Al di la della pronuncia (non si sa mai se quella corretta sia Sàlgari o Salgàri ma parrebbe buona la seconda), siamo certi che in età infantile o al massimo adolescenziale abbiate letto almeno un libro del ciclo dei pirati della Malesi o del ciclo dei pirati delle Antille. E corretto? Confessate!
Il Britten -Norman Trislander è il velivolo protagonista delle avventure di sir MC Carthy. Evoluzione migliorativa del più convenzionale Britten-Norman BN-2 Islander, è stato costruito complessivamente in 85 esemplari a partire dal 1971 ma la sua produzione è cessata dopo che l’azienda è stata assorbita dalla Pilatus negli anni ’80. Da diversi anni è in programma una seconda generazione di Trislander ma, al momento, rimane probabilmente solo un bel progetto in attesa di tempi migliori . O di cieli migliori? – foto proveniente da www.flickr.com –
Chi vi scrive non ha invece alcun timore ad ammettere che rispolvera volentieri le imprese di Sandokan, di Tremal-Naik o del Corsaro Nero e che, non più tardi di alcuni mesi orsono, ha scovato addirittura un audiolibro tratto da un romanzo di Emilio Salgari. Il titolo? Semplice: “Le meraviglie del 2000”. Un ascolto molto illuminante, specie se consumato in pieno lock down.
Ma torniamo al nostro autore veronese, universalmente riconosciuto come il re della narrativa d’avventura, ingiustamente definita “per ragazzi”. Ebbene occorre ricordare a chi non ne conosce i tratti biografici, che il nostro Salgari non visitò mai i luoghi così magistralmente descritti né partecipò mai alle traversate o alle scorribande per i quattro angoli del pianeta che sono spesso presenti nei suoi romanzi. Egli visse tutto con la fantasia, chino sullo scrittoio della sua modestissima abitazione e nelle austere sale delle biblioteche che frequentò quasi quotidianamente.
Affermare che il Trislander sia alquanto singolare come velivolo è oltremodo eufemistico. Anche perchè, fatto salvo per alcuni i grandi velivoli commerciali che sono dotati di un terzo motore alla base della deriva (leggasi: il Dassault 900, il Lockeed L1110 Tristar, il Mc Donnell Douglas MD 11, il DC10, ecc ecc), l’architettura del Trislander non è proprio così ortodossa tanto che non conosce uguali nel settore degl executive dotati di motori alternativi a combustione interna. Praricamente è unico nel suo genere … – foto proveniente da www.flickr.com –
Non viaggiò mai in luoghi esotici e non incontrò mai qualcuno che potesse somigliare – anche lontanamente – ai personaggi che così vividamente ritratti troviamo nei suoi scritti. Salgari inventò tutto da fermo, lui statico e il suo mondo di eroi che gli turbinava tutto attorno.
Questa è la vista di cui sarebbe possibile godere dalla cabina di pilotaggio di un Trislander in procedura di avvicinamento ad Alderney, una delle Isole del Canale della Manica così chiamata dai britannici mentre i francesi la chiamano Aurigny. Si tratta di una piccola isola di circa 15 chilometri quadrati vicina più alla costa francese che a quella britannca. Ha circa 2500 abitanti. Un’isoletta sperduta – penserete – e invece si tratta di un paradiso fiscale inserito a pieno titolo nella lista nera dei luoghi deputati alle frodi fiscali. Dunque frequentata, eccome, da uomini d’affari o sedicenti tali. Da qui la necessità di una linea aerea con voli regolari. Chissà se dispongono di un vano speciale per il trasporto delle valigette!? – foto proveniente da www.flickr.com –
Qualcosa del genere deve essere capitato anche a Bruno Bolognesi che, seduto nella sua abitazione di Esanatoglia e con l’ausilio del suo fido pc, ha creato quel turbinio di avventure che hanno per protagonista il suo comandante Alan Mc Carthy.
Il Trislander è considerato un velivolo da trasporto commerciale per uso regionale. I suoi tre motori gli consentono infatti il decollo e l’atterraggio in circa 500 metri e un’autonomia di circa 1600 km. E’ in grado di trasportare 18 persone a bordo mentre il suo carrello fisso assai robusto gli consente di operare anche da superfici semipreparate. E’ maneggevole a bassa velocità, robusto e con un buon carico utile unito ad un livello di rumorosità ragionevole. Non ultimo un certa economicità di gestione. – foto proveniente da www.flickr.com –
Ovviamente tutto in chiave moderna.
Dunque non lo troveremo sulla tolda di un praho (tipica nave usata dai pescatori e dai pirati malesi) bensì ai comandi del suo Brittan-Norman Trislander (singolare trimotore britannico), non con indosso il turbante degli uomini del Borneo bensì con i Ray-Ban Aviator che gli proteggono gli occhi. E non ci sarà neppure il muscoloso malese seminudo dalla pelle olivastra che si muove con fare flessuoso tra la fitta vegetazione della jungla, no. Qui troverete un flemmatico pilota dal tipico aplomb britannico eppure capace di decisioni fulminanti e con un fegataccio che nulla avrebbe da invidiare allo Yanez de Gomera di salgariana memoria.
Non c’è immagine migliore di quella dal basso per apprezzare la bontà di forme del Britten Norman Trislander – foto proveniente da www.flickr.com –
Ma andiamo con ordine.
Il racconto ha due livelli narrativi: il presente con i due personaggi protagonisti e il variegato passato avventuroso di Mr MC Carthy. Alla staticità di un tavolo di un bar di una tranquilla cittadina britannica si alternano le avventure di questo pensionato sui generis. E’ il racconto di un’intera notte perché sono le confessioni di un settantenne alla fine della sua carriera di pilota militare e civile che ne ha viste e ne ha fatte in vita sua. Il suo interlocutore è un giovane giornalista di una rivista specializzata di aviazione curioso quanto basta. E ne sentiremo delle belle.
Ancora una bella immagine di un Trislander in rullaggio verso l’area di parcheggio di un aeroporto toccato dalla linea aerea che collega diverse città della Gran Bretagna con Aurigny. In risalto la notevole apertura alare che consente a questo velivolo non certo “smilzo” di decollare e atterrare in spazi relativamente brevi. – foto proveniente da www.flickr.com –
Di più non possiamo aggiungere – altrimenti finirebbe la sorpresa – ma possiamo certamente anticiparvi che non mancheranno le invenzioni folgoranti, seducenti personaggi femminili, gesti di altruismo e atti di bontà come li trovereste nei romanzi di Salgari.
L’autore così sintetizza il contenuto del suo racconto:
Volare, librarsi nel cielo con un artifizio meccanico a tre eliche, rimbalzando tra l’emisfero Boreale e quello Australe, rincorrendo o anticipando albe e tramonti, come ha fatto il Comandante Alan Mc Carthy nella sua lunga e rocambolesca carriera, non è cosa da tutti.
Robert Sinclair, con una sua intervista al Comandante, ha raccolto il succo dolce-amaro della sua storia, sospesa ad un’altezza intermedia, dove è ancora possibile riconoscere i dettagli delle case e quasi, quasi gli umori di coloro che le abitano.
Noi aggiungiamo che, come Salgari, il buon Bolognesi ha inventato luoghi, situazioni, personaggi e riferimenti verosimili dando vita ad un racconto piacevole e, per alcuni versi, avvincente.
Qualora ce ne fosse stata necessità, l’occhio impietoso del fotografo, ha esaltato un particolare che non passa certo inosservato: la coda e la deriva motorizzata di questi tre Trislander al parcheggio nell’aeroporto di Manila. – foto proveniente da www.flickr.com –
Certo al nostro servizio di intelligence non è sfuggito il dettaglio che il Trislander non ha mai fatto parte delle British Armed Forces (l’equivalente delle nostre Forze Armate) o che nel mondo aeronautico piace ricordare che un motore Lycoming O-540 ha 260 roboanti cavalli e non degli asettici 195 chilowatt di potenza. Ma non per questo gliene vogliamo, anzi … siamo sinceramente dispiaciuti che il racconto non abbia raggiunto la fase finale del premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE, forse tradito dalla sua lunghezza (di una notte) o dalla minuziosa ricostruzione ambientale che ha distratto la giuria del Premio.
Se nel 1974 vi foste affacciati dalla terrazza dell’aerostazione dell’aeroporto di Glasgow, area passeggeri, ebbene avreste visto questo Trislander muoversi nel parcheggio. Poco dopo, per i soliti motivi di sicurezza, la terrazza fu chiusa e così, ad oggi, ci rimane solo questo scatto. – proveniente da www.flickr.com –
Certo non ci spiacerebbe indossare i panni del giornalista e intervistare noi il sedicente pilota Bruno Bolognesi, magari seduti ai tavoli di una graziosa pasticceria italiana posta lungo le vie del suo stupendo borgo medievale marchigiano. Magari ci potrebbe svelare quanto c’è di fantasioso nel suo personaggio, a chi si è ispirato, come è scattata la molla della storia che ci ha regalato … Emilio Salgari? No, davvero?
Ma, fatto salvo per questa nostra insana curiosità, dobbiamo ammettere che troviamo questo racconto come assolutamente godibile sebbene la formula del lungo monologo del protagonista rischi facilmente di risultare banale … ma non tra le sapienti dita dell’autore che l’ha felicemente amministrata e dunque ha digitato una vicenda che mantiene sempre alta la curiosità del lettore. In questo testo la noia non trova appiglio.
Certamente il racconto è relativamente lungo ma è scritto con dovizia di particolari, reali o inventati che siano ma comunque credibili mentre i personaggi sono tratteggiati in modo encomiabile.
In definitiva un racconto da leggere e apprezzare tanto che, al termine, sognerete di diventare anche voi un po’ Alan MC Carthy … magari nella prossima vita, eh?
Narrativa / Lungo
Inedito
Ha partecipato alla VIII edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole” – 2020
titolo: Gun button to fire: A Hurricane Pilot Story of the Battle of Britain“. – [Bottone delle armi in posizione di “fuoco”: La storia di un pilota di Hurricane della Battaglia d’Inghilterra]
autore: Tom Neil
editore: Amberley Publishing
anno di pubblicazione: 2010
edizione ebook: 2010
eISBN: 978 1 84868 843 3
Dopo aver letto tanti libri scritti da piloti americani, neozelandesi, australiani o francesi, che hanno combattuto nei cieli europei e basati su qualche aeroporto inglese, ecco un altro libro che descrive i giorni, o meglio, gli anni della Seconda Guerra Mondiale.
Guerra aerea, ovviamente.
Stavolta, però, il pilota è proprio inglese.
Anche questo libro comincia con la descrizione della prima parte della vita del suo autore.
Gli anni dell’adolescenza e della giovinezza sono trattati brevemente, ma come di consueto, sin dall’inizio il libro coinvolge e lascia gli occhi del lettore incollati alle pagine.
