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MA INFATTI IO PIANGO!


E’ da poco terminata la XI edizione del premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE e già abbiamo il piacere e l’onore di pubblicare il primo dei racconti che, purtroppo, – e sottolineiamo purtroppo – non sono stati ammessi alla fase finale del Premio malgrado sia manifesta la loro bontà. D’altra parte sono solo 20 i racconti finalisti previsti da regolamento e dunque, in un’edizione particolarmente affollata con ben 55 racconti partecipanti, era inevitabile che alla giuria fosse demandata la difficilissima scelta dei racconti meritevoli della finale, ossia della pubblicazione nell’antologia del Premio e – inevitabilmente  -l’esclusione dei restanti.

Nel corso degli anni, Evandro Detti ha accumulato una notevolissima esperienza aviatoria nell’ambito dell’Aviazione Generale e – senza paura di essere smentiti – ha volato praticamente con tutto quanto potessero offrire gli Aeroclub italiani negli ultimi 40 anni … tuttavia se c’è un rammarico che ancora oggi lo perseguita è quello di non aver mai potuto volare con il T6-Texan, addestratore per antonomasia della rinata Aeronautica Militare. Mai dire mai, caro Evandro, chissà che un giorno tu non possa sanare questa carenza! (foto fornita dall’autore)

A dimostrazione della correttezza dell’operato della giuria che – lo ricordiamo – valuta i racconti in formato assolutamente anonimo, e anche a testimoniare la profonda gratitudine che nutriamo nei confronti di uno dei più prolifici e apprezzati redattori del nostro hangar, il primo racconto che andremo ad ospitare sarà proprio quello del “nostro” Evandro Detti.

Perfettamente in linea con la sua pluriennale linea narrativa, il buon Evandro ci ha regalato un suo sag-conto (un po’ saggio e un po’ racconto) che stavolta ha per protagonisti i veterani di quella che fu la Regia Aeronautica italiana, antesignana dell’odierna AMI – Aeronautica Militare Italiana.

Chi pilotava questo tipo di velivolo – biciclo – godeva automaticamente del rispetto dei veterani della Regia e così, quando il buon Evandro raccontava loro delle le sue esperienze di pilota civile, beh … saliva di un gradino nella scala della considerazione di cui godeva. Questa foto lo ritrae in quella specie di portaerei rocciosa che prende il nome di Giannutri, isola dell’arcipelago toscano che misura 500 metri in larghezza e 5 chilometri in lunghezza in cui, ancora oggi, non sono ammesse automobili né sono presenti strade asfaltate e dunque ci si muove solo a piedi. Fino al 2000 esisteva un’aviosuperficie priva di hangar e carburante lunga solo 500 metri e proprio su quella l’autore posò le ruote per lo scatto incriminato. In verità egli ha ammesso che, per scattare questa fotografia, poiché il velivolo non disponeva di avviamento elettrico, lui e il suo copilota lo frenarono lasciando il motore al minimo, gusto il tempo per ottenere immortalarsi sulla “pista” di Giannutri. (foto fornita dall’autore)

Esprimere questo termine – v e t e r a n o – in presenza di un giovanissimo nato e cresciuto dopo l’anno 2000 provocherà di sicuro in lui un certo stupore perché i drammi, le privazioni e le distruzioni della II Guerra Mondiale appartengono ormai solo alla memoria di coloro che, alla soglia degli 80 o 90 anni di età, li hanno vissuti sulla loro pelle e che all’epoca erano poco più che bambini o al massimo adolescenti. Viceversa, per Evandro – che anagraficamente non è proprio un ventenne sebbene ne abbia la vitalità – l’esperienza di frequentare i veterani lo ha accompagnato spesso nel corso delle sue scorribande aviatorie e inevitabilmente lo ha  in qualche modo maturato. E proprio di loro ci racconterà … ma con quella delicatezza e il pudore che riserveremmo solo a un nostro congiunto benché si tratti quasi sempre di emeriti sconosciuti.

Evandro, da ottimo autore ligio alla veridicità storica ma anche da abile narratore quale è, sa benissimo come toccare le corde della sensibilità del lettore e – ne siamo certi – scorrendo le righe del racconto,  vi salirà letteralmente un groppo alla gola perché si concretizzerà sotto i vostri occhi l’immagine di uomini che sono stati profondamente segnati dal conflitto mondiale e che, nonostante siano trascorsi ormai diversi anni, si trascinano con grande dignità sempre inseguiti dalle ombre dei loro commilitoni defunti e degli indicibili strazi che patirono in prima persona o di cui furono testimoni.

Correva l’anno del signore 1968 quando, a bordo di questo Fairchild C-119 Flying Boxcar l’autore riceveva il battesimo del volo e da quel giorno in poi egli ha praticato molto intensamente la fede del pilota civile … (foto fornita dall’autore)

A distanza di 80 anni e più dal conflitto mondiale,  di veterani ne rimangono in vita pochissimi; un’intera generazione se n’è letteralmente andata e di loro ci rimangano solo le testimonianze o le confidenze come quelle riportate da Evandro Detti che all’epoca le raccolse, non senza difficoltà, superando la feroce riservatezza degli interlocutori.

Il racconto si avvia con il pretesto di una vecchia canzone degli Abba (glorioso gruppo musicale svedese) i cui versi si ritornano qua e là nel corso della composizione a mo’ di pretesto per riportare situazioni e aneddoti vari legati appunto ai veterani; racconto che fila via – come siamo ormai abituati nei migliori a firma di Evandro – fino all’epilogo con la frase che troviamo nel titolo dandone così una spiegazione assolutamente pertinente e creando un impeccabile circolo logico.

Ancora una bella immagine dell’autore giusto appollaiato sull’ala del Morane Saulnier MS 892A dotato di un motore con la ragguardevole potenza di 150 Hp: il sogno negli anni ’80!

Grazie, Evandro perché hai reso vivida la memoria di quelle tante persone alle quali dobbiamo davvero molto e che viceversa, sono ormai cadute nell’oblio, specie da parte delle generazioni più giovani per le quali la bandiera e la patria assumono un qualche significato solo in occasioni di grandi eventi sportivi, specie calcistici.

Grazie ancora, Evandro, e onore ai veterani!



Narrativa / Medio – lungo

Inedito

Ha partecipato alla XI edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole” – 2023


Nota della Redazione: nella foto in evidenza sarà possibile individuare l’autore negli anni ’80 a bordo di un aliante Grob Twin Astir in atterraggio per la pista 36 dell’aeroporto di Guidonia.

Ma infatti io piango!

Una canzone degli Abba, uscita nel 1978, è tra le mie preferite. La ascolto volentieri mentre viaggio in macchina e spesso la rimetto daccapo per risentirla, non mi stanca mai. Le parole sono in inglese, ma come spesso accade con questa lingua, sono talmente efficaci da proiettarmi indietro nel passato e farmi rivivere momenti di vita vissuta come in un sogno.

La canzone parla di aquile. Quelle vere, forse, ma io ne ho conosciute altre che potrebbero essere inserite pari pari nella canzone.

They came from far away, now I’m under their spell. I love  earing the stories that they tell. They’ve seen places beyond my land. They’ve found new horizons. They speak strangely, but I understand“.

“Sono venuti da molto lontano, ora sono sotto il loro incantesimo. Mi piace ascoltare le storie che raccontano. Hanno visto luoghi al di là della mia terra. Hanno trovato nuovi orizzonti. Parlano in maniera strana, ma io capisco.”

Le aquile di cui parlo sono venute davvero da molto lontano. Non solo beyond my land – oltre la mia terra, ma anche beyond my time – oltre il mio tempo. Non ero ancora nato quando loro già volavano verso altri orizzonti. E mi piace ascoltare le loro storie, quando sono in vena di raccontarle.

Parlano strano, è vero. Usano termini antichi, parole ormai sostituite da altre più moderne, frasi idiomatiche che sembrano conoscere solo loro. Ma basta poco tempo per apprenderle. E inevitabilmente conquistano l’ascoltatore, che resta incantato ad ascoltare.

Parlano strano. Ma io capisco.

Alla fine degli anni sessanta e nei primi anni settanta ne incontravo molte, di queste aquile, appena entrato in Aeronautica Militare. Ufficiali e sottufficiali, marescialli anziani, tutti riconoscibili nella loro divisa impeccabile, con l’immancabile aquila turrita di pilota militare sul petto, giusto al di sopra di un largo rettangolo di nastrini e onorificenze. Medaglie al valore, guadagnate in azioni di guerra, chissà dove, come e in quali azioni.

