Sono rimasto sorpreso nel vedermi capitare fra le mani un ennesimo libro sul tragico epilogo del volo del DC9 Itavia che precipitò in mare dalle parti dell’isola di Ustica nel 1980. Avevo letto diversi libri sull’argomento. Ognuno prendeva in esame la notevole mole di elementi relativi, non solo al volo, ma anche a tutta la situazione politica internazionale di quel momento. Ognuno cercava di formulare delle ipotesi plausibili, ma nessuno riusciva a mettere esattamente a fuoco la vera causa del disastro. Ogni libro indicava una delle cause possibili come quella più probabile e utilizzava gli elementi disponibili in modo da poterla sostenere. E le cause possibili erano già diverse sin dall’inizio.
Si pensava ad una guerra aerea avvenuta nel mediterraneo, con caccia di diverse nazionalità che inseguivano un caccia libico, un MIG 23, che si era messo in formazione sotto l’aereo civile dell’Itavia per non farsi vedere dai radar. Il suo scopo era quello di attraversare abusivamente lo spazio aereo italiano e raggiungere la Libia, proveniente dalle officine aeronautiche che avevano sede nella Yugoslavia.
Giusto per ricostruire la dinamica di quanto avvenne … che è anche quello che tentato di fare, in particolare, uno degli autori,Francesco Farinelli. Egli è dottore di ricerca in storia. Ha iniziato a occuparsi del caso Ustica nel 2010, durante le ricerche per la sua tesi di dottorato presso l’Università di Bologna dal titolo: “La drammatizzazione della storia”. È autore di articoli e saggi in tema di radicalizzazione e terrorismo. Lavora come direttore di ricerca per la European Foundation for Democracy di Bruxelles ed è membro del pool di esperti RAN, Radicalisation Awareness Network, istituito dalla Commissione europea.
Una cosa possibile. Ma sommersa da una gran mole di dichiarazioni e smentite che, di fatto, lasciavano tutto allo stato, appunto, di ipotesi.
Si pensava ad una bomba a bordo, ma anche questa possibilità aveva sostenitori e oppositori, che usavano gli stessi elementi per sostenerla o negarla. Potenza della dialettica…
Qualcuno aveva messo in evidenza le condizioni economiche della società Itavia. Gli aerei non ricevevano le dovute manutenzioni e proprio quel DC9, in un precedente volo, aveva manifestato problemi di forti vibrazioni. Le vibrazioni, per una macchina che vola, sono una cosa deleteria, specie se superano certi valori e persistono a lungo. Ma è anche vero che la robustezza di un aereo di linea è notevole. Difficile che si possa smantellare in volo come se fosse esploso.
Qualcun altro aveva ipotizzato che il Mig 23 potesse aver superato il DC9 per sfuggire ai caccia nemici, coinvolgendolo così nella propria turbolenza di scia, notoriamente temibile. Ma per quanto temibile, la turbolenza di un aereo non potrebbe certamente smembrare un liner. Altrimenti che ne sarebbe di qualunque aereo passeggeri in caso di attraversamento di uno spazio aereo interessato da condizioni di turbolenza in aria chiara (C.A.T. che sta per Clear Air Turbolence), la peggiore esistente?
Il volume intitolato: “USTICA, I FATTI E LE FAKE NEWS – Cronaca di una storia italiana fra Prima e Seconda Repubblica” si aggiunge alla chilometrica lista di libri (nonché film, inchieste giornalistiche televisive e addirittura canzoni) dedicate alla strage di Ustica. I-TIGI, queste le marche del DC-9 Itavia, al momento della sua disintegrazione, volava a circa 7000 m di quota e a una velocità di crociera di 800 km/h. Nell’incidente morirono tutti gli 81 occupanti dell’aeromobile, tra passeggeri ed equipaggio. La foto ritrae la parte frontale del velivolo così come lo ha visto, seppure attraverso l’occhio digitale di una fotocamera, Christian Boltanski che ha visitato, a Bologna, il 27/06/2007 il sito ove è stato traferito al termine della lunghissima inchiesta della magistratura. Ricorreva il 27mo anniversario della strage e il museo veniva aperto al pubblico per l’inaugurazione, presenti il sindaco Sergio Cofferati, il ministro Giovanna Melandri e la senatrice Daria Bonfietti.
Per ognuna di queste ipotesi esistevano forti indizi nella situazione di quel periodo. Si poteva sostenere tutto e il contrario di tutto.
L’ipotesi della bomba a bordo era stata subito fatta, ma era stata anche accantonata, per lasciare il posto ad ipotesi più evidenti, forse, oppure più convenienti, o solo più “suggestive”. E le fazioni politiche che avevano interesse a far prevalere una teoria piuttosto che un’altra si diedero subito da fare.
