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Una notte da dimenticare

In una calda giornata di settembre, Raf, partecipa ad una esercitazione Nato per la prima volta. E’ molto preparato e nello stesso tempo teso e preoccupato.

L’esercitazione ha un tragico epilogo: tre velivoli caduti quasi contemporaneamente.

Il primo è quello di Raf il cui pilota, purtroppo avrà anche la peggiore sorte. L’esercitazione viene annullata e Raf soffre e cerca di capire i motivi di questo avvenimento guardando dentro se stesso per capire se l’evento poteva essere evitato. Rimane molto scosso e, anche, dopo tanti anni, mentre lo racconta ad un suo caro amico, si sente coinvolto emotivamente e spera ancora che qualcuno lo svegli da quel brutto sogno.

 



Narrativa / Medio-breve Inedito; ha partecipato alla III edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2015; in esclusiva per “Voci di hangar”.

Nel sito sono ospitati i seguenti racconti:

I pirati del cielo

biplano sorridenteI pirati del cielo sono dei giovani ragazzi che navigano i cieli al termine della guerra di Città Ventosa.

Hancor fa parte del gruppo, è un ragazzo impacciato e insicuro e per questo poco simpatico ai compagni. E’ incaricato assieme ad altri di recuperare provviste e quanto di utile sorvolando con il proprio plano riadattato le zone abbandonate della città.

Deriso per i suoi scarsi risultati, trova sostegno nell’amico Pacifico che crede nelle sue possibilità tanto da proporgli di affiancarlo nell’imminente gara di volo.

Hancor reticente alla partecipazione avrà grazie a questa occasione la possibilità di riabilitarsi agli occhi dei compagni e soprattutto di sé stesso.


Narrativa / Medio-breve Inedito; ha partecipato alla III edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2015 classificandosi in XIV posizione ; in esclusiva per “Voci di hangar”



NOTA della REDAZIONE: a causa di un madornale errore di impaginazione, il presente racconto non fa parte – come di diritto – dell’antologia contenente i 20 racconti finalisti della III edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2015 organizzato dal nostro sito in collaborazione con l’HAG.

Il racconto verrà comunque pubblicato, fuori dalla rosa dei 20 finalisti, nell’ambito dell’antologia della prossima edizione (2016) del Premio tuttavia, nel frattempo, VOCI DI HANGAR ha il privilegio di ospitarlo e regalarlo ai suoi visitatori a titolo di riconoscimento morale per il torto subito dall’autrice.

I pirati del cielo

“Che cosa hai pescato?” chiese Everest brusco. Lo guardava fisso attendendo una risposta soddisfacente che tardava a venire.

Hancor non poteva far altro che rispondere, la voce mal ferma “Due cavoli e …”

Sentiva le risate attorno a lui. “… una bottiglia di latte”. Finì la frase deglutendo, la gola secca.

Everest lo metteva in soggezione. Ogni volta che andava a pescare si ripeteva la stessa scena. Hancor e la sua pesca scarna, Everest e i suoi occhi che si facevano piccoli piccoli, Hancor e la sua voce che tremava, Everest e la sua pazienza che veniva meno.

“E cosa ce ne facciamo di due cavoli?” chiese ancora Everest salendo di un paio di toni nella voce, l’ira che montava.

I ragazzi radunati attorno alla pesca avevano smesso di ridire. Lo sguardo di Hancor fissava la terra sperando che si aprisse per inghiottirlo.

“A me piacciono i cavoli”. Basilea aveva tredici anni, una lunga treccia e uno sguardo che non la tradiva mai.

Everest l’avrebbe presa a calci se non fosse stata l’unica ragazza del gruppo. Basilea lo sapeva e senza scomporsi restava fissa su Everest che di rimando sputò per terra.

“Cile che cosa hai pescato?” Everest era passato a un altro ignorando Hancor rimasto in piedi come un palo in mezzo alla radura.

Dopo un momento di esitazione si sedette impacciato senza dire altro. Doveva ringraziare Basilea. Se non fosse stato per lei Everest l’avrebbe di certo punito. Patate da pelare, stoviglie da pulire, letti da rifare. La ricompensa dopo ogni volo.

L’avrebbe anche accettato comprendendo come dipendesse il loro sopravvivere dai suoi goffi tentativi di procurare un pasto decente ai compagni. L’avrebbe anche accettato, se non fosse stato che ogni volta alle punizioni di Everest si aggiungevano scherzi di ogni tipo giocati dai suoi compagni che mal lo sopportavano.