Li incontravo ovunque.

Guidonia è sempre stato un luogo molto attraente per tutti noi appassionati di aviazione. La sua storia ha profonde radici nel passato. Non tanto la cittadina quanto il suo aeroporto.

L’aeroporto di Guidonia è stato teatro di infiniti eventi aeronautici che meriterebbero una enciclopedia intera ad essi dedicata.

Oggi esistono ancora molti indizi degli antichi fasti, ma certamente, per vederli, bisogna avere un’adeguata conoscenza della Storia e un occhio ben attento. L’ambiente è profondamente cambiato nei decenni. Tutto si è modernizzato, non solo nelle infrastrutture, che non sono cambiate così tanto dagli anni ruggenti dell’Aviazione italiana, ma anche e soprattutto nell’ambiente umano. Oggi l’aeroporto rispecchia le condizioni generali della forza armata che lo gestisce, l’Aeronautica Militare Italiana. Oggi sono soprattutto giovani quelli che girano per i reparti.

Sui piazzali vediamo parcheggiati velivoli di diverso tipo, alcuni sono jet e altri sono ancora aerei ad elica. Poi ci sono gli alianti, qui ha sede una sezione del volo a vela militare. I monomotori ad elica servono proprio a trainare gli alianti, che sono quasi esattamente uguali ai nostri, ma con le classiche coccarde sulle ali.

Qualche decennio fa l’Aeronautica usava questa sede per ospitare reparti in via di estinzione, di trasformazione o di ricollocazione, aerei e personale. Per alcuni piloti anziani questo aeroporto ha costituito l’ultima pietra miliare del loro percorso operativo. La successiva era la pensione.

Ma qui, per un breve periodo, continuavano a volare sui loro vecchi aerei, che successivamente sarebbero stati pensionati anch’essi, cioè radiati. E’ stato il caso dei C45 bimotori, dei T6 della scuola di Alghero e dei Siai 208 che oggi continuano a volare come aerei di collegamento e di traino alianti.

Non appartenevo a quei reparti, ma spesso andavo a trovare i miei colleghi che invece vi appartenevano. C’ero anch’io tra quei militari e li ho visti. Loro e i loro aerei.

Ero di casa a Guidonia, già dieci anni prima di andarci per cominciare il corso di pilota di aliante, nella sezione di volo a vela dell’Aeroclub di Roma, che in quell’aeroporto aveva sede.

Ho conosciuto quei piloti, anziani e prossimi alla pensione, ma ancora ben validi. Li ho visti salire sui C45, accendere i motori e rullare verso il punto attesa. Li ho visti decollare e atterrare, sempre in maniera impeccabile. Molti avevano sulla divisa il simbolo di ferite di guerra. Avrei voluto domandare loro tante cose, ma non parlavano volentieri di certi argomenti e comunque i loro atteggiamenti e l’espressione di quei visi non mi incoraggiavano certo a fare domande. Sembravano appartenere a un altro mondo.

Devo dire che, in genere, facevano caso all’ aquiletta dorata che portavo sulla divisa, quella di pilota civile di aeroplano. Qualcuno mi chiedeva dove avessi preso il brevetto (allora la licenza di volo si chiamava così). Quando rispondevo di averlo preso all’Aeroclub di Viterbo mostravano subito segni di grande apprezzamento. In genere sembrava che conoscessero molto bene  l’aeroporto di Viterbo, come se fosse stato un loro luogo di predilezione, come se vi avessero operato tanto tempo prima, in un tempo lontano di cui io non sapevo nulla. Come se si fosse trattato di una vita precedente.

Ogni tanto, appena nominavo Viterbo e il suo Aeroclub, mi sentivo dire sempre la stessa frase: “Ah, ottimo Aeroclub. Una vera fucina di piloti. Lì nascono piloti veri …“.

Era come se, all’improvviso, mi avessero collocato su uno scalino più in alto.

Questo era l’atteggiamento generale, del quale, però, non avevo idea di quale fosse il motivo. Nelle discussioni, che immancabilmente seguivano, venivano nominati altri piloti, mi chiedevano se conoscevo questo o quello, personaggi che a Viterbo vivevano o semplicemente frequentavano l’Aeroclub. Non solo piloti, anche specialisti. La loro fama era qualcosa di vago e misterioso, noi giovani eravamo poco consci di quale storia e quali avvenimenti celassero dietro i loro sguardi profondi, a volti persi nel vuoto, a volte duri e intransigenti, a volte però, perfino gentili e indulgenti.

Al di là dell’apprezzamento per essere un pilota, tuttavia, percepivo anche una sorta di sfiducia generalizzata verso i piloti civili come me. All’inizio la attribuivo al fatto di essere tanto giovane, di fronte a persone molto più anziane. Ovviamente, alla mia età, ero all’inizio. Per avere la loro esperienza avrei dovuto volare per tutta la vita. E magari fare anche qualche anno di guerra. Insomma … come biasimarli! Ero un principiante. Poco ma sicuro.

Nel corso delle chiacchierate, dove non mi dicevano nulla delle loro storie, specialmente quelle del periodo bellico, si parlava degli aerei moderni. In particolare emergeva un elemento fra tutti: la differenza fra gli aerei con il carrello cosiddetto triciclo, quello con la terza ruota sotto il muso e quelli che avevano il ruotino sotto la coda, detti bicicli. Sembrava che, nella loro considerazione, i primi fossero troppo facili, i secondi difficili e, manco a dirlo, gli unici che si potessero considerare aerei veri. E giù discussioni su tendenze ad imbardare, coppia dell’elica, quanto piede serviva per contrastare certe forze con il cosiddetto timone di direzione che si comanda, appunto, con la pedaliera. Con gli aerei di oggi, beh! tutto è diventato facile. Troppo facile. Sui tricicli sono tutti piloti, ormai … Ai loro tempi, invece … e frasi di questo genere.

Tra racconti di imbardate ed episodi di uscite di pista, prima o poi riuscivo a dire che conoscevo il problema, perché a Viterbo volavamo su entrambi i tipi di aeroplani. I bicicli erano i PA 19. Li avevamo avuti dall’Esercito Italiano che, pur conservandone un certo numero per sé, alcuni li passavano agli Aeroclub.

Appena venivano a sapere che volavo anche con i bicicli … la mia quotazione saliva istantaneamente. Nonostante fossi un principiante, venivo dall’Aeroclub di Viterbo, volavo con aerei bicicli, quindi … mi sentivo collocato ben due scalini più in alto.

Ogni tanto mi invitavano anche al bar con loro. Meravigliosa sensazione. In quelle occasioni era come se fossi uno di loro. Quasi.

Veterani. Alcuni erano veterani di guerra. Gente che emanava durezza, ma anche una straordinaria gentilezza, nobiltà di modi, inclinazione naturale alla solidarietà e alla disponibilità. Emanavano esperienza e capacità. E si vedeva chiaramente che erano alla fine di una carriera cominciata in un tempo lontanissimo; che arrivavano da un percorso a me oscuro, ma che avevano attraversato l’inferno, una guerra tremenda, vicende dolorose e terribili, tanto da non poterne neppure parlare.

Infatti non se ne parlava. Al primo accenno a quegli avvenimenti si chiudevano, smettevano di parlare o cambiavano discorso. Sembravano trattenere il respiro per evitare di commuoversi, forse erano troppo travolgenti i ricordi. Qualcuno guardava da un’altra parte…

Quei vecchi marescialli sembravano alieni venuti da un’altra galassia.

Qualcuno di loro aveva sulla divisa una striscia dorata che sapevo rappresentare ferite di guerra. E non potevo fare a meno di averne rispetto, ma anche di questo non osavo chiedere notizie di dove e come erano stati feriti.

La canzone degli Abba, ad un certo punto, dice:

As all good friends we talk all night, and we fly wing to wing. I have questions and they know everything

Come tutti i buoni amici parliamo tutta la notte, e voliamo ala contro ala. Ho tante domande e loro sanno tutto

Avrei volato volentieri con loro. Forse avrei potuto provare a ottenere il permesso di farlo, ma non mi ricordo di averlo chiesto. Forse no. Peccato, perché per me sarebbe stato un grande privilegio e un notevole onore.

