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Il diritto di contare

titolo:  Il diritto di contare 

autore: Margot Lee Shetterly 

editore: Harper Collins

anno di pubblicazione:  gennaio 2017

ISBN: 8869051781 oppure: 978-8869051784

pag: 381




anno di pubblicazione:  aprile 2018

ISBN: 8869053431 oppure: 978-8869053436

pag: 400





PREMESSA.

Non appena apparve per l’edizione 2023 di Racconti tra le Nuvole il comunicato che indicava come tema suggerito La donna nel mondo aeronautico e astronautico, mi vennero subito in mente le tre signore della matematica che negli anni ’40-’50 del secolo scorso, mentre l’IBM stava affannosamente mettendo a punto il primo calcolatore elettronico e i calcoli si facevano ancora solo con carta e penna, gesso e lavagna, furono assunte dalla NASA per eseguire, appunto con quei mezzi, calcoli matematici tanto complessi, quanto quasi al limite dell’impossibile.

Le tre signore erano Katherine Johnson, Mary Jackson e Dorothy Vaughan.

Le tre “hidden figures” o “figure nascoste” che sono indiscutibilmente le protagoniste principali del romanzo di Margot Lee Shetterly. A cominciare da sinistra: Katherine Johnson, al centro Mary Jackson, a destra Dorothy Vaughan.(foto proveniente dal web)

Tre talenti matematici (tutte laureate con il massimo dei voti prima dei 18 anni) che si sono ritrovate a lavorare in un ambiente così maschilista che di più non si può, dove già inserirsi sarebbe stato problematico per qualunque donna bianca, e dove per loro la cosa fu ancora più complessa, perché loro erano per di più afroamericane in un’America (precisamente in una Virginia) afflitta da problematiche razziali peraltro ancora lontane dall’essere risolte. Delle tre ne sapevo già qualcosa grazie ai fuggevoli cenni presenti in alcune copie dell’Europeo che tuttora conservo… Ops, che sbadata, i più giovani di voi non sanno neanche di cosa parlo e – quel che è peggio – ho appena rivelato troppo della mia età! Comunque L’Europeo, chiuso da anni, fu un glorioso settimanale (come L’Espresso, Panorama, La Domenica del Corriere) sul quale scriveva tra gli altri la grande Oriana Fallaci, autrice di molti articoli dedicati all’epopea spaziale dell’uomo che stava conquistando la Luna, con buona pace di coloro che tuttora negano che ciò sia mai avvenuto.

Dunque, dicevo, sull’Europeo trovai dei trafiletti sulle tre signore che me le resero subito simpatiche anche se la cosa finì lì proprio per il pochissimo rilievo dato loro.

Sebbene si tratti di un romanzo corale contraddistinto da una moltitudine di personaggi, Katherine Johnson è indubbiamente la protagonista principale che brilla con maggiore lucentezza sia nell’ambito del romanzo che del film dedicato alle donne calcolatrici della NASA che, come enfatizza il sottotitolo della prima edizione del volume, “volevano cambiare le loro vite e invece hanno fatto la storia” (foto proveniente dal web)

Poi però vidi anche un film che molto tempo dopo (è uscito nel 2016) raccontava la loro storia con dovizia di dettagli e grande risonanza (tre nomination all’Oscar).

Tuttavia non avevo ancora mai letto il libro da cui l’omonimo film era tratto.

Racconti tra le Nuvole mi diede finalmente l’input per colmare la grave lacuna. Così lo comprai e lo lessi, e oggi sono contenta di averlo fatto, perché leggendolo ho scoperto che il film, peraltro delizioso e consigliatissimo, tratta in realtà solo di una parte della vicenda e solo delle tre donne citate, mentre il libro racconta di più, molto di più. Lo fa però più nella forma del saggio che del romanzo, sebbene si avverta qui e là qualcosa di, diciamo, rielaborato. Ma questo ci sta, anzi, questo alleggerisce di molto la scrittura a volte un po’ freddina, ridondante e didascalica di alcune sue pagine, cosa che, sia chiaro, nulla toglie all’importanza di questo libro per le tematiche che tocca e le riflessioni che induce nel lettore.

Ancora una splendida immagine d’epoca che ritrae la matematica Katherine Johson seduta alla sua postazione di lavoro presso il Langley Research Center della NASA dove contribuì a calcolare la meccanica orbitale dei primi voli spaziali con equipaggio, in particolare la missione  Friendship 7 di John Glenn del 1962. Nata il 26 agosto 1918 a White Sulphur Springs, Virginia Occidentale, la Johnson lavorò a Langley dal 1953 fino al suo pensionamento nel 1986. La presenza e l’operato di Katherine incrinò irrimediabilmente la condizione di aparthaid di genere (maschile/femminile) e di etnia (bianco/aframericano) che vigeva nell’ambito di un ente all’avanguardia tecnologica come la NASA ma ancora arretrata in fatto di diritti sociali. Insomma un paese, gli Stati Uniti, che sì, inviava degli uomini nello spazio ma poi ghettizzava in modo subdolo le donne rispetto agli uomini e, con modalità se possibile molto più becere, i bianchi dai neri (foto proveniente da www.flickr.com)

La prima di queste riflessioni, almeno per me, è stata che ancora una volta la Letteratura si dimostra essere quel racconto arcaico in cui solo è possibile passare da una vita all’altra. Di più, in cui è di nuovo possibile riconvocare ciò che è stato, riconciliare l’essere umano con l’irrimediabile provvisorietà dell’esistenza, e anche riconcigliarlo con gli errori del passato, ai quali, laddove ci fossero stati, essa sa come porre rimedio.

La locandina della pellicola cinematografica tratta dall’omonimo romanzo della scrittrice afroamericana Margot Lee Shetterly che la 20th Century Fox fece uscire nelle sale statunitensi in occasione del Natale 2016 e che invece giunse in quelle italiane solo nel marzo 2017. Il film ebbe ottimi risultati commerciali giacchè, a fronte di un investimento di circa 25 milioni di dollari da parte della produzione, incassò ben 170 milioni di dollari solo nel mercato statunitense e circa 66 milioni in quello estero a dimostrazione della bontà della felice scelta intrapresa sia in termini di sceneggiatura che di regia. Ottima la fotografia e di buon livello anche la recitazione delle tre attrici principali qui ritratte nei loro “costumi d’epoca” (foto proveniente da www.flickr.com)

Ecco infatti che, grazie alla letteratura, tre vite (e non solo quelle tre) risorgono e trovano i riconoscimenti che meritano e avrebbero meritato di ricevere ben prima. Dunque un libro, un film, e nel 2023, un modesto racconto che torna a riconvocare le tre scienziate per concorrere, pur nella piccola misura che ci compete, a rimediare all’errore di averle lasciate così a lungo nel più ingiusto ed oscuro degli oblii.

Cosa che, cogliendo l’occasione del premio, mi parve giusto fare, come una sorta di risarcimento post mortem alle tre scienziate, e questo sebbene fossi consapevole che rischiavo l’esclusione ex officio da parte del rigorosissimo Segretario, perché in realtà più che un racconto di “scrittura creativa”, come richiesto, veniva fuori piuttosto un “saggio”, tanto che mi preoccupai subito di scrivere e inviare anche un secondo racconto, questa volta di pura invenzione e pervaso di pura poesia che però, con  grande mia sorpresa, fu scartato a beneficio dell’altro per il quale speravo solo che un giorno venisse almeno ospitato sul sito appunto degli scartati, dei non pubblicabili, come omaggio alle tre… Potere della testimonianza storiografica!

Ma sembra proprio che l’anno 2023 non abbia ispirato solo me. Qualcun altro deve aver avuto sentore che era tempo di spostare i riflettori su queste donne.

E che riflettori! Stiamo parlando del set fotografico più famoso al mondo, quello del calendario Pirelli. Sì, avete letto bene.

Il calendario Pirelli 2024 (ovviamente realizzato l’anno prima) è stato interamente dedicato alle donne di colore che si sono distinte in vari campi, e più in generale, a quel Continente Africa che oggi sta richiamando a vario titolo anche l’attenzione dei Capi di Stato di mezzo mondo. Forse perché il futuro dell’Africa è in Africa?

Ecco allora che accanto a Naomi Campbell e ad altre famosissime star, sfogliandolo ci s’imbatte in lei. Come lei chi?

Ma lei Margot Lee Shetterly, proprio l’autrice de Il diritto di contare, la scrittrice americana che per prima ha tirato fuori dall’ombra Katherine, Mary, Dorothy e le loro compagne.

Perché lei? Ma perché è un modo per aprire una finestra sull’Africa e sulla diaspora nera, perché lei vuole pensare positivo per cambiare le cose, perché se invece dici che tutto è perduto, ti togli ogni responsabilità. Perché nel mondo globalizzato il battito d’ali di una farfalla dall’altra parte del mondo ha conseguenze qui.

Diverse scene del film candidato all’Oscar “Hidden Figures – Il diritto di contare” furono girate nel tunnel del vento a bassa velocità Lockheed Martin a Marietta, in Georgia, nell’aprile 2016. Alla fine del film, vengono mostrate foto reali delle persone e dei luoghi ritratti durante la riprese della pellicola. Questo scatto risale invece con ogni probabilità al 1968 o al massimo nel 1969 quando veniva verificato in galleria del vento il prototipo del mitico C-130 Hercules che assieme allo Spillone (l’F104 Starfighter) e al SR-71 Blackbird sono i velivoli iconici di quella Casa Costruttice statunitense (foto proveniente da www.flickr.com).



TRAMA: Se John Glenn ha orbitato intorno alla Terra e Neil Armstrong è stato il primo uomo a camminare sulla Luna, parte del merito va anche alle scienziate della NASA che negli anni Quaranta elaborarono i calcoli matematici che hanno permesso a razzi e astronauti di partire alla conquista dello spazio. Tra loro c’era anche un gruppo di donne afroamericane di eccezionale talento, originariamente relegate a insegnare matematica nelle scuole pubbliche “per neri” del profondo Sud degli Stati Uniti. Queste donne furono chiamate in servizio durante la Seconda guerra mondiale a causa della carenza di personale maschile, quando l’industria aeronautica americana aveva un disperato bisogno di esperti con le giuste competenze. Tutt’a un tratto a queste brillanti matematiche e fisiche si presentò l’occasione di ottenere un lavoro all’altezza della loro preparazione, una chiamata a cui risposero lasciando le proprie vite per trasferirsi a Hampton, in Virginia, ed entrare nell’affascinante mondo del Langley Memorial Aeronautical Laboratory.

Il loro contributo, benché le leggi sulla segregazione razziale imponessero loro di non mescolarsi alle colleghe bianche, si rivelò determinante per raggiungere l’obiettivo a cui l’America aspirava: battere l’Unione Sovietica nella corsa allo spazio e riportare una vittoria decisiva nella guerra fredda. Sullo sfondo della lotta per i diritti civili e della corsa allo spazio, Il Diritto di Contare segue la carriera di queste donne per quasi trent’anni, durante i quali hanno affrontato sfide, forgiato alleanze e cambiato, insieme alle proprie esistenze, anche il futuro del loro Paese. (Tratto dalla prefazione. N.d.A.)