Era già da un anno che volava e ancora non era riuscito a procurare nulla di buono al gruppo più di qualche pesce scarno e di una manciata di frutti maturi. Era questo che più non sopportava, Everest aveva ragione. I pirati come loro solcavano ormai da anni i cieli per racimolare ogni sorta di oggetto che avesse un’utilità al loro vivere: mele, coperte, pane, acqua, parti meccaniche, libri, giacche, piatti, freni, bulloni, pistoni, caramelle, calzettoni …

Il gruppo di cui faceva parte Hancor era il più giovane che il cielo conoscesse. Si muovevano sopra minuti aerei giocattolo monoposto, riadattati con motore ed eliche che loro stessi avevano più volte smontato, ricostruito, rimontato, rattoppato. Erano i retaggi del passato della Città Ventosa, il luogo in cui erano nati e in cui erano cresciuti come bambini, e che ora da adulti, quali si consideravano a quindici anni, gli restituiva dopo la guerra qualche briciola di misericordia e il ricordo dei voli tra le pale dei mulini lungo il fiume.

Alla fine della raccolta del pescato il gruppo iniziò a sparpagliarsi, per tutto il tempo Hancor aveva cercato di diventare trasparente come il vento che gli soffiava addosso ma non ci era riuscito. Si era limitato a restare in silenzio e sempre in silenzio si apprestava ad andare verso la sua tenda per sprofondare in un sonno che gli avrebbe restituito forse un po’ di pace.

“Hancor” si sentì chiamare. Era Pacifico.

“Hancor” chiamò ancora il ragazzo che lo stava raggiungendo correndo.

Pacifico si era scelto un nome bellissimo, pensava Hancor.

I pirati del cielo quando si erano riuniti in gruppo, senza patria e senza famiglia, desideravano per loro un nuovo inizio, e il punto da cui erano partiti dopo il recupero degli aerei, era stato darsi un nuovo nome sperando così di cambiare un po’ anche il loro destino. Avevano scelto il nome dei luoghi che avrebbero voluto sorvolare. Cile, Minnesota, Singapore, Grand Lake …

Everest che era il capo aveva scelto il nome della montagna più alta su cui era stato con suo padre. Basilea si chiamava come la città in cui era nata. Hancor aveva scelto i templi della Thailandia che tanto l’avevano affascinato da piccolo con l’oro che luccicava fin fuori dai libri di storia. E poi c’era Pacifico, che era il suo migliore amico.

Lui aveva scelto il nome più bello, pensava Hancor, quello dell’Oceano.

Erano in quattordici a volare, tredici ragazzi e una ragazza. Tutti tra i dodici e i quindici anni ad eccezione di Polonio il fratello minore di Pacifico che di anni ne aveva dieci.

“Hancor” ripeté Pacifico mezzo ansimante una volta raggiunto il ragazzo, le mani sulle ginocchia a riprendere fiato, la testa alzata verso di lui e un sorriso aperto. “Voli con me domani?”.

“Cosa?” rispose Hancor con fare quasi indignato “Domani? Ma sei diventato matto? Il giorno della grande pesca e tu vuoi fare la figura dell’uccello morto?”.

Domani era il giorno della festa dell’anno che i ragazzi celebravano con una gara di volo a coppie, una sorta di staffetta per raccogliere quanto più materiale possibile. “Più raccogli, più guadagni” continuò Pacifico senza distogliere il sorriso come leggendogli nel pensiero.

“Appunto” rispose Hancor “Ti mancano due aquile d’oro per sfidare Everest, potresti essere tu il nostro nuovo capo e vorresti gettare al vento questa possibilità per metterti in coppia con me che ho pescato due cavoli oggi?”.

“Anche a me piacciono i cavoli” rispose tranquillo Pacifico “facci un pensiero amico” e senza aspettare risposta corse via.

Hancor entrò nella tenda e quasi non chiuse occhio rimuginando su ciò che gli aveva detto. Erano cresciuti insieme, Pacifico per lui era come un fratello, non voleva essergli di peso né tanto meno deluderlo. Perso nei suoi pensieri scivolò nel buio mentre la luce iniziava a farsi strada nel cielo.

La mattina seguente di buon ora i ragazzi erano già tutti schierati pronti a partire, sprezzanti e fieri. Eliche brillanti, cofani luccicanti, motori vibranti. Hancor sospirò. Pacifico gli corse incontro, “Hancor sei arrivato, pensavo non venissi più”.

“Stavo per farlo” voleva dire, ma rispose annuendo.

“Allora voliamo assieme” disse Pacifico, non era una domanda. Hancor annuì ancora.

“Ehilà!” gridò da lontano Basilea, sventolando una mano mentre l’altra teneva un grosso cappello di paglia “il vento è forte oggi!”.

“Non voli Basilea?” chiese Pacifico quando la ragazza gli fu vicino.

“No oggi no, ho il plano in riparazione”.

Pacifico rise di gusto. “E da quando due bulloni che saltano sono un problema per te?”.

“Infatti non lo sono” sorrise sorniona Basilea “lo sono il carburatore fuso e il braccio meccanico bloccato, quello che un certo “ci penso io” aveva promesso di aiutarmi a riparare un mese fa”.

“Mi arrendo, sono colpevole” disse Pacifico con un sorriso disteso “ti regalerò una delle mie aquile vinte oggi”.

“Siamo sicuri di noi!” rispose gioviale Basilea.