Ma un giorno accadde una cosa che ricordo ancora molto vividamente.

Tornavo da un volo a Siena, solo a bordo di un Morane Saulnier dell’Aeroclub, e stavo sorvolando Montefiascone, diretto a Viterbo per l’atterraggio. C’erano molte nuvole e mi divertivo a passarci vicino, sfiorandole con l’ala. Addirittura, se ne vedevo qualcuna abbastanza piccola e sfilacciata, ci passavo dentro.

Mentre sbucavo da dietro una nube piuttosto grande, a rispettosa distanza, improvvisamente vidi un aereo al mio stesso livello, quasi in senso opposto. Passò tra me e la nuvola ad una velocità incredibile, ma feci in tempo a vedere la faccia del pilota di sinistra che si girò verso di me. Uno sguardo fuggevole, di sorpresa, come del resto, forse, dovette apparire il mio verso di lui.

Era un C45, bimotore con doppia deriva. Uno di quelli di Guidonia. Di sicuro anche i piloti lo erano.

Avevo rischiato una collisione. C’era mancato poco. Eppure, invece di sentirmi spaventato ero rimasto calmissimo. Ricordo che controllai di essere ad una quota giusta secondo la normativa in vigore che prescriveva di volare rispettando i cosiddetti livelli semicircolari. Quindi non dovevo temere rapporti da parte dell’aereo militare. I due piloti potevano forse aver avuto il tempo di leggere il nominativo del mio aereo, scritto a lettere grandi sulla fusoliera. Ma ero a posto, anche se mi ripugnava dover dire che loro, invece, volavano ad una quota sbagliata. Ero già sulla frequenza della Torre di Controllo di Viterbo, tuttavia non sentii alcuna comunicazione da parte del C-45. Era andata bene. Cominciai la discesa rassicurato.

E poi mi sentivo onorato di essere in volo insieme a quei veterani. Non nello stesso aereo, ma nello stesso cielo.

Non ho mai saputo chi ci fosse sul C-45, dopo quell’incontro, per lungo tempo, non ebbi più occasione di andare a Guidonia.

I veterani di cui sto parlando erano persone veramente affascinanti. Ne ho conosciuti tanti in quegli anni. Ero giovane e loro anziani. Alcuni di loro, come ho detto, sembravano duri e intransigenti. Da noi giovani pretendevano molto e, naturalmente a noi questo atteggiamento urtava non poco. Il ’68 era appena passato e in Aeronautica molte cose stavano cambiando. Lentamente, a dire il vero, ma cambiavano. E lo scontro tra generazioni non poteva essere indolore.

Per i veterani, che venivano dalle tragedie della guerra, finita da poco più di un ventennio, doveva essere duro veder scomparire valori nei quali avevano tanto fermamente creduto e per i quali avevano sofferto immensamente. Del resto, a noi giovani interessava già avere i capelli un po’ più lunghi e magari, mi ricordo bene, i pantaloni della divisa leggermente scampanati, secondo la moda del momento. La convivenza tra le due generazioni, a quel tempo, non era sempre tranquilla.

Ma loro, i veterani, stavano meglio per conto proprio, parlando delle loro cose, che a noi apparivano misteriose.

L’aria di mistero era quella che mi impressionava di più. E il distintivo di ferite di guerra mi faceva più impressione di altro. Mi chiedevo che tipo di ferite avessero riportato, e in che situazione.  Non sembrava opportuno chiederlo, anche se per il resto rispondevano a tante domande e sembravano sapere tutto, specialmente le cose di volo, del pilotaggio e della navigazione.

Erano venuti da oltre il mio tempo, da oltre il mio orizzonte, come dice la canzone, ed emanavano un fortissimo magnetismo, al punto tale che rispettavo quei veterani con tutto il cuore. Accettando perfino i rimbrotti di qualcuno di loro. E quanto avrei voluto conoscere le loro storie!

Un giorno venni a sapere di un brutto episodio accaduto in una caserma dell’Aeronautica, adiacente al luogo dove prestavo servizio. Un anziano maresciallo si era suicidato gettandosi dalla finestra. Non andai a vedere, ma mi dissero che molto probabilmente l’uomo, che soffriva da tempo per i traumi di guerra, aveva minuziosamente progettato il proprio suicidio. Si era lanciato dalla finestra, in modo tale da cadere all’indietro e sbattere la testa sulla sporgenza di un cornicione sottostante, così da arrivare a terra già privo di sensi. Un episodio che mi colpì profondamente.

Era uno di quei veterani.

Voglio raccontare anche un altro episodio che riguarda uno di loro. Un tipo taciturno, abbastanza incline a brutalizzare chiunque, se ne avesse avuto il motivo. Faceva il direttore della linea di volo dell’Aeroclub di Roma. Normalmente stava in piedi, appoggiato alla porta dell’hangar, oppure seduto su una delle sedie disseminate qua e là. Spesso sonnecchiava. Sospetto che bevesse anche un poco, specialmente al circolo o alla mensa militare.

Tutti ne avevamo un sacrosanto rispetto. Sapevamo che aveva fatto la guerra. E si vedeva che ne conservava ancora il ricordo, doloroso e praticamente costante.

Lo avevo visto tante volte prendere a brutte parole qualche pilota, cacciandolo anche via in malo modo. Ma di solito era gentile e disponibile.

Un giorno che era in vena di parlare descrisse una delle sue azioni di guerra. Poche parole, ma furono come i fotogrammi di un film proiettati brevemente sullo schermo. Aveva mitragliato mezzi nemici e truppe in marcia. E si chiedeva come avesse potuto fare certe cose, forse gli avevano messo qualcosa nel rancio … Lui, altrimenti, non avrebbe potuto.

Un flash. Poi il silenzio. E aveva ripreso a camminare per la linea di volo, mani dietro la schiena, solo con sé stesso e con i suoi ricordi.

Un giorno arrivai in linea con un amico per fare un voletto. Era tempo brutto, nubi basse, vento e rischio di pioggia. Tutti stavano davanti all’hangar ad aspettare un improbabile miglioramento. Le porte dell’hangar erano semichiuse e gli aerei erano dentro.

Senza convinzione chiesi se potevo prendere un P66B, aspettandomi un secco no. Ma con mia grande sorpresa l’anziano pilota chiamò lo specialista e gli disse di tirarmi fuori un aereo.

Nel vedere questo, alcuni piloti presenti protestarono, perché si sentirono discriminati. Ma lui, con fermezza, disse che non siamo tutti uguali. Io venivo dall’Aeroclub di Viterbo, una fucina di piloti veri. Perciò …

Che piacere può fare una tale fiducia! Comunque, subito dopo mi si avvicinò e mi disse: “Stia attento, perché con le nuvole basse, il paesaggio, anche quello che conosce bene, appare in maniera diversa. Resti a sinistra del Tevere, se dovesse avere problemi, metta prua est e quando il Tevere le passa sotto, novanta gradi a destra e lo segue fino a tornare al campo“…

Un altro giorno un pilota dell’Aeroclub di Roma volò a Viterbo. All’atterraggio finì in una pozza d’acqua che stagnava al centro della pista di erba. L’aereo sbandò paurosamente, ma ne uscì indenne. Il pilota rullò al piazzale aeroclub, scese tutto spaventato e disse che lui da lì non sarebbe ripartito. Si fece accompagnare alla stazione e tornò a Roma con il treno.

Il giorno dopo ero all’Urbe e il veterano mi chiese di andare a riprendere quell’aereo. Ci andai. A Viterbo mi fecero problemi. Non erano sicuri che davvero mi avesse mandato lui e fecero una telefonata di controllo. Sentii la segretaria dire al telefono: “Accidenti, com’è categorico lei, Comandante“!

Poi la segretaria disse che il veterano aveva detto solo “Dategli l’aereo“. E subito dopo aveva chiuso.

Questi personaggi erano fatti così. Non ho volato ala contro ala con loro, come dice la canzone, ma è quasi come se lo avessi fatto.

L’Aeronautica mi aveva assegnato un alloggio militare in un palazzo, uno di quelli che, all’epoca,  possedeva e utilizzava proprio per alloggiare i sottufficiali e qualche ufficiale. Ad ogni piano gli appartamenti erano divisi in camere, ognuna destinata a due persone. Nella mia dormivo solo io. Il primo piano, però, era tutto allestito come sala convegno e c’era pure un bar molto fornito. Di fianco c’era una sala TV e oltre quella c’era la porta di un appartamento destinato al direttore di tutto il palazzo. Lui risiedeva lì con la famiglia, una moglie e un figlio. Li avevo visti di sfuggita, ma non avevo mai avuto modo di vederli da vicino. Sapevo solo che il direttore era un maresciallo prossimo alla pensione.