Il velivolo dell’Itavia si disintegrò e cadde in un braccio di mare del Tirreno meridionale compreso tra le isole di Ponza e Ustica a circa una sessantina di kilometri in linea d’aria dalle coste siciliane. In quel tratto la profondità del Tirreno supera i 3000 metri e questo costituì per anni il notevole impedimento per il recupero dei rottami del velivolo. Ci si mise di mezzo anche una sedicente società di recupero francese in odore di essere gestita dai servizi segreti francesi: l’ennesimo depistaggio, l’ennesimo tentativo di insabbiare quanto accadde.
Sin dall’inizio la faccenda divenne un guazzabuglio infernale, di proporzioni sempre maggiori.
Nel libro tutte queste teorie sono ben presenti e analizzate, messe in luce sotto diversi punti di vista.
In questo nuovo libro ho ritrovato gran parte delle cose che già sapevo, per aver letto gli altri libri e per motivi personali.
I motivi personali riguardano il fatto che nel 1980 avevo appena lasciato l’Aeronautica Militare. Ero fuori, facevo un altro lavoro, ma ero rimasto sempre nell’ambito aeronautico e, ovviamente, conoscevo tante persone, molti controllori del traffico aereo, compresi alcuni di quelli coinvolti, in modi diversi, in questo fatto. Alcun di loro frequentavano la mia famiglia e quindi ero stato davvero a contatto con la vicenda.
L’articolo con cui il quotidiano di Roma annunciava quella che poi fu definita una strage. L’indagine lunghissima e travagliatissima riempì i quotidiani e i telegiornali per molti anni a seguire, per non parlare di reportage giornalistici più o meno sensazionalistici che periodicamente apparirono in tv. Per i ragazzi nati nel nuovo secolo è però solo un eco lontano di qualcosa di torbido mai chiarito ancora oggi, una delle tante pagine oscure della storia italiana recente.
Però nessuna di queste persone ha mai detto di conoscere la causa del disastro. Nessuno sapeva davvero cosa fosse successo. Anzi, proprio loro avrebbero voluto ardentemente saperlo.
Ognuno conosceva la propria piccola parte.
Si era perso un aereo. Era scomparso dai radar. Erano state avviate le procedure di ricerca previste in questi casi. Di più non si sapeva.
Nei giorni successivi tutti noi cercavamo sulle pagine dei quotidiani gli sviluppi delle ricerche, in attesa di conoscere la verità.
Quella che ancora oggi manca all’appello.
Non senza difficoltà, dopo che il 96% dei rottami del velivolo erano stati recuperati e riassemblati in un simulacro presso un hangar dell’aeroporto militare di Pratica di Mare; una volta terminate le inchieste e le indagini tecnico-scientifiche, nel 2006 il velivolo fu trasferito e sistemato, grazie al contributo dei Vigili del Fuoco di Roma, nel Museo della Memoria di Ustica, approntato appositamente a Bologna, la città da cui il velivolo era decollato. Questa foto ritrae proprio quel luogo.
Diciamo subito che in questo libro la verità non viene rivelata. E, per ammissione degli stessi autori, non è questo lo scopo che si erano prefissi nello scriverlo.
Il loro intento è contenuto nelle ultime tre righe della presentazione della quarta di copertina: “Questo libro vuole ripercorrere quanto accaduto dal 1980 a oggi separando i fatti dalle false notizie. Perché non può esistere alcuna verità laddove il verosimile viene confuso con il vero e le opinioni tradiscono le fonti documentali della storia”.
Ho letto tutto il contenuto con grande interesse e posso dire che lo scopo di separare i fatti dalle false notizie, quelle che oggi si chiamano “fake news”, è stato raggiunto. Gli autori hanno sistematicamente preso in esame ogni singolo elemento, spiegandolo con la perizia che soltanto uno storico e un pilota sperimentale, uniti nel compito, possono fare. Hanno separato i fatti dalle chiacchiere di corridoio, che nel corso degli anni avevano assunto il rango di fatti inconfutabili, ad opera dei media e della loro autorevolezza. Hanno indicato, dove possibile, quali interessi politici avevano sostenuto le varie tesi, anche quando queste erano perfino assurde.
Il velivolo Douglas DC-9 della compagnia aerea italiana Itavia, identificato come volo IH870, era decollato dall’aeroporto di Bologna – Borgo Panigale e stava volando all’interno dell’aerovia denominata “Ambra 13” diretto all’aeroporto palermitano di Punta Raisi; perse il contatto radio con il controllo del traffico aereo sito sull’aeroporto di Roma-Ciampino, responsabile in quel settore e scomparve anche dagli schermi radar degli operatori dei centri radar Poggio Ballone, Grosseto, Ciampino e Licola che ne potevano osservarne la condotta di volo.
Hanno addirittura messo in luce l’opera dei cosiddetti periti, che veri periti non erano, ma che hanno prodotto documenti autorevoli, usati in tempi successivi come riferimento per ulteriori “analisi”.
Ci sono volute tutte le 368 pagine del libro per passare in rassegna la gran quantità di fango che si era accumulato nel corso dei decenni.
