dire che, avendo avuto la fortuna di conoscere l’autore di persona, posso affermare – senza ombra di esitazione – che trattasi di persona alquanto loquace, dal colloquiare piacevole, prodigo di particolari e battute sagaci. Ma forse  – e sottolineiamo “forse” – la sua naturale timidezza nel rivelare episodi relativi a fatti e persone lo ha molto inibito oppure il cimetarsi per la prima volta con un racconto in prima persona lo ha un poco impaurito … certo è che il suo testo è scorrevolissimo e si legge in un battibaleno. Non ha spigoli vivi, non ci sono periodi superflui: tutto è cesellato alla perfezione, senza alcuna sbavatura.

La splendia immagine  del Picchio scattata dal bravissimo fotografo Giorgio Varisco, peraltro partecipante e vincitore di alcune edizioni della sezione fotografica del  nostro Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole”. Il suo occhio meccanico-digitale si trovava giusto appunto a bordo pista dell’aviosurficie di Montagnana (Padova) il 30 giugno del 2013, in occasione del  FlyParty, grande festa dei soci dell’HAG (Historical aircraft Group) aperta al pubblico e divenuta quindi appuntamento annuale degli appassionati di velivoli storici. Lo scatto mostra il Picchio in tutta la sua bellezza e la pulizie delle forme, tipica in verità di tutti i progetti dell’ing Frati.

In definitiva, tenuto conto che di esperienze – piacevoli e non – un pilota di navigata frequentazione aeronautica come il nostro Sandro ne avrà pur vissute (o comunque ne sarà stato testimone diretto o indiretto), siamo fiduciosi che in un prossimissimo futuro ci regali qualche altra confidenza dai connotati letterari. Anche perchè, con questo racconto, ci ha dato prova di avere dimestichezza con la grammatica e con la narrativa; magari dovrà aggiungere quel pizzico di “romanzato” che non gli è così congeniale … ma piace molto al lettore medio, noi compresi. E per questo motivo glielo suggeriamo caldissimamente.

L’unico rammarico sarà di non poterlo pubblicare giacchè, in quell’occasione, potremo leggerlo solo nell’antologia della prossima edizione del nostro Premio letterario. Noi ce ne faremo una ragione ma speriamo che il Rosati si metta già all’opera. Intesi?


Narrativa / Breve

Inedito;

ha partecipato alla V edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2017;

in esclusiva per “Voci di hangar”

 

L'unico sito italiano di letteratura inedita (e non) a carattere squisitamente aeronautico.