L’autore aveva appena intrapreso una carriera di impiegato in una banca. Il padre, insieme ad un amico e collega già inserito nell’ambiente bancario, era riuscito a procurare questo lavoro al proprio figlio, che però non era molto entusiasta della soluzione. Infatti traspare dal libro una sorta di rassegnazione nei confronti di un impegno che non gli piaceva per niente. Ma cercava di fare buon viso a cattiva sorte. Nel frattempo si guardava intorno alla ricerca di qualche soluzione ben diversa.
Una bella immagine di un Hawker Hurricane come quello che pilotò l’autore del libro. Sir John Grandy, Marshal of the RAF (equivalente del nostro Maresciallo dell’aria o generale di Generale di Squadra aerea) ha definito il volume di Tom Neil come: “The best book on the Battle of Britain”, ossia “Il miglio libro della battaglia d’Inghilterra”. Da notare che, mentre noi, popoli d’oltre Manica, definiamo il conflitto come una battaglia che ha visto coinvolta fondamentalmente la regione meridionale del Regno Unito – l’Inghilterra, appunto – gli abitanti dell’isola extra continentale la chiamano più correttamente la guerra di Britannia, ossia della Gran Bretagna giacché, secondo il toponimo latino dato dai Romani, la Britannia era appunto l’attuale Gran Bretagna. – Foto proveniente da www.Flickr.com
Poi arrivano i giorni in cui si cominciano a percepire venti di guerra provenienti dalla Germania nazista.
Tom Neil, l’autore, ci porta con sé sulla tortuosa strada che, dalla porta della sua casa in un paesino dell’Inghilterra, conduce fino alla scuola di volo, al reparto della Royal Air Force nel quale prende servizio e comincia la sua vita di pilota militare.
Un classico, si potrebbe dire.
Sì. Un classico. Tutti questi libri cominciano più o meno così.
L’unica cosa che cambia è che qui il pilota è inglese. Si trova, quindi, già in Inghilterra.
Gli altri autori, invece, raccontano tutti il viaggio, lunghissimo e a volte periglioso, che da luoghi lontanissimi, come gli Stati Uniti, la Nuova Zelanda, l’Australia, il Sud Africa o la Francia (ma altri venivano da Cecoslovacchia, Polonia e altri paesi relativamente più vicini) li aveva condotti in Inghilterra per prendere parte alle operazioni belliche alleate contro l’aggressione della Germania e delle forze dell’Asse.
Una foto originale che ha come protagonista assoluto l’Hawker Hurricane, a terra come in volo in un basso passaggio in coppia. L’Uragano (questo il termine hurricane tradotto in italiano) fu progettato da sir Sydney Camm (lo stesso che disegnò il Tempest e il Sea Fury) agli inizi degli anni ’30 e fu costruito complessivamente in circa 14 mila esemplari. Volò per la prima volta nel ’36 ed entrò in servizio nella RAF nel ’37. Assieme al più blasonato Supermarine Spitfire, è considerato il velivolo britannico per antonomasia e quello che tenne botto all’assalto della Luftwaffe e della Regia Aeronautica nel corso della battaglia d’Inghilterra. Come lo Spitfire era dotato di motore Merlin ma non aveva le stesse doti corsaiole a causa del maggior spessore dell’ala unito a una maggiore robustezza e semplicità costruttiva (alcune parti erano ancora in tela). Come lo Spitfire, per quell’epoca, era un velivolo moderno: monoplano, carrello retrattile, cabina chiusa, motore raffreddato a liquido di notevole potenza, elica tripala metallica, radio di serie e un armamento di ben otto cannoncini (prima da 7,7 e poi da 20 mm nelle ultime versioni) . All’inizio degli anni ’40 era uno dei velivoli più moderni presenti nei reparti caccia dei belligeranti. – Foto proveniente da www.flickr.com –
E comunque Tom Neil, l’autore, non deve fare molta strada per arruolarsi. Esce di casa, percorre un breve tragitto e arriva subito. Infatti, durante il primo periodo di servizio torna regolarmente a casa a dormire. E i suoi genitori lo possono andare a trovare in aeroporto ogni volta che lo desiderano.
Ma l’idillio non dura molto. La guerra travolge tutti con la sua furia cieca e le cose cambiano rapidamente.
Gli attacchi delle formazioni di aerei tedeschi diventano quasi giornalieri, poi si intensificano. In breve tempo i piloti devono partire immediatamente a ogni allarme e questo accade anche quattro o cinque volte al giorno. E anche di notte.
La Luftwaffe non dà tregua alle città inglesi. Bombardamenti continui devastano ogni obiettivo, militare e civile, con metodica regolarità.
Addirittura girano voci di un’imminente invasione del Regno Unito da parte della Germania. Ed erano voci veritiere. Infatti questo piano era presente nelle intenzioni di Hitler, che però, più o meno inspiegabilmente, non lo mise mai in atto.
Comincia così quella che oggi conosciamo come “la Battaglia d’Inghilterra“.
All’inizio, prima che anche gli Stati Uniti entrassero in guerra, solo uno sparuto gruppo di piloti si oppose agli attacchi. Gli aerei erano gli Spitfire e gli Hurricane.
Il gran numero di esemplari prodotti ha fatto sì che, ad oggi, in Gran Bretagna, siano perfettamente efficienti e abili al volo un notevole numero di Hurricane tanto che non c’è manifestazione aerea in cui abbondino, nuovi, come fossero usciti il giorno prima dalla fabbrica della Hawker o della Gloster in cui venivano prodotti prima e durante tutta la Seconda Guerra Mondiale in diverse versioni e allestimenti (tra cui il Sea Hurricane, l’Hurricane imbarcato). Statisticamente, nel corso della Battaglia d’Inghilterra, gli Hurricane distrussero aeroplani tedeschi più di qualunque altro aereo inglese fornendo un contributo probabilmente determinante ad arginare l’impeto dei piloti della Luftwaffe e della Regia Aeronautica. Grandi meriti degli Hurricane, nonostante gli inevitabili punti deboli, furono la facilità di produzione, riparazione e, non ultimo, anche di pilotaggio. Il carrello degli Hurricane era infatti più largo e robusto di quello dello Spitfire mentre la migliore visibilità in avanti in fase di rullaggio lo faceva apprezzare molto dai piloti. Infine i comandi di volo morbidi ma uniformi nonché la piattaforma di sparo assai stabile lo facevano piacere molto. Ma l’aspetto che più confortava i piloti era la grande capacità di incassatore che consentiva all’Hurricane di riportare a casa il pilota sebbene la macchina avesse subito gravi colpi. All’Hurricane molti devono la loro pelle.- Foto proveniente da www.flickr.com –
Questi aerei sono diventati famosi.
Tom Neil divenne pilota di Spitfire. Ma solo per un breve periodo.
Dopo, transitò in un gruppo che aveva in dotazione il più datato Hurricane.
Questo libro, come tutti gli altri, ha una dedica. E anche questo è un classico.
La dedica, immancabile, nel caso nostro è rivolta alla moglie e ai figli.
“To my wife, who also served, and who was, and is, much more capable on the ground than ever I was in the air; and my three sons, who should at list know something of these events”.
“A mia moglie, che era anch’essa in servizio, e che era ed è, molto più capace a terra di quanto lo fossi io in aria; e ai miei tre figli, che possano almeno conoscere qualcosa di questo eventi”.
Non tutti sanno che l’Hawker Hurricane – ossia quanto più di britannico possa volare – solcò i cieli delle gelide distese dell’Unione Sovietica, ceduto all’aviazione dalla stella rossa in grande quantità (gli annali dell’aviazione riportano addirittura circa 2950 esemplari) in virtù della famosa legge Lend-Lease (in italiano la tradurremmo “Legge Affitti e prestiti”). Lo scopo di questa legge, firmata dal presidente Franklin D. Roosevelt, era quella di fornire materiale bellico agli Alleati in male arnese (britannici, sovietici, francesi e cinesi) nel contrastare gli italo/tedeschi su tutto il fronte europeo-africano e i giapponesi sul fronte del Pacifico. Nel caso specifico, furono gli stessi britannici a fornire i velivoli di loro produzione a mo’ di aiuto a favore dei sovietici giacché la pressione sul fronte inglese si era molto allentata. In realtà, gli Hurricane erano già usciti da mesi dai reparti di prima linea della RAF in quanto superati da altri modelli. Dunque furono “casualmente” ceduti agli alleati di oltre Urali. I sovietici, per nulla sciocchi, ringraziarono ma non apprezzarono mai l’Hurricane e non nascosero la catasta di critiche che mossero al velivolo della Hawker: il motore non era affidabile perché facilmente surriscaldava o addirittura grippava; il velivolo non accelerava in picchiata e perdeva facilmente velocità in cabrata, si incendiava facilmente, le armi si inceppavano spesso e la riserva di munizionamento era troppo esigua. Inoltre la macchina non era per nulla maneggevole e occorreva evitare il combattimento con sviluppo verticale, la corazzatura veniva sfondata facilmente … insomma, a detta almeno dei sovietici: una mezza ciofeca. I sovietici lo dichiararono scadente quasi quanto (se non più) i Curtiss P-40 e i Bell P-39 Aircobra giacché inferiore sicuramente ai caccia tedeschi ma anche agli stessi caccia sovietici. Della serie: se mi devi regalare qualcosa, dammela affinché mi torni utile, non solo per fare volume. – Foto proveniente da www.flickr.com –
Già dalla dedica si percepisce una sorta di delicatezza che caratterizza il personaggio. Ed è effettivamente così. A fronte della rudezza di tante descrizioni, troviamo spesso frasi delicate nei confronti di familiari, amici, colleghi e perfino animali. Sembra incredibile che la stessa persona possa avere allo stesso tempo atteggiamenti tanto amorevoli e altrettanta indifferenza verso simili tragedie, come quelle che ogni giorni facevano parte della sua vita quotidiana.
Però, se una recensione deve mettere in evidenza i punti forti, o anche quelli deboli, di un libro, allora è meglio chiarire subito: a raccontarci tante storie di guerra, almeno del periodo iniziale in cui la Gran Bretagna faceva fronte da sola al nemico germanico, è un inglese. E trasferisce nei racconti tutta la sua mentalità inglese. O almeno, la mentalità di un inglese di quegli anni, che presumibilmente era abbastanza diversa, più forte e più marcata, di quella di un suo connazionale di oggi, in un mondo decisamente più globalizzato.
Sin dalle prime pagine risulta evidente una estrema imperturbabilità, quasi un’indifferenza totale verso gli episodi e le tragedie di molti avvenimenti di guerra.
L’Hurricane, qui ritratto in uno splendido scatto dal basso, era considerato dai piloti britannici un po’ come quei grossi cavalli da tiro con le zampe pelose e i grandi zoccoli ben piantati a terra. Massiccio e potente, si contrapponeva allo Spitfire paragonato – sempre seguendo lo stesso parallelismo equino – a un bel purosangue da corsa dal manto lucido ma un po’ bizzoso di carattere, delicato eppure velocissimo. Non a caso la tecnica di ingaggio delle grosse formazioni di bombardieri tedeschi dirette verso l’isola britannica prevedevano che gli Hurricane attaccassero la formazione mentre gli Spitfire, più agili, avrebbero tenuto a bada i caccia di scorta nemici (leggasi Messerschimtt Bf-109).