Gli autori sembrano orientati verso una delle ipotesi, quella della bomba a bordo. Anche se si sa chi potrebbe aver avuto interesse a compiere una cosa del genere, si sapeva anche all’epoca, nessuno ha mai rivendicato nulla e con gli elementi disponibili non si può provare veramente alcunché.
Tutte le ipotesi restano ancora aperte e lo resteranno finché qualcosa di nuovo, di risolutivo, non verrà fuori.
Non so se l’ipotesi della bomba sia quella giusta oppure no. Come ripeto, ad oggi la verità è ancora celata chissà dove. Non so nemmeno se verrà mai fuori.
Però, per chi fosse interessato a vedere un po’ più chiaramente i fatti, ben separati dalle fake news, questo libro è indispensabile.
Dopo, ognuno si potrà fare la propria idea personale.
Recensione a cura di Evandro A. Detti (Brutus Flyer).
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: Il Gruppo Buscaglia e gli aerosiluranti italiani
autore: Martino Aichner – Giorgio Evangelisti
editore: Longanesi & Co
anno di pubblicazione: 1967
ISBN: non disponibile
Questo libro va ai giovani italiani di oggi e di domani, perché sappiano che tra noi giovani di ieri vi fu chi operò in guerra con capacità e serietà.
Un manipolo di questi giovani che, certamente, ha ben meritato della patria, costituiva il gruppo autonomo aerosiluranti Carlo Emanuele Buscaglia.
I fatti narrati sono veri e documentati, i caratteri dei protagonisti, messi a fuoco dalle lente di venticinque anni, sono veri: l’insieme rappresenta le illusioni e le delusioni di questo gruppo di uomini
Il Gruppo Buscaglia riunito davanti al S79 Sparviero per la foto di rito che è rimasta nella storia dell’aviazione
Si avvia con questa breve premessa il libro scritto a quattro mani da Martino Aichner e Giorgio Evangelisti dedicato ad uno dei più gloriosi reparti della Regia Aeronautica. Un reparto – strano a dirsi – non da caccia ma che, al pari di quelli ben più blasonati da caccia, si distinse nel corso della II Guerra Mondiale per audacia e senso del dovere anche e soprattutto per merito del suo ufficiale al comando, Carlo Emanuele Buscaglia, appunto, riconosciuto a tutti gli effetti come uno dei più grandi assi italiani nella storia dell’Arma Azzurra.
In verità, sebbene il titolo intenda abbracciare la storia degli aerosiluranti italiani, è innegabile che il protagonista assoluto di questo volume di 236 pagine (in formato pocket) sia proprio il suo comandante.
Giorgio Evangelisti così sintetizza la figura di Buscaglia e, in definitiva, il contenuto del volume:
La retrocopertina del volume in formato “tascabile”o, usando una termine anglofono ormai di uso corrente, “pocket” che fu la fortuna della casa editrice Longanesi. Sebbene la copia del libro in nostro possesso risalga al 1972, sappiamo per certo che la prima edizione fu pubblicata attorno alla fine del 1967: lo testimonia la breve prefazione a cura dell’allora Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana, al secolo Aldo Remondino, che costituisce un valore aggiunto al volume. Completano la narrazione: un bel trittico di un S79 Sparviero nonché una tabella che pone a confronto le caratteristiche principali di tutti i velivoli aerosiluranti utilizzati dai belligeranti della II Guerra Mondiale.
Il primo aprile 1942 assunse il comando del 132° gruppo autonomo aerosiluranti. Aveva soltanto 26 anni, era capitano, aveva vissuto mille avventure, si era coperto di gloria e aveva ricevuto numerose ricompense al valore; per la regia aeronautica egli rappresentava non soltanto un esempio di virtù militare da imitare, ma addirittura un simbolo, una bandiera da seguire: Il reparto di nuova formazione che venne posto ai suoi ordini era costituito dalla 278° squadriglia aerosiluranti (quella dei quattro gatti) e dalla 281° che sotto il suo comando aveva già operato con tanto successo nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale. Di queste due gloriose squadriglie Buscaglia, con le sue innate doti di comando, seppe fare un tutto omogeneo, un’arma formidabile che si impose all’ammirazione e al rispetto del nemico.
Di questo reparto in particolare, tratta questo libro.
La copertina interna del libro. Di questo volume esistono diverse edizioni, pocket e in brossura, con diverse foto di copertina, edite dall’editore Longanesi e nel 2008 da Mursia. Dunque non vi sarà difficile recuperarne una copia. Sì, perché questo è uno di quei libri che non può mancare nella libreria di un appassionato di storia dell’aviazione italiana, al di là degli orientamenti o delle simpatie politiche. E’ semplicemene un libro di storia, storia vissuta e raccontata in prima persona – almeno a nostro parere – con obiettività e senza alcuna enfasi.
L’immagine più vivida o, se preferite, la descrizione più attendibile di Buscaglia, ce la rende però l’altro autore, Martino Aichner, che, nato a Trento, classe 1918, fu scelto dallo stesso asso quale suo aiutante maggiore e dunque partecipò attivamente a tutte le operazioni del gruppo, sempre a stretto contatto del suo pilota più carismatico, quel Buscaglia assurto agli onori della propaganda fascista per aver dato prova – indubbiamente – di ardore guerresco ma anche di perizia tecnica e acume tattico.