“Abbiamo le nostre armi” Pacifico batté la spalla a Hancor che altro proprio non riuscì a fare se non un forzato sorriso tanto la sua preoccupazione stava crescendo.

“Sbrighiamoci, stiamo partendo” fu la frase pronunciata in modo deciso dall’amico a scuoterlo.

“Buona fortuna” sentì Basilea da lontano.

Il vento soffiava maestoso, i plani lucidi e brillanti erano allineati per partire, un rumore di eliche che vorticavano.

Hancor si avvicinò a Pacifico. “Allora” iniziò l’amico “Io vado per primo, mi dirigo a est, andranno tutti verso la città, non ci conviene andare di là, troppa gente uguale meno cibo, a est ci sono i campi, distese di campi, seguirò il fiume. Una volta arrivato al confine, in fondo alle piantagioni di patate, troverò un punto adatto per pescare. Quando tornerò indietro ti dirò dove planare. Dobbiamo essere veloci”.

Hancor non capiva perché non potevano fare come gli altri, andare in città, sorvolare qualche vecchio magazzino, arraffare quanto più potevano e andare via. Ma si limitò a dire un semplice “come vuoi”.

Pacifico, strizzando gli occhi per il vento, con un piccolo salto salì a bordo del suo plano mentre Hancor si strascicava poco convinto verso il suo, posto alcuni metri più in là, dietro al velivolo dell’amico.

Il ragazzo addetto a far iniziare la gara alzò un fazzoletto rosso.

“Allora come detto?” urlò Pacifico rivolto ancora a Hancor e si abbassò il casco dopo che il ragazzo alto e mingherlino disse “Pronti!”.

Subito il fazzoletto si abbassò. Poco dopo fu solo un forte rumore di motori e di ruote stridenti e in breve Pacifico volava nel cielo come un grande uccello metallico.

L’eco dei rumorosi plani rimbombava ancora in lontananza mentre la maggior parte dei ragazzi si dirigeva a ovest verso la città con le sproporzionate reti che penzolavano dagli abitacoli. I plani brillavano sotto i riflessi del sole, piccoli ma sufficientemente veloci, le ali sostenute dal vento che li accompagnava. I ragazzi più grandi salutavano lo sparuto pubblico raccolto con qualche acrobazia, disegnando grandi cerchi verticali nel cielo e facendo muovere le spighe dei campi di grano lì accanto.

Hancor osservava e quando non vide più nessuno all’orizzonte si sedette strappando un filo d’erba.

“Hancor quanti cavoli prevedi di pescare oggi?” Sentiva gli altri come lui rimasti a terra che lo schermivano ma fingeva di non dargli ascolto, ripetendo a mente il percorso che Pacifico gli aveva dato.

Dopo una buona ora un luccichio apparve nel cielo. Era Pacifico con una rete talmente piena che quasi strascicava al suolo. Conteneva parti di mulino, grandi viti che tornavano utili per gli aerei, e pale, ma anche pentole di rame, stoviglie varie, abiti, sacchi e sacchi di graniglia che poteva essere ancora buona per uno stufato, e, se gli occhi non lo traevano in inganno, grossi, anzi grossissimi pesci che quasi saltavano fuori dalla rete.

I ragazzi seduti nella radura in attesa dell’arrivo del primo plano presero ad alzarsi e a sventolare vecchi fazzoletti. Chi fischiava, chi gridava in segno di saluto.

Hancor che era rimasto a bocca aperta di fronte all’arrivo del compagno così carico di provviste si fece coraggio, si mise in piedi in fretta e a pugni stretti si diresse verso il suo plano. Se Pacifico ce l’aveva fatta lui non voleva essere da meno. Il suo amico che era arrivato primo con un carico che mai si era visto contava su di lui. E lui non lo avrebbe deluso. Si sistemò nell’abitacolo, abbassò il casco, avviò il motore e attese l’atterraggio di Pacifico che fu bravissimo a mantenere l’equilibrio con la grande rete che pendeva dietro.

Appena il plano si affiancò a quello di Hancor l’amico si sfilò veloce il casco e gli urlò “Il mulino rosso!”.

Hancor decollò. Non perse tempo. Si alzò veloce nel cielo. Il suo tra tutti era il plano più leggero e per questo anche il più veloce. In breve tempo raggiunse la quota necessaria sostenuto dal vento fresco che continuava a soffiare. Aveva capito il punto indicato da Pacifico. Si trattava di una fila di vecchi mulini di diverso colore disposti lungo il fiume a est, dopo i campi di riso.

Hancor filava dritto con il suo plano e aveva ormai raggiunto metà della strada necessaria per arrivare al luogo indicatogli da Pacifico quando all’altezza di una grande quercia, che segnava l’inizio della periferia della città, dove lui avrebbe dovuto virare ad est, qualcosa attirò la sua attenzione.