Di notte, quando il silenzio veniva rotto dal rumore tipico di una squadriglia di bombardieri tedeschi che sorvolavano la zona, dal rumore sordo dei colpi della contraerea e dallo scoppio delle bombe nelle zone vicinissime alla baracca dove i piloti dormivano, alcuni uscivano fuori a guardare verso il cielo, altri si giravano nel letto e cercavano di riprendere il sonno. Come se la faccenda non li riguardasse.
“As if nothing really matters“,
direbbero loro. Che tradotto suona più o meno:
“Come se niente avesse davvero importanza”
Sconcertante. Ma non c’è solo questo.
Se avessimo la fortuna di partecipare a qualche manifestazione aerea in Gran Bretagna non vi stupirete certo se questo velivolo, pressochè immacolato, facesse un passaggio a tutta canna sull’asse pista. In Gran Bretagna è normale che un Hurricane sia in volo anzichè sepolto tra le pareti metalliche di un hangar speciale chiamato “museo”. – Foto proveniente da www.flickr.com –
In ogni capitolo Tom Neil descrive avvenimenti tragici e devastanti, aggiungendo alla fine di ogni descrizione che a lui e ad altri protagonisti presenti non importava davvero nulla. Subito dopo ognuno se ne andava per i fatti propri. E se appena il fattaccio aveva creato un qualche tipo di sconcerto, bastava andare alla mensa a prendere una birra, oppure bastava una scrollata di spalle per scacciare dalla mente la brutta sensazione.
A ogni sortita, generalmente su allarme, qualcuno non tornava. Molti cadevano verso terra con l’aereo in fiamme. E l’Hurricane aveva una spiccata tendenza a prendere fuoco in un attimo, per via della disposizione dei serbatoi, senza nessun sistema di auto sigillo.
Neil descrive un aereo colpito a quota più alta della sua, i pezzi volano via, uno di questi precipita giù e passa di poco al di sopra del suo cockpit. Una sagoma scura che sul momento non sa identificare, ma subito dopo scorge, in una frazione di secondo, gambe e braccia che si agitano nella caduta. Un uomo, il pilota.
Forse il paracadute non si era aperto.
La sua considerazione? Che brutta discesa, da 18.000 piedi (circa 7000 metri), per andarsi a sfracellare giù a terra…
Se questo scatto non fosse a colori – evento piuttosto raro durante gli anni ’40 – e se le diverse sigle dipinte sulle fiancate non tradissero l’appartenenza a diversi stormi, si potrebbe essere tratti in inganno all’idea che l’immagine risalga a qualche remoto aeroporto del sud della Gran Bretagna nel corso della Battaglia d’Inghilterra e invece … si tratta di uno dei tanti e periodici raduni o manifestazioni aeree che si svolgono oltre Manica. Da notare lo stato impeccabile (oltre che il numero) degli Hurricane ritratti – Foto proveniente da www.flickr.com –
Comunque il vedere colleghi di squadriglia cadere in fiamme o con il paracadute chiuso non turbava più di tanto e con il passare del tempo ci si faceva il callo sempre più.
In questo caso, però, si scopre nei giorni successivi, il paracadute, anche se non si era aperto del tutto, era uscito abbastanza da frenare la caduta e mantenere il pilota in posizione verticale. In questo modo l’uomo era andato a cadere nell’estuario del fiume Tamigi. L’impatto con l’acqua era stato violento, ma il pilota aveva riportato solo alcune ferite. Trasportato in ospedale, era poi guarito fino a tornare al reparto nei mesi successivi.
I raid aerei notturni, come ho detto, lasciavano molti abbastanza indifferenti, alla tipica maniera inglese.
“A noiser night… with a few bombs and guns going off from time to time… who would have thought a year before that we would be able to live quite serenely under an almost unending succession of nocturnal air raids? And hardly give them a thought”?
“Una notte più rumorosa… con poche bombe e cannoni che sparano di tanto in tanto… chi avrebbe mai pensato un anno prima che saremmo stati capaci di vivere abbastanza serenamente sotto una quasi continua successione di incursioni aeree notturne? E di dedicare loro solo un pensiero di sfuggita”?
Un altro fronte nel quale l’Hawker Hurricane si rese protagonista fu Malta, o meglio fu uno dei velivoli sul quale si fondò la strenua difesa della RAF dell’isola di Malta. Gli Hurricane andarono a rinforzare, o melgio, a rimpiazzare i tre vecchi Gloster Gladiator che inizialmente erano stati posti a difesa della fortezza di Malta dai tiepidi attacchi dell’Asse. La storia narra che i biplani della Gloster fossero soprannominati Faith, Hope and Charity, che in italiano suona come fede, speranza e carità (ossia le tre virtù teologali della dottrina cristiana). Dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia, avvenuta nel 11 giugno 1940, arrivarono a Malta i primi Hurricane ma alla spicciolata e comunque solo dieci giorni dopo. Viceversa il 2 di agosto giunsero una dozzina di Hurricane lanciati dalla portaerei HMS Argus in navigazione a circa 380 miglia dall’isola. Lo stratagemma ebbe una replica il 12 novembre quando ben 34 Hurricane furono lanciati di nuovo dalla portaerei Argus e dalla Ark Royal. Gli attacchi delle forze aeree dell’Asse si fecero più intensi (e convinti) ma ormai la difesa aerea di Malta poteva contare sugli Hurricane in quantità tale che la fede, la speranza e la carità erano già divenute storia (o leggenda?) – foto proveniente da www.flickr.com –
Vero aplomb britannico…
Non tutti lo avevano, però.
In un altro punto Neil descrive un attacco aereo durante il decollo della squadriglia. Una bomba cade appena fuori dal loro alloggio devastando il prato con i cespugli di rose che lo circondavano.
Così scrive l’autore:
“Outside, everywhere was smoke, hovering dust and smell… Fifty paces away, a huge thick-lipped crater in the rosebush- encircled lawn in front of the mess. The Lawn, for God sake! That must have been the last bang. And an old man, a gardner, shocked into petrified silence, was shaking uncontrollably and standing as though transixed.
We collected the poor creature, who must have been seventy, and sat him on the steps of the hat, breathing words of sympaty and encouragement in his ear…. A cup of tea? Not even a nod. The eyes blankly vacant, the spirit crushed. An urgent nod toward my batman. Tea! Sweet tea. Quickly”!
La copertina del libro di Tom Neil nella sua prima edizione. L’asso britannico ci ha regalato la bellezza di ben dieci libri in cui ha raccontato le sue esperienze vissute intensamente durante il lungo arco di tempo in cui ha prestato servizio nella RAF (dal 1938 al 1964). Si è congedato con il grado di “wing commander”
“Fuori (dalla baracca), era tutto fumo, polvere sospesa e odore… Cinquanta passi lontano, uno spesso cratere orlato nel prato circondato da cespugli di rose di fronte alla mensa. Il prato, perdio! doveva essere stata l’ultima deflagrazione. E un uomo anziano, un giardiniere, shoccato e pietrificato in silenzio, tremava incontrollabilmente in piedi come se fosse in trance. Prendemmo su la povera creatura, che doveva avere circa settant’anni, e lo mettemmo a sedere sugli scalini della baracca, sussurrandogli parole di compassione e incoraggiamento all’orecchio… Una tazza di thè? Neanche un cenno del capo. Gli occhi persi nel vuoto, l’animo affranto. Un rapido assenso verso il mio attendente. Thé! Thè dolce. Veloce”!
La IV di copertina e la copertina interna del libro “Gun button to fire” pubblicato per la prima volta nel 2010 . Thomas Francis “Ginger” Neil ci ha lasciato serenamente per sempre nel luglio del 2018, giusto tre giorni prima del compimento della venerabile età di 98 anni. Il suo libretto di pilota è davvero invidiabile: ha volato e combattuto durante la Battaglia d’Inghilterra, la battaglia di Malta e ha partecipato all’invasione della Normandia da parte degli Alleati, infine in Birmania. Solo nel corso della Battaglia d’Inghilterra compi il ragguardevole numero di 141 missioni di combattimento. Nel corso della II Guerra Mondiale abbattè 14 aerei dell’Asse. E dire che cominciò la sua carriera di pilota addestrandosi nella Royal Air Force Volunteer Reserve (i reservisti volontari della RAF). Gli è stata attribuita la: Distinguished Flying Cross & Bar, l’Air Force Cross, l’Air Efficiency Award, la Medaglia di Bronzo dagli USA e la Legione d’Onore dalla Francia. Intervistato dal Telegraph nel 2015 il pilota disse: “Ho avuto una vita meravigliosa: a volte pericolosa, interessante, persino deliziosa.” Ma ora sono un vecchio gentiluomo – sempre sveglio alle 4 del mattino. Altre persone sono state profondamente colpite dalla guerra e si svegliano ancora urlando, ma a me non succede mai. Ma a volte penso: ho fatto abbastanza?” Era uno dei pochissimi assi della Battaglia d’Inghilterra ancora in vita … leggendo la recensione del suo libro saremo oggi noi a ricordarlo e a rendergli onore.
Anche in questo racconto si percepisce la tipica mentalità inglese.
Fin qui ho solo voluto mettere in evidenza qualcosa che ho riscontrato quasi soltanto in questo libro. La cruda descrizione di eventi terrificanti che altri autori hanno cercato di evitare. In definitiva, le stesse reazioni possono esserci state in qualunque azione di guerra, in qualunque luogo del mondo. Ma la scelta del thè dolce… Forse altrove si sarebbe parlato più di caffè o di whisky…
Ok. Ma ora arriviamo ad una descrizione veramente tremenda. La riporto, non certo per scoraggiare l’interesse di un eventuale, remoto lettore di questo libro bensì per prepararlo a ciò che leggerà. Ce ne sono un’infinità, di queste descrizioni.
Nell’aeroporto arriva un raid aereo.
Una colonna di fumo grigio scuro si alza nel cielo.
“Qualcosa di terribile deve essere accaduto laggiù, perdio”!
Ci vuole fegato per leggere ciò che segue. Chiunque non se la senta, salti pure questa parte.
Una bella istantanea che ci permette di apprezzare la pianta dell’ala dell’Hurricane. Gli annali della storia dell’aviazione riportano alcuni dati molto significativi che la dicono lunga circa la lungimiranza dei vertici della RAF ma anche sulle disponibilità economiche della Gran Bretagna oltre che sulle capacità tecnologiche/progettuali/industriali di quel paese e in quel preciso periodo storico. Ebbene, al 1 settembre 1939, l’Aviazione di Sua Maestà aveva in forza 497 di Hawker Hurricane (mentre erano operativi solo 300 Spitfire), tuttavia alla data del il 7 agosto 1940 ne erano stati consegnati non meno di 2.300 unità con un ritmo di produzione che, solo alla Gloster, raggiunse la cifra di 130 esemplari al mese. Con una tale disparità di risorse l’esito del conflitto era praticamente ipotecato. – foto proveniente da www.flickr.com –
“A Hurricane, pointing west, sat outside our dispersal hut. On its belly and on fire. I hurried towards it to find Crossey and others standing beyond the circle of intense heat with their hands in there pockets. I peered through the smoke and flames… I turned to Crossey. Where was the pilot? A nod. Inside!