Così infatti ne tratteggia la figura la medaglia d’oro al valor militare Martino Aichner:
Era l’asso degli aerosiluranti italiani e probabilmente anche di tutti i belligeranti, con 26 azioni di siluramento; 26 volte nel fuoco di sbarramento e sempre sotto, con un’onestà di condotta che poteva risalire soltanto a fanatismo o a senso del dovere senza limiti. E io posso testimoniare che Buscaglia non era un fanatico.
Il fotoritratto di Carlo Emanuele Buscaglia
Nelle prime pagine del libro è presente un sedicente ritratto fotografico dell’asso italiano ma lo riteniamo di pessima fattura, praticamente inguardabile. Fortunatamente nel web sono disponibili alcune istantanee che ci hanno consegnato la vera immagine di Buscaglia, tuttavia ci piace osservarlo attraverso gli occhi di Aichner che così lo descrive:
Nato a Novara, nel 1915, Carlo Emanuele Buscaglia aveva allora 26 anni. Era un giovane alto, robusto, dal viso regolare con una leggera fossa nel mento, uno sguardo tagliente che aggrediva l’interlocutore con una espressione decisa e più vecchia della sua giovane età. […]
A questo punto verrebbe da pensare che l’autore del libro fosse letteralmente affascinato dal suo comandante, che addirittura lo idolatrasse nonostante egli non fosse un carattere propriamente facile; è pur vero che Aichner scrisse questo libro a distanza di ben venticinque anni dagli eventi narrati e dunque con sufficiente freddezza e – immaginiamo – adeguata obiettività. In effetti, questo è quanto ci confida l’autore circa il suo ufficiale superiore:
Si son dette tante cose sul carattere di Buscaglia, e poiché egli fu elevato a simbolo del combattente alato italiano della seconda guerra mondiale, come lo era stato Baracca nella prima, evidentemente su di lui si sono puntati maggiormente gli sguardi e gli strali della critica. Era certamente un uomo normale, con i difetti di ogni creatura. L’elemento del carattere che lo faceva superiore a qualsiasi altro era l’incredibile forza di volontà dimostrata in ogni occasione.
La Medaglia d’oro al valor militare fu attribuita a Martino Aichner, qui ritratto in una rara fotografia dell’epoca della guerra, con la seguente motivazione: “Partecipava, quale capo equipaggio di apparecchio aerosilurante, alla luminosa vittoria dell’Ala d’Italia nei giorni 14 e 15 giugno 1942 nel Mediterraneo. Incurante della violenta reazione contraerea che gli danneggiava gravemente l’apparecchio, portava decisamente l’attacco ad un cacciatorpediniere nemico, che colpiva con grande precisione, affondandolo. Nuovamente colpito dalla reazione avversaria, ammarava con grande perizia, rendendo possibile il salvataggio del personale di bordo. Cielo del Mediterraneo, 14 – 15 giugno 1942”
D’altra parte – ci tiene a precisarlo Aichner nel corso della sua ricostruzione storica – il comandante Buscaglia partecipò a tutte le missioni operative del suo reparto, sempre al comando della sparuta manciata di uomini e di aerosiluranti impegnati nelle sortite diurne o notturne, sempre in testa, in prima fila con il suo velivolo, a capo del suo equipaggio. Espressa in questi termini può apparire un mero aspetto propagandistico o una manifestazione gratuita di vana gloria … ebbene lo stesso Aichner riporta con identica schiettezza che:
L’unica foto disponibile nel web che ritrae l’autore con al petto la sua medaglia. Gli fu conferita il 07/04/1988. Al momento dell’azione che gli valse la massima onorificenza militare, Martino Aichner aveva il grado di Sottotenente. Avete letto bene: 1988, giusto appunto qualche anno dopo aver affondato il cacciatorpediniere britannico Bedouin.
La media delle azioni di siluramento da cui si può tornare vivi è di tre
ossia dopo tre missione di volo operativo l’aerosilurante era destinato inesorabilmente ad essere abbattuto dal feroce fuoco contraereo o dalla caccia nemica. Sorte che – per inciso – sarà impietosa verso lo stesso autore e, neanche a dirlo, anche per il comandante Buscaglia. Ma delle loro vicissitudini avrete modo di leggere nel libro e dunque non anticiperemo altro.
Certo è che l’asso degli aerosiluranti fu davvero un ottimo comandante sebbene Aichner non ne esalti le doti di pilota se paragonato ad altri eccelsi “manici” in forza al reparto. Questo era l’uomo Buscaglia:
Il comandante si interessava di tutto: andava a assaggiare il rancio della truppa e dei sottufficiali, visitava ogni giorno le baracche degli alloggiamenti, gli ammalati in infermeria, l’officina dei siluristi. Controllava di persona la messa a punto dei siluri e dei motori e seguiva tutto come il capo di un’industria segue il proprio stabilimento.