C’era una massa grigia, grossa, dall’aspetto metallico incastrata tra i rami degli alberi cresciuti vicino alla recinzione di una vecchia industria tessile. Poteva trattarsi di qualche rottame rimasto lì nel tempo se non fosse che quella strada l’aveva già fatta diverse volte e che, seppur in parte nascosto dalle fronde, quel velivolo si vedeva bene ma lui non l’aveva mai notato.

Iniziò ad abbassarsi, facendo un cerchio largo per valutare meglio la situazione.

Un’ala era spezzata e doveva essere caduta a terra, il resto del plano era incastrato tra gli alberi a testa in giù, abitacolo compreso. Hancor volò in cerchio ancora più vicino. Riconosceva quel plano, apparteneva a Pago, un ragazzo con i capelli rossi sempre arruffati che non lesinava di rovesciargli qualche secchio quando toccava a lui pulire.

Trattenne il fiato e mentre si abbassava ancora notò che dal veicolo qualcuno agitava un maglione per attirare l’attenzione. “Pago!” gridò Hancor “stai bene?”.

Rispose una voce piagnucolante ma viva. “Hancor sei tu? Tirami fuori di qui!”.

Hancor sospirò per il sollievo. “Cerca di arrampicarti fuori dal plano, io faccio calare la rete”.

Pago rispose con un tremolante sì e dal finestrino rotto, dove aveva sventolato il maglione, iniziò a strisciare fuori con non poca fatica attaccandosi al robusto ramo dell’albero.

Il ragazzo appariva agli occhi di Hancor, che adesso poteva vederlo bene, impaurito e malconcio per la caduta e per i segni lasciati dal vetro dell’aereo. “Non preoccuparti!” gridò Hancor “ora calo la rete così ti ci puoi aggrappare. Ce la fai?” chiese al ragazzo.

“Si” rispose di nuovo il suo compagno.

Hancor in cuor suo invece, non era sicuro di farcela, pescare cavoli era un discorso mentre pescare un ragazzo ferito era un altro. Si fece coraggio aspettando il momento giusto per non incagliarsi tra gli alberi. Volò quanto più lentamente e vicino potesse e quando fu sufficientemente certo che il ragazzo potesse farcela, abbassò la rete. Non sbagliò. Il compagno ci si buttò rovinosamente dentro e Hancor iniziò a salire. “Tutto bene?” chiese a Pago.

“Sì, grazie al cielo!” si sentì rispondere.

Hancor volava piano, talmente piano che non era sicuro di rientrare prima del tramonto.

“Di certo a terra saranno tutti preoccupati per il nostro ritardo” pensava. Quanto alla sua gara ormai era andata così, gli dispiaceva solo per Pacifico. La rete sotto il plano dondolava lenta cullata dal vento.

Alla fine arrivò che il cielo iniziava a imbrunirsi. Quando fu sufficientemente vicino vide una piccola folla che agitava mani e cappelli in segno di festa.

Stranito da così tanto entusiasmo iniziò concentrato l’atterraggio, attento a non far strascicare rovinosamente la rete con il compagno a terra. Riuscì bene nell’intento e quando il plano finalmente si fermò si sfilò accaldato il casco e tirò un sospiro di sollievo trattenuto fino a quel momento.

Ce l’aveva fatta.

In breve fu attorniato da un gruppo urlante che lo incitava. Con la coda dell’occhio, mentre veniva trascinato dai festanti ai bordi della radura, vide Pago soccorso da altri ragazzi. Stava bene.

Arrivato ancora stordito in fondo al campo dove c’era una piccola collinetta vide prima Pacifico e poi Everest. Il sorriso che si era stampato sulla faccia sparì in breve.

Everest stava eretto, le braccia incrociate, lo sguardo imperturbabile che lo fissava. “Hancor” esordì duro Everest “sei arrivato fuori da ogni qualsiasi plausibile tempo”.

Hancor non sapeva cosa dire. Non lo sapeva mai, tanto meno in quel momento. Abbassò le spalle, pronto a ricevere un altro duro colpo al suo orgoglio già tante volte ferito. Mai come in quel momento avrebbe voluto essere soffiato via dalla terra come uno di quei fiori di campo.

“Ma sei tornato con la più grande pesca che si sia mai vista. E per questo io ti premio con una menzione d’onore e ti ringrazio per quello che hai fatto. Grazie Hancor. Oggi hai salvato un compagno. Non c’è pesca che valga più di questo”.

Hancor non credeva alle sue orecchie. Il viso di Everest si era disteso in sorriso che mai avrebbe pensato a lui rivolto e gli occhi brillanti del ragazzo sembravano perfino diventare lucidi. Anche Hancor si commosse. Tirò su col naso e si asciugò con la manica della camicia. Non fece altro.

Attorno a lui i ragazzi radunati saltavano e fischiavano ancora. Pacifico gli si avvicinò e gli diede una vigorosa pacca sulla spalla.