Un giorno ero seduto al bar di quegli alloggi e conversavo con un amico. Eravamo in divisa. Il mio amico era un ex allievo ufficiale pilota che era stato appena dimesso da un corso di pilotaggio, se non ricordo male a causa di qualche problema disciplinare ed era di passaggio, in attesa di riassegnazione ad altri incarichi. Il maresciallo entrò nella stanza, ci vide e, dopo aver parlato un po’ con l’aviere del bar, venne a parlare con noi. Fu così che lo conobbi.

Naturalmente parlammo di aeroplani. Volle sapere tutto sul mio amico, dei suoi voli sull’MB 326, perché era stato dimesso e dove sarebbe andato dopo. Poi chiese anche di me.

Solito copione. Viterbo, l’aeroclub, i tipi di aerei etc.

Anche lui sembrava unire un’aria autorevole, tipicamente militare, ad una gran gentilezza di modi. Mostrava interesse per le nostre storie, considerazione mista ad un sincero dispiacere per l’esito del corso di pilotaggio del mio amico.

Nel frattempo lo avevo osservato bene. Impeccabile nella divisa, l’aquila turrita al suo posto, una sfilza di onorificenze allineate al di sotto dell’aquila e… una striscia dorata, simbolo di ferita di guerra, sul lato della manica. Un altro veterano.

Parlammo a lungo. Ci dava del lei, nonostante la differenza di età, come facevano in molti, forse altra abitudine che veniva dal passato. Era prossimo alla pensione, questione di una manciata di mesi. Non ricordo se volasse ancora oppure no. Per tutto il tempo gli parlammo di noi, ma di sé  non ci disse nulla.

Lo incontrammo ancora diverse volte e sempre ci sedevamo da una parte, a parlare di aeroplani.

Un giorno entrai nel bar e trovai il maresciallo seduto con una rivista davanti. Gli chiesi se potevo offrirgli qualcosa e accettò un caffè. Presi due caffè dal banco e andai a sedermi vicino a lui.

Quel giorno decisi di fare qualche domanda discreta.

All’inizio sembrava titubante, rispondeva con poche parole e molte pause. Ma volevo sapere se aveva combattuto con un caccia, se aveva abbattuto altri caccia, insomma cosa aveva fatto durante la guerra.

Pian piano sembrava sciogliersi, come se fosse addirittura lieto che qualcuno gli avesse chiesto di parlare di queste cose. Ogni volta che titubava, smettendo di parlare, con lo sguardo fermo in un punto, come a ricordare i particolari, lo incitavo gentilmente a proseguire. Mi aspettavo di sentirgli raccontare della guerra sul Mediterraneo, forse contro Malta, come avevo sentito altri parlarne. E mi aspettavo di sentirlo parlare dei Macchi 202 o 205, se non addirittura dei CR32 e 42…

No. Niente di tutto questo. Lui pilotava aerei da bombardamento. Ora non ricordo se fossero gli SM 79 o qualche altro tipo. Ma non era sui caccia.

E niente Mediterraneo. Lui aveva fatto la campagna di Russia e volava sul Don.

Così lo pregai di parlarmi di quella guerra. Ormai non avevo più timori reverenziali, ma solo interesse. E lui mi raccontò un sacco di cose. Mi spiegò dei problemi climatici, di come tenevano caldi i motori durante le ore di stazionamento a terra degli aerei, in condizioni di ghiaccio, neve e venti gelati. Di come vivevano la vita di tutti i giorni. Come mangiavano, dormivano, e anche come volavano.

Sapevo tante cose della guerra su quel fronte, ma devo dire che sentirne parlare da parte di chi c’era stato era diverso.

Ad un certo punto mi disse che per i piloti moderni è difficile immaginare cosa era stata l’aviazione negli anni di guerra. Allora mi sembrò il caso di comunicargli l’impressione che avevo sempre avuto di non dover fare domande perché mi sembrava che non sarebbero state gradite. E invece, dissi, sarebbe stato opportuno che loro, i veterani, raccontassero a noi giovani le loro storie, in modo da farci comprendere quei tempi. Lui disse che invece no, non era il caso. Troppo crude sarebbero state le loro vicende e soprattutto sarebbe stato inutile, visto che ormai era tutto passato. Anche i ricordi, a dispetto del tempo ormai trascorso, erano troppo vividi e dolorosi per poterne parlare. E i giovani non li avrebbero compresi, perché impossibili da comprendere. Impensabile addirittura farsene un’idea appena più che vaga.

No, disse, la guerra va solo dimenticata. E lasciata sprofondare nel passato, sperando che non torni mai più. Nel dire questo aveva distolto lo sguardo, girando la testa, come a voler scacciare un’immagine che non avrebbe voluto vedere. Aveva gli occhi lucidi e un po’ arrossati, ma cercai di non dare a vedere che me ne ero accorto.

All’improvviso cambiò discorso e mi disse che con il mio brevetto di pilota ci avrei fatto ben poco. Ne fui sorpreso e chiesi il perché.

Mi disse che volare da privati era troppo costoso. E non permetteva di fare abbastanza esperienza. Non diventi un pilota facendo voletti locali, con il tempo buono, solo per diletto. E non c’è paragone con un pilota che vola per professione, che compie missioni di ogni tipo e soprattutto, che si trova a dover affrontare situazioni improvvise e difficili.

Certo, tutto chiaro, tra un pilota di guerra e un pilotino di aeroclub… neanche a parlarne.

Di colpo, mi fece una domanda a bruciapelo. Mi disse che poco tempo prima era partito da Guidonia pilotando un aereo che aveva solo un’oretta di volo di vita operativa, prima di essere radiato. Si trovava dalle parti dell’aeroporto di Centocelle, che all’epoca aveva ancora la sua pista in buone condizioni, quando vide del fumo venire fuori dal cruscotto. E mi chiese: “Lei che decisione avrebbe preso“?

Colto alla sprovvista, risposi che sarei atterrato subito a Centocelle. Ma replicò che un po’ di fumo, in volo, potrebbe diventare una palla di fuoco in pochi istanti. Atterrare richiede tempo. Troppo.

Suggerii altre soluzioni, ma devo dire che anche a me non sembrarono troppo attuabili. E comunque, per ognuna, lui aveva da ridire. E poi, intanto che ne parlavamo, l’aereo sarebbe stato già in fiamme. Magari esploso.

Alla fine, mi arresi. E chiesi:”Maresciallo, che cosa ha fatto, lei“?

Ho spento la radio“, rispose.

Dannazione. A quella non avevo neanche pensato.

Mi resi conto, in quella conversazione, che il maresciallo era diventato stranamente loquace. Sembrava triste e sospettai che prima del nostro caffè avesse bevuto ben altro.

L’attacco ai brevetti civili, ai pilotini di aeroclub, mi aveva spiazzato. Che ne restava della mia blasonata provenienza dall’aeroclub di Viterbo, della fucina di piloti, dei carrelli bicicli?

Avevo provato a replicare, ma questo lo aveva caricato di più. E parlò. Mi raccontò tante cose, tanto terribili che rimasi ammutolito ad ascoltare.

Aveva una medaglia sul petto e, ad un certo punto, mi sembrò il caso di chiedergli di quella.

Mi disse che l’aveva guadagnata sul Don. Aveva partecipato ad una missione nella quale doveva anche sorvolare un reparto che stazionava in una zona in attesa di ordini. Aveva a bordo un cilindro che doveva essere lanciato a bassa quota su quel reparto. Gli ordini erano nel cilindro. Ma il suo aereo era stato colpito. Aveva a bordo un morto e qualche ferito. Forse anche lui stesso lo era e l’aereo era danneggiato. In quelle condizioni, nonostante tutto, l’aereo era ancora governabile e lui decise di portare a termine la missione, prima di rientrare. Lanciò il contenitore con gli ordini, nonostante tutto.

Ebbe così la sua medaglia.