E non poteva certo mancare la foto di rito del cast del film “Hidden figures – Il diritto di Contare” scattata sabato 10 dicembre 2016 davanti all’ingresso del SVA Theatre di New York in occasione della presentazione mondiale della pellicola. L’occhio elettronico del fotografo ufficiale della manifestazione ha dunque immortalato, partendo da sinistra verso destra: l’attrice, modella e cantante Janelle Monáe, quindi, di rosso vestita, la cantante e attrice Taraji P. Henson, il sempre affascinante Kevin Costner nel suo duplice ruolo di produttore e di attore del film, e infine la corpulenta attrice Octavia Spencer. Interpreti tutti statunitensi per un film che celebra, non senza critiche, una delle pagine più oscure della corsa allo spazio del paese a stelle e strisce (foto proveniente da www.flickr.com)

RECENSIONE.

Diceva Virginia Woolf a proposito della donna-angelo del focolare alle prese con il tentativo di affrancarsi da quell’etichetta per diventare qualcosa d’altro (nel suo caso una scrittrice che avesse diritto alla sua stanza dove scrivere, al suo nome sul suo libro e non il solito pseudonimo maschile, al suo pubblico e al denaro che tutto questo poteva procurarle):

“…le donne devono ammaliare, devono conciliare, devono, per dirla brutalmente, dire bugie se vogliono avere successo. Perciò, ogni volta che avvertivo l’ombra della sua ala sulla pagina, o la luce della sua aureola, afferravo il calamaio e glielo scagliavo contro. Ce ne volle per farla morire. La sua natura fantastica le dava un vantaggio. È molto più difficile uccidere un fantasma che una realtà. Credevo di averla liquidata e invece eccola lì di nuovo. Benché mi lusinghi di averla uccisa infine, fu una lotta durissima; che richiese del tempo che sarebbe stato più utilmente impiegato a imparare la grammatica greca; o a girare il mondo in cerca di avventure. Ma fu una vera esperienza; un’esperienza che doveva toccare a tutte le donne scrittrici a quell’epoca. Uccidere l’angelo del focolare faceva parte del mestiere di scrittrice”.

Margot Lee Shetterly non ha la forza espressiva e il vigore strutturale di una Woolf, tuttavia lei con Il Diritto di Contare ha a sua volta ucciso l’angelo del focolare, non solo quello suo personale di scrittrice che si afferma a dispetto del suo genere e del colore della sua pelle, ma anche perché ha scelto di raccontare la storia di altre donne che come lei hanno ucciso il loro angelo del focolare dimostrando che, volendo, si poteva continuare ad essere anche quello: donne delicate, sensibili, attaccate agli affetti familiari, senza per questo rinunciare ad essere ciò che si sentiva di essere e di voler essere. Sta in questo il merito di questo libro ed è per questo che va letto.

Nel 2017, chi avesse visitato il Pasadena Chalk Festival si sarebbe imbattuto in questo piccolo capolavoro di arte grafica di  8×7 piedi (circa 2,5 per 2 metri) realizzato con pastelli morbidi e gessetti. La disegnatrice, un ingegnere informatico di colore impiegata presso la NASA, decise di dedicare la sua opera a quelle tre donne straordinarie, figure del tutto nascoste e assurte agli onori del grande pubblico solo dopo la proiezione del film, dichiarando di averci messo dentro tutte quelle che erano le sue capacità artistiche superando anche i suoi limiti personali … e occorre riconoscerlo: il risultato è davvero apprezzabile (foto proveniente da www.flickr.com)

Dopo il Buio oltre la siepe (scritto però da una scrittrice bianca) e poi tutta una gamma di variazioni sul tema apparse in America nell’ultimo mezzo secolo, a opera di scrittori e scrittrici di colore e non, questo libro, attraverso le vicende di alcune scienziate della NASA, racconta dal punto di vista di una scrittrice afroamericana le lotte compiute da donne di colore come lei, per affermarsi nel mondo bianco e maschile della scienza e della tecnologia. Forse si poteva scrivere meglio, cospirando di più con le attese, le sospensioni, le dilatazioni, rubando meglio, come si dice in gergo musicale, sul tempo della narrazione, troppo spesso trascinato e perso dietro minuzie e dettagli che, se da un lato, rivelano al lettore il lungo e meticoloso, quasi maniacale e impressionante lavoro di ricerca e detection dell’autrice, dall’altro inducono a chiedersi: perché mi dice anche questo? Perché non ha mondato il superfluo?

Ardua la risposta. Chi siamo noi per fare appunti a un libro di tale clamore e successo? Che ha suscitato l’interesse di Hollywood e che porta la sua autrice sul set Pirelli?

Nessuno, certo. Allora forse dobbiamo andare oltre la prima impressione di lettori, e apprezzarlo per quello che voleva essere davvero: una testimonianza al femminile, un riconoscimento dovuto, una miniera in cui attingere storie, aneddoti, dettagli, che visti nel loro complesso raccontano una sterminata massa di difficoltà affrontate e superate. Incluse le difficoltà affrontate e superate legate ad un tipo di lavoro che, per quanto appassionante, con la sua esclusività e centralità metteva in secondo piano tutto il resto, a cominciare dalle famiglie che si dovettero a loro volta dotare di grande pazienza, comprensione e solidarietà con le rispettive mogli, madri, sorelle, figlie scienziate, per non soccombere alle ragioni dell’ufficio e della patria.

Anche Margot Lee Shetterly non poteva certo mancare alla cerimonia di presentazione mondiale del film “Hidden Figures” avvenuta nel dicembre 2016 a New York. La scrittrice afroamericana, figlia di un dipendente della NASA che svolgeva l’incarico di ricercatore presso il Langley Research Center, crebbe in un ambiente in cui chiunque (dai vicini di casa ai genitori dei suoi compagni di scuola) aveva qualche familiare occupato presso la NASA e dunque, quasi inevitabilmente, dopo un’esperienza lavorativa a New York nel settore finanziario presso JP Morgan e quindi Merrill Lynch, e poi nell’editoria in Messico, cominciò già nel 2010 a mettere assieme il materiale di ricerca che poi raccolse nel suo romanzo-saggio. La sua fortuna letteraria è dunque legata e limitata indissolubilmente al solo volume “Hidden figures” di cui nel 2018 ha curato anche la versione illustrata rivolta ai bambini dai quattro agli otto anni intitolata: “Hidden Figures: The True Story of Four Black Women and the Space Race” (foto proveniente da www.flickr.com)

L’autrice è come un direttore d’orchestra preparatissimo, tecnicamente irreprensibile, con una libertà della mano sinistra tale da essere capace di plasmare infinite intenzioni espressive in un modo che non potrebbe essere più efficace. Eppure nonostante l’esecuzione sia un paradigma di controllo e di dominio dell’orchestra, vien fuori un concerto dove a volte è molto difficile risolvere il disagio di certi momenti, per cui tanta meticolosità alla fine crea un problema anziché risolverlo.

Ma come non ammirare il coraggio della Shetterly quando assegnando quel titolo, Hidden Figures, al suo libro (Figure nascoste, è infatti quello originale) già disvela la sua intenzione di rendere visibili finalmente quelle figure trasparenti, non viste, unseen che hanno atteso con pazienza il momento opportuno per farsi avanti e piano piano dire al mondo ci sono anch’io, so fare questo, non puoi più ignorarmi?

Ancora una bella immagine della scrittrice di “Hidden Figures” ripresa mentre è intenta a leggere alcune pagine del suo lavoro letterario a beneficio di una nutrita platea di studenti delle scuole pubbliche statunitensi. L’evento, ebbe luogo nel dicembre 2016 presso la  Martin Luther King Jr. Memorial Library a Washington e rende l’idea dell’improvviso interesse che suscitò la proiezione del film e, di rimbalzo, del libro da cui il film è stato tratto in modo mirabile (foto proveniente da www.flickr.com)

E forse alla fine ci persuadiamo che per non farsi più ignorare era necessario metterci dentro tante di quelle cose da poterne prendere solo un po’ per volta, come quando si deve bere a piccoli sorsi un tè perché troppo bollente. Ecco perché questo libro che, soprattutto nella prima parte, procede lento, appesantito da troppi tecnicismi, ostici a chiunque non sia del mestiere, e infarcito di citazioni e riferimenti a luoghi e istituzioni che per noi non hanno alcuna evocazione, va letto con calma, va preso a piccole dosi, finché superati i primi scogli si sarà premiati, nella parte finale, da un’atmosfera più descrittiva e godibile, dove si chiarisce il senso di tutto il lavoro precedente, si chiarisce l’insegnamento che vuole darci l’autrice, cioè che l’umanità è una sola, non ci sono colori, non ci sono differenze, ma esiste l’anima e il cuore di ciascun essere umano, e soprattutto esiste la dignità che qui è rappresentata dal silenzio di queste donne, che hanno attuato la loro rivoluzione unicamente dimostrando le loro competenze, senza urla e atti di violenza.

Contrariamente a quanto accade nel nostro paese in cui è praticamente impossibile intitolare qualsivoglia via, edificio o mezzo di trasporto a un personaggio famoso vivente, negli Stati Uniti alla matematica donna-calcolatore Katherine G. Johnson è stato dedicato il Computational Research Facility e alla cerimonia d’inaugurazione erano presenti, oltre alla festeggiata Katherine, i membri della sua famiglia, il sindaco Donnie Tuck, il senatore Warner e il governatore dello Stato McAuliffe. E questo scatto lo testimonia (foto proveniente da www.flickr.com)

La scelta dell’autrice americana di utilizzare un linguaggio semplice e delicato visto l’argomento già di per sé sconcertante, è da ammirare. E alla fine il libro si consiglia di leggerlo perché è sempre sbagliato perdere un’occasione per imparare il rispetto verso la vita altrui e verso qualsiasi essere vivente. Perché anche se non è un libro da leggere in pochi giorni, o come si dice, “da spiaggia”, e richiede una certa dose di impegno, è così colmo di storia che vale la pena affrontarlo anche per capire un periodo storico del passato, quello della Guerra Fredda, che molti, i più maturi, forse hanno bisogno di rinfrescare nella loro memoria, e molti, i più giovani, hanno bisogno di conoscere per capire meglio il presente che non sembra del tutto liberato da certi atteggiamenti mentali, e non solo mentali, di cui furono vittime queste Figure Nascoste. Non è forse tuttora in atto una specie di guerra mista, fredda e calda, in cui si decidono le sorti del pianeta, come allora proprio nel Langley si decidevano le sorti dell’America rimasta col fiato sospeso nel momento in cui lo Sputnik ha solcato il suo cielo?