“Quando ti ho chiesto di partecipare con me ero certo che avresti fatto grandi cose. Solo un cuore leggero può volare in alto” e così lo lasciò, solo, ai suoi festeggiamenti e ai suoi pensieri mentre le prime stelle della sera accedevano un cielo ormai spento.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Elisa Trettene

7500

Jumbo in turbolenzaRacconto di fantasia sulla sindrome da terrorismo non estranea al nostro momento storico.

 



Narrativa / Medio-breve Inedito; ha partecipato alla III edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2015; in esclusiva per “Voci di hangar”

Settemilacinquecento

Il clangore del traffico sulla circonvallazione sembra amplificato dal calore esalato dall’asfalto, finestrini chiusi su aria climatizzata, da quei pochi aperti braccia penzoloni, pacchiani bracciali d’argento e musica neomelodica a palla.

“Sconti fino al 70%!” gridano i cartelloni pubblicitari 3×6 disposti a spina di pesce sul bordo stradale, dietro guard-rail coperti di vegetazione infestante. Dal sovrappasso sventola un lenzuolo ormai logoro con la scritta Deborah ti amerò per sempre e non si capisce se è un addio per una prematura dipartita o una illusoria promessa. Un’orchestra di clacson sancisce lo scatto del verde al semaforo e cento occhi abbandonano l’ultimo modello di lingerie della réclame per puntare sui pochi spazi liberi tra autocompattatori dalla scia vomitevole, Apecar adorni come carretti siciliani e vecchie Peugeot diesel spompate e fumanti, stracariche di merce di extracomunitari. Le poche uscite dalla tangenziale non alleggeriscono la massa di automezzi che esce dalla città, stretta nel collo di bottiglia tra la montagna ed il mare. Poi subito in vista, dietro la cortina di orribili case abusive, il profilo dell’Isola delle Femmine, e là in fondo, come un’oasi ristoratrice, Punta Raisi.

E invece l’aerostazione è sgradevole, gli spazi appaiono sempre insufficienti rispetto alla massa di passeggeri che vi si aggirano sempre un po’ smarriti. Alcuni sembrano sollevati per il solo fatto di essere arrivati in orario, risolvendo in qualche modo le incredibili difficoltà di chi ha scelto di lasciare la propria auto in uno dei parcheggi, dai quali si esce solo scavalcando barriere, dissuasori e transenne varie. Sembrano dirti: “Devi proprio viaggiare in aereo?”

“Ouh … sì, sono all’aeroporto, tutto a posto. Il solito casino … sì, anche a Venezia è previsto bel tempo, ma freddo, puoi immaginare. I bambini? … bene, ok, ti richiamo all’arrivo, … un bacio, ciao … ciao.”. “Un decaffeinato, per favore … no, grazie, niente cornetto.”

I pochi punti di ristoro rifilano panini insapori con assurdi nomi e cornetti surgelati a prezzi da rapina, i bagni sono perennemente in pulizia, non si può entrare, “Vada all’altro là in fondo”. Ti capita di vedere delle hostess che hanno perso la loro aura di bellezza irraggiungibile, quelle belle gambe fasciate da seriche calze, ora c’è sempre un dettaglio fuori posto, un piccolo difetto che prima avrebbe decretato la loro esclusione, sempre più spesso indossano pantaloni. I controlli di sicurezza poi sono ridicoli, qui di una superficialità imbarazzante, altrove di una irragionevole e gratuita villania. Gli aerei infine, con quei sedili non più reclinabili, l’impossibilità di allungare le gambe o aprire un giornale, il personale di bordo che vuole rifilarti un gratta e vinci. Eppure.

Eppure per Max – si presenta così mentre sulla carta di identità è Massimiliano Pio -, che vola per lavoro ma che di volo è appassionato, che non dorme mai a bordo, che cerca sempre di avere un posto lato finestrino, che si gode i decolli e gli atterraggi, che non si perde l’attimo in cui l’aereo, in salita, sbuca dalle nuvole, o vi si immerge in discesa, che qualche cosa conosce di questo mondo, non si lascia deprimere, quando non è impegnato sul suo laptop a preparare la prossima virtuale esibizione dei prodotti che rappresenta in giro per l’Italia, osserva la varia umanità che transita nell’area partenze o al gate in attesa dell’imbarco, li cataloga, si misura a classificarli. Quelli che fanno un lavoro come il suo, facilissimi da riconoscere, le eleganti coppie mature che si possono permettere di andare a vedere l’ultimo vernissage a Milano, quelle più nervose che devono consultare, magari sempre a Milano, un medico specialista. I ragazzi con immancabile zainetto e smartphone in perenne attività, che vanno o vengono da un Erasmus. L’anziana dalla parlata dialettale dell’entroterra che telefona in continuazione ripetendo informazioni di partenza e arrivo, con finali baci per tutti, che mostra una discorde dimestichezza con i viaggi aerei. Lui evita accuratamente di mangiare in aeroporto, neanche a parlarne in aereo. Peraltro i voli “domestici” si risolvono in un massimo di un paio d’ore, c’è di che organizzarsi, e non certo per ultimo lo stipendio è quello che è.