It was like a funeral pyre. As the flames took a hold, we watched a blackened and unrecognizable ball that was a human head sink lower and lower into the well of the cockpit until, mercifully, it disappeared. Then the fuel tanks gaped with Whoof of flame the ammunition began to explode, causing us all to step back a pace, and the fuselage and wings began to bend and crumble in glowing agony. Finally, there was only heat and crackling silence and ashes.
And all time we watched. And talked quietly”.
“Un Hurricane, puntando ad ovest, si fermò fuori dalla nostra baracca. Poggiato sulla pancia (con il carrello dentro) e in fiamme. Mi affrettai verso di esso e trovai Crossey (un altro pilota) e altri in piedi al di là del cerchio di intenso calore con le mani nelle loro tasche. Sbirciai attraverso il fumo e le fiamme…. Mi rivolsi a Crossey. Dov’era il pilota? Un cenno di assenso con il capo. Dentro!
Era come una pira funeraria. Appena le fiamme si placarono un po’, vedemmo una palla annerita e irriconoscibile che era stata una testa umana sprofondare sempre più in basso in fondo alla cabina di pilotaggio finché, misericordiosamente, scomparve. Poi i serbatoi del carburante si squarciarono con una ventata di fiamme e le munizioni cominciarono ad esplodere, facendoci arretrare di un passo, e la fusoliera e le ali cominciarono a piegarsi e a sbriciolarsi in una incandescente agonia.
Alla fine rimase solo calore e scoppiettante silenzio e cenere.
E noi guardavamo per tutto il tempo. E parlavamo tranquillamente”.
L’Hurricane era un ottimo aeroplano, o almeno lo era all’inizio della II Guerra Mondiale. Quando si scontrava però con il CR42 Falco aveva quasi sempre la peggio in quanto il biplano della Regia Aeronautica era molto più maneggevole e – occorre ricordarlo – i piloti italiani erano di gran lunga superiori a quelli britannici nel combattimento ravvicinato giacché eccellevano in capacità acrobatiche. Di contro gli Hurricane erano ottimi incassatori e dunque venivano quasi punzecchiati dalle armi leggere di cui erano dotati i Falco. Inoltre gli Hurricane erano assai più veloci (avevano un motore molto più potente) e spesso se la sfangavano sfrecciando via dalle raffiche italiane. Gli Hurricane avevano la meglio sui coevi Fiat G50 ma non sui Macchi MC.202 italiani mentre non avevano alcuna possibilità contro i tedeschi Messerschmitt Bf 109E o, sul fronte orientale, con i Mitsubishi A6M Zero giapponesi. Non a caso, già nel ’41 furono relegati a ruoli di seconda linea. Una bella ripresa ravvicinata di un “moderno” Hawker Hurricane che ne mette in risalto il muso penetrante nonchè la notevole presa d’aria del radiatore dell’olio motore appena sotto la cabina di pilotaggio – foto proveniente da www.flickr.com –
Alcune pagine dopo Neil scrive, riguardo a questo tragico spettacolo:
“I retired that night more than a little concerned that I treaded the cremation of 357’s chap so lightly. What on earth was coming over me? I had watched a collegue burnt to a cinder and had felt… well… almost nothing.”
“Rientrai quella notte un po’ preoccupato per aver seguito tutta la cremazione di quel ragazzo del 357esimo così alla leggera. Cosa mi stava accadendo? Avevo guardato un collega ridotto in cenere e mi ero sentito… be!.. quasi nulla”.
Per pagine e pagine, anzi, per interi capitoli, troviamo descrizioni di battaglie aeree, combattimenti contro altri caccia, aerei abbattuti, piloti che scompaiono, aerei in fiamme che scendono come meteore verso terra. E sempre l’autore accenna a quanto tutto questo gli fosse pressoché indifferente.
Non avremmo mai potuto privarci della bontà di questo scatto che vede tre Hurricane in formazione e che, in successione impressionante, virano stretto con rovesciamento proprio davanti alla fotocamera del quarto velivolo (di cui s’intravedono i piani di coda). Che si tratti di un fotogramma preso da un film dell’epoca? … non lo sapremo mai! – Foto proveniente da www.flickr.com –
Muore un pilota. E’ uno che ha nella sua baracca un cane e un’oca. I poveri anomali restano soli. Dice Neil: “se soltanto sapessero. Ma forse lo sanno…”.
Poi capita a lui di essere abbattuto. Si lancia con il paracadute e si salva. Tutto il lancio viene raccontato nei minimi particolari ed è interessantissimo leggerlo. Specialmente per chi, come me, vola in aliante con un paracadute sulla schiena. Il solo fatto di averlo lascia intendere che potrebbe essere necessario usarlo e questo provoca una sottile preoccupazione a molti piloti.
Nella descrizione che Neil fa dell’episodio c’è un elemento di spicco: la straordinaria determinazione nel non perdere la maniglia che provoca l’apertura del paracadute. La vuole assolutamente tenere per ricordo.
La Storia della Seconda Guerra Mondiale ci ha insegnato che l’Italia, purtroppo, era alleata della Germania. Mussolini mandò un certo numero di aerei a “dare man forte” alla Luftwaffe nelle missioni sull’Inghilterra. Erano CR42 Falco, biplani di antica concezione, assolutamente inadeguati a ogni profilo di volo. Tranne, forse, al combattimento manovrato.
Anche i piloti erano scarsamente equipaggiati. Le cabine aperte non si prestavano certo al volo ad alta quota, per via del freddo e della mancanza di impianti di ossigeno. I tedeschi, loro malgrado, accettarono l’aiuto italiano, ma dovettero fornire l’equipaggiamento mancante agli italiani.
Alcuni CR42 furono abbattuti o dovettero rientrare.
Uno di quei CR42 si trova ad Hendon, un museo della RAF vicinissimo a Londra. Il caccia è in ottime condizioni e fino a poco tempo fa era l’unico esistente al mondo. L’ho visto e fotografato durante una visita a quel museo. Non sapevo che ci fosse e rimasi molto sorpreso.
Bene. Nel libro si parla degli italiani che presero parte a queste azioni di guerra. Neil ha combattuto contro i nostri aerei.
E descrive i nostri piloti con parole di elogio, per l’eroismo e l’abilità nel combattimento.
Mi ha fatto una certa impressione leggere questa storia, vista dall’altra parte della barricata…
Salvo aver partecipato a un airshow nell’estate del 2019, non è usuale vedere un così gran bel caccia da sotto e in primo piano. Ovviamente si tratta di un Hurricane volante e perfettamente funzionante … fatto salvo che per le mitragliatrici … ma solo per una questione di munizionamento. – foto proveniente da www. flickr.com –
Molte pagine sono dedicate alle fotografie dell’epoca. Sono in bianco e nero, ovviamente. E troppo piccole, per essere viste bene, ma sono molte e ritraggono i momenti salienti della vita di reparto. Oltre alle foto dei piloti e degli aerei ci sono anche foto delle pagine del libretto di volo dell’autore.
E qui, le ridotte dimensioni sono un vero peccato. Si riesce a malapena a leggerle.
La parte finale del libro è dedicata a una sorta di curriculum vitae di molti dei piloti che combatterono durante la Battaglia d’Inghilterra.
Sono descrizioni succinte, riportano solo i fatti salienti della vita di ognuno di loro. La maggior parte sono scomparsi e appare sconcertante quanto sia semplice, in definitiva, l’andamento di una vita umana, specialmente quando di essa possiamo vedere sia l’inizio che la fine.
Certe foto, al di là che furono scattate durante un periodo di guerra, siamo convinti che debbano essere proposte e riproposte … se non altro per mantenere viva la memoria di coloro che sono in essa ritratti. Si tratta dei piloti del 33mo Squadron della RAF fotografati in Grecia nel 1941 con dietro il loro Hawker Hurricane Mk I – foto proveniente da www.flickr.com –
E questi piloti erano tutti giovanissimi.
Alcuni erano poco più che ventenni. La loro vita è stata davvero troppo breve.
A loro dobbiamo molto. Forse la nostra stessa libertà.
Per concludere, questo libro è davvero impressionante. Una volta letto, si conosce molto più a fondo quella parte di storia della guerra aerea del periodo iniziale della Seconda Guerra Mondiale.
Si finisce per conoscere più a fondo quello che doveva essere il combattimento di un caccia contro un altro caccia o contro le mitragliatrici dei bombardieri. Neil parla di come preferisse attaccare da certe posizioni dove sapeva che i mitraglieri avevano un angolo cieco e non potevano colpirlo. Ma poi, nel disimpegno, finiva per essere un bersaglio ugualmente.
Durante tutta la lettura sono rimasto molto impressionato dalla crudezza dei fatti narrati. E, come ho detto, dall’atteggiamento indifferente che accompagnava ogni tragedia.
Nothing really matters ... sempre la stessa frase mi risuonava nella mente. Sono le parole di una canzone.
Uno splendido scatto artistico che mette in risalto le forme posteriori dell’Hawker Hurricane – Foto proveniente da www.flickr.com –
C’è una canzone dei Queen, gruppo inglese, guarda caso, intitolata “Bohemian Rhapsody”. Nel testo di questa canzone, a mio avviso, c’è lo stesso spirito di estrema indifferenza verso un povero uomo condannato a morte, sia quello della storia, sia il cantante stesso, Freddy Mercury, ammalato di AIDS e che sa che dovrà morire. E dall’inizio si rivolge alla madre dicendole che “non significa che devi piangere se domani non sarò tornato a casa. Carry on carry on. Vai avanti, vai avanti. As if nothing really matters. Come se nulla conti davvero.
E il personaggio della rapsodia, allo stesso modo, indifferente alla propria sorte, ripete sempre lo stesso concetto. Che non gliene importa nulla.
Infatti la canzone si conclude con la sua lamentosa, ennesima dichiarazione:
“Nothing really matters. Anyone can see… Nothing really matters…
To me”….
“Non importa davvero niente. Ognuno lo può vedere… Non importa davvero niente… a me”…
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: Regia Aeronautica – Raid e missioni speciali
autore: Robert Robison
editore: in selfpublishing (Yuocanprint)
anno di pubblicazione: dic 2019
ISBN: 978-88-31648-36-3
“L’aeronautica italiana, fin dagli albori, fu la protagonista di raid e primati spettacolari. Alcuni primati sono ancora oggi imbattuti […] che resero grande l’Italia nell’età dell’oro dell’aviazione, gli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Anche se nella maggioranza dei casi si trattava di piloti militari, i record erano omologati come primati sportivi”
Si avvia con queste affermazioni, peraltro storicamente ineccepibili, la prefazione del pregevole volume intitolato “Regia Aeronautica – Raid e missioni speciali” di Robert Robison nel quale, forse per la prima volta negli annali della letteratura di divulgazione italiana relativa al mondo aeronautico, vengono raccolti e adeguatamente
“[…] descritti i principali raid effettuati dalla Regia Aeronautica nel contesto bellico, nel periodo che va dalla guerra d’Etiopia alla Seconda Guerra Mondiale.”.