Con gli occhi un po’ arrossati, continuò a raccontare altri fatti. Non nominò nessuno di coloro che erano andati con lui su quel fronte e che non erano tornati, ma capii che furono tanti. E lui li ricordava tutti. Ricordava tutti i suoi voli, uno per uno. E di ogni volo, i cui dati erano allineati sulle righe del libretto, sapeva cosa era successo, chi si era salvato, chi era stato ferito, chi aveva perduto la vita.

Le ore passavano. Restai ad ascoltarlo, rapito e affascinato, ma anche rattristato e travolto dalla tragicità delle vicende di guerra. E comunque, nonostante tutto, sapevo che ascoltare il racconto era ben diverso dall’essere stato protagonista di certi avvenimenti. Aveva proprio ragione.

Avevano ragione, i veterani, a non voler parlare di quella parte di storia.

Infine, le pause si fecero più frequenti. Gli occhi del maresciallo erano decisamente arrossati. Sembrava un po’ a disagio e forse era sul punto di alzarsi per andarsene, scomparendo nella porta del suo appartamento, come gli avevo visto fare tante volte.

Anch’io ero un po’ provato. E mi sentivo in colpa per averlo fatto parlare.

Gli dissi:” Beh, maresciallo, se io avessi vissuto le vicende che mi ha raccontato, sicuramente prenderei il libretto di volo, scorrerei le righe e piangerei tutte le mie lacrime…”

Lui mi guardò. Fece una breve pausa, girando intorno lo sguardo come ormai faceva di continuo. Poi si piegò decisamente verso di me e, quasi con disperazione, disse:

Ma infatti io piango! Prendo proprio i miei libretti di volo. Ricordo ogni volo che c’è registrato sopra. Scorro le righe. E piango“…

Si alzò, leggermente insicuro nei movimenti, mi diede la mano nel salutarmi, mi sorrise con la solita antica gentilezza, attraversò la stanza, uscì nel corridoio e scomparve oltre la porta della sua casa.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #



Evandro Detti

Nota della Redazione: nella foto in evidenza è ritratto l’autore negli anni ’80 presso l’aeroporto di Foligno accanto a un L-18 all’epoca in forza presso l’Aeroclub di Viterbo .

Franz Stigler e Charlie Brown




Facebook, a volte, è un social impagabile. Ci si trovano spesso cose straordinarie. In mezzo a tante banalità, bisogna dire anche questo. Stavolta ci ho trovato questa storia di guerra. Mi è piaciuta e l’ho copiata e tradotta. Ringrazio chi ha deciso di condividerla.

Questo bellissimo post mi sarebbe sfuggito, se colui che l’ha condiviso non avesse scritto quattro parole di presentazione: questa storia fa piangere.

Probabilmente le foto e le didascalie di questa recensione vi appariranno di parte … ebbene sappiate che ci è capitato raramente di poter parlare e mostrare materiale fotografico relativo a macchine volanti di costruzione germanica. Dunque lasciateci sfogare! Probabilmente è la sindrome dei vinti, sarà l’influenza del monopolio culturale anglo-britannico che ha dominato l’Europa occidentale a seguire la II Guerra Mondiale – e tuttora domina, diciamolo! – chissà … tuttavia, dal punto di vista storico e tecnologico, quanto riuscì mettere in aria la Forza armata germanica (la Luftwaffe) nel corso del conflitto costituisce qualcosa di prodigioso, specie se tenuto conto delle pesanti restrizioni cui era stata soggetto il paese all’indomani della sconfitta della I Guerra Mondiale. La Società delle Nazioni (l’equivalente dell’odierno ONU) aveva infatto stabilito condizioni molto stringenti in fatto di armamenti che consentivano agli uffici tecnici tedeschi delle aziende aeronautiche di progettare solo alianti e velivoli da turismo o di costruirli su licenza. La Messerschmitt, ad esempio, all’epoca chiamata Bayerische Flugzeug Werke di Augusta era letteralmente sull’orlo del fallimento agli inizi del 1930 e forse il velivolo mostrato nella foto non avrebbe mai visto la luce sui tavoli da disegno della BFW se Herr Willy Messerschimtt non avesse creduto nella bontà del suo estro creativo e dei suoi ingegneri. Il Bf 109 volò per la prima voltà nel 1935, vincitore di un concorso emesso dall’Aeronautica militare tedesca per un nuovo caccia con cui dotare la neonata forza armata. Vinse contro ogni previsione giacchè si scontrò con colossi come Arado, Heinkel, Focke-Wulf. Quando vinse fu decretato virtualmente l’inizio di una nuova generazione di caccia: monoplani, ala bassa, struttura metallica, carrello retrattile, cabina chiusa, motore raffreddato a liquido. Essa avrebbero dominato l’aria fino all’avvento di un’altra generazione ancora: i caccia a reazione. Ma quella è un’altra storia. (foto proveniente da www.flickr.com)

Stavo per andare oltre, ma l’argomento riguardava aerei, perciò ho deciso di leggerla. Ed ho fatto bene, perché si tratta di una storia certamente vera, con nomi, luoghi e date.

Lo dico subito: non mi ha fatto proprio piangere, ma ci è mancato poco. Di sicuro mi ha commosso.

Conosco almeno un paio di film dove viene rappresentato un caso come questo.

Uno è: “Il Temerario”, con Robert Redford. Anche se lì si parla di due piloti di caccia e la guerra non è la seconda, ma la prima. Però c’è sempre un forte spirito di cavalleria, di onore e di umanità.

L’altro è un episodio di “NCIS”, la serie televisiva ambientata a Washington, dove il padre del personaggio principale, Leroy Jethro Gibbs, a bordo di un caccia americano si trova perso, con gli strumenti in avaria sopra la Germania e un altro pilota, tedesco, quindi nemico, si affianca e gli indica la strada per tornare in Inghilterra, poi lo saluta militarmente, alzando la mano guantata allo stesso modo di Stigler. E qui siamo nella Seconda Guerra Mondiale. Questa scena è decisamente più simile, quasi uguale, a quella vera.

Sono sicuro che esistano altri film dove un evento simile viene utilizzato perché fa breccia nell’animo della gente e la scuote.

E’ una scena che commuove. Che fa piangere, appunto. Trovare anche nella ferocia della guerra un piccolo spazio per un gesto di umanità, non è cosa da poco.

Salvo che per averlo toccato con mano – si fa per dire – in qualche raro museo ove ne è conservato un rarissimo esemplare oppure avendolo visto da molto vicino in qualche memorabile manifestazione aerea, è assai diffcile rendersi conto delle dimensioni reali di un Bf 109. Ebbene questa foto dell’epoca ci consente di comprendere quanto fosse smilzo il caccia germanico, al di là dei suoi 10 metri di apertura alare, i quasi 9 metri di lunghezza e i 3,40 metri di altezza. Pesava “solo” intorno ai 2000 kg, dunque un condensato di ingegneria e di intuizioni vincenti. In effetti Messerschmitt aveva riunito nella sua creatura tutti quegli elementi e soluzioni tecniche avverinistiche che la tecnologia aeronautica, metallurgica e motoristica dell’epoca aveva da poco reso disponibili … un po’ come alla stregua dei fratelli Wright con il loro Flyer. Ma giusto una trentina di anni dopo gli albori dell’aviazione umana, a conferma che la storia – anche quella aeronautica – è un ciclo e riciclo: cambiamo le date, i luoghi, i nomi delle persone ma gli esseri umani sono sempre gli stessi. Da notare la bella decorazione del velivolo (foto proveniente da www.flickr.com)  

Mi viene da pensare che gli autori delle due suddette scene possano aver conosciuto e riprodotto nella finzione, l’episodio vero di Stigler e Brown.

In realtà non dovrebbe essere la manifestazione di solidarietà che riceviamo da un altro essere umano considerato nemico, a farci commuovere. Semmai dovrebbe essere l’idea della guerra, della distruzione, della ferocia, da parte di qualunque essere umano, a farci inorridire.

Ma l’umanità, purtroppo è fatta così.

Le persone non sono tutte uguali. Nemmeno due gemelli monozigoti, che chiamiamo gemelli identici, sono davvero identici.

Eppure, a mio avviso, anche se l’umanità può essere tanto diversa a seconda di dove vive, di quale religione professa e di quale educazione ha ricevuto, potrebbe essere considerata, non uguale, ma sicuramente equivalente. E’ sempre la stessa. Se guardiamo secoli, perfino millenni di storia che affonda nel profondo passato, ci accorgiamo che le caratteristiche peculiari della razza umana non sono mai cambiate. E’ cambiata la cultura, la conoscenza, la tecnologia. Sono state fatte scoperte sensazionali, conquiste immense. Siamo arrivati sulla Luna. E nel prossimo futuro andremo ancora più lontano.