L’S79 Sparviero, assieme a Carlo Emanuele Buscaglia, è il protagonista indiscusso di questo libro. Così ne parla Martino Aichner: ”Sembra incredibile; nell’ala destra c’è uno squarcio enorme e un alettone è quasi staccato, non riesco come abbia potuto navigare per oltre quattrocento chilometri in quelle condizioni […] certo questo bel velivolo è un formidabile incassatore, gli accarezzo il bordo dell’ala inconsciamente quasi per esprimere il mio riconoscimento per la sua bravura” Questa foto ritrae un S79 che, probabilmente colpito dalla contraerea o dalla caccia, è ammarato in acqua. Avendo l’ala costruita in legno, il velivolo era capace di galleggiare per diversi minuti, sufficienti all’equipaggio per mettersi in salvo. Sorte che, peraltro, capitò almeno due volte a Martino Aichner.
Buscaglia inoltre, nonostante le apparenze di “fegataccio” impavido, era uomo estremamente assennato e aveva un’elevatissima considerazione dei suoi uomini al punto che, lo riporta sempre l’autore, gli fece questa confidenza:
“Gli avieri” mi disse un giorno, ”hanno più bisogno di essere assistiti di noi ufficiali. Guai se un soldato non si sente protetto e difeso dal proprio ufficiale; le loro necessità e le loro esigenze sono più semplici, ma più urgenti delle nostre. E se un ufficiale non dà l’esempio nel momento del pericolo o della difficoltà, che cosa si può pretendere dal soldato?”
Nonostante questo, a distanza di tanti anni da quei giorni di guerra, oggettivamente, ci viene difficile pensare che il nostro comandante non fosse un esaltato o un invasato del regime fascista, al centro di una propaganda di cui era diventato simbolo e al contempo vittima, suo malgrado. L’autore invece, ci tiene a precisare che:
Buscaglia non fece mai segreto delle scarse simpatie per il fascismo. Egli aveva una viva ammirazione per Mussolini come uomo e come capo […] ma disprezzava, e lo diceva apertamente, tutte le bardature del regime, la pomposità, la retorica […]
Questa è la testimonianza che ci ha reso Aichner al netto di alcuni episodi illuminanti in cui il comandante non le mandò certo a dire ai suoi superiori incompetenti o prendendosi gioco del gerarca di turno. Perché, come ci rivela sempre l’autore a proposito di Buscaglia:
Il suo motto era il mazziniano: “Dio, patria e famiglia”. Nella completezza e nell’umiltà di questi tre simboli egli trovava l’ispirazione e la forza per la sua azione, portata avanti con tenacia e un coraggio difficilmente concepibili se non legati alla fede di un grande ideale.
Ovviamente anche gli altri ufficiali piloti membri del Gruppo autonomo non erano meno del suo fondatore e molti di loro, come lui, non giunsero vivi alla fine del conflitto. Tra loro ricordiamo in particolare Giulio Cesare Graziani e Carlo Faggioni solo per citarne alcuni. Ma di loro avremo occasione di parlare con il pretesto di recensire altri libri a loro dedicati o scritti addirittura di loro pugno.
Tornando a “Il Gruppo Buscaglia e gli aerosiluranti italiani”, occorre precisare che il libro è strutturato in tre sezioni nettamente distinte di cui la prima e l’ultima sono curate da Giorgio Evangelisti mentre quella centrale è appannaggio di Marino Aichner. Il primo si è preoccupato di fornire le necessarie premesse a proposito della storia degli aerosiluranti e su cosa accadde dopo il fatidico 8 settembre 1943, il secondo ha raccontato la sua vicenda personale che va dal suo arrivo al reparto aerosiluranti fino alla sua uscita a seguito del suo abbattimento con conseguenti ferite di guerra.
La lettura di questo libro è veloce e appassionante perché la prosa degli autori è fluida e assai piacevole. Quella di Evangelisti è tipica del giornalista che ha l’onere di collocare storicamente le vicende narrate dal suo compagno editoriale. D’altra parte era necessario creare un contesto, attribuire un contorno temporale con connotazioni tecniche alle attività del 132° Gruppo Autonomo Aerosiluranti e – dobbiamo ammetterlo – che lo scopo è raggiunto perché questa parte del volume, sebbene meno appassionante, è certamente utile alla comprensione di quanto accadde.