A seconda dell’edizione (tascabile o brossura) sono disponibili due diverse copertine del volume in lingua inglese che, in tutta onestà, non sono graficamente esaltanti … (foto proveniente da www.flickr.com) 

… fortunatamente la locandina del film è di ben altra caratura (foto proveniente da www.flickr.com)

Mentre mi accingo a chiudere il cerchio voglio però ricordare una cosa importante. Questa è una storia di donne, ma il cerchio lo chiudo parlando di un uomo: John Glenn. In un Paese in cui per bianchi e neri, la vita sociale era indirizzata su due binari legislativi rigidamente distinti per cui essi facevano la spesa in supermercati diversi, cenavano in ristoranti diversi, soggiornavano in hotel diversi, usavano bagni pubblici diversi, e ovviamente frequentavano scuole diverse, Katherine, un seme sbocciato sul terreno dell’apartheid istituzionale, della normalizzazione del razzismo da parte dei poteri dello Stato, della cristallizzazione di una prassi gerarchica fondata sul sangue, riesce ad affermarsi alla NASA fino al punto che il primo astronauta americano ad andare in orbita attorno alla Terra, esige lei e solo lei come sua “calcolatrice umana” e dichiara che se lei avesse confermato i numeri del calcolatore elettronico appena arrivato, e di cui lui non si fida, lui sarebbe partito subito, senza pensarci due volte.

La sua vita e l’esito dell’esperimento, nonché di anni e anni di calcoli e stime, Glenn li ha messi nelle mani di una sola persona. Una donna.

Quella donna avrebbe fatto la differenza sia per lui che per l’intero genere umano.

Fu quella la vittoria di quella donna e delle sue compagne?

No. La loro vittoria fu essere fotografate accanto agli ingegneri uomini bianchi sotto la voce: le persone che hanno salvato l’America. Persone. Punto. 

Dunque l’avete capito. In questo caso il libro e il film sono due cose distinte. Non si può dire, come spesso succede, il libro è meglio del film, ovvero, il film è meglio del libro, come a prima vista parrebbe questo il caso. In realtà non è così.

Il film, pur fornendo le stesse informazioni e raccontando la stessa storia, affronta la storia dal punto di vista personale delle tre donne, il libro invece è un vero e proprio saggio storico, ricchissimo di dati e corredato da una tale quantità di note bibliografiche da essere all’altezza di un testo universitario. I due strumenti affrontano la storia con due metodi assolutamente diversi, tanto da rendere inutile una comparazione.  



IL FUTURO.

Tutto questo avveniva cinquant’anni fa. Dopo mezzo secolo e oltre la Luna torna alla ribalta. Messa da parte dai pensieri degli umani che contano e decidono, sembra ora essersi riacceso l’interesse verso il nostro satellite, che, ormai a lungo studiato, sembra essere definitivamente considerabile costola del nostro stesso pianeta. Materia della nostra stessa materia. Insomma sangue del nostro sangue. Ma il nostro pianeta, lo sappiamo, sta messo malino quanto a salute, e allora che si fa? Si guarda oltre. Si pensa ad una base stabile sulla Luna dalla quale un giorno magari partire verso Marte o altri mondi, visto che quello nostro ce lo stiamo bellamente giocando. Però, attenzione, in tutto questo rinnovato interesse per lei, per la pallida e mutevole Luna, spunta fuori che lassù, nella costola vergine della Terra, ci sono minerali, terre rare, acqua, allo stato solido ma in abbondanza… e tutto al polo Sud, dove di giorno fa 100 gradi e di notte – 200, dove il giorno dura 14 giorni e la notte 14 notti (terresti), un vero paradiso, non c’è che dire!

L’affascinante attrice e cantante statunitense Taraji P. Henson riveste il ruolo di Katherine Johnson nell’ottima pellicola “Hidden figures” (foto proveniente da www.flickr.com) 

Ma cosa non si farebbe, a cosa non si è disposti ad adattarsi per strappare anche a lei quelle stesse materie prime, risorse, ricchezze che sono motivo di conflitti inenarrabili, visto che, va a sapere perché, quei minerali preziosi e rari qui stanno tutti ammucchiati nei posti più complicati e guerrafondai del pianeta. E lì?

Un’altra protagonista principale della pellicola “Il diritto di contare” è l’attrice statunitense Octavia Spencer alias la “donna calcolatrice” Dorothy Vaughan (foto proveniente da www.flickr.com)

Pensateci bene, soprattutto ora che la “conquista dello spazio” si va allargando ben oltre due sfidanti, ora che vede inclusi, indifferentemente, astronauti e astronaute, e persino parastronauti perché alla fine s’è capito che quello che conta è l’integrità del cuore e della testa, e non l’integrità del corpo o il suo colore, o il suo sesso, a che non si replichi questa lotta all’ultimo sangue per accaparrarsi una miniera di coltan in più, un giacimento di litio in più… La luna è un’opportunità. Sì, che sia di pace però. Sennò rischiamo che prima o poi un’altra scrittrice dovrà scrivere un domani il Diritto di Spaziare, visto che gli avvocati di tutto il mondo hanno già il loro bel da fare a definire e a riscrivere il Diritto Spaziale.

Janelle Monáe, attrice e modella, nella finzione cinematografica di “Hidden figures” è Mary Jackson, la prima ingegnere afroamericana a lavorare alla NASA dopo aver svolto l’incarico di “computer umano”. Il suo nome è stato inserito solo nel giugno 2017 nel Langley Hall of Honor (foto proveniente da www.flickr.com)



L’AUTRICE E LA SUA VOCE.

Nata e cresciuta a Hampton, in Virginia, Margot Lee Shetterly ha conosciuto di persona molte delle protagoniste di Il Diritto di Contare, e per i suoi studi sul contributo delle donne alla matematica ha ricevuto una borsa di studio dalla prestigiosa Virginia Foundation of the Humanities.

Prima di trasferirsi a Charlottesville, con il marito, è stata per molti anni a New York e in Messico. Detto questo, credo che sentire direttamente la sua voce sia il modo migliore per consegnarvi questa recensione, che spero vi sia stata di utilità.

Da Il Diritto di Contare:

[…] Eppure, pur essendo state loro al Langley a infrangere la barriera della razza, facendo da apripista per gli uomini assunti in seguito, le donne dovettero sempre combattere per qualcosa che gli uomini, anche di colore, potevano dare per scontata: la qualifica di ingegnere […] Insieme avevano dimostrato che, se gliene venivano dati l’occasione e i mezzi, la mente femminile era uguale a quella maschile.

Come nella migliore tradizione dell’industria cinematografica statunitense, la proiezione della pellicola “Hidden Figures.” ha avuto scenari e corollari di tutto rispetto come l’auditorium del Kennedy Space Center in Florida, dove il cast al completo ha partecipato a una conferenza stampa organizzata al fine di promuovere il film presso gli addetti ai lavori della NASA. A sinistra possiamo riconoscere l’attrice Octavia Spencer alias Dorothy Vaughan; Taraji P. Henson, che impersona Katherine Johnson nel film e Janelle Monáe – Mary Jackson (foto proveniente da www.flickr.com)

[…] Per molti uomini, una “calcolatrice umana” era una macchina calcolatrice che respirava, un accessorio d’ufficio che inspirava una serie di cifre e ne espirava un’altra.

[…] “Sventurata te, se ti fanno calcolatrice” scherzava un articolo dell’Air Scoop. “Sventurata, perché l’ingegnere si prende il merito di qualsiasi tuo lavoro che brilli d’intelligenza e dia gloria. Ma se lui scivola o sbaglia un conto, o incappa in un errore di qualunque tipo, una volta chiamato a rispondere scaricherà il barile con un bel: ‘Del resto, cos’altro ci si può aspettare da una calcolatrice donna?’”.

Il lavoro della maggior parte delle donne, […], era anonimo, persino se lavoravano a stretto contatto con un ingegnere sul contenuto di una relazione era raro che le matematiche vedessero apparire il proprio nome sulla pubblicazione finale. Perché mai avrebbero dovuto nutrire il loro stesso desiderio di riconoscimento? Si chiedeva la maggior parte degli ingegneri. Erano donne, dopotutto.

[…]Prima che il computer diventasse un oggetto inanimato, però, e prima che il Centro di controllo missione atterrasse a Houston; prima che lo Sputnik cambiasse il corso della storia, e prima che la NACA diventasse NASA; prima che la sentenza della Corte Suprema nel caso Brown v. Board of Education of Topeka stabilisse che di fatto separato non significava uguale, e prima che la poesia del sogno di Martin Luther King si riversasse giù dalla scalinata del Lincoln Memorial, le calcolatrici dell’Area ovest del Langley aiutarono gli Stati Uniti a dominare l’aeronautica, la ricerca spaziale e la tecnologia informatica, ritagliandosi uno spazio come matematiche donne che erano anche di colore, matematiche di colore che erano anche donne. […]

Katherine ci ha lasciato il 24 febbraio 2020 alla veneranda età di 101 anni (foto proveniente da www.flickr.com)

[…] Figurarsi se una mente femminile poteva elaborare qualcosa di tanto rigoroso e preciso come numeri ed equazioni! Solo l’idea di investire cinquecento dollari in una macchina calcolatrice per poi farla usare a una ragazza… ma per piacere! E invece le ragazze si erano dimostrate molto, molto brave con i numeri. Più brave, di fatto, di molti ingegneri, come dovettero ammettere gli stessi uomini, pur se a denti stretti.  





Recensione di Rossana Cilli.

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR






Il diritto di contare

Forever Flying

titolo:  Forever Flying – Volando per sempre

autore: R.A. Bob Hoover 

editore: Atria

anno di pubblicazione: agosto 1997 

ISBN: 067153761X

ISBN 13 cifre: 978-0671537616

pagine: 328




Signore e signori, lasciate che vi presenti Bob Hoover.

Molti piloti lo conoscono. Una leggenda nel mondo aeronautico. E di quello degli air show statunitensi.

Qui da noi, forse, almeno dal nome, pochi saprebbero risalire al personaggio.

Del resto, noi italiani abbiamo poca inclinazione verso gli air show. E poi abbiamo una Pattuglia Acrobatica Nazionale che è, senza mezzi termini e senza dubbio alcuno, la migliore in assoluto sul pianeta Terra. Perciò tendiamo a conoscere solo quella.

Sono davvero innumerevoli i riconoscimenti conseguiti da Bob Hoover nel corso della sua lunga carriera assolutamente memorabile. Oltre a quella della FAA qui raffigurata non possiamo non ricordare: la National Air and Space Museum’s Trophy for Lifetime Achievement; la Living Legends of Aviation Award  e la National Aeronautic Association Wright Brothers Memorial Trophy; l’inserimento del suo nome nella National Aviation Hall of Fame; la Living Legends of Aviation Freedom of Flight Award (successivamente rinominata Bob Hoover Freedom of Flight Award); lo Smithsonian’s National Air and Space Museum Trophy; la National Aeronautic Association Wright Brothers Memorial Trophy nell’ambito civile. In quello militare ricordiamo: la Purple Heart, l’Air Medal with Clusters, la Distinguished Flying Cross, la Soldier’s Medal for Valor, e la France’s Croix de Guerre. (foto proveniente da www.flickr.com)

Abbiamo scarsa inclinazione anche verso la lettura. Specialmente di libri in una lingua diversa dalla nostra.