Tutto in un unico volume che assume un valore aggiunto in quanto arricchito da numerose fotografie, locandine e mappe inerenti gli episodi trattati.
La letteratura storica italiana a carattere aeronautico è infatti abbastanza prodiga di volumi relativi ai raid a scopo dimostrativo come furono le trasvolate atlantiche di Balbo, quelle orientali di De Pinedo, Ferrarin/Masiero oppure di missioni speciali come quelle di Nobile o D’Annunzio, per non parlare poi dei record conseguiti da Pezzi e da Agello. Alcune di queste imprese sono state raccontate in prima persona dagli stessi protagonisti, quasi tutte da terze persone, altre ancora sono state sviscerate e periodicamente riportate agli onori della cronaca (leggasi mostra dedicata a Italo Balbo) da libri, articoli giornalistici e reportage televisivi.
Raid e missioni speciali a carattere militare, dicevamo. Purtroppo c’è pochissimo materiale sull’argomento o comunque nulla di esplicitato in modo organico e didascalico. Perché la Regia Aeronautica, senza nulla togliere e al pari delle altre Armi, effettuò arditi colpi di mano e impensabili attacchi a sorpresa nel corso del conflitto. E’ storicamente documentato, checché se ne dica riguardo all’era fascista, checché ne pensiate in fatto di guerra.
La IV di copertina del volume di Robert Robison, pseudonimo di un sedicente Roberto ???
Qui non c’azzecca l’orientamento politico o il profondo credo pacifista … si tratta semplicemente di storia. Non è uno sguardo nostalgico ma fatti consegnati alla memoria. Nient’altro.
Pochi se ne ricordano e nessuno, prima di Robert Robison, lo ha divulgato in modo articolato e adeguatamente approfondito.
Intendiamoci: oggi, a distanza di tanti anni sappiamo bene che
”[…] queste azioni, benché spettacolari e pianificate nel dettaglio, non otterranno che effetti limitati sul piano militare e non poterono, anche data la scarsità di mezzi messi a disposizione, avere un impatto strategico sull’andamento della guerra.
Questo però nulla toglie ai velivoli e agli equipaggi che vi presero parte, che sono così inseriti di diritto nel novero dei nomi da ricordare, se non altro per aver compiuto e creduto nelle missioni a loro affidate”
In “Regia Aeronautica – raid e missioni speciali ” troverete perciò operazioni militari intrepide ad altissimo tasso di pericolosità, altre pressoché impossibili da potersi realizzare con successo a meno della provvidenziale intercessione divina (o almeno così le vedremmo oggi con gli occhi disincantati di osservatori del XXI secolo), altre ancora sono al limite del ridicolo, per alcuni versi tragiche e comiche al contempo perchè sottolineano l’italico ingegno ma anche una fantasia sfrenata alimentata dall’improvvisazione. E qui c’è davvero poco di strategico.
Tra queste abbiamo letto con un certo sorriso sulle labbra (misto ad amarezza):
– la “Beffa di Addis Abeba” in cui si narra del tentativo di incursione che
“[…] prevede il sorvolo dell’aeroporto di Addis Abeba, l’atterraggio e la successiva cattura del comandante del medesimo”
Il Caproni Ca.133 è il protagonista della missione estremamente ardita e al contempo letteralmente folle che ebbe luogo il 30 aprile del 1936 nei cieli dell’Etiopia centro settentrionale. L’equipaggio e i militi a bordo erano in numero tale che non fu possibile loro caricare bombe a caduta ma – parrebbe – solo una cassetta di bombe a mano che non è dato sapere se sganciarono sull’abitato di Addis Abeba o sugli insediamenti militari – immaginiamo minimi – dell’aeroporto cittadino. A parte l’episodio specifico, il Caproni Ca.133, evoluzione migliorativa del Ca.111, diede buona prova di sé benché tecnologicamente superato. I piloti lo soprannominarono affettuosamente “Caprona” in virtù dell’assonanza con il nome del suo costruttore e delle sperimentate doti di robustezza e versatilità. Infine dimostrò di muoversi a suo agio nelle difficili condizioni dei cieli e delle piste degli altopiani africani alla stregua di una capra. – Foto proveniente da Flickr.com (di Emilio Magnante per gentile concessione di Claudio Costantini – foto scattata dal nonno).
ma anche del
“[…] lancio di volantini scritti in aramaico, nei quali s’invitava alla resa le truppe etiopi”,
evidentemente emuli della missione guidata da Gabriele d’Annunzio con il famoso volo su Vienna nel corso della I Guerra Mondiale. Peccato che, nel caso specifico, gli etiopi non fossero granché alfabetizzati, che il velivolo atterrasse ad Addis Abeba (non ancora conquistata dalle truppe di terra italiane) per ridecollare di gran carriera e che il sorvolo a bassa quota si fosse risolto con uno pseudo bombardiere sforacchiato come un colabrodo dal fuoco di armi leggere da terra.
Evidentemente l’impresa dei voli di propaganda in cui si bombardava il nemico con pezzi di carta inneggianti la resa dimostrò che non è sempre praticabile o utile. Come pure la condizione di completa supremazia dello spazio aereo non poteva lasciar pensare che quella supremazia avvenisse automaticamente anche sulla terra. La guerra in Vietnam o in Afghanistan lo confermeranno poi.
C’è poi un’altra missione che riporta alla memoria le ben più gloriose trasvolate in formazione su lunghe distanze e che viene descritta nel libro come:
– dall’Italia al Marocco con gli S.M.81
– Foto proveniente da Flickr.com – La didascalia acclusa a questa foto così recita: “Il 30 luglio 1936 l’SM 81 del capitano Ferrari fa un atterraggio di fortuna sulla spiaggia alla foce del fiume Moulouya in Algeria, mentre si dirigeva verso l’aeroporto di Nador nel Marocco spagnolo, inviato insieme ad altri 11 in aiuto dei nazionalisti di Franco (missione Bonomi).” In effetti il Tenente Colonnello Bonomi era stato messo a capo della formazione italiana dal Capo di Stato Maggiore, generale Giuseppe Valle, in persona. Il velivolo qui ritratto, causa esaurimento carburante per avverse condizioni meteo e fortissimo vento contrario, divenne oggetto scatenante di un imbarazzante incidente diplomatico. Ad ogni modo fu poi restituito all’Italia (due anni dopo) mentre l’equipaggio, del tutto incolume, fu momentaneamente internato in quanto il luogo rientrava nel territorio sotto il dominio francese. L’atterraggio di fortuna rivelò al mondo, inequivocabilmente e forse prima del tempo convenuto, che l’Italia stava aiutando il governo franchista. Della formazione di SM.81 giunsero a destinazione 8 su 11 dei velivoli decollati da Cagliari Elmas. Uno cadde in acqua con la perdita dell’intero equipaggio, il secondo effettuò anch’esso un rovinoso atterraggio di fortuna con distruzione del velivolo e il decesso di parte dell’equipaggio
ossia il trasferimento di dodici velivoli da bombardamento Savoia Marchetti S.M.81 Pipistrello
“che prevede la consegna dei velivoli e il rientro degli equipaggi, escluso quelli strettamente necessari e che si offriranno volontari per l’istruzione dei piloti e tecnici spagnoli”
Durante la Guerra di Spagna, tra le file dell’Aviazione Legionaria (facilmente riconoscibile per la X nera su fondo bianco del timone di direzione dei suoi velivoli), l’SM.81 Pipistrello visse una felice quanto breve carriera in qualità di bombardiere giacché, su gli altri fronti in cui fu successivamente impiegato, fu poi relegato a meri compiti di trasporto in quanto lento, poco armato e capace di un carico bellico piuttosto limitato. In questo scatto famosissimo, lo vediamo scortato da un nugolo di biplani FIAT C.R.32 Freccia, all’epoca punta di diamante della caccia della Regia Aeronautica. In effetti i piloti italiani erano assai ben addestrati e particolarmente talentuosi, tuttavia dominavano il cielo di Spagna pressoché indisturbati. Li contrastavano occasionalmente i Rata (Polikarpov I-16, caccia monoplani di costruzione russa) che poco potevano contro i nostri agili e agguerriti Freccia – Foto proveniente da Flickr.com –
avvenuta poco dopo lo scoppio della Guerra Civile spagnola (quella che portò al governo il dittatore Francisco Franco) e che l’Italia appoggiò con uomini e mezzi. Era praticamente l’anticamera della II Guerra Mondiale; la Luftwaffe (l’aeronautica militare tedesca) la utilizzò per collaudare uomini e mezzi, mettere a punto moderne tattiche di combattimento e nuovo materiale bellico da gettare nell’imminente conflitto. E la Regia Aeronautica? Fece altrettanto ma gli insegnamenti maturati furono comunque deviati da interessi industriali e le esperienze tratte provocarono più danno che altro perchè innescarono balsane convinzioni e certezze rivelatesi poi assai fragili. Ad esempio convinsero i piloti da caccia che la formula biplana e l’elevata manovrabilità di quel tipo di velivoli avrebbe fatto ancora la differenza nel combattimento aereo, oppure che i bombardieri leggeri lignei trimotori (lenti e con poche armi difensive, attive e passive) avrebbero avuto ampio impiego in un conflitto moderno. Il risultato fu, tanto per dare un’idea, che l’Arma Azzurra si presentasse all’inizio del conflitto mondiale con una moltitudine di Fiat CR42 Falco nei reparti caccia di prima linea o gli S.M.81 Pipistrello in quelli di bombardamento mentre le forze aeree avversarie disponevano già di veloci caccia monoplani metallici ben armati e motorizzati oppure di quadrimotori a lungo raggio con elevato carico bellico capaci di volare in gruppi proteggendosi reciprocamente.
Se c’è un aeroplano che non può passare inosservato all’interno del Museo storico dell’Aeronautica Militare italiana di Vigna di Valle … beh, quello è proprio l’S.M.82 Marsupiale. Non fosse altro perché è letteralmente enorme. E dire che l’hangar Badoni all’interno del quale è conservato non può dirsi certo piccino (veniva usato per il ricovero di ben 5 Cant-Z 506 Airone contemporaneamente). No, è che il Marsupiale dimostra tutta la sua stazza e dunque la sua capacità di carico essendo considerato per antonomasia il velivolo da trasporto della Regia Aeronautica. Quanto alla bontà di questo velivolo sarà sufficiente ricordare che la rinata Aeronautica Militare utilizzò gli esemplari sopravvissuti al conflitto fino al 1960 quando furono sostituiti con i più moderni C-119 – Foto proveniente da Flickr.com –Questo raro scatto ritrae proprio un S.M.82 in versione bombardiere. Lo si può facilmente desumere perchè quella versione, utilizzata solo nelle fasi iniziali del conflitto, era dotata di una gondola retrattile ove trovava posto il puntatore/mitragliere, proprio sotto la cabina di pilotaggio. – Foto proveniente da Flickr.com
Ad ogni modo ci piace riportare un’ultima missione assai speciale tra quelle elencate in questo libro che ci ha colpito in misura maggiore rispetto alle altre in quanto dimostra la perseveranza dei vertici della Regia Aeronautica nel voler annientare una vera e propria spina nel fianco alleata allora presente ai limiti del Mediterraneo: la fortezza di Gibilterra.