L’S 79 Sparviero, soprannominato “Gobbo maledetto” per via della gobba posta appena dietro la cabina di pilotaggio e resasi necessaria per alloggiare la mitragliatrice dorsale, era una macchina che aveva mietuto record di velocità e di distanza prima del conflitto ma la sua conversione in velivolo militare non fu altrettanto felice sebbene si dimostrò un ottima macchina che tenne botto durante tutto il conflitto. I cacciatori alleati ricordano che, nonostante fossero certi di averlo colpito in più punti, era un aeroplano che, inspiegabilmente, non riuscivano ad abbattere. La spiegazione la scoprirono dopo il conflitto: il velivolo aveva la fusoliera in tubi saldati ricoperta per lo più di tela e dunque le pallottole la attraversavano senza apparenti danni. In realtà gli equipaggi rimanevano pesantemento o mortalmente feriti e solo la loro tenacia e l’attaccamenteo alla vita li riportava spesso all’aeroporto di partenza. Quello ritratto è uno dei due esemplari recuperati in Libano. E’ stato restaurato proprio con le insegne della gloriosa 278° Squadriglia Aerosiluranti comandata da Carlo Emanuele Buscaglia ed è da molti anni uno dei velivoli più prestigiosi e splendidamente conservato nell’hangar Badoni del Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, sulle rive del Lagi di Bracciano, a pochi chilometri da Roma.
La prosa di Aichner, benché più evocativa, è decisamente articolata in quanto alterna stralci di racconto in prima persona a parti con discorso diretto inframezzate anche dal testo giornalistico stilato da terze persone. In altri termini, non è assolutamente una raccolta di memorie bensì un narrare con molti dialoghi, quasi fosse un romanzo. Probabilmente la parte più statica della narrazione è quella relativa alla corrispondenza con gli ufficiali britannici e con l’Ammiragliato britannico che gli convalidarono ufficialmente l’affondamento del cacciatorpediniere britannico Bedouin e che gli valsero la medaglia d’oro al valor militare. Nel 1988. In realtà una medaglia d’argento al valor militare gli era stata conferita per lo stesso episodio da Mussolini in persona in quanto che la Regia Marina italiana aveva reclamato per suoi meriti l’affondamento del naviglio da guerra in questione.
Tornando alla prosa di Aichner, occorre ammettere che è moderna e per nulla faziosa, non sembra neanche scritta da un autore che ha ricevuto un’istruzione classica durante gli anni ’30; egli era divenuto avvocato prima dello scoppio della guerra e, appassionato di volo, si era brevettato divenendo eroe per caso.
I siluri aerei erano il vero anello debole degli aerosiluranti italiani in quanto, spesso e volentieri, non andavano a segno benché gli equipaggi si impegnassero al massimo per colpire il naviglio avversario (principalmente cargo e, in secondo ordine, militare). Lanciare il siluro richiedeva un incommensurabile sangue freddo e il risultato era spesso vano. Anche il caricamento dei siluri era assai macchinoso, ricorda Aichner, in quanto, almeno all’inizio, non erano disponibili gli appositi carrelli per il sollevamento meccanico dei siluri pesanti circa mille chilogrammi. Ciò rendeva lungo e assai faticoso il munizionamento dei velivoli con grandi sacrifici da parte del personale tecnico, spesso costretto ad operare in condizioni climatiche estreme o con il rischio di subire attacchi da parte dei velivoli nemici.
Martino Aichner ci ha lasciato già alcuni anni orsono dopo che, tornato alla vita civile, fondò la Aersud elicotteri, azienda sussidiaria italiana della Aérospatiale francese. Sen non altro, egli ebbe il tempo di rivedere il suo SM 79 Sparviero, sebbene con la livrea dell’Aviazione Libanese, recuperato e restaurato all’interno del Museo Caproni di Trento. A imperitura memoria, la città di Trento ha onorato questo illustre cittadino con una strada che porta il suo nome. Con tanto di targa segnaletica che ricorda la sua medaglia d’oro al valor militare.
Di Giorgio Evangelisti non sapremmo dire granché tranne che la sua compartecipazione a questo volume è stato probabilmente uno dei suoi primi lavori editoriali, notevole prologo – non c’è che dire – di quella che poi si è sviluppata come una strepitosa carriera giornalistica.
Nel web non siamo riusciti a trovarne uno straccio di biografia, tuttavia sappiamo esserlo ancora in attività; ad oggi egli è autore di decina di volumi storico-aeronautico e dunque gli va riconosciuto di essere uno dei più prolifici e lodevoli divulgatori di storia dell’aviazione. Una sentito grazie da parte nostra e di tutti gli appassionati del settore.
In conclusione – la storia ce lo insegna – il Gruppo Buscaglia pagò un tributo elevatissimo in termini di uomini e mezzi come pure è certo che le azioni del reparto, benché spesso vanificate da guasti tecnici dei siluri (e forse anche da sabotaggi), furono dichiarate dall’ammiraglio Cunningham, comandante in capo della Marina britannica del Mediterraneo, una vera spina nel fianco degli Alleati, in particolare dei convogli che, da Gibilterra, rifornivano Malta e il Nord Africa. Dunque onore delle armi al quel gruppo di piloti che, come ricorda il sottotitolo della copertina, erano
i più spericolati: si gettavano negli sbarramenti micidiali della contraerea sino a sfiorare le navi nemiche per poterle affondare.