Ma forse, se dico che Bob Hoover è quel pilota che vola con un bimotore, seduto ai comandi indossando un largo cappello da cow-boy (ma non lo è veramente) e poi esegue un tonneau mentre versa acqua, da una bottiglia, in un bicchiere appoggiato sul cruscotto senza che il bicchiere si sposti di un millimetro e senza che una sola goccia si perda… allora molti sapranno di chi si tratta.

Potenza di Youtube.

Questo libro non è altro che l’autobiografia di Bob Hoover.

Ma lasciamo che a presentarlo sia un altro pilota, un Generale che risponde al nome di James Doolittle. Tutti coloro che non hanno idea di chi si tratti, neanche in questo caso, possono semplicemente scriverne il nome su Google.

Al Monterey County Air Show, nel 1988, Doolittle presentò così Hoover al pubblico:

[“Ladies and gentlemen, let me introduce to you Bob Hoover, the greatest stick-and-rudder pilot alive today…

No, That’s wrong,  let me introduce to you Bob Hoover, the greatest stick-and-rudder pilot who ever lived”.]

“Signore e signori, lasciate che vi presenti Bob Hoover, il più grande pilota cloche-e-pedaliera vivente …

No, è sbagliato,  lasciate che vi presenti Bob Hoover, il più grande pilota cloche-e-pedaliera che sia mai esistito”.

Una delle manovre che hanno reso Bob Hoover unico nel mondo delle acrobazie aeree: a motori spenti ed eliche a bandiera eseguiva looping e rolling con il velivolo bimotore North American Rockwell “Shrike Commander” 500S  dimostrando una padronanza eccellente della macchina e anche – ammettiamolo – una certa audacia che andava ben oltre le capacità tipiche di un pilota collaudatore (foto proveniente da www.flickr.com)

Nelle primissime pagine troviamo le suddette parole, a mo’ di presentazione del contenuto del libro, che il Generale ha voluto riproporre qui, come se si trattasse di introdurre uno spettacolo tipico di Hoover.

Ed ecco l’autore di questa biografia immortalato accanto al suo velivolo a bordo del quale lasciò letteralmente a bocca aperta decine e decine di migliaia di spettatori delle manifestazioni aeree statunitensi cui partecipò nel corso degli anni. Lo scatto risale al 2010 quando Bob Hoover aveva “solo” 88 anni presso lo Steven Udvar-Hazy Center a Chantilly, VA (foto proveniente da www.flickr.com)

Dopo la lettura di questo libro saprete che Doolittle diceva la verità.  Certamente di grandi piloti ce ne sono stati molti altri. Uno solo fra questi, tanto per fare un esempio, è stato Chuck Yeager. Su VOCI DI HANGAR trovate il libro autobiografico di Yeager recensito da me un po’ di tempo fa. S’intitola: Yeager: an autobiography – Una vita in cielo.

Anche lui ha scritto una propria presentazione, giusto una pagina dopo. In quella, Yeager racconta un episodio di come si sono incontrati, un giorno, nel cielo del deserto del Mohave, dove aveva sede il Reparto Sperimentale Volo dell’epoca, durante i collaudi di due aerei. Un bimotore a elica per Hoover e un caccia a reazione per Yeager. Era frequente che due piloti del loro calibro si sfidassero in qualche tipo di duello aereo, per ragioni puramente addestrative, ma nessuno avrebbe mai osato attaccare Yeager. Entrambi erano reduci dalla Seconda Guerra Mondiale e avevano combattuto e abbattuto aerei nemici. Erano, perciò, combattenti temibili. In quel cielo volavano come piloti collaudatori di nuove macchine volanti. Erano il meglio del meglio e Yeager aveva una reputazione che non lasciava spazio a scherzi del genere. Non si aspettava di essere sfidato in un duello. Men che mai da un bimotore a elica! Senza avere neppure la più pallida idea di chi ci fosse ai comandi.

Come si è svolta quella storia e come è finita … ve lo lascio scoprire leggendo il breve scritto di Yeager. Ma ne sarete sorpresi …

Bob Hoover ebbe un’esistenza lunga quanto a dir poco singolare nel corso della quale ebbe la fortuna e il privilegio di conoscere personalità iconiche della storia dell’Aviazione del calibro del suo amico e collega Chuck Yeager, il temerario colonnello Jimmy Doolittle, oppure il grande trasvolatore solitario Charles Lindbergh e addirittura il pioniere dell’Aviazione moderna Orwille Wright. Ma non solo … anche personaggi altrettanto memorabili dell’astronautica mondiale come Michael Collins e Neil Armstrong, ricordati negli annali per essere stati membri dell’equipaggio dell’Apollo 11 che toccò per primo il suolo lunare nel 1969. Bob ci ha lasciato nel 2016 alla veneranda età di 94 anni e, non a torto, è considerato uno dei migliori piloti mai vissuti nella storia dell’Aviazione mondiale. Alle spalle dell’autore uno dei velivoli con il quale volò molto intensamente: un F-86 Sabre (foto proveniente da www.flickr.com)

Segue una pagina intera di onorificenze che Hoover si è guadagnato nel corso della sua carriera. L’elenco è lungo ed è suddiviso tra quelle militari e civili.

Yeager, comunque, ha scritto una vera e propria prefazione di tre pagine, che troviamo di seguito.

E’ un libro strutturato davvero in maniera magistrale.

Dopo un capitolo che riguarda un air show in Russia, dove Hoover si esibisce alla sua maniera, sorprendendo tutti fino a superare i limiti della decenza rischiando di essere arrestato ed incarcerato, il libro vero e proprio comincia. E secondo la più comune consuetudine comincia proprio dall’inizio, dalla nascita, dalla descrizione della famiglia, dalle proprie umili origini etc.

Immancabile è anche la descrizione del suo primo approccio al mondo dell’Aviazione, che nel suo caso riguarda un vicino aeroporto e qualche attività di volo che il piccolo Bob poteva osservare da fuori dell’area aeroportuale, con le dita aggrappate alla classica rete.

Per raggiungere questo luogo di meraviglia, comunque, doveva percorrere una trentina di chilometri, di sola andata, in bicicletta.

Nelle biografie dei vari piloti, spesso vengono citati alcuni personaggi dai quali hanno tratto ispirazione. Hoover non fa eccezione. I suoi personaggi cominciano da un nome famosissimo: Charles Lindberg. La sua trasvolata oceanica, solo a bordo di un monomotore, aveva sbalordito il mondo intero.

E aveva affascinato e travolto di ammirazione il piccolo Bob Hoover.

Bob leggeva molto, da piccolo. E conosceva le gesta di altri piloti. Oltre Lindberg, conosceva Roscoe Turner, Eddie Rickenbacker e Jimmy Doolittle. Quest’ultimo era quello che più attirava il suo interesse. Ma c’era un ulteriore nome, in quei giorni, che divenne per lui particolarmente orientativo: Bernie Ley, che molti anni dopo divenne suo amico. La sua specialità era l’acrobazia aerea.

Bob Hoover era quel genere di pilota che era capace di pilotare qualunque cosa avesse una cloche e una pedaliera … compreso uno dei primi ultraleggeri mai costruiti nella storia dell’aviazione. E questo scatto lo testimonia. Della serie: quando gli ULM somigliavano più al Flyer dei fratelli Wright che a dei velivoli moderni (foto proveniente da www.flickr.com)

Hoover cominciò presto a prendere lezioni di volo, racimolando con vari mezzi i dollari necessari. Ma alla fine trovò la strada per entrare in Aviazione. La guerra stava per scoppiare anche per gli Stati Uniti, che aveva bisogno di piloti da mandare a combattere in Europa.

Un aspetto sorprendente del nostro Bob Hoover è che, insieme ad una smisurata passione per il volo e per le manovre acrobatiche, aveva la tendenza a subire il mal d’aria. Non c’era volo che terminasse senza una buona dose di air-sickness. Tuttavia, nel tempo, ogni sintomo divenne sempre più debole e, alla fine, scomparve.

L’aria e il mal d’aria vanno spesso di pari passo, ma solo per una distanza limitata.

Attraverso una serie ininterrotta di eventi, alcuni piuttosto complessi e spesso comici, finalmente il nostro pilota raggiunge l’Europa in guerra, ma anche qui sembra difficile arrivare proprio dentro il conflitto, ai reparti realmente combattenti. Piuttosto, la sua fama di pilota collaudatore, capace di mille prodezze ai comandi di qualunque tipo di aereo, gli procurano un incarico davvero speciale.

Un B-26 Martin Marauder, grosso bimotore da bombardamento, era stato abbattuto sulla costa siciliana, dalle parti di Messina e aveva fatto appena in tempo a raggiungere una spiaggia idonea ad un atterraggio sul ventre. L’aereo era stato riparato, ma la lunghezza della spiaggia non sembrava sufficiente per la ripartenza. Cercavano un pilota capace di compiere il miracolo.

E chi poteva fare una cosa simile?

Chiesero a Hoover. Lui accettò. Se ci fosse riuscito, probabilmente il merito acquisito avrebbe pesato abbastanza da far accettare la sua assegnazione a qualche reparto combattente.

Hoover andò sul posto con una squadra di tecnici militari. Fece smontare ogni cosa possibile, per alleggerire al massimo il pesante bimotore. Fece lasciare nei serbatoi la minima benzina, sufficiente appena per raggiungere il primo aeroporto disponibile, che in questo caso era Palermo. Poi mise in moto i motori e decollò, superando di pochi metri gli ostacoli.

In questo scatto mirabile sono riuniti tutti i velivoli che sono legati a doppio filo alle vicende professionali di Bob Hoover. La sua storia umana e professionale è tornata alla mente del nostro buon Evandro Detti dapprima dopo la lettura de:“La panchina”, il racconto che ha partecipato al premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE nell’edizione 2023, da poco ospite del nostro hangar (in cui il libro di Hoover è tra le mani della protagonista del racconto) ma anche e soprattutto per via della pubblicazione dell’ultimo libro della casa editrice Cartabianca Publishing avvenuto nel mese di dicembre 2023. Si tratta di Carrying the fire – Il mio viaggio verso la Luna che il lodevole editore bolognese ha regalato agli appassionati italiani di astronautica dopo cinque anni di duro lavoro traducendo in modo esemplare la sacra autobiografia dell’astronauta Michael Collins. E il nostro Evandro che ha recensito sia la versione in lingua originale che quella tradotta di Collins sarebbe potuto venir meno alla promessa di recensire un altro testo sacro della storia dell’Aviazione? Certo che no … e infatti ci ha concesso la recensione di “Forever Flying” come regalo natalizio! Grazie Evandro. Cartabianca compreso il messaggio? (foto proveniente da www-flickr.com)

Hoover aveva già pilotato il B-25. Ma mai il B-26, che sembra avesse anche una pessima reputazione, visto il notevole numero di incidenti che erano accaduti durante i voli di addestramento. E lui riuscì a portare via una macchina del genere da una simile spiaggetta piena di ostacoli, di un migliaio di piedi di lunghezza (circa 300 metri, NdR).