Max è un “frequent flyer”, o meglio: lo era. Ha fatto viaggi gratuiti con i punti accumulati, ha ricevuto anche graziosi gadget, è persino riuscito a farsi ammettere un paio di volte in cabina di pilotaggio. Poi le cose sono pian piano cambiate, ha dovuto dimostrare di volare al prezzo più basso, ha accettato a malincuore i voli low cost, gli orari impossibili, le hostess bruttine, gli aeroporti più distanti dalle città. Eppure va bene così. Fa un lavoro che tutto sommato lo soddisfa, uno stipendio dignitoso, dormire fuori casa come un pilota di linea – la mette così, è meglio – e viaggiare tanto in aereo.

E’ comodamente seduto aspettando la chiamata del volo, un Palermo-Venezia schedulato per una durata di un’ora e quaranta, anche se lui sa già che durerà meno, anche venti minuti meno, i flight dispatchers delle compagnie si sono attrezzati per evitare ritardi all’arrivo, suona male, le statistiche possono deprimere la domanda, per non parlare di eventuali rimborsi.

Il volo non sarà affollato, ha imparato a stimare il numero dei passeggeri e a confrontarlo con la capacità del velivolo. Non più di cento, centodieci persone per i 190 posti circa dell’aereo, un Boeing 737-800. Meglio così, meno confusione. Nessun bambino, pochi ragazzi non giovanissimi, saranno tutti immersi nelle loro cuffie e nei loro aggeggi elettronici rigidamente in modalità “aereo”.

Ci sono due, no tre giovani di colore, nordafricani si direbbe, maschi, in abbigliamento dimesso ma pulito, ingombranti giubbotti invernali, adatti alla stagione e a Venezia. Non sono assieme, due sono seduti lontano uno dall’altro, il terzo è in piedi e parla concitatamente al telefonino, in una lingua incomprensibile, arabo forse. Non li aveva visti ai controlli, sono arrivati al gate dopo di lui, assieme ad altri ritardatari. In ogni caso ancora non ci si imbarca, mentre scorrono i primi minuti di ritardo. Con l’unghia spropositatamente allungata del mignolo sinistro si tocca distrattamente le sopracciglia scolpite.

Squilla il suo di telefono, all you need is love, dei Beatles. “… pronto? Daniele! Carissimo, come stai? … sì sono informato, nessun problema, ho portato il preventivo aggiornato … no, qua sembra tutto più o meno a posto, non indicano alcun ritardo …. ah, mi confermi che non saremo soli? … (abbassando la voce) Bastardo! Pure svedesi le trovi! Bravo, a dopo, ciao.”

Max non crede di essere razzista, il suo lavoro lo porta ad incontrare gente delle più svariate provenienze, e poi il fatto di essere meridionale gli impone un pregiudizio di vittima di pregiudizi, ripetutamente smontato da quelli che sembrano ottimi rapporti professionali e personali che è riuscito a crearsi nell’intero nord Italia. “Certo, tutti questi immigrati che arrivano in Sicilia, non si parla d’altro”. Lui ha sempre la stessa risposta – Non si fermano da noi, vogliono venire qui al nord, cazzi vostri! –

Non riesce comunque a staccare gli occhi dal ragazzo al telefonino, con quei suoni espirati e la cadenza frenetica della voce. Degli altri due, uno è piuttosto vicino, ma non dà segni di interessamento, pur udendo di certo la conversazione o una metà di essa. La telefonata finisce e il giovane, scambiata un’occhiata con il più vicino degli altri due, viene a sedersi proprio di fronte a Max.

Un’occhiata all’orologio, già 15 minuti di ritardo. Uno sbuffo di impazienza, poi di nuovo ad osservare il ragazzo di colore di fronte. Non ha bagaglio, ora che ci pensa nessuno dei tre ha bagaglio. Ha lo sguardo perso nel vuoto, le mani sulle ginocchia, un tic nervoso al piede destro. Il giubbotto chiuso fino alla gola.

Max si alza e trascinandosi dietro il piccolo trolley si muove in direzione del gate, dove è comparso un addetto con tanto di radiotelefono gracchiante. Ha ottenuto un posto finestrino, ma sopra l’ala destra. Va bene comunque, i movimenti delle varie superfici mobili, flap, diruttori, ipersostentatori e deflettori in decollo e in atterraggio sono interessanti. Il seggiolino accanto al suo rimane vuoto, mentre il terzo, vicino al corridoio, viene occupato da un signore anziano che si immerge subito nella lettura di una rivista di tatuaggi.

Dei tre ragazzi nordafricani uno, il “telefonista”, è ben in vista poco più avanti, sulla sinistra, vicino al finestrino, un altro è sul posto immediatamente dietro l’appassionato di tattoo, il terzo non si vede, sarà da qualche parte davanti. Il decollo e la salita alla quota di crociera sembrano fatti su una rotaia, né una scossa né una correzione di assetto, il cielo è terso e il sole è accecante. Max è costretto a guardare dentro.