Il logo del Gruppo Buscaglia era estremamente evocativo dello stato del reparto: quattro gatti con la coda ritta e le unghie piantate su un siluro intenti a lanciarlo ancora tra le nuvole e in piena velocità. Era la sintesi fumettistica di un reparto che all’inizio era nato quasi per scommessa, composto da pochi piloti (quattro gatti, appunti e peraltro destinati a fare una brutta fine) che lanciavano il proprio ordigno trattenuto fino all’ultimo (con le unghie e con i denti) per metterlo a segno.
A distanza di più di settanta anni da quei giorni lontani, le gesta degli aerosilurantisti italiani si fanno sempre più sbiaditi; coloro che vissero quei giorni ci hanno ormai lasciato sotto l’inclemenza del tempo inesorabile mentre le generazioni attuali – a torto o a ragione – preferiscono curarsi più delle prodezze sportive del calciatore di turno o della diva al centro del chiacchiericcio effimero dell’universo digitale … ma tant’è. Grazie al cielo e – diciamolo pure – per merito di tanti uomini di buona volontà, è scoppiata la pace da molti anni ormai. Ciononostante il libro di Aichner/Evangelisti rimane lì, scolpito nelle pagine a perenne memoria di quanto accadde, a testimonianza dell’audacia e del senso dell’onore di uomini che sono d’esempio nei periodi storici – sempre più frequenti, è innegabile – in cui vengono meno i valori di amor patrio e di appartenenza alla comunità italiana tutta.
Vi dobbiamo confessare che chiudiamo la stesura di questa recensione mentre, per un caso assolutamente fortuito, scorrono in diretta, in televisione, le immagini della parata militare ai Fori Imperiali di Roma in occasione della giornata in cui si festeggia la Repubblica italiana. La lettura di questo volume era cominciato diversi giorni orsono ma è alla vista dei reparti in grande spolvero e soprattutto al passaggio delle Frecce Tricolore con la loro bandiera verde-bianca-rossa più lunga del mondo che ci sorge più forte il senso di orgoglio da una parte, e di riconoscenza dall’altra, nei confronti di chi ha sacrificato la propria esistenza per difendere l’onore della patria.
La recensione di questo libro dalle pagine ormai ingiallite è dunque il pretesto per consigliare una piacevole lettura ai visitatori del nostro hangar e al contempo – in tutta serenità – per mantenere vivida una pagina della nostra storia davvero memorabile.
Recensione a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Attenzione: Non esiste il Tag Autore Martino Aichner–Giorgio Evangelisti
E’ la prima volta che pubblichiamo una recensione che non è una recensione.
O forse è meglio dire: è la prima volta (da che è stato edificato il nostro hangar) che pubblichiamo la recensione di un libro (a tema aeronautico) che non abbiamo ancora letto ma di cui abbiamo ricevuto un comunicato stampa che ne anticipa contenuti e, ovviamente, le note biografiche degli autori. Ma, come si suol dire, “c’è sempre una prima volta”, tuttavia non mancheremo di rientrare nei ranghi della tradizione e, non appena saremo riusciti ad estorcere all’editore (previo pagamento, s’intende) una copia del volume, saremo puntuali a rendervene conto.
In effetti, come peraltro viene ammesso nel comunicato stampa:
Il volume intitolato: “USTICA, I FATTI E LE FAKE NEWS – Cronaca di una storia italiana fra Prima e Seconda Repubblica” si aggiunge alla chilometrica lista di libri (nonché film, inchieste giornalistiche televisive e addirittura canzoni) dedicate alla strage di Ustica. I-TIGI, queste le marche del DC-9 Itavia, al momento della sua disintegrazione, volava a circa 7000 m di quota e a una velocità di crociera di 800 km/h. Nell’incidente morirono tutti gli 81 occupanti dell’aeromobile, tra passeggeri ed equipaggio.
Sulle cause della strage di Ustica è stato detto tutto e il contrario di tutto. Missili, bombe, guerre aeree e perfino gli alieni. Ma qual è la verità?
I quesiti che si rincorrono sin dagli istanti immediatamente successivi alla scomparsa del DC-9 dell’Itavia dai cieli del Tirreno meridionale, in quel lontano 27 giugno 1980, sono numerosi e articolati.
Ancora ogggi, a distanza di tanti anni, in occasione dell’ennesima inchiesta giornalistica o dell’ennesimo libro ci chiediamo ciclicamente quale sia questa verità.
Il velivolo Douglas DC-9 della compagnia aerea italiana Itavia , identificato come volo IH870, era decollato dall’aeroporto di Bologna – Borgo Panigale e stava volando all’interno dell’aerovia denominata “Ambra 13” diretto all’aeroporto palermitano di Punta Raisi; perse il contatto radio con il controllo del traffico aereo sito sull’aeroporto di Roma-Ciampino, responsabile in quel settore e scomparve anche dagli schermi radar degli operatori dei centri radar Poggio Ballone, Grosseto, Ciampino e Licola che ne potevano osservarne la condotta di volo.
Quella scritta dal giudice istruttore Rosario Priore?