Il vero B-17 Flying Fortress recante il nomignolo “Ye old pub” sulla fiancata del muso. E’ il co-protagonista del racconto ed è qui ripreso in volo durante una manifestazione aerea. (foto proveniente da www.flickr.com)

Ma l’Umanità è sempre quella. Può compiere azioni che vanno dall’estremità del male all’estremità del bene. Qualunque essere umano può fare qualunque cosa. Da un’estremità all’altra. Con tutte le possibilità intermedie.

E questo dipende da chi è quell’essere umano. Dipende dal suo carattere, dalla sua storia, dalla sua cultura e dalla sua coscienza.

Quindi, dipende da chi si incontra.

Il tedesco della nostra storia era soltanto uno di questi esseri umani.

E allora perché il suo gesto ci commuove fino a farci anche piangere?

Eh, penso che anche questo dipenda da chi legge la storia. Non tutti provano lo stesso sentimento.

Anche ogni lettore non è altro che un altro essere umano.




Recensione a cura di Evandro A. Detti (Brutus Flyer)





Se lo Spitfire costituisce il simbolo della RAF e della tecnologia aeronautica britannica nel corso della II Guerra Mondiale, allo stesso modo e nello stesso periodo storico, il Messerschmitt Bf 109 rappresenta per antonomasia il velivolo da caccia della Luftwaffe e dell’industria aeronautica tedesca. Diremo di più: assieme allo Zero nipponico e allo Spitfire britannico è considerato il miglior caccia di tutti i tempi. E non solo perchè quando apparve – era il 1935 – costituì lo spartiacque con un passato che era appannaggio di biplani con motori radiali raffreddati ad aria, carrello fisso e cabina aperta ma anche e soprattutto perchè, nel corso del conflitto, fu la base di partenza per versioni sempre più evolute che ne fecero una macchina da guerra sempre al passo con i tempi e addirittura un passo avanti rispetto ai suoi avversari. Dunque ebbe esattamente la stessa sorte dello Zero e dello Spitfire, a dimostrazione della validità indiscutibile del progetto iniziale ispiratore da cui tutte e tre queste macchine presero avvio. Il Bf 109 qui ritratto è di proprietà dell’Imperial War Museum di Duxford nel Cambridgeshire (Gran Bretagna) ed è apparso nel corso del “Flying Legends Airshow” tenutosi nel 2017. Si tratta di un velivolo che fu costruito su licenza in Spagna e, anzichè del celebre motore Daimler Benz DB-605, è equipaggiato da un “convenzionale” Rolls-Royce Merlin. E’ stato verniciato con la livrea che fu della Legione Condor, il reparto tedesco che partecipò con circa 40 velivoli di questo tipo alla campagna di Spagna. Fu un ottimo banco di prova che confermò l’eccellenza di questo piccolo velivolo, potente e abbastanza ben armato (per il periodo) e, sebbene poco contrastato dall’aviazione repubblicana – dotata di caccia sovietici tipo Rata -, confermò ai vertici della Luftwaffe che l’ingegno ingegneristico teutonico aveva fornito loro una macchina da guerra letteralmente formidabile. (foto proveniente da www.flickr.com).




Confessiamo che non abbiamo mai avuto una particolare predilezione per Facebook e per gli altri cosiddetti social network.

A dire il vero li consideriamo luoghi più inclini pettegolezzo che a una  concreta opportunità di reincontri o di frequentazioni a distanza.

Foto d’epoca di una di quelle classiche formazioni serrate di B-17 di cui, si legge nel racconto, aveva fatto parte anche lo sfortunato-miracolato “Ye old pub” nella sua missione di bombardamento sulla Germania.

Diciamo tutta la verità: in questi contenitori di varia umanità regna sovrano il ciarpame e la paccottiglia, tuttavia appaiono talvolta foto di un certo valore storico come pure documenti di pregevole fattura sebbene di autore ignoto. Di condivisione in  condivisione, di inoltro in inoltro, certe informazioni purtroppo si perdono eppure la bontà del materiale rimane inalterata.

Il mitico Messerschmitt Bf 109 G-6 “Gustav” è il protagonista del racconto. E’ pilotato da un generoso pilota della caccia tedesca che, rispettoso degli antichi valori della Cavalleria, non infierisce su un nemico mortalmente colpito e incapace di nuocere, anzi lo aiuta quanto basta per poter avere una possibilità di sopravvivenza. Una storia esemplare che fa da contraltare a molte, troppe storie, in cui i piloti abbattuti e lanciatisi con il paracadute, venivano ignominiosamente mitragliati oppure i velivoli miracolosamente atterrati più o meno incolumi dopo un duello aereo in cui avevano subito danni gravissimi venivano ugualmente annientati al suolo, pressochè inermi. Nello scatto il “109” è stato sorpreso dal fotografo da dietro, in rullaggio con i flaps abbassati. (foto proveniente da www.flickr.com)

In tutta onestà, apprendere dove i nostri amici sono andati in vacanza o cosa abbiano mangiato a pranzo non è di grande utilità sociale – ne converrete – viceversa, visionare squarci di un passato relativamente recente altrimenti destinati all’oblio o apprendere fatti e vicissitudini singolari di persone più o meno comuni ma collocati in particolari periodi storici, beh …  ha indubbiamente qualcosa di più culturale tale da nobilitare e dare un senso meno frivolo a questi spazi sociali globali. Opinione del tutto personale, per carità, condivisibile o meno, liberi di continuare a postare luoghi esotici di vacanza o pranzi luculliani …

Una splendida fotografia che rende merito alle linee armoniose del B-17 e che, considerate le forme generose e il ruolo di bombardiere a lungo raggio, sono ancora oggi apprezzabili.

La frequenza con cui appare il materiale nobile – perdonerete l’aggettivo – è però talmente ridicola che costituisce il motivo per cui non abbiamo mai creduto granchè in questo canale privilegiato … eppure qualche tempo fa un prezioso collaboratore dell’hangar ci ha sottoposto un testo colto nelle pieghe di Facebook. Una sorta di cronaca storico-giornalistica davvero notevole – in lingua inglese, purtroppo – che meritava di essere divulgata al di fuori del “ghetto” del famoso social network, a beneficio di coloro che non lo frequentano o che non hanno avuto la medesima fortuna del nostro “agente segreto”. Inutile sottolineare che a lui dobbiamo anche la preziosa traduzione in italiano.

In effetti avevamo già trovato più o meno lo stesso racconto all’interno del volume: “Di questo son fatti gli aerei” di Giuseppe Braga che abbiamo recensito in un angolo dell’hangar. Ora, a prescindere da chi abbia elaborato il testo originale o ne sia stato ispirato, abbiamo ritenuto doveroso renderlo disponibile ai nostri visitatori affinchè ne traggano motivo di riflessione e ne mantengano vivo il ricordo.

Ancora un “Gustav” conservato in un museo. Era con uno di questi temibilissimi caccia che il pilota della Luftwaffe Franz Stigler ingaggiò il B-17 al comando del tenente Charles “Charlie” Brown. Fatta eccezione per il sovietico Iljuscin Il-2, il caccia tedesco detiene il record per essere stato il velivolo costruito nel maggior numero di esemplari in tutto il mondo: ben 34 mila esemplari nelle sue numerose versioni (ivi comprese quelle realizzate su licenza dalla Hispano Suiza spagnola e dalla Avia romena). Non a caso può essere definito “l’aquila della Luftwaffe”. Alla data del 2016 esistevano ancora 67 velivoli Bf 109 conservati in museo o volanti, la maggior parte dislocati negli USA, Germania e Gran Bretagna.(foto proveniente da www.flickr.com)

I protagonisti del racconto, ambientato verso la fine della II Guerra Mondiale, sono un equipaggio statunitense di un bombardiere B-17 Flying Fortress (in particolare il  suo comandante) e un pilota da caccia della Luftwaffe con il suo Messerschimtt Bf-109. Il loro non sarà il solito, prevedibile incontro come tanti ce ne furono nei cieli dell’Europa centrale. Da qui l’originalità di un testo che si lascia leggere velocemente con sommo piacere e, non privo della sorpresa finale, vi lascerà quel non so che di curosità tale da spingervi a ulteriori letture e magari ricerche sul quel periodo storico o quelle macchine volanti. A noi è capitato così …