Il “telefonista” si è spostato sul sedile lato corridoio. Non si è tolto il giubbotto. Max guarda sopra la sua spalla sinistra, anche il secondo ragazzo non si è tolto il giubbotto ed è intento a cercare qualcosa con lo sguardo in avanti, lungo il corridoio.

– Ok, che cavolo vai cercando, che ti vuoi inventare? – pensa Max mentre un brivido lo attraversa. – Hanno i giubbotti perché sentono freddo, dopotutto vengono da paesi caldi. Non hanno bagaglio a mano, ne avranno avuto da imbarcare. Non sono assieme, non si conoscono, e allora? Per imbarcarsi hanno fatto i controlli di sicurezza, è tutto a posto.-

– Certo, a Palermo non è che siano così meticolosi. Chissà cosa passa prima. Li avranno pur fatti spogliare, quindi niente giubbotti esplosivi. Coltellini di plastica? Fili metallici, cos’altro? Magari una pistola in ceramica, come si chiama, una Glock. – Ecco, ora anche il terzo ragazzo è in vista, si è alzato da una delle prime file, guarda indietro, lungo il corridoio e poi si dirige verso la cabina di pilotaggio. Indossa il giubbotto.

Occhiata sopra la spalla e poi davanti.

I due ragazzi seduti lo stanno osservando entrambi. Nel passetto prima della cabina di pilotaggio un’hostess intercetta il giovane, un breve scambio di parole, poi questi si infila nella toilette. Ora Max è veramente agitato, cerca di non darlo a vedere e si volta a guardare fuori, quel cielo azzurro, scuro in alto, il sole abbagliante. –

Ragioniamo, ammettiamo per gioco, ancora il volo è lungo, che ‘sti tre vogliano fare qualcosa, un dirottamento o un attentato. Attentato no, escludiamolo subito, se metti una bomba, al momento giusto la fai esplodere e amen. Un dirottamento. Prendere il controllo dell’aereo. Gesù, per farci cosa? Fra non molto dovremmo essere all’altezza di Roma. Il Vaticano! Quante volte, anche ultimamente, gli integralisti hanno minacciato i luoghi simbolo del cristianesimo? Se hanno colpito due volte un grattacielo, non dovrebbe essere difficile colpire Piazza S. Pietro. –

– Che stupido! Ormai le cabine di pilotaggio sono ermeticamente chiuse, a prova di proiettile credo. – – Sì ma la hostess è già entrata un paio di volte, si fa aprire, porta da bere … – – Bene, se volevo spaventarmi, ci sono riuscito. –

Il ragazzo seduto più avanti, il “telefonista”, si alza e si avvicina, passando accanto al terzo gli sussurra qualcosa e prosegue verso la coda.

Max non si azzarda a girarsi, non intende certo metterli in allarme. Intanto la hostess ed uno stewart cominciano a distribuire bibite ed altro, col loro carrellino, avanzando da prua. Che fare, dire qualcosa, ma uno di quelli è alle sue spalle, sentirebbe. E poi dire cosa? – Sentite, sono certo che a bordo ci sono tre terroristi -, oppure: – Signora, la prego non entri in cabina di pilotaggio per alcun motivo -.

La hostess non è giovanissima e questo sembra giovarle, i lineamenti sono definiti, il trucco ormai sicuro, ma l’atteggiamento professionale è poco filtrato, il sorriso assolutamente posticcio. Incrocia lo sguardo di Max e si appresta a risolvere ogni problema, poi vi coglie un imbarazzo diverso e il suo livello di attenzione cambia, comincia rapidamente a elencare mentalmente evenienze più rare cui far fronte, malesseri, strane rimostranze, richieste inusuali.

“Posso aiutarla, desidera qualcosa?”. L’approccio è garbato e generico, in modo da concedere al passeggero ogni possibile uscita dall’impaccio.

Volevo chiederle … sarebbe possibile visitare la cabina di pilotaggio?

“Lei è un pilota, o cosa?” è la risposta sulla difensiva dell’hostess.

Con un sorrisetto impacciato: “No, sono solo un appassionato.”

“Mi spiace, le regole della Compagnia non consentono …”

“Ma non è il comandante che decide?”

“Mi spiace …” conclusiva.

“Senta, può dire al comandante che ho un codice, 7500, magari mi fa entrare …”

“… un codice? Della compagnia?”

“Sì, sì, certo, della compagnia. Settemilacinquecento, la prego!”

“… non mi risulta, non credo …”, e si allontana verso prua.

Un’occhiata gli conferma che il ragazzo di colore seduto dietro lo sta osservando con insistenza, si costringe a non arrossire. Anche l’anziano accanto ha chiuso la rivista e lo guarda di sottecchi. L’hostess sta parlottando al telefono e sbircia verso di lui.