Descritta così, in poche righe, può anche sembrare un compito facile. Ma nel libro la descrizione dell’intera impresa prende molto più spazio, si arricchisce di particolari molto interessanti e soprattutto rivela che ci volle più di un mese di preparazione, anche della striscia di decollo, che venne pavimentata con grelle metalliche. Furono fatte prove e tentativi per verificare la fattibilità e l’efficacia dell’accelerazione per raggiungere la velocità minima di rotazione e di sostentamento.

Quando giunse il giorno fatidico, il sergente motorista, caposquadra dei vari tecnici, volle assolutamente salire a bordo e andare con Hoover. Una dimostrazione di fiducia non indifferente.

All’arrivo nel cielo di Palermo, visto che il carburante era ancora più che sufficiente, Bob cercò di dimostrare il proprio talento agli spettatori che stavano aspettando a terra. Dapprima sfidò al combattimento il pilota di un caccia P40 che si trovava in volo nei dintorni. Poi fece alcune manovre acrobatiche e infine atterrò. Da notare che solo lui aveva un sedile, dietro i comandi. Il sergente motorista non lo aveva, perché era stato smontato per alleggerire il peso.

Un’altra epoca. Un altro mondo.

In questa impresa Bob Hoover si guadagnò un alto riconoscimento militare: la Distinguished Flying Cross.

E l’assegnazione a un gruppo combattente, che operava con i famosissimi caccia Spitfire, basato in Corsica, a Calvì.

Forse non tutti sono a conoscenza di una peculiarità storica che riguarda questo scatto, ossia uno dei più famosi nella storia delle costruzioni aeronautiche e dunque dell’intera storia del mondo aeronautico: a eseguirlo fu proprio Bob Hoover che, a bordo di un jet, rincorse letteralmente il suo collega di reparto Chuck Yeager a bordo dell’aereo razzo X-1, il primo velivolo a superare la velocità del suono   (foto proveniente da www.flickr.com)

E qui accadde un altro fatto, una disavventura, un grosso guaio, come è stato tipico di tutta la vita operativa di Bob Hoover.

Dopo un certo periodo di ambientamento, fu promosso flight leader, cioè capo squadriglia.

Il 9 febbraio del 1944 Hoover volava, appunto, come capo squadriglia, in una missione di pattugliamento del tratto di mare tra la costa della Corsica e la Costa Azzurra, con il compito di attaccare e possibilmente distruggere navi, treni e ogni altro obiettivo di convenienza, fino a una certa distanza all’interno della Francia del sud.

Per aumentare l’autonomia degli Spitfire si usava montare un serbatoio ausiliario sganciabile sotto la fusoliera dell’aereo. In caso di attacco nemico, prima di iniziare il combattimento, avrebbero sganciato il serbatoio ausiliario, altrimenti questo avrebbe impedito di aumentare la velocità oltre un certo limite e di manovrare agilmente.

Furono attaccati da una squadriglia di caccia tedeschi. Erano Focke-Wulf 190.

Dopo alcuni scambi di colpi di mitragliatrice, Hoover tirò la maniglia di sgancio del serbatoio, ma la maniglia rimase nella sua mano e il serbatoio al suo posto. Nonostante tutto riuscì a colpire e abbattere un caccia nemico. E pochi istanti dopo ne colpì un altro.

Era il suo primo combattimento reale, un’azione di guerra, non un addestramento con piloti amici.

Lo Spitfire, tanto limitato dalla presenza del serbatoio, aveva ancora una magnifica maneggevolezza, ma la lotta era impari. Uno Spitfire, quello del suo amico Montgomery, esplose in volo, centrato da una raffica. Gli altri, invece di difendere il loro collega, fuggirono alla massima velocità. Un attimo dopo anche l’aereo di Bob fu colpito e il motore prese fuoco. Subito lui aprì la cappottina, rovesciò l’aereo, sganciò le cinture e si lasciò cadere nel vuoto.

Il North American P-51 Mustang con la livrea gialla fu per anni il compagno di volo inseparabile di volo di Bob Hoover durante le manifestazioni aeree cui partecipava regolarmente come attrazione principale (foto proveniente da www.flickr.com)

La raffica che aveva colpito il suo aereo aveva anche provocato l’esplosione di schegge che avevano raggiunto il sedile e le parti basse del corpo di Hoover. E avevano bucato il canottino gonfiabile, sistemato sotto il paracadute, utilissimo in caso di lancio in mare.

Bob cadde in acqua con soltanto la Mae West gonfiata.

Anche dopo il suo ritiro dalla scena (delle manifestazioni aeree) il velivolo di Bob Hoover ha continuato ad appalesarsi ed è divenuto a sua volta un oggetto di culto benchè non pilotato dal suo indimenticabile proprietario (foto proveniente da www.flickr.com)

Prima di essere costretto a lanciarsi aveva fatto in tempo a trasmettere un messaggio di soccorso, con la sua posizione e la richiesta di mandare un idrovolante per il recupero.

Ma dopo tre ore di attesa in mare fu una piccola nave tedesca a prenderlo a bordo.

Era prigioniero. Lui, il miglior pilota tra migliaia di altri piloti, era stato abbattuto subito, alla prima missione. Come unica consolazione aveva quella di aver, poco prima, abbattuto un FW 190 nemico. Il suo primo abbattimento.

Il primo piano dell’autore e del suo “strumento di lavoro” dell’epoca, soprannominato Ole Yeller. (foto proveniente da www.flickr.com)

Ho sintetizzato questo episodio soltanto per renderlo noto. Ma nel libro, il racconto di Hoover è molto più particolareggiato. Nella sua tragicità, con il suo stile stringato e ironico, cattura la mente del lettore.

Da notare un particolare interessante. Anche un altro pilota famosissimo è stato abbattuto più o meno nello stesso tratto di mare, davanti alla linea di costa francese e anche lui era partito dalla Corsica: Antoine de Saint-Exupéry (l’autore del celeberrimo “Il piccolo principe”, NdR).

Il libro continua con la lunga descrizione del periodo di prigionia, fitto di episodi tragici, goliardici, comici e inimmaginabili. Hoover non lasciava mai la minima occasione per cercare di evadere. Lo riprendevano sempre, lo punivano, ma alla successiva occasione ci riprovava. Ha tentato una ventina di volte di fuggire nel tempo di un mese.

Poi, finalmente, la guerra prese una brutta piega per i tedeschi. I russi avanzavano da Est, gli alleati da Ovest e le forze germaniche si trovarono allo sbando.

Approfittando della scarsa attenzione dei suoi carcerieri, Hoover e un gruppo di americani presero il largo.

Durante la fuga attraverso il territorio martoriato dai bombardamenti, arrivarono in un aeroporto.

Sul campo erano sparsi qua e là tanti caccia tedeschi, tutti squarciati da colpi di armi da fuoco e schegge di bombe. Ma ne trovarono uno in condizione di poter volare, sebbene sforacchiato anche quello.

Che può pensare un pilota, in presenza di un aereo che potrebbe volare? Specialmente un pilota collaudatore, abituato a pilotare aerei sui quali non ha mai volato prima? Un pilota che, oltretutto, è anche uno specialista delle fughe?

Nel campo c’erano alcuni militari tedeschi, addetti alle operazioni di volo, rimasti a presidiare il sito, ma timorosi anch’essi dell’avanzata dei russi e sul punto di scappare. Ne presero uno, lo costrinsero a dare una mano nel preparare l’aereo, un FW 190,  poi Hoover si mise a bordo e decollò.

Il North American T-28B Trojan è stato uno dei tanti velivoli che l’autore ha collaudato nel corso della sua attività di pilota militare. Da notare le dimensioni ragguardevoli della macchina, il suo enorme motore stellare e l’imponnete elica tripala … dimensioni impensabili rispetto agli odierni aeroplani dell’Aviazione Generale (foto proveniente da www.flickr.com)

Inizialmente pensava di andare in Inghilterra, ma temeva di essere abbattuto dagli alleati. Un caccia tedesco sembra sempre un caccia nemico, anche se pilotato da un americano. Per cui, dopo tanto riflettere, nel sorvolare l’Olanda, decise di atterrare in un campo e raggiungere un gruppo di americani, o inglesi che avanzavano da ovest. Così fece e fu poi riportato in Inghilterra.

Questo libro è talmente zeppo di episodi simili che è impensabile inserirli tutti in una recensione.

Diciamo soltanto che dopo la guerra Hoover tornò negli Stati Uniti, dove la sua vita, manco a dirlo, continuò sulla falsariga di quella vissuta fino a quel momento. Passando da una disavventura all’altra, da un guaio all’altro, ma anche da una conquista all’altra di obiettivi mirabolanti, nel campo del volo militare e successivamente di quello civile.

La terza parte del libro si intitola, appunto, “Test flying for uncle Sam” – “Volando come pilota collaudatore per lo zio Sam”.

La guerra era stata un periodo breve che aveva solamente interrotto la continuità della sua professione principale, quella di pilota sperimentatore.

Ma anche di quella di ammaliatore di pubblico negli air-show.

Le pagine del libro si succedono numerose, scritte a caratteri piccoli, zeppe di episodi. Impossibile fare menzione di tutti. Come orientamento generale, diciamo che, seppure attraverso strade tortuose ed episodi comici e a volte tragici, Hoover andò a finire in un posto sperduto in mezzo al deserto del Mohave, chiamato Muroc. Conosceva già la base di Muroc, ma non sapeva ancora cosa sarebbe diventata: il più grande e più famoso luogo di sperimentazione di tutto ciò che avrebbe volato negli anni a venire, compreso l’aereo razzo che avrebbe superato il muro del suono oppure, l’F-104 modificato che avrebbe superato i centomila piedi di quota percorrendo, in traiettoria balistica e con il motore ormai spento, un breve tratto nello Spazio, prima di rientrare nell’atmosfera. E addirittura lo Space-shuttle. Quella base avrebbe cambiato nome. Si sarebbe chiamata Edwards Air Force Base.

Qui avrebbe operato insieme a personaggi, vecchi e nuovi, che sarebbero diventati famosissime. Giusto per fare qualche nome: Chuck Yeager, Bud Anderson e Neil Armstrong. Ma ne potrei nominare molti altri.

Divenuto preda bellica, questo Heinkel He-162A-1 fu lungamene sperimentato dai piloti statunitensi e, tra questi, anche l’autore, allora giovanissimo, effettuò un volo in terra statunitense, dopodiché il velivolo fu radiato e, dopo alterne vicissitudini, finì nel museo statunitense dove è conservato ancora oggi (foto proveniente da www.flickr.com)

Dopo aver letto tutti gli episodi che Hoover racconta nel libro e che riguardano la parte militare della sua carriera, arriviamo infine a quella fatidica decisione di lasciare la divisa per intraprendere la carriera civile, ma sempre come pilota sperimentatore.

Molte compagnie civili avevano un proprio nucleo di piloti, provenienti spesso da ambienti militari, ai quali affidavano lo sviluppo e la messa a punto di macchine e sistemi.