Il capitolo in questione s’intitola giusto appunto:
– gli attacchi alla Rocca. In effetti il titolo tradisce un dato storico ineccepibile, ossia che
“gli attacchi italiani portati alla Rocca di Gibilterra […] non furono semplici raid che si esaurirono in una singola sensazionale missione ma […] le azioni verranno perpetrate per tutto l’arco della guerra”,
al punto che
“[…] gli attacchi a Gibilterra richiederebbero un libro a parte”
Se c’è un modello di velivolo che non abbisogna di presentazioni è il Savoia Marchetti S.M.79 Sparviero, il famoso trimotore da record vincitore della corsa aerea Istres-Damasco-Parigi e della trasvolata dimostrativa Guidonia-Dakar-Rio de Janeiro. Fu poi convertito ad aerosilurante e questi velivoli scrissero pagini memorabili di eroismo e audacia pilotati dai piloti del Gruppo Autonomo Aerosilurante comandato dal tenente Buscaglia. Qui è ritratto nel 1940 mentre gli armieri provvedono al caricamento del siluro in vista di una missione di aerosiluramento nel Mediterraneo. – Foto proveniente da Flickr.com –
Per brevità accenneremo solamente ai velivoli protagonisti di questi attacchi: nel luglio 1940 dapprima gli S.M. 82 Marsupiale (in ruolo evidentemente di bombardiere), quindi nel giugno 1942 dai bombardieri strategici Piaggio P.108 e, infine, nel giugno 1943 dai mitici aerosiluranti Savoia Marchetti S.M.79 Sparviero.
In definitiva, quello di Robert Robison è un buon libro che si fa leggere volentieri, anche da chi non è proprio digiuno in fatto di storia della Regia Aeronautica e che addirittura sorprenderà coloro che lo sono.
Il testo è discorsivo, giornalistico, privo di qualsiasi enfasi o retorica gratuita. Semmai prevale una motivata critica nei confronti di scelte o valutazioni oggettivamente inadeguate o letteralmente inutili ai fini strategici.
In effetti, dal punto di vista squisitamente storico, il volume non aggiunge e non svela nulla di sconvolgente in termini di effetti di queste operazioni sull’esito del conflitto mondiale ma, se non altro, rende onore ad una forza armata tutta – qualora fosse necessario ricordarlo – che, di certo, non si risparmiò.
Piuttosto all’autore dovremmo esprimere una breve annotazione a margine giacchè, inspiegabilmente, ha dimenticato di citare una di quelle missioni che oggi oseremmo definire “fantascientifiche” di cui la Regia Aeronautiche si rese protagonista: “l’operazione canarino.” Meriterebbe un capitolo.
Ovviamente non gliene vogliamo ma auspichiamo che vorrà provvedere a una doverosa integrazione magari in occasione della prossima riedizione del suo libro.
Il Piaggio P.108 appartiene alla lunga lista di quegli aeroplani che arrivarono troppo tardi e troppo pochi per poter dare una svolta alle sorti del conflitto. E questo perchè i vertici della Regia non credettero mai alla necessità di un bombardiere strategico a lungo raggio tanto che l’industria aeronautica nazionale si guardò bene dal crederci, proporlo e poi costruirlo per tempo. Questo scatto ritrae uno del 24 esemplari assemblati e consegnati con davanti il suo equipaggio e il suo carico bellico sul prato dell’aeroporto di Guidonia – Foto proveniente da Flickr.com –
Dal punto di vista tipografico il volume è ben realizzato: i caratteri sono generosi e la carta è di buona qualità; curata la prefazione, impeccabile l’indice delle missioni/raid, utilissime le note a piè di pagina, esaustive le didascalie delle numerose foto (in bianco e nero) che risultano pertinenti alla narrazione, per lo più di ottima nitidezza e di media originalità benché materiale di questo genere non ne fu generato molto all’epoca.
Qualche riserva dovremmo esprimerla per la copertina che – in tutta onestà – non risulta certo accattivante e dunque confidiamo ugualmente in una riedizione migliorativa. La IV di copertina è prodiga di anticipazioni circa il contenuto del volume e, come nella migliore tradizione editoriale – contiene una breve biografia dell’autore. Autore che – apprendiamo – ha la tastiera facile o comunque non è estraneo alla scrittura storico/divulgativa dai risvolti aeronautici. Complimenti.
Il P.108 equipaggiò un solo reparto della Regia Aeronautica, la 274ª Squadriglia Bombardamento a Grande Raggio con sede a Pisa e la sua storia – volenti o nolenti – è indissolubilmente legata alla vicenda luttuosa del figlio prediletto del Duce, il terzogenito Bruno, che perì mentre pilotava il nuovo velivolo durante uno dei voli di collaudo e messa a punto. In effetti la macchina non mostrò problemi di sviluppo consistenti, certamente si trattava di un velivolo di notevoli dimensioni e di concezione piuttosto diversa rispetto a quanto era già in linea presso i reparti di allora . Probabilmente i piloti della Regia Aeronautica avrebbero dovuto abituarsi, col tempo, a un quadrimotore pesante da bombardamento come mai prima avevano visto e pilotato. Secondo la versione ufficiale dell’incidente ci fu un improvviso calo di potenza dei motori in fase di atterraggio tanto che, non potendo raggiungere la pista, il velivolo si schiantò in un campo prossimo all’aeroporto. – Foto proveniente da Flickr.com –
Tornando alla copertina, anzi al prezzo di copertina … ebbene lo riteniamo abbastanza congruo, appena sopra la media se si tiene conto delle 200 pagine, la copertina a colori plastificata lucida, la rilegatura in brossura e, soprattutto, la stampa in regime di autopubblicazione a mezzo della società Youcanprint che – almeno nelle intenzioni – dovrebbe consentire al lettore l’acquisto di un libro svincolato dal sovrapprezzo di un editore convenzionale. Forse.
A distanza di tanti anni riteniamo sempre più importante ricordare quanto accadde ma a condizione di raccontarlo con la serenità e l’obiettività che solo il tempo e il distacco emotivo concedono. E – occorre ammetterlo – Robison ci riesce a pieno titolo.
A noi – lo avrete capito, ormai – piace leggere e apprendere storie di aviazione, qualunque sia la coccarda dipinta su ala e fusoliera; leggere questo libro non ci ha procurato fatica alcuna, men che meno recensirlo.
In tutta sincerità è un libro che vi suggeriamo di leggere a vostra volta benchè indubbiamente di nicchia … ma tant’è: l’aviazione, il volo sono di nicchia, figuriamoci la letteratura dai contenuti aeronautici!?.
Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Vi dicono qualcosa questi numeri e lettere apparentemente casuali? No?
Se aggiungessimo alcune nomi di luoghi o persone e termini tecnici?
– Desenzano del Garda
– rosso corsa
– alberi coassiali
– Lago di Bracciano
– Francesco Agello
– FIAT
– idroscalo
– record
– museo
Ancora non vi sovviene niente?
E allora se vi svelassimo queste altre informazioni?
– Castoldi
– idrocorsa
– Vigna di Valle
– Italo Balbo
– eliche controrotanti
– Mario Bernasconi
– Lago di Garda
– idrovolante
– in tandem
– Tranquillo Zerbi
– Coppa Schneider.
Desistete? Buio totale? Beh … allora vi confesseremo che, in questo guazzabuglio di dati che ha le sembianze di un groviglio insignificante piuttosto che di una vera e propria guida sinottica, vi assicuriamo che una logica c’è, eccome.
Lo stesso senso logico che sta alla base del racconto di Roberto Ferri, apparentemente sconclusionato, in alcuni punti misterioso ma in realtà, a ben leggerlo, articolato e addirittura sorprendente per alcune trovate a effetto.
Il vero protagonista diel racconto di Roberto Ferri è questo mitico Macchi Castoldi M.C.72, matricola militare MM181, ritratto in uno scatto del 1999 presso il Museo Storico dell’Aeronautica Militare italiana di Vigna di Valle. In effetti sappiamo che, purtroppo, due esemplari furono perduti in incidenti di volo in cui persero la vita il capitano Giovanni Monti e il tenente Stanislao Bellini, il terzo con matricole militari MM177 fu quello che raggiunse per la prima volta nel 1933 il record di velocità con Agello – proprio quello citato nel racconto – e poi un quinto con matricole MM181 che è il detentore del record assoluto di 709 Km/h sempre conseguito da Agello nel 1934. – Foto proveniente da www.flickr.com
Ma procediamo con ordine nello svelare il mistero dei dati disordinati.
Il 23 ottobre 1934venne scritta una delle pagine più gloriose della storia della Regia Aeronautica, l’Aeronautica Militare italiana dell’allora Regno d’Italia. Venne stabilito – ed è a tutt’oggi imbattuto – un record di velocità per la categoria di velivoli in grado di decollare e atterrare da superfici marine o lacustri, detti tecnicamente idrovolanti. In effetti si trattava di idrovolanti da competizione, da cui il termine più corretto idrocorsa.
Lungo le rive del Lago di Garda, nello specchio di lago antistante la radiosa cittadina di Desenzano del Garda, per volere di Italo Balbo, allora Sottosegretario della Regia Aeronautica e suo grande promotore in seno al regime fascista, aveva preso sede da alcuni anni un reparto di volo assai particolare. Si trattava del Reparto Alta Velocità – da cui l’acronimo RAV – che utilizzava l’esistente idroscalo di Desenzano per addestrare i suoi piloti in quello che, fondamentalmente, costituiva il tentativo italiano di aggiudicarsi un trofeo internazionale assai prestigioso quale la Coppa Schneider.
Il record è raggiunto: velivolo e pilota meritano lo scatto che, a beneficio dei posteri, ne incorona i meriti e le indubbie capacità. Agello verrà promosso sul campo (anzi sull’idroscalo) al grado di sottotenente e, dopo qualche anno, di tenente. Gli verrà inoltre conferita la MOVA (medaglia d’oro al valore aeronautico) mentre L’M.C.72 verrà posto in naftalina e conservato come una reliquia sacra nel santuario della storia dell’Aeronautica Militare Italiana che prende il nome di Museo Storico di Vigna di Valle. Purtroppo, tenuto conto dell’unicità delle soluzioni ingegneristiche adottate, questo velivolo non ebbe seguito o comunque non ebbe alcuna ricaduta tecnologica sui velivoli di serie, militari e non, e dunque si aggiunge alla lunga lista di velivoli da record che l’industria aeronautica italiana produsse a ridosso della II Guerra Mondiale senza alcun ritorno in termini di impiego bellico. Ma ci pensate ad un caccia (tipo il Macchi 205 Veltro) con un motore sviluppato da un motorone del genere? Altro che Rolls-Royce Merlin, altro che Daimler Benz DB 605! – Foto proveniente da www.flickr.com
Il reparto era affidato all’allora tenente colonnello Mario Bernasconi, un ingegnere-pilota- collaudatore già comandante del Gruppo sperimentale di Montecelio-Guidonia.