Il ragazzo dietro si è alzato, passa accanto, lo fissa per due secondi e poi procede, armeggiando nelle tasche del giubbotto. Max sta somatizzando l’angoscia che lo pervade, si toglie la giacca, si alza sul posto e si guarda attorno. Chi può coinvolgere? L’anziano appassionato di tatuaggi? Figuriamoci! Lo stewart che staziona in fondo alla carlinga sta rispondendo al telefono e sembra osservarlo. A prua due dei ragazzi di colore sembrano discutere col personale di cabina. Cristo! Stanno per agire!

“Ma nessuno vede niente!!” il grido erompe incontrollato, seguito dal solo rumore sommesso dei propulsori, mentre i passeggeri nel raggio di cinque metri si voltano a guardare, incuriositi. Qualcuno preme il tasto di chiamata, proprio mentre si accende il segnale di allaccio delle cinture e viene annunciato l’inizio della discesa verso Venezia. Max si accorge solo ora che da un pezzo hanno superato Roma ed anche l’Appennino, ma questo non lo calma, anzi.

– Certo, lo faranno ora, appena scesi di quota, con la laguna in bella vista, puntare la città sarà uno scherzo e poi cosa, di sicuro piazza S.Marco, gremita come sempre di turisti, un simbolo dell’occidente cristiano marcio e depravato – i pensieri di Max ormai viaggiano come su un binario ben oleato, mettendo in fila tutti i tasselli di un evento già scritto, alimentato da mille informazioni multimediali sedimentate.

Si alza mentre l’aereo attraversa un banco di nubi, scurendo la luce all’interno della cabina – Dobbiamo intervenire ora, come avevano provato a fare troppo tardi quelli del volo UA93, tutto sommato sono solo in 3, possiamo sopraffarli –

“Si metta a sedere!”. Lo stewart in coda lo addita, mentre da prua arrivano l’hostess ed uno dei ragazzi di colore …

“Dobbiamo fermarli!” grida Max indicando il ragazzo. “Ce ne sono altri due, bisogna bloccarli!”

Un lamento multitonale di stupore e di paura si solleva dai passeggeri, molti dei quali stentano a realizzare la situazione. “Torni al suo posto!” anche l’hostess lo addita, il volto fiammeggiante.

“Perdio! E questo non lo vedete!” indicando a sua volta il ragazzo di colore che gli si avvicina.

Ora i passeggeri sono prossimi al panico, si sente qualche grido soffocato, mentre l’aereo effettua una virata poco coordinata, evidentemente in manuale, che fa traballare tutti quelli che sono in piedi. Max è madido di sudore, prova a riflettere sul passo successivo da fare, ficca una mano in tasca alla ricerca del fazzoletto, un gesto che viene accolto da una bordata di urla dei passeggeri vicini, oramai terrorizzati.

Rimane con la mano in tasca mentre qualcosa lo colpisce sbattendolo a terra sullo stretto corridoio. Un forte dolore alla spalla e il pensiero – Gesù, quel porco mi ha sparato, quindi aveva la Glock di ceramica! –

Le grida continuano indistinte mentre Max sente adesso un gran peso su di sé – sto morendo … – e una voce all’orecchio con uno strano accento: “Sta bono e non ti movere!”.

Una mano gli si infila dappertutto – forse cercano la ferita per bloccare l’emorragia – poi di nuovo un lancinante dolore alla spalla, le braccia ritorte all’indietro, qualcosa di sottile gli serra le mani.

Sente distintamente l’hostess, qualche metro dietro “Kevin … chiama il comandante all’interfono … digli che l’Interpol lo ha bloccato, può comunicarlo a terra e procedere all’atterraggio”.

Max si sente sollevato, dunque l’attentato è stato sventato, il terrorista – uno!? – bloccato, lui è stato ferito, lo stanno stabilizzando – buon Dio, ho salvato Venezia! –

Quando lo trascinano fuori, lungo la scaletta, lo accoglie una pioggia fredda e pesante. Il dolore alla spalla è diminuito e un solo chiaro pensiero gli attraversa la testa, per il resto confusa – ma come, non era previsto bel tempo? –


 

 

 

Note dell’autore 7500. E’ il codice internazionale che convenzionalmente indica, inserito nel transponder di bordo, “dirottamento” o “bomba a bordo”. Quando il radar secondario dei servizi di controllo del traffico aereo irradia il velivolo ne ottiene una serie di informazioni, tra le quali il codice digitato dai piloti appunto sul transponder.

UA93. United Airlines 93. Era il nominativo del volo coinvolto nei fatti dell’11 settembre 2001 che verosimilmente doveva schiantarsi sulla Casa Bianca. Le ricostruzioni effettuate sulla scorta dei dati radio e telefonici e relativi a quel volo indicano che un certo numero di passeggeri, realizzato il pericolo, si organizzarono per attaccare i dirottatori ai quali non rimase che schiantarsi al suolo, 240 chilometri (pochi minuti di volo) da Washington.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Donaldo di Cristofalo