La North American Aviation era una di queste. Bob fu chiamato e subito fece i bagagli, insieme a sua moglie Colleen per raggiungere Los Angeles, California e iniziare un altro lungo capitolo della sua vita.

Un velivolo rivoluzionario e al contempo non facilissimo come l’F-100 Super Sabre (supersonico in volo orizzontale, con ala a freccia e tutto in alluminio)  fu un osso duro anche per il grande Bob Hoover perché il velivolo, a causa dell’ala di limitata apertura alare, era affetto da un particolare fenomeno detto” pitch-up” o  “Sabre dance” che lo rendeva incontrollabile.  Le problematiche costruttive del velivolo si manifestarono subito: le sollecitazioni meccaniche cui era sottoposta la cellula erano tali da spezzare addirittura la struttura stessa dell’aereo (come purtroppo si verificò in un incidente in cui rimase ucciso il pilota collaudatore). All’epoca, diversamente da oggi, i nuovi aeroplani non volavano per migliaia di ore nei simulatori di volo virtuali dentro i calcolatori mentre la progettazione avveniva ancora con il regolo calcolatore, sicché la verifica in volo lasciava ancora amplissimo margine di sorprese, come appunto nel Super Sabre. I piloti collaudatori erano davvero preziosissimi nell’individuare e risolvere queste “sorprese” (foto proveniente da www.flickr.com)

Anche qui il libro è pieno di episodi che lasciano il lettore senza respiro.

Farò cenno ad un solo episodio, il collaudo di un caccia F-86. Il capitolo si intitola “Forty minutes of stark terror”- “Quaranta minuti di crudo terrore”.

La vita di un pilota collaudatore è sempre appesa a un sottile filo … e l’immagine di questo F-100 Super Sabre spiattellato a terra ci dimostra quanto fossero frequenti gli incidenti (spesso mortali) che occorrevano ai piloti statunitensi. Uno di loro, capo pilota collaudatore della North American, George Welch, rimase ucciso durante uno di questi voli mentre l’altro collaudatore, sempre della North American, George Smith, ben più fortunato, fu costretto a lanciarsi da un F-100A in volo a velocità supersonica. Riuscì a salvarsi (foto proveniente da www.flickr.com)

Durante questo volo di collaudo, avvenuto proprio nello spazio aereo dell’area di Los Angeles, con partenza da un aeroporto adiacente a quello che è oggi l’aeroporto civile della metropoli, Hoover si trovava sul mare, a poca distanza dalla costa. Improvvisamente si trovò con i comandi quasi bloccati. Nel tentativo di capire cosa stesse succedendo, l’aereo andò praticamente fuori controllo. Il timone di profondità, quello che agisce sull’assetto longitudinale dell’aereo, era scollegato dalla cloche e poteva essere parzialmente controllato solo con il trim, ma a fronte di ritardi lunghissimi nella reazione. Ci sono due pagine di comunicazioni concitate che Hoover scambiò con gli enti del controllo e con il pilota di un altro caccia che gli volava a fianco. Un aereo di linea, pronto alla partenza sulla pista adiacente fu bloccato al suolo. Dopo una lunga serie di prove per avere ragione del proprio caccia in avaria e dopo tante esortazioni a lanciarsi, Hoover si diresse verso la terraferma, verso il deserto e riuscì a compiere un magistrale atterraggio, sfruttando il cuscino d’aria che si forma sempre sotto la pancia di un aereo quando si avvicina a terra. Così salvò l’aereo e rese possibile un attento esame per scoprire le cause dell’avaria. Ma, detto tra noi, solo lui poteva fare una cosa del genere.

L”autore sale a bordo di un North American F-100 Super Sabre per uno dei tanti voli di collaudo cui l’USAF sottopose il velivolo e grazie ai quali la Casa costruttrice provvide alle opportune modifiche mentre a diversi piloti dei reparti operativi evitò brutti quarti d’ora se non addirittura incidenti. E a quello i collaudatori/sperimentatori servivano e ancora oggi servono. Ad ogni modo, l’F-100 fu costruito in più di 2000 esemplari e volò fino ai primi anni ’80, a dimostrazione della bontà del progetto benché minato, almeno inizialmente, da inevitabili problemi di gioventù (foto proveniente da www.flickr.com)

Il quinto capitolo riguarda la guerra di Korea. Hoover non si fece sfuggire neanche quella.

Segue un lungo racconto che riguarda il collaudo del famoso caccia F-100, tanto bello a vedersi quanto problematico nell’uso pratico,

E ancora air-show, argomento questo, che garantisce al lettore un’infinita serie di disavventure che, come al solito, sono allo stesso tempo tragiche e comiche. Però tutte mirabolanti e al limite dell’incredibile. Ce n’è da leggere…

Nell’epilogo, Hoover sceglie un titolo che è davvero illuminante: “Dogfighting with the FAA”. Il dogfighting è il duello aereo, il combattimento tra due caccia, amici o nemici che siano. E la FAA è la Federal Aviation Administration, cioè l’ente che controlla tutti gli ambiti dell’Aviazione statunitense. Ed è proprio con quella che Hoover ha dovuto sostenere lunghe e accanite lotte, specialmente quando la sua età si faceva sempre più avanzata e, a detta della FAA, sempre meno compatibile con il tipo di volo richiesto per gli air-show.

Nel libro, la parte finale è dedicata proprio a questo argomento ed è altrettanto appassionante per chi legge, perché Hoover ha sempre vinto ogni attacco. E continuato a volare.

Poi, un giorno, il destino ha finalmente trovato un modo semplicissimo per metterlo a terra.

Non gli hanno più rinnovato la copertura assicurativa. Semplice, ma efficace. Anzi, definitivo.

Bob Hoover ci ha lasciato il 25 ottobre del 2016.

Sembra incredibile che il destino appena nominato abbia potuto veramente staccare per sempre la spina di un personaggio tanto vitale, esuberante e apparentemente immortale.





Recensione di Evandro A. Detti (Brutus Flyer), didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR 

Carrying the fire, Il mio viaggio verso la Luna

titolo:  Carrying the fire – Il mio viaggio verso la Luna

autore: Michael Collins 

editore: Cartabianca Publishing

anno di pubblicazione: 2023 

ISBN: 8888805532

ISBN 13 cifre: 978-8888805535

pagine: 462




Molti anni fa, in epoca pre-internet, ero ancora un ragazzo e molto interessato alla storia di una squadriglia che aveva combattuto in Birmania come “Tigri volanti”  e successivamente nel Pacifico con il nome di “Squadriglia delle Pecore Nere”. Avevo letto un libro, scritto da un pilota che aveva fatto parte di entrambe le squadriglie, anzi, della seconda era stato addirittura il comandante. Il titolo in italiano era “L’asso della bottiglia” e l’autore rispondeva al nome di Gregory “Pappy” Boyington.

Boyington è stato veramente un asso. A fine carriera aveva totalizzato circa ventisei abbattimenti, anche se il numero reale è un pochino controverso. Forse perché, oltre ad essere un asso come pilota, lo era anche come bevitore. Si dice che volasse spesso un po’ alticcio, non propriamente nel senso della quota. Da qui il titolo del suo libro tradotto in italiano.

Non è stato facile scovare delle immagini poco conosciute e al contempo significative relative al protagonista de “Il mio viaggio verso la Luna” giacché l’editore Cartabianca ha arricchito la pubblicazione del volume riservando uno spazio web (con tanto di dominio italiano) contenente proprio le foto – davvero numerosissime – relative all’autore. Nel libro è presente un QR code che ci permetterà di essere catapultati istantaneamente all’interno di questo scrigno dei ricordi benché la semplice digitazione di: carryingthefire.it nella barra degli indirizzi del vostro programma di navigazione internet vi condurrà comunque a destinazione. Una nota di lode che si aggiunge alle altre nei confronti di questo editore bolognese che opera alla “statunitense maniera” supportando in tutti i modi possibili la sua creatura editoriale. Lo foto che invece abbiamo scovato ritrae in alto a sinistra (vicino alla bandiera) il “nostro” Michael Collins assieme agli altri tredici uomini speciali che nell’ottobre 1963 la National Aeronautics and Space Administration (NASA) assoldò per farne degli astronauti, ovviamente solo a seguito di un durissimo addestramento. Tra di loro possiamo individuare nomi eccellenti come  Edwin E. Aldrin Jr detto “Buzz”, oppure Eugene A. Cernan che divennero famosi al pari di Collins (foto proveniente da www.flickr.com)

Il titolo originale era invece: “Baa baa Black sheep”.

Quel libro mi aveva talmente impressionato che avrei voluto trovare e leggere tutti i libri sull’argomento. Ma all’epoca era difficile perfino sapere se esistessero e come ottenerli. Le riviste di settore spesso riportavano notizie, fotografie, interviste. E proprio su una rivista inglese, a Londra, lessi l’intervista a Gregory Boyington. In quei giorni si parlava tanto della famosa serie televisiva “La squadriglia delle pecore nere” e lui ne era il consulente. Con l’inevitabile strascico di polemiche sulla veridicità di come venivano rappresentati i fatti e i veri protagonisti. Questi ultimi erano, guarda caso, proprio quelli più contrariati.

Ovviamente la rivista era scritta in inglese, lingua che conoscevo abbastanza bene già allora. Però avrei desiderato leggere altre cose su Boyington, altri libri su di lui e sulla sua squadriglia. Mi avrebbe fatto piacere parlarci di persona, o almeno scrivergli, ma… eravamo, appunto, in epoca pre-internet. Non sapevo come fare per superare le distanze. L’America era ancora troppo lontana.

A Roma esisteva una libreria del centro che trattava proprio di libri pubblicati all’estero. E soprattutto negli Stati Uniti. Presi a passarci le ore, a guardare tutti i libri in inglese e a scorrere l’elenco di quelli che trattavano di aviazione.

Leggendo “Il mio viaggio verso la Luna” non poteva lasciarci indifferenti la citazione che fa da vetrina al XII capitolo e che recita così: “Houston, Apollo 11 … ho il mondo nel mio finestrino” – Mike Collins, 28 ore e 7 minuti dopo il decollo. Ebbene ci è subito tornato alla mente quella foto memorabile, scattata dall’equipaggio dell’ Apollo 11 a una distanza di circa 98 mila miglia nautiche dalla Terra e che ritrae il pianeta azzurro con in primo piano una piccola parte del continente europeo e la gigantesca Africa. (www.flickr.com)

Ne ordinai molti, nel corso degli anni. Ma spesso dovevo aspettare tempi biblici, prima che arrivassero.

Poi, finalmente, arrivò internet. E fu come se all’improvviso si aprissero tutte le finestre sul mondo e potessi guardare di fuori.

Pian piano, nel tempo, ho potuto ordinare libri ovunque. E ho potuto scoprire e leggere, non soltanto il libro di Boyington in lingua originale (che è tutta un’altra cosa) ma anche tutti i libri esistenti sulla guerra nel Pacifico e la storia di tutte le altre unità che vi avevano operato. E i libri scritti da tanti altri piloti, spaziando così su una marea di diversi punti di vista sui medesimi fatti storici.