Nel tentativo di raggiungere il record di velocità alcuni piloti erano già periti in incidenti di volo sicché la sua scelta cadde quasi inevitabilmente sul talentuoso maresciallo pilota Francesco Agello. Anche perché, in termini antropometrici, egli aveva la taglia ideale per entrare nell’abitacolo assai angusto dell’idrovolante allora disponibile. Si trattava del M.C.72, costruito appositamente dall’industria aeronautica Macchi e progettato con italica genialità dall’ingegner Mario Castoldi.
L’idrocorsa era un portento di ingegneria meccanica e di aerodinamica votata alla velocità. Il suo motore, anzi i suoi motori, erano stati appositamente allestiti dall’ingegnere Tranquillo Zerbi della FIAT che, di fatto, aveva messo in fila due motori (tecnicamente si dice in tandem). Aveva creato così il supermotore denominato AS6. Sviluppava complessivamente 3000 cv di potenza. Un mostro!
Ancora una bella immagine che mette in risalto le linee affilatissime disegnate dall’ing. Castoldi. L’ala assomiglia a una lametta, la fusoliera è sagomata letteralmente attorno al motore AS6 e gli scarponi sono dimensionati quanto basta per assicurare il galleggiamente dell’idrocorsa, niente di più, giacchè costituiscono una fonte notevole di resistenza di avanzamento all’aria (oltre che all’acqua). Sia l’ala che gli scarponi sono coperti da lastre in ottone che recano tubetti delo stesso materiale utilizzati a mò di radiatori per il raffreddamento dell’acqua e dell’olio del calorosissimo motore FIAT. – Foto proveniente da www.flickr.com
Ma l’intuizione più fantasiosa era stata quella di dotare ciascun motore di una propria elica bipala collegata ad esso tramite un proprio albero, uno esterno e l’altro interno – coassiali, appunto – . Le eliche ruotavano una in un senso e una nell’altra; per questo motivo vengono usualmente chiamate controrotanti.
L’idrocorsa era un vero missile verniciato di uno splendido rosso, rosso corsa, appunto.
Qui giunti, dovreste avere un quadro abbastanza chiaro di tutte le informazioni misteriose di cui all’inizio … rimangono solo … ah, ecco … il record fu stabilito e poi migliorato ulteriormente, eccome, fino a raggiungere la spaventevole velocità di 709, 202 km/h!
Questa è una di quelle foto che, quando di parla di record di velocità per idrovolanti, di M.C. 72 e di Francesco Agello non può mancare. Il pilota di Castelpusterlengo, classe 1902, perì nel novembre del ’42 a seguito di una collisione in volo nei cieli dell’aeroporto di Milano-Bresso. Era ai comandi di un Macchi M.C.202 che stava collaudando. Il destino volle che si scontrasse con un velivolo dello stesso tipo pilotato dal colonnello Guido Masiero, ex asso della I Guerra Mondiale, divenuto famoso per aver partecipato nel 1920 al raid aereo Roma-Tokyo assieme ad Arturo Ferrarin. Le malelingue non potranno fare a meno di notare come, rispetto all’idrovolante, Agello risulti piuttosto piccino … e non a causa delle dimensioni immense della macchina volante che immensa non era davvero. In verità, le cronache dell’epoca riportano l’immagine di un pilota minuto, di statura di poco superiore al metro e sessanta, quasi tascabile … giusto appunto a misura perfetta di M.C.72! – Foto proveniente da www.flickr.com
E il velivolo?… dopo quel fatidico giorno fu religiosamente custodito negli anni a venire e oggi fa bella mostra di sé nella sezione degli idrocorsa presenti all’interno del Museo storico dell’Aeronautica Militare italiana che ha sede sulle rive del Lago di Bracciano, presso l’ex idroscalo di Vigna di Valle.
Svelato il mistero, spiegati tutti i dati elencati all’inizio! Sì, d’accordo, ma che c’azzecca il racconto di Roberto Ferri?
E allora ecco delle informazioni utili:
– studenti
– sorriso
– gita scolastica
– amore
– Lago di Bracciano
– esami di maturità
Niente? Ancora buio totale? Alzate le mani?
D’accordo … e allora ve ne anticipiamo i dati salienti.
Un dettaglio delle eliche bipala metalliche che l’ing. Castoldi decise di adottare per il suo idrocorsa. Girando sullo stesso asse ma in senso inverso una rispetto all’altra, le eliche eliminavano completamente la terribile “coppia di reazione” che si innesca quando il velivolo è dotato di elica singola. In effetti, in un aeroplano (con carrello che appoggia sulla pista) l’elica tende a caricare in misura maggiore una gamba rispetto all’altra ma in un idrovolante vuole significare che un galleggiante è talmente caricato da affondare quasi completamente nell’acqua. In queste condizione diventa difficile flottare, difficilissimo prendere velocità e involarsi con una traiettoria diritta. Sul M.C.72 il problema non sussisteva proprio e, almeno in questo, Agello l’ebbe facile. All’impresa di Agello sono dedicati alcuni volumi lodevoli e un testo giornalistico che troviamo illuminante nonchè piacevolissimo da leggere: “Agello, il fantino del cielo”. Lo potrete apprezzare all’indirizzo: https://www.squadratlantica.it/si-chiamava-francesco-agello/ – Foto proveniente da www.flickr.com
Alla vigilia degli esami di maturità, un variegato gruppo di studenti fa tappa al Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle con una parte dei ragazzi intenti a godersi i preziosi cimeli della storia dell’aviazione mentre le ragazze, più verosimilmente, sono interessate al bagno nelle fresche acque del lago di Bracciano; tutti assieme nello stesso luogo prima che il passaggio definitivo alla vita adulta li separi inesorabilmente.
L’ideatore dell’insolita gita scolastica è la voce narrante del racconto e sarà proprio lui che, complice un contatto folgorante con l’M.C.72, si troverà catapultato nel luogo, nel momento e nei panni esatti del maresciallo Agello che sta per salire a bordo dell’idrocorsa … e il resto è storia!
L’invenzione del salto spazio-temporale non è certo nuova nell’ambito letterario e/o cinematografico, tuttavia l’autore la spende in modo oculato ed equilibrato in quanto, anzitutto, consente al lettore completamente digiuno di storia aeronautica, di apprendere dell’esistenza di un primato di velocità per idrocorsa; viceversa, al lettore più ferrato di questioni aeronautiche, concede dei dettagli a proposito di quell’impresa, innegabilmente “succosi”.
Lode dunque a Roberto Ferri per aver assurto all’attenzione di noi tutti questa pagina memorabile – quanto dimenticata – della storia del nostro paese. E bravo!
Purtroppo, differentemente da noi, devono aver pensato i giurati di RACCONTI TRA LE NUVOLE che hanno ritenuto questo racconto non meritevole di accedere alla fase finale del premio letterario. Peccato!
Il color rosso corsa dona enormemente a questo purosangue dell’aria (e dell’acqua) che è il Macchi M.C. 72. Lo scatto (recente) lo mostra adorno di cartelloni esplicativi nonchè di un esemplare di motore FIAT AS6 “nudo”, ossia privo delle cappottature motore, che era a bordo di uno dei cinque esemplari di M.C. 72 costruiti dalla Macchi. – Foto proveniente da www.flickr.com
E dire che l’autore, partecipando per la prima volta alla scorsa edizione e classificandosi in XIXma posizione, lasciava ben sperare con questo racconto … vorrà dire che sarà per la prossima! Intanto siamo lieti di concedergli un angolo “liquido” del nostro hangar … sì, avete letto bene: “liquido”, in quanto il suo racconto non può rimanere all’asciutto come tutti gli altri, ne convenite?
A parte gli scherzi, inutile sottolineare che a noi il racconto è piaciuto sebbene il suo prologo sia un poco lento e occorra aspettare qualche riga per intuirne la componente aeronautica. Ad ogni modo, la trama trova poi il suo sviluppo veloce e sicuro fino all’epilogo finale che suona come un vero e proprio messaggio rivolto alle giovani generazioni anziché del protagonista verso sé stesso.
La prosa è piacevole, ben architettati i dialoghi nonché i profili caratteriali dei personaggi.
Accanto al MC72 è posizionato il cuore pulsante dell’idrocorsa: il motore Fiat AS6, acronimo di: “Aviazione Spinto” nr 6. Nell’impossibilità di un ulteriore sviluppo del suo predecessore AS5, l’ingegner Tranqullo Zerbi del Reparto Progetti Speciali della Fiat Aviazione ebbe un’intuizione folgorante: mettere uno contro l’altro, in tandem due motori AS5. Così facendo avrebbe realizzato un motore a 24 cilindri a V in linea raffreddato a liquido con cilindrata di circa 50 litri e una potenza di 2300 cv aumentabile per brevi periodi a 2800 cv. Niente di più facile, in linea teorica ma assai complicato in termini pratici. La messa a punto dell’AS6 fu infatti lunga e perigliosa: le terribili vibrazioni che puntualmente si innescavano provocarono l’interruzione di diversi tentativi di volo record, la carburazione assai problematica abbinata a difficoltà di fornire un’adeguata alimentazione di carburante fu motivo di grandi preoccupazioni giacchè erano pressochè continui i ritorni di fiamma con conseguente rischio d’incendio della cellula. Non ultimo occorreva smaltire il notevolissimo calore assorbito dal refrigerante e dall’olio motore senza ricorrere a ingombranti radiatori. Infine il motore doveva necessariamente rientrare nelle specifiche di peso e consumi stabiliti dal Ministero dell’Aeronautica giacchè la cellula era proporzionata a un motore di non più 900-950 chili di peso e i serbatoi (collocati negli scarponi di flottaggio) non avrebbero potuto alimentare un motore troppo assetato o comunque per un periodo di tempo superiore a quello necessario a percorrere il circuito di gara.Tutte questi gravi problemi furono superati non senza difficoltà (e lutti) tanto che il motore AS6 conseguì il suo esclusivissimo record a bordo di un idrocosa da record: ancora oggi è il motore a pistoni italiano più potente mai costruito e installato a bordo di un velivolo. – Foto fornite dall’autore del racconto
Da buon ingegnere, l’autore non si lascia andare a descrizioni inutili, a sentimentalismi gratuiti, a una facile retorica. Il testo risulta equilibrato: non succinto, non prolisso. L’episodio di Agello viene narrato senza trionfalismi, senza faziosità. È solo un uomo, un pilota, un militare, non è un esaltato ma neanche un pavido.