Ancora una splendida immagine di un Bf 109 G oggi ancora volante. L’immagine è stata colta nel maggio 2019 in Virginia, a Virginia Beach, USA. La variante “Gustav” fu prodotta in maggiore quantità rispetto a tutte le altre – circa il 70% – ma non venne ritenuta la migliore in assoluto tra quelle che furiono realizzate tra cui – lo ricordiamo a titolo esemplificativo – rimasero allo stadio di protitipi anche una versione imbarcata con ali ripiegabili e gancio di arresto, una versione con motore radiale BMW, una con cabina pressurizzata e una addirittura con carrello triciclo. Ancora una particolarità: le versioni del Bf 109 furono contraddistinge da una lettera e da un nomignolo che riprendeva l’alfabeto fonetico in uso allora in Germania. Oggi siamo abituati all’alfabeto fonetico NATO ma allora, in Germania, G era Gustav, E Emil e F Friederich e così via. (foto proveniente da www.flickr.com)

Per dovere di documentazione concludiamo con un’annotazione a margine: la vicenda di Charles Brown e Franz Stigler è riportata con ulteriori dettagli, retroscena ed epiloghi paralleli nella pagina di Wikipedia dal titolo: Charlie Brown and Franz Stigler incident , in lingua inglese ma facilmente traducibile a mezzo di traduttore automatico.

Ma la pagina web che vi esortiamo a visitare e a leggere avidamente è quella tutta italiana a cura del Gruppo Ricercatori Aerei Perduti Piacenza che, per merito di Mario Migliavacca, riporta la stessa vicenda corredata da foto e disegni assai pregevoli. E’intitolata: Un Angelo in volo sopra Brema.

Quando gli angeli esistono e volano a bordo di macchine volanti da guerra.




Recensione a cura della Redazione


Foto di copertina proveniente da www.flickr.com.

Si tratta del famoso Boeing B-17 Flying Fortress soprannominato “Sally B”, ripreso dal fotografo in una simulazione di incendio ai motori effettuata nel corso del Old Buckenham Airshow.




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FRANZ STIGLER E CHARLIE BROWN




Era il 20 dicembre 1943 e nell’aria gelida sopra la Germania il tenente Charles “Charlie” Brown cercava in tutti i modi di mantenere in volo il suo bombardiere estremamente danneggiato.

Brawn era ferito ad una spalla, il suo mitragliere di coda, il sergente Hugh “Ecky” Eckenrode era morto e diversi altri membri dell’equipaggio erano feriti, alcuni gravemente.

L’aereo, un B-17F al quale era stato dato il nome di Ye Old Pub, era stato colpito due volte dalla contraerea mentre si stava avvicinando al suo bersaglio, una fabbrica di Focke-Wulf nella città tedesca di Brema, costringendo l’equipaggio a spegnere uno dei motori e a metterne al minimo un altro. Questo aveva fatto rimanere il bombardiere indietro rispetto alla formazione, che apparteneva al 379° Gruppo da Bombardamento e gruppi di caccia tedeschi si erano avvicinati come squali attirati dal sapore del sangue nell’acqua.

Una quindicina di caccia avevano attaccato il bombardiere e l’intera sezione di coda era stata ridotta in pezzi, il cono del muso era saltato via, il sistema elettrico, quello idraulico e dell’ossigeno erano danneggiati, la radio era fuori uso e le viscere del bombardiere crivellato drappeggiavano nella corrente d’aria che passava attraverso gli squarci spalancati della fusoliera.

Ma i B 17 sono robusti e questo in qualche modo continuava a volare nonostante i danni.

Brown era svenuto per un po’ a causa del dolore, perdite di sangue e mancanza di ossigeno e il bombardiere stava spiralando verso il suolo. Ironicamente, questo poteva aver convinto i caccia attaccanti che fosse finito perché nessuno lo aveva seguito nella caduta. Brown si era ripreso e si era accorto di essere soltanto a poche centinaia di piedi sopra il terreno. In qualche modo aveva ripreso il controllo e virato ad Ovest, verso l’Inghilterra e la salvezza, distante duecentocinquanta miglia.

Brown non poteva mantenere una quota di molto al di sopra di un migliaio di piedi e si era a malapena accorto di essere passato ai bordi di un aeroporto tedesco. Subito dopo aver realizzato questo, un caccia BF 109 tedesco era arrivato e volava a breve distanza di fianco a lui.

Era così vicino che Brown poteva vedere il pilota germanico indicare a gesti il terreno, segnalando a Brown di atterrare in qualche campo lì sotto.

La maggior parte dei mitraglieri erano feriti, solo alcune mitragliatrici erano ancora usabili e nessuno era in grado di sparare a quel caccia nemico che li seguiva. Brown poteva soltanto guardare il pilota tedesco e scuotere la testa in segno di diniego. Charlie Brown non era sicuro di farcela a volare fino in Inghilterra, ma di sicuro non voleva atterrare in Germania.

Per un po’ il Messerschmitt volò a fianco del bombardiere. Poi scivolò via, sopra e dietro. Brown aspettò la scarica di mitragliatrice che avrebbe significato la fine di Ye Old Pub.

Non accadde nulla.

Con sua grande sorpresa si accorse che il caccia tedesco volava così per scortare il B-17, non per abbatterlo. Infatti dopo aver superato la linea di costa il caccia continuò a mantenere la sua posizione.

Solo quando furono ben al di fuori dello spazio aereo tedesco il caccia scivolò ancora di fianco, vicino al bombardiere.

Brown guardò di lato, il pilota tedesco guardò verso di lui, poi alzò la mano guantata in segno di saluto militare e, inclinando il suo aereo virò via per tornare indietro verso est.

Brown cercò di portare a terra Ye Old Pub, non certo sulla sua base di Cambridgeshire, ma sulla base del 448° Gruppo vicino Norfolk in East Anglia. Lui e il suo equipaggio, tranne il mitragliere di coda, sopravvissero.

Al debriefing Brown raccontò la storia del caccia tedesco che lo aveva scortato. Fu deciso di tenere il fatto segreto, l’idea di un onorevole pilota tedesco che aveva scelto di non abbattere un bombardiere danneggiato non si conciliava con il messaggio che l’America voleva diffondere.

Charlie Brown sopravvisse alla guerra, tornò a casa e andò all’Università, poi si arruolò di nuovo nell’Aeronautica nel 1949. Restò in servizio fino al 1965 quando andò in pensione con il grado di colonnello. Non disse mai a nessuno del pilota tedesco che lo aveva scortato verso casa nel Dicembre 1943. Fu soltanto molto più tardi, nel 1986, ad una riunione di piloti combattenti in pensione chiamata “Riunione delle Aquile” che per la prima volta parlò di ciò che era accaduto.

La reazione fu forte, sebbene alcuni si chiedessero se l’intera faccenda fosse realmente accaduta. Perfino Brown cominciò a domandarsi se non lo avesse solo immaginato – il ricordo di quel giorno del 1943 era nebuloso a causa delle sue ferite, dello sfinimento e dello stress da combattimento.

In retrospettiva, l’idea di un pilota tedesco che lo aveva scortato sopra la Germania e perfino salutato lasciando che il bombardiere se ne tornasse verso l’Inghilterra sembrava inverosimile.

Poteva ricordare i fatti in modo sbagliato?

Brown decise di cercare il pilota tedesco coinvolto nell’episodio, anche solo per provare che non avesse davvero immaginato tutto.

Ci vollero quattro anni, ma nel 1990 Brown finalmente ricevette una lettera da un uomo di nome Stigler che viveva in Canada. Stigler spiegò che lui era stato il pilota del caccia tedesco che aveva scortato Ye Old Pub.

Il 20 Dicembre del 1943, Franz Stigler era un pilota veterano con all’attivo 27 abbattimenti con il Jagdeschwader 27. Aveva volato contro i bombardieri americani nel suo Messerscmitt Bf-109 G-6 quella mattina e stava facendo rifornimento al suolo quando Ye Old Pub gli passò sopra.

Sebbene l’aereo di Stigler fosse danneggiato nel precedente combattimento, lui decollò per abbattere il bombardiere americano.