La retrocopertina del volume pubblicato dal lodevole editore Cartabianca Publishing a conclusione di un’operazione meritoria (quanto articolata) a beneficio di coloro – davvero tanti – che, pur appassionati di astronautica non avevano mai potuto leggere l’autobiografia di un astronauta di grandissima caratura come Michael Collins. Questo fino a 30 novembre 2023 perché, a partire da quella data, l’editore bolognese ha sanato questa imbarazzante mancanza dell’editoria italiana ed ecco qui il corposissimo volume: “IL MIO VIAGGIO VERSO LA LUNA”, tutto rigorosamente in lingua italica se non fosse per quel “CARRYING THE FIRE” presente nel titolo ma che non disturba affatto, anzi testimonia un ideale ponte linguistico tra l’autore e il nostro bel paese, ponte che già sussiste grazie al luogo di nascita di Michael Collins – ricordiamolo sempre con orgoglio – giacché nacque a Roma in via Tevere. E chissà che i natali romani (o comunque italici) non abbiano influito in modo determinante sul suo DNA. A noi piace pensarlo …. In questa IV di copertina spicca l’opinione espressa dal grande trasvolatore Charles Lindbergh che, senza nulla togliere alla bravissima astronauta italiana Samantha Cristoforetti e all’autorevole giornalista scientifico Piero Banucci, rende  questo volume assolutamente accattivante per un potenziale lettore appassionato di astronautica e non

Potevo ordinare anche libri in francese, sebbene con qualche piccola difficoltà in più, se ricordo bene. Ma poco male, in Francia ci andavo spesso e tornavo sempre con parecchie riviste e libri, specialmente di fotografia, settore del quale devo fare a quel paese tanto di cappello.

Rimaneva sempre il disagio di aspettare il pacco dei libri, nonostante i tempi si fossero ridotti abbastanza.

La vera svolta, quella decisiva, è avvenuta da una manciata di anni.

Un giorno mi sono visto regalare un Kobo. E ho conosciuto la magia dei libri digitali, o eBook.

Come ho scritto in alcune recensioni, questa è stata una svolta epocale. Adesso non dovevo aspettare altro che il tempo della procedura di pagamento online e quello del download. Un paio di minuti. Una favola.

Il risguardo di copertina destro, come d’uopo, contiene una esauriente anticipazione del contenuto di questo volume davvero generoso sia in termini di numero di pagine ma anche di formato (fuori dallo standard usuale). Forse, unica nota stonata, sono le dimensioni dei caratteri che – in tutta onestà – avremmo gradito ugualmente appena appena più generosi, soprattutto tenuto conto dell’età media dei lettori potenziali. Eccellente invece la foto di copertina curata dall’editore Diego Meozzi e Andrea Morando in cui sono presenti gli elementi fondamentali dell’autobiografia di Michael Collins: sullo sfondo della nebulosa Tarantola troviamo infatti la Luna, il Modulo di comando e servizio (ma dell’Apollo 14 a causa della mancanza di foto utili dell’Apollo 11) a bordo del quale orbitò in solitaria attorno al nostro satellite e, ovviamente, il ritratto aziendale del medesimo autore nella sua tuta di lavoro all’epoca della missione Apollo 11..

Le finestre sul mondo, su tutto il mondo, non si erano solo aperte. Erano sparite del tutto.

 Al Kobo si è aggiunto il Kindle. I miei dispositivi sono ormai delle vere e proprie librerie nascoste sotto il vetro dello schermo. E siccome sia Kindle che Kobo hanno ormai la loro applicazione per tablet Android, posso tenere due librerie immense in un unico dispositivo. Per mezzo di un’altra applicazione posso addirittura acquistare e leggere riviste di tutto il mondo. Questione di pochi click.

Su Voci di hangar, nella improbabile sezione dal nome fuorviante “Manuali di volo” e nella sotto sezione “Fuori campo” si trovano oltre cento recensioni (per ora)  di questi libri interessantissimi. Non le ho scritte tutte io, ma moltissime sì.

Ho cercato di diffondere la conoscenza di molte pubblicazioni aeronautiche (è un sito a carattere aeronautico) descrivendone il contenuto e cercando di invogliare i potenziali lettori a comprare e leggere queste opere.

Le recensioni di Voci di hangar non riguardano solamente libri in inglese e francese. Anzi, la maggior parte sono in italiano.

Il problema della lingua è comunque quello minore. Sembra purtroppo che il nostro paese non abbia molta inclinazione per la lettura. Al massimo la gente legge lo schermo del cellulare e giusto per i messaggi delle chat dei vari social. Se non sono troppo lunghi…

Come nella migliore tradizione editoriale, il risguardo di copertina destro contiene una corposa biografia dell’autore. E fortuna che il formato del libro è assai generoso perché i cenni biografici di Michael Collins, per quanto in versione volutamente stringata, sono davvero notevolissimi. Unica nota stonata di questo risguardo – a volerlo trovare a tutti i costi – è la foto dell’autore che probabilmente è stata scattata quando aveva in avanzata età senile, viceversa i miti della storia dell’umanità come Michael Collins dovrebbero rimanere, nell’immaginario collettivo, all’aspetto giovanile in cui svolsero l’impresa per per cui vengono universalmente ricordati (come nel caso dell foto presente in copertina). A questa piccola sbavatura fa da contraltare la cura riservata da qualcuno/a del servizio clienti di Cartabianca Publishing giacché, nella fattura acclusa al volume acquistato, una mano alquanto premurosa ha vergato la frase: “Grazie e buon viaggio sulla Luna”. Ora non ci è dato sapere se si tratti di un episodio casuale (abbiamo ordinato il volume a poche ore dalla divulgazione della pubblicazione, forse addirittura una delle prime vendute), tuttavia abbiamo gradito moltissimo il gesto di utilizzare un documento assolutamente anonimo per farne un veicolo benaugurale. Grazie a quella mano: conserveremo quel foglio come un prezioso segnalibro!

Per fortuna esiste una percentuale di popolo che, invece, legge.

Le recensioni sono per loro.

Non saprei dire quanti abbiano realmente comprato alcuni dei libri recensiti e se poi li abbiano veramente letti. Di sicuro, se avessero voluto acquistarli, ormai avrebbero potuto farlo con quei pochi click appena menzionati.

Ma il problema della lingua rimane.

Quanti, tra coloro che leggono e che hanno tratto spunto dalle recensioni di Voci di hangar, hanno poi realmente preso l’iniziativa di scaricare i libri in inglese e francese? Pochi, secondo me.

La miglior cosa sarebbe quella di tradurre in italiano tutti i più interessanti libri esistenti nel mondo, affinché chi vuole possa accedere alla conoscenza che sta al di là degli ostacoli di lingua e distanza.

E che sta, inoltre, al di là di tutti i cavilli burocratici che un qualunque editore incontrerebbe se solo provasse ad intraprendere una simile impresa.

Questo discorso vale per ogni argomento, ogni disciplina.

Ma restiamo nel “ristretto” ambito aeronautico.

E’ impressionante vedere quale enorme mole di pubblicazioni è disponibile nel mondo. Per noi piloti ce ne sono un’infinità. Alcuni sono, a mio giudizio, davvero irrinunciabili. Dopo averne letti un gran numero, un giorno mi sono imbattuto in un libro scritto da un pilota francese dal titolo “La guerre vue du ciel” di Marc Scheffler.  Un libro nuovo, che rivelava aspetti inediti e sconosciuti, almeno alla stragrande maggioranza dei piloti  di aviazione generale. Sentivo fortemente l’esigenza di avere un libro come quello anche tradotto in italiano e contattai la redazione, ma mi dissero che non era prevista alcuna traduzione, se non in lingua inglese, semmai…

Dopo qualche tempo lo stesso autore scrisse un altro libro intitolato “La naissance d’un pilote”.

Al momento anche quello resta solo in francese. Peccato.

Prendiamo, ad esempio, l’argomento “spazio”.

La conquista dello spazio e tutte le missioni che hanno riguardato la conquista della Luna, ma anche il periodo successivo, quello della stazione spaziale internazionale e quindi anche ciò che concerne lo Shuttle, sarebbe un argomento di un interesse notevolissimo. Esistono migliaia di libri sull’argomento. Praticamente quasi tutti gli astronauti hanno prodotto un libro nel quale raccontano la loro parte di storia. Ne ho letti molti e di alcuni ho scritto una recensione per Voci di hangar. Sono tutti nel sito.

A dimostrazione dello sforzo sovrumano e dello stuolo di persone coinvolte nella missione Apollo 11, riportiamo questo scatto della sala di controllo del Kennedy Space Flight Center (KSC) e del tenente generale Samuel C. Phillips, direttore del programma, mentre monitora le attività pre-lancio dell’Apollo 11. Ricordiamo che la missione, la prima che prevedeva l’atterraggio lunare, fu lanciata dal KSC in Florida tramite il razzo vettore Saturn V il 16 luglio 1969 e riportò l’equipaggio sano e salvo sulla Terra il 24 luglio 1969. A bordo della navicella spaziale c’erano gli astronauti Neil A. Armstrong, comandante; Michael Collins, pilota del Modulo di Comando (CM); ed Edwin E. (Buzz) Aldrin Jr., pilota del Modulo Lunare (LM). Il CM, “Columbia”, pilotato da Collins, rimase in un’orbita di parcheggio attorno alla Luna mentre il LM, “Eagle”, che trasportava gli astronauti Armstrong e Aldrin, atterrò sulla Luna. Il 20 luglio 1969 Armstrong fu il primo essere umano a mettere piede sulla superficie lunare, seguito da Aldrin mentre Michael Collins, benché fondamentale per l’esito della missione, non toccò mai il suolo del nostro satellite (foto proveniente da www.flickr.com)

Ovviamente sono libri in inglese.

Anche di questi ho avvertito il forte desiderio di averne una versione in italiano affinché tutti potessero entrare nella magia di quella storia così sensazionale e affascinante. Travolgente, perfino.

Ma pareva che a nessuno fosse venuto in mente di imbarcarsi in una lunga battaglia burocratica per acquisire i diritti a tradurre quei libri.

Poi un giorno… miracolo! Qualcuno lo aveva fatto.

Una casa editrice di Bologna, la Cartabianca Publishing, ne ha fatti tradurre ben tre.

L’ultimo, quello che ho scoperto con mio sommo piacere, è “Carrying the fire” di Michael Collins.

Il libro ricalca tutta la storia della vita dell’autore. E’ un libro autobiografico. Contiene un intero mondo, in gran parte ormai scomparso o totalmente modificato nel corso di tanti decenni, ma proprio per questo ha un valore inestimabile e un interesse immenso.

Ora potrei, qui, scrivere una nuova recensione del libro, ma non mi sembra il caso. Dovrei ripetere quello che ho già scritto nella recensione della versione in inglese. Chiunque sia interessato può tranquillamente leggere quella. E poi farebbe bene a ordinare l’edizione che preferisce, magari quella tradotta da Cartabianca. Ora esiste, finalmente. Nel sito della Casa Editrice si trovano tutte le indicazioni per ottenere sia il libro fisico, sia quello digitale.