Un racconto che innesca la voglia, qualora non l’abbiate mai soddisfatta, di correre al Museo di Vigna di Valle che, per inciso, l’autore conosce bene se è vero – a detta del nostro servizio di intelligence – che ha risieduto per qualche anno presso Anguillara Sabazia, ridente cittadina poco distante dal Museo.
Il racconto, ovviamente, non è uno spot gratuito a favore del Museo – anche perché non ne ha bisogno -, semmai permette di visualizzare degli scorci di un luogo magico in cui taluni amanti dell’aviazione vorrebbero prendere domicilio fisso mentre i più ragionevoli preferirebbero trascorrere periodicamente una giornata intera – salvo essere allontanati cortesemente dal personale di sorveglianza in occasione dello scadere dell’orario di chiusura – . Facciamo almeno una volta all’anno?!
Leggendo il racconto “1933, la conquista di un primato” troveremo un passo che è il manifesto del Museo Storico di Vigna di Valle. Eccolo: ” Ho visitato almeno cento volte il museo […]. È sempre una novità perché è un luogo in continuo cambiamento. Non ricordo due visite uguali, c’è sempre qualcosa di diverso.” Sottoscriviamo in pieno quanto sostiene la voce narrante/protagonista. – Foto proveniente da www.flickr.com
Che poi i velivoli lì custoditi abbiano qualcosa di magico è innegabile … dunque ammetterete che, in fin dei conti, non avrà nulla di sovrannaturale quanto accadrà al nostro protagonista. Cosicché non vi stupirete se, all’ultima sillaba del racconto esclamerete: “Accidenti! … perché a me non è mai capitato?”
Ovvio, ci viene da rispondere: se a Vigna di Valle non ci siete mai andati …
Narrativa / Medio – Lungo
Inedito
Ha partecipato alla VIII edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole” – 2020
Forse non tutti sanno che anche gli aeroplani possono essere dotati di gancio da traino. Ovviamente non per trainare roulotte o carelli appendice bensì alianti e/o striscioni.
Mentre il traino aliante comporta dei voli relativamente brevi, giusto appunto necessari per portare in quota l’aliante in una zona abbastanza vicina all’aeroporto di decollo (in cui sono auspicabili delle ascendenze), il traino striscioni comporta ugualmente brevi voli finalizzati a raggiungere un’area ove sia presente una elevato densità di pubblico cui mostrare lo striscione pubblicitario con lunghe permanenze presso quest’area (quasi al limite dell’autonomia).
Negli Stati Uniti l’aerostriscione è generalmente visibile in occasioni di grandi eventi sportivi, manifestazioni aeree, automobilistiche, elezioni, campagne pubblicitarie varie, ecc ecc. mentre nel nostro paese è d’uopo durante il periodo estivo, nello spazio di cielo antistante le spiagge. Purtroppo in tutta Italia ben poche sono le società che si occupano di traino striscioni, pochi i velivoli impiegati, pressochè inesistente il manipolo di piloti professionisti che ne hanno fatto un lavoro a tempo pieno.
Viene da domandarsi come un velivolo così piccino abbia potuto portarsi appresso uno striscione così enorme. Misteri dell’aerodinamica! – Foto proveniente da www.Flickr.com
Anche perchè trainare uno striscione lungo la costa in un monotono andirivieni non è certo il massimo delle aspirazioni del pilota trainatore, consapevole che, nel frattempo, una moltitudine di gente è in vacanza e si sta godendo un bagno ristoratore o socializza giocosamente in spiaggia. Lui è invece è da solo, spesso a bordo di un velivolo rumoroso, quasi sempre assai spartano; è accaldato, infastidito dalla brezza perennemente al traverso, generalmente malpagato e con la certezza che quel lavoro stagionale non gli consentirà di sopravvivere ma solo di accumulare esperienza e ore di volo, nella speranza di diventare un pilota commerciale.
Contrariamente a quanto si possa pensare, il velivolo trainatore non decolla mai con lo striscione agganciato (si deteriorerebbe in modo irreparabile strisciando sulla pista), viceversa il pilota ghermisce con una sorta di ancorotto un cavo che penzola tra due paletti alti un paio di metri sopra il terreno. A un capo del cavo penzolante è legato appunto lo striscione … e il gioco è fatto. Foto proveniente da www.Flickr.com
Questo nella realtà; nella finzione letteraria il nostro pilota si chiama Moreno ed è il pilota di un piccolo aereo pubblicitario che vola sopra le spiagge della Versilia da giugno a settembre per reclamizzare bibite o gelati. Il suo amore per il volo si incrocia con quello per l’amica Marina, ancora inespresso, con la voglia di veicolare messaggi più intimi e importanti di un semplice slogan. E’ proprio questo che gli suggerisce un modo originale per dichiararsi alla donna dei suoi sogni. Ma qualcosa va storto e, complice il tipografo che realizza gli striscioni, accadrà l’imponderabile.
Ancora uno splendido racconto di Cristina Giuntini, ancora un racconto ritenuto non meritevole di accedere alla rosa dei venti racconti finalisti della VIII edizione del Premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE, ancora una ghiotta opportunità per il nostro hangar di poter ospitare un racconto di notevole caratura letteraria. Questo, in estrema sintesi, il racconto intitolato: “Un segno nel cielo”.
Chi l’ha mai detto che il traino striscione è appannaggio solo degli aeroplani? Anche gli elicotteri possono! Provare per credere. – Foto proveniente da www.Flickr.com
Più estesamente aggiungiamo che lo abbiamo letto con sommo piacere giacché si tratta di una composizione che ha una solida dinamica narrativa, peraltro sottolineata da dialoghi veloci che si alternano in modo strategico con riflessioni intime e narrazione in terza persona.
Un racconto dunque scritto ad arte con un’ambientazione probabilmente non proprio vicina alla quotidianità dell’autrice, fatto salvo che non abbia goduto della consulenza di qualche amico trainatore o che sia stata lei medesima la sedicente Marina del racconto. Chissa? Mai dire mai … solo lei potrebbe confessarlo, magari con la lampada negli occhi e una nuvola di fumo che le annebbia il respiro, resa insonne e incalzata per giorni dalle medesime domande perentorie. Confessa Cristina!
Benché la Giuntini abbia partecipato più volte a RACCONTI TRA LE NUVOLE i risultati conseguiti sono stati alterni; purtroppo anche questo racconto non ha riscontrato il gradimento della giuria – e non sappiamo spiegarci perché – recandoci il privilegio di poterlo smontare e rimontare per ispezionarlo nei suoi più profondi recessi cosicché possa farne bella mostra di sé in uno degli angoli più ariosi del nostro hangar.
Questa è la visuale che avrebbe Moreno, il pilota del racconto “Un segno del cielo”, da bordo del suo aeroplano intento a svolgere il compito di traino striscioni. In verità la spiaggia non quella della Versilia bensì quella statunitense di Miami tuttavia il tipo di volo rimane il medesimo. – Foto proveniente da www.Flickr.com
Per la cronaca, VOCI DI HANGAR si fregia di ospitare due racconti a firma della scrittrice fiorentina di nascita ma pratese di residenza; si tratta del fantasmagorico “Catrame” e l’originale “Avevo paura di volare”. Ora si aggiunge il terzo “Un segno nel cielo” a dimostrazione che la nostra Cristina è capace di scrivere di tutto e su tutto: dalla crescita in ambiente idroponico del prezzemolo riccio fino alla caducità del genere umano passando per la brillantezza dei zirconi industriali. Diciamolo chiaro: siamo di fronte a un vero fenomeno della natura in attesa di essere svelato, a un talento innato che, se da una parte ci onora di conoscere da presso, dall’altro ci reca un’indicibile invidia per la leggerezza e la facilità di scrittura che la contraddistinguono.
Ma veniamo al racconto.
Uno scatto sublime che merita sicuramente la copertina di questa recensione. Quella del traino striscione è una vera e propria arte aviatoria. Per comprendere meglio come avviene l’aggancio dello striscione vi rimandiamo ad un bel video all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=TkVgZ9tVkA8 – Foto proveniente da www.Flickr.com
In effetti, a giudicare dalla morigeratezza con cui l’autrice ha utilizzato il punto a capo, ci è apparso subito chiaro il desiderio di Cristina di risparmiare spazio: il racconto in origine ci è apparso “ammucchiato”, forzatamente compresso, i dialoghi sovrapposti recando talvolta il lettore in errore riguardo chi dicesse cosa. Che si tratti di una nuova tecnica letteraria? Bah … in qualità di editori (nostro malgrado) abbiamo preferito srotolarlo e conferirgli quell’estetica dattilografica convenzionale che prevede – forse banalmente – di andare a capo ogni qualvolta si alterna il soggetto dialogante o di dividere i periodi secondo la logica del cambio di ambientazione o di pensiero dei vari personaggi. Speriamo che Cristina non ce ne vorrà!
Che l’autrice abbia ritenuto troppo lunga la sua composizione? No, replichiamo: è ampiamente entro i canonici 32 mila caratteri consentiti. Che il racconto acquisisca più ritmo? Che il lettore faccia meno fatica a saltare riga? … non lo sapremo mai!
Ciò nonostante il racconto è godibile e mantiene una buona dose di curiosità nel lettore fino all’epilogo con sorpresa.
Uno striscione che riporta una frase utilizzata spessissimo nell’ambiente aeronautico e che suona più che mai singolare se collocata su un aerostriscione. Che sia un messaggio subliminale rivolto ai piloti? – Foto proveniente da www.Flickr.com
A Cristina va riconosciuta la capacità di farci vedere la vista dall’alto delle infuocate spiagge della Versilia o il susseguirsi regolare degli ombrelloni, il formicolare della moltitudine dei bagnanti. In un’estate – quella 2020 – che ha negato a molto di noi le vacanze, la Giuntini ci mostra idealmente i chioschi degli stabilimenti balneari assediati da un nugolo di belle ragazze semi ignude attorniate dagli immancabili ammiratori che scorrazzano tutti amabilmente sulla sabbia rovente. Riusciamo anche a vedere il giovane pilota solitario con il suo drappo pubblicitario al seguito, a suo agio a bordo del suo velivolo da lavoro ma non a terra con i suoi simili, specie di sesso femminile.
Un visione controcorrente, non c’è che dire, che rompe lo stereotipo del pilota disinvolto e rubacuori, emulo aereo dei suoi colleghi bagnini anfibi. Eppure credibile. E in questo l’autrice è originale sebbene raggiunga il grado massimo di originalità facendo trainare idealmente al protagonista un tipo di striscione che nessun pilota si sognerebbe mai di portarsi al seguito in aria. Un messaggio inequivocabile in cielo – occorre ammetterlo … peccato che si strapperebbe appena agganciato al velivolo trainatore. Ma si sa: alla fantasia e all’amore non c’è limite.
Narrativa / Medio – Lungo
Inedito
Ha partecipato alla VIII edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole” – 2020