Comunque, appena si avvicinò allo “zoppicante” aereo, poté vedere quanto fosse malamente danneggiato. Più tardi disse di non aver mai visto un aereo più danneggiato di questo che continuasse ancora a volare. Attraverso gli squarci della fusoliera poteva vedere il mitragliere di coda morto e altri membri dell’equipaggio feriti.

Il comandante del JG27 aveva detto ai suoi piloti di non sparare mai ad un nemico che scende con il paracadute. Anche se l’equipaggio di Ye Old Pub non si era lanciato, non era comunque più capace di combattere e Stigler decise che non avrebbe potuto attaccarli.

Piuttosto, si affiancò per dire a Brown di tentare un atterraggio di fortuna. Stigler più tardi disse di non aver fatto quei segnali perché voleva che Brown si arrendesse, semplicemente non riusciva ad immaginare che un un aereo così crivellato potesse farcela a raggiungere l’Inghilterra.

Quando Brown rifiutò, Stigler prese una straordinaria decisione. Invece di abbatterlo, volò in formazione con il B-17, sperando che questo potesse evitare che le batterie della costa aprissero il fuoco (per timore di colpire il loro caccia). Volò con il bombardiere ben al largo, sul Mare del Nord, finché fu completamente fuori dallo spazio aereo della Germania e solo allora lo lasciò continuare verso l’Inghilterra.

Stigler non raccontò a nessuno quanto era successo – aver risparmiato un bombardiere americano avrebbe comportato una punizione e perfino una condanna a morte, ma spesso si domandava se questo ce l’avesse fatta a raggiungere la sua base. Stigler continuò a pilotare caccia per tutta la durata della guerra. Nel 1953 emigrò dalla Germania al Canada dove cominciò un’attività di successo.

Quando fu contattato da Charlie Brown nel 1990, Stigler confermò ogni aspetto della sua storia. Franz Stigler e Charlie Brown erano stupiti di scoprire che  avevano vissuto a meno di duecentocinquanta miglia di distanza l’uno dall’altro per molto tempo dopo la guerra – Stigler si era sistemato a Vancouver, British Columbia, mentre Brown viveva a Seattle, nello stato di Washington.

I due uomini divennero amici stretti per il resto della loro vita, spesso facendosi visita e parlando con altri aviatori delle loro esperienze reciproche. Nel 2008 morirono a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro.

Ci sono molte storie di coraggio e di eroismo nella Seconda Guerra Mondiale. Comunque, come per la storia di Franz Stigler e Charlie Brown, a volte perfino in guerra e nelle peggiori circostanze, alcune persone possono ancora trovare dentro se stesse non soltanto coraggio, ma anche onore, compassione e umanità.




Traduzione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),





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Il giorno dell'aquila

Dove il tempo non era mai stato

La guerra nell'aria

Il pilota di ferro

Il padrone del cielo

L'U-2

I falchi del deserto

PASSIONE e i sogni diventano realtà

L'ultimo volo

Falco F8L

No dream is too high

Flying to the moon

Mission to Mars

Neil Armstrong - The success of Apollo 11 and the first man on the moon

The last man on the moon

Magnificient desolation

Return to Earth

La naissance d'un pilote

L'idea meravigliosa di Francesco Baracca

Amore per l’aria

Dear Bert. An American Pilot flying in World War I Italy

Capronis Farmans and Sias

I Foggiani

Ali di fantasia

La lunga notte delle aquile

Il volo dell'incursore

Forever young

Falling to Earth

Una donna può tutto

Ustica, i fatti e le fake news

Il Gruppo Buscaglia

Ustica, i fatti e le fake news

Di questo sono fatti gli aerei

Astronaut Oral Histories

Una vita per l'aviazione

The astronaut wives club

Le oche delle nevi

Carrying the fire

The right stuff - La stoffa giusta

An autobiography - Una vita in cielo

To fly and fight - memoirs of a triple ace

Emozioni in volo

Tempest pilot

Regia aeronautica - Raid e missioni speciali

Gun button to fire: A Hurricane Pilot Story of the Battle of Britain

Silver spitfire

The Great Rat Race For Europe - La grande corsa della conquista per l'Europa

Rise Against EagleS

FRANZ STIGLER E CHARLIE BROWN

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Manuale pratico per la licenza di P.P.

Come un sottile strato di nubi

Ero Amelia Earhart

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Vita da Cacciabombardiere

Deci 83-86. I Ricordi di "Tiro 0"

In un cielo di guai

Donne con le ali

Storia di un pilota. Dal funerale di Alitalia alla fuga dal Qatar" e "Storia di un pilota 2 - Dalle low cost alla conquista dell'Est

In un cielo di guai - bis

Ali diplomatiche. In Svezia con le cordelline

Caduta libera

Ali in valigia

Il destino degli altri. Un giallo nel mondo dell'aviazione civile

In un cielo di Guai - ter

Carrying the fire, Il mio viaggio verso la Luna

Forever Flying

Il diritto di contare

Avevo tredici anni ... e altri racconti

Il senso di Smilla per la neve

blanikNo, tranquilli! Siete ancora su VOCI DI HANGAR e il testo che state per leggere, benché il titolo evochi tutt’altro, è squisitamente a carattere aeronautico.

Sì, certo – direte voi – ma che c’azzecca un romanzo/film degli anni ’90 che ha per tema la neve con il mondo rumoroso degli aeroporti, dei piloti e delle macchine volanti? C’azzecca, c’azzeca … continuate a leggere!

Nell’ampio panorama delle discipline aeronautiche, il Volo a Vela è sicuramente tra le più singolari e dunque tra le più difficile da spiegare ad un profano. Se qualche curioso, il tipico “uomo della strada” o il classico bambino nell’età dei “perché” vi chiedesse cos’è il Volo a Vela, come si pratica, a cosa è utile e quali sono le peculiarità del volo in aliante … beh, non disperate: fornitegli il breve testo redatto da Evandro Detti e sarete certi di fare un figurone!

Ebbene sì: fornendo prova di una mirabile capacità sintesi e di una invidiabile dote di esemplificazione, il buon Evandro ci concede una nota informativa esaustiva ma non asettica che farebbe invidia a Wikipedia.

Per raggiungere lo scopo, il satanasso, ricorre a un geniale parallelismo proprio con la neve e con il libro/film di cui ripropone il titolo a mo’ di specchietto per le allodole.

D’altra parte il nostro Piero Angela del mondo aeronautico non è nuovo a simili imprese giacché, lo ricordiamo, a lui dobbiamo: il volume “Zingari del cielo“, il “Manuale di pilotaggio dell’aliante veleggiatore”, una serie di racconti dall’alto contenuto didattico (come “Tre ragazzini e un aereo“), e addirittura una romanzo (Avventure in punta di ali”, editore Logisma) che, sotto le celate spoglie di una favola, può considerarsi a tutti gli effetti un giocoso manuale di volo per bambini e non. Senza dimenticare, naturalmente, il volume a carattere giornalistico che ricostruisce e racconta le vicende di una figura di notevole spessore come quella del Comandante Cesare Carra (“Cesare Carra – Una vita troppo breve dedicata al volo“)

Che il nostro Evandro fosse incline al saggonto (il misto tra un saggio e un racconto) ne eravamo al corrente e gliene siamo grati … ma mai come in questa occasione, perché ci concede la possibilità di spiegare e di far capire l’universo Volo a Vela a chi non ha avuto la possibilità di leggere questo “pezzo” quando fu pubblicato anni fa in riviste specializzate oggi praticamente introvabili o collocato in un angolino sperduto nei meandri del world wide web.

Grazie Evandro! Grazie per il manifesto pubblicitario più indovinato del Volo a Vela.

Oh, naturalmente, sappiate che potremmo essere un pochino contrariati se, dopo aver letto l’articolo, vi sorgesse la voglia di uscire di casa e raggiungere una libreria/biblioteca anziché un aeroporto dove si pratica il volo in aliante. Non era quello lo scopo del saggonto! Certo, potrebbe costituire invece un parziale successo se, raggiunta la libreria/biblioteca, vi procuraste uno dei libri di Evandro. E comunque, anche qualora la vostra preferenza dovesse cadere sul libro di Peter Hoeg, “Il senso di Smilla per la neve” … beh, non ve ne vorremmo più di tanto. Perché la cultura è cultura, anche se non necessariamente aeronautica.


Pezzo giornalistico / Medio-breve

Edito