Michael Collins era il pilota del Modulo di Comando, quello che rimase ad orbitare intorno alla Luna, mentre Armstrong e Aldrin scendevano sul suolo lunare. Era la prima missione, il nominativo che la identificava era: Apollo 11. Quella che ha aperto la strada alle successive. Era il luglio 1969.

Se c’è un logo che non può mancare nell’autobiografia di Michael Collins (e anche nella relativa recensione) è quello ufficiale della missione Apollo 11. Non fosse altro perché il logo – stando alla leggenda – fu ideato proprio da Michael Collins in persona. La simbologia è molto semplice: una pacifica aquila statunitense si posa sulla superficie lunare trattenendo tra i suoi artigli un ramoscello di ulivo mentre la Terra osserva in lontananza come a significare l’origine e la rappresentanza universale della missione (foro proveniente da www.flickr.com)

Dopo, si sono succedute tutte le altre, fino all’ultima, Apollo 17.

Esiste una letteratura immensa su queste missioni. Come ho detto, quasi ogni astronauta ha scritto un proprio libro. Ricordiamo anche la missione Apollo 13, è quella che ebbe un’esplosione durante il viaggio e non poté portare a termine alcun allunaggio. Fece un giro intorno alla Luna e tornò indietro. Gli astronauti si salvarono tutti, ma davvero di stretta misura. Viene ricordata soprattutto per una frase divenuta famosa: Huston, abbiamo un problema… Era il 13 Aprile 1970.

La penultima missione, Apollo 16, ebbe luogo dal 16 al 27 Aprile 1972. Al comando c’era John Watts Young, che fu il penultimo a scendere sul suolo lunare. Ma la sua storia è del massimo interesse per un altro motivo. Dopo la missione lunare, Young fece parte dello sviluppo delle missioni tra la Terra e la Stazione Spaziale Internazionale utilizzando un mezzo avveniristico che partiva con un lanciatore a razzo e rientrava in maniera autonoma, atterrando su una pista apposita e senza l’ausilio di alcun motore, come una specie di aliante.

Su Voci di hangar si trovano le mie recensioni dei libri, in lingua inglese, di Gene Cernan, Comandante della missione Apollo 17, l’ultima e di John Young, Comandante dell’Apollo 16, la penultima. Il libro di Cernan si intitola: The last man on the Moon e quello di Young si intitola: Forever Young. Esorto tutti ad andarle a leggere. Il fatto che le recensioni riguardino i libri non ancora tradotti è ininfluente.

Quello che conta è che adesso, con notevole buona volontà e lungimiranza, e aggiungerei anche con parecchio coraggio, la Casa Editrice Cartabianca ha tradotto anche questi due ultimi libri. Ora sono disponibili in italiano, come quello di Collins. I titoli della versione in italiano sono, rispettivamente: L’ultimo uomo sulla luna e Forever Young, Gemini, Apollo, Shuttle, una vita per lo spazio.

Seguiranno altre traduzioni? Speriamo di sì.

A partire dal 30 gennaio del 2023  una semplicissima lapide bianca collocata nella sezione 51  dell’ Arlington National Cemetery di Arlington, indica il luogo ove sono conservate le ceneri del Maj. Gen. Michael Collins.  L’astronauta statunitense ci ha lasciato alla veneranda età di 90 anni a causa di un tumore il 28 aprile 2021 e le sue spoglie terrene sono tornate alla Terra dopo una vita trascorsa in cielo e nello spazio. (foto proveniente dal sitio www.flickr.com)

Dopo l’Apollo 17 ci sono stati decenni di pausa per le missioni lunari. Ma adesso si torna a parlare di tornare sulla Luna e questa volta pare che ci si vada per restarci. Magari non per sempre, ma almeno per lunghi periodi. E si parla anche di missioni verso Marte. Certamente non nell’immediato, però la strada è quella. Sembra che l’umanità sia sul punto di cessare di essere una razza monoplanetaria per diventare multiplanetaria. Non mi sembra una svolta da poco.

Ora più che mai sarebbe opportuno per tutti farsi una cultura sulla storia passata per capire meglio il presente e affrontare con consapevolezza le svolte che ci aspettano nell’immediato futuro.

A mio avviso, proprio per questo rinnovato interesse verso viaggi nello Spazio profondo, vale la pena tornare a riprendere in mano e rileggere libri che di questo argomento hanno già parlato oltre mezzo secolo fa.

Esistono. Sono raggiungibili con pochi click e ora, grazie all’impegno di Cartabianca Publishing, almeno tre sono già in italiano.






Recensione di Brutus Flyer (Evandro Detti) e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Dello stesso autore sono disponibili le recensioni di: 


Flying to the moon

Carrying the fire

Carrying the fire, Il mio viaggio verso la Luna

La panchina


Contrariamente a quanto vorrebbe la sacra regola che assicura la fruizione di una buona recensione, non vi parleremo del racconto del buon Roberto Malaguti cominciando ad analizzare il prologo bensì esattamente il contrario: dall’epilogo. E questo in virtù del fatto indiscutibile che – al momento – abbiamo un’unica certezza che ci accomuna tutti, belli e brutti, ricchi e poveri, buoni e cattivi: la nostra esistenza terrena è destinata a terminare. Ossia prima o poi siamo certi che il nostro percorso in questa dimensione, in questa epoca, su questo pianeta avrà termine. Accadrà ai magnati dell’industria come al dipendente dell’anagrafe, all’emiro che naviga letteralmente nel petrolio come all’operaio della compagnia telefonica.

E’la famosa “livella” di Totò o, come usano dire coloro che si esprimono in modo forbito, la caducità dell’esistenza umana.

Un velivolo commerciale in decollo, uno dei tanti che animano i cieli al di sopra del parco dove si svolge la vicenda del racconto di Roberto Malaguti (foto proveniente da www.flickr.com)

Ma veniamo alle battute finale del racconto di cui dicevamo:

“Cosa facevi vicino a quel signore? Non lo avrai disturbato?”

“No mamma, credo stia dormendo mamma. Sai mamma, penso che stesse facendo un sogno bellissimo!”

“E questo cosa te lo farebbe pensare?”  Chiese la mamma sorridendo dolcemente.

“Sorride mamma, sorride come fosse tanto felice”.

Un finale positivo che lancia un messaggio di fiducia e di serenità: c’è altro dopo la nostra morte terrena. L’autore ne è fermamente convinto. Quanto convinto? Molto, giacché ha costruito una trama che all’inizio è volutamente statica e che contrappone i toni cupi del protagonista alla giocosità dei bambini nel parco, oppure la sua inquietudine interiore, il suo apparire distaccato, quasi assente o anche il chiaroscuro del suo vivere (più scuro che chiaro) che contrasta con la radiosità del suo luogo prediletto.

In effetti il prologo è ben anticipato dal titolo del racconto mentre la collocazione spazio temporale è rapidamente rivelata dall’autore: siamo in un parco milanese, in periferia, sul sentiero di discesa dell’aeroporto meneghino.

“La turbolenza di quel temporale spostava di continuo l’aereo mettendone a dura prova la resistenza strutturale. Il radar meteo si era ammutolito, sembrava che la paura si fosse impossessata anche dello strumento lasciandolo a decidere il da farsi da solo.” E’ uno dei passi del racconto in cui l’autore – con mirabile abilità – evoca una situazione di volo assolutamente verosimile. Magia della narrativa! (foto proveniente da www.flickr.com)

Naturalmente figura primaria è un pilota attanagliato dall’età senile e dai ricordi. Malgrado la sua indole dolce e cordiale, si è chiuso in sé stesso apparendo scorbutico quasi misantropo, arroccato nella “sua” panchina in attesa dell’inevitabile corso della sua esistenza. Ma a scompaginare questa vita noiosa e arida ecco una presenza imprevista che la sconvolgerà con delicatezza angelica.

Lo splendido libro citato nel racconto e che, ahinoi, non è disponibile in lingua italiana. Chissà che qualche editore non ascolti il nostro appello e lo renda finalmente fruibile per noi poveri lettori minati da una modesta conoscienza della lingua inglese ...

A questo punto non possiamo aggiungere di più: svelato l’epilogo e il prologo sarà vostra cura leggere cosa c’è nel mezzo; possiamo solo anticiparvi che sarà una lettura piacevole, per alcuni versi struggente e che – se ce ne fosse bisogno – ci rammenta che dobbiamo fare i conti con l’ineluttabile, prima o poi. Dunque perché non fare pace con sé stessi e giungere al quel momento con cristiana serenità?

Aggiungiamo semmai la breve sinossi fornita dall’autore in fase di partecipazione al Premio: 

Un uomo anziano, solo, ha fatto di una panchina solitaria il suo mondo. Un mondo fatto di attesa, solitudine e ricordi, paure legate all’età. In questo mondo non sembra esserci posto per nessuno, fino a quando tutto viene scosso dalla apparizione di una creatura femminile che sembra uscita da un sogno e che si rivelerà alla fine ben più di una semplice appassionata di volo.

Un racconto scritto con delicatezza, in “punta di tastiera” oseremmo dire; peccato che non abbia goduto del favore della giuria della XI edizione del Premio RACCONTI TRA LE NUVOLE … ma forse il tema toccato ha indotto i dieci magici giurati/e a preferire testi più positivi, meno malinconici. D’altra parte solo venti sono i racconti finalisti destinati a essere ospitati nell’antologia e, di fronte a tanta qualità, la logica matematica della valutazione è stata impietosa. Ciò nonostante i visitatori dell’hangar – ne siamo certi – leggeranno con sommo piacere questo racconto. Aggiungiamo a loro beneficio che sarà utile munirsi di qualche fazzolettino di carta perché c’è il serio rischio di qualche lacrimone accidentale. A noi è capitato ma è pur vero che siamo degli inguaribili romanticoni …

E’ cosi che ce lo immaginiamo il protagonista di questo racconto prima del suo fatidico incontro. Non ha gli occhiali da pilota ma visualizza idealmente l’immagine dell’uono seduto sulla “sua” panchina assorto nei ricordi (foto proveniente da www.flickr.com)

Ci piace chiudere questa recensione riportando la frase-testamento lasciata ai suoi ammiratori dal grande vecchio  Andrea Camilleri a proposito dell’esistenza umana. Risulta illuminante e collima – secondo quanto abbiamo letto – con quello che è il contenuto di questo racconto. Eccola:

“Alla nascita ti danno il ticket in cui è compreso tutto: la malattia, la giovinezza, la maturità e anche la vecchiaia e la morte. Non puoi rifiutarti di morire perché è compreso nel biglietto. O l’accetti serenamente e te ne fai una ragione o sei un povero cogl…!”




Narrativa / Lungo

Inedito

Ha partecipato alla XI edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole” – 2023


Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR


NOTA: la foto di copertina, per la prima volta nella storia di VOCI DI HANGAR, non è un soggetto squisitamente aeronautico, tuttavia ci sembrava più che mai pertinente considerato il titolo e il luogo ove si svolge il raccconto