Quella descritta dai processi civili in tema di risarcimento danni?
Quella narrata da spettacoli e film?
O si tratta di fumo negli occhi?
Perché le sentenze penali seguite al rinvio a giudizio ordinato dal giudice Priore non hanno ricevuto la stessa attenzione mediatica delle altre?
Chi o cosa ha orientato, promosso o affondato, nel corso di una interminabile inchiesta, le priorità d’indagine e la pubblicizzazione delle stesse risultanze sul caso?
Ustica è davvero un mistero?
Riprendendo sempre il comunicato stampa relativo al libro, si comprende che:
Il velivolo dell’Itavia si disintegrò e cadde in un braccio di mare del Tirreno meridionale compreso tra le isole di Ponza e Ustica a circa una sessantina di kilometri in linea d’aria dalle coste siciliane. In quel tratto la profondità del Tirreno supera i 3000 metri e questo costituì per anni il notevole impedimento per il recupero dei rottami del velivolo.
Sono queste alcune delle domande alla base di Ustica, I fatti e le fake news. Cronaca di una storia italiana fra Prima e Seconda Repubblica (LoGisma editore).
Premesso che non abbiamo ancora avuto modo di leggere il volume, ebbene siamo certi che:
Franco Bonazzi e Francesco Farinelli ripercorrono in questo libro quanto accaduto dal 1980 a oggi separando i fatti dalle false notizie attraverso una doviziosa analisi delle fonti e dei documenti maturati in ambito politico, in quello giudiziario e in quello tecnico-scientifico.
Giusto per ricostruire la dinamica di quanto avvenne … che è anche quello che tentato di fare l’altro coautore Francesco Farinelli. Egli è dottore di ricerca in storia. Ha iniziato a occuparsi del caso Ustica nel 2010, durante le ricerche per la sua tesi di dottorato presso l’Università di Bologna dal titolo “La drammatizzazione della storia”. È autore di articoli e saggi in tema di radicalizzazione e terrorismo. Lavora come direttore di ricerca per la European Foundation for Democracy di Bruxelles ed è membro del pool di esperti RAN, Radicalisation Awareness Network, istituito dalla Commissione europea.
Di sicuro non invidiamo neanche un po’ gli autori giacchè si sono cimentati in:
Un lavoro arduo data la mole di prodotti efficacemente distribuiti dai media che hanno contribuito a stravolgere dati, interpretazioni e metodologie a favore di tesi ideologiche e politiche nel delicato passaggio tra Prima e Seconda Repubblica
Franco Bonazzi, coautore del volume, è stato pilota collaudatore in Aeronautica Militare e nell’industria aeronautica. Primo pilota italiano a volare con l’F-104, è stato membro, in qualità di responsabile italiano, del team incaricato dello sviluppo e qualificazione dell’F-104G. Durante la permanenza in aeronautica ha fatto parte di diverse commissioni d’inchiesta per incidenti aeronautici. Segue la vicenda di Ustica dagli anni ’80 e dal 2000 al 2004 ha fatto parte del Collegio di consulenti tecnici della difesa nel processo contro i generali dell’aeronautica, tenutosi presso la Terza Corte d’Assise di Roma. Questo è quanto egli ha esaminato nel corso di questi anni.
Un altro elemento certo è il seguente:
tra cittadini-detective, professionisti seriali del cosiddetto “fare memoria” e improvvisati Sherlock Holmes, la strage di Ustica è rimasta intrappolata all’interno di un uso pubblico e politico della storia che ha in effetti celato, più che mostrato, le conoscenze raggiunte.
L’articolo con cui il quotidiano di Roma annunciava quella che poi fu definita una strage.
E’ pur vero che si siamo di fronte ad una di quelle pagine oscure della storia recente (e ormai neanche tanto poi recente) della Repubblica Italiana. Non l’unico, purtroppo, ma uno di quelle che ha visto coinvolto un velivolo commerciale.
Un emblematico “caso italiano”, quello legato alla tragedia occorsa al DC-9 dell’Itavia, nel quale verità e pregiudizio si sono mescolati, nel tempo, ai toni tipici del melodramma dando vita alla narrazione di una “verità” legata più all’influenza emozionale che non alla ricerca scientifica.
Non senza difficoltà, dopo che il 96% dei rottami del velivolo erano stati recuperati e riassemblati in un simulacro presso un hangar dell’aeroporto militare di Pratica di Mare, una volta terminate le inchieste e le indagini tecnico scientifico, nel 2006 il velivolo fu trasferito e sistemato, grazie al contributo dei Vigili del Fuoco di Roma, nel Museo della Memoria di Ustica, approntato appositamente a Bologna, la città da cui il velivolo era decollato. Questa foto ritrae proprio quel luogo
A questo punto, testimoni in età infantile, ci viene da chiederci davvero se
Si tratta dunque di un lavoro necessario, quello di Bonazzi e Farinelli, dato che non può esistere alcuna verità laddove il “verosimile” viene confuso con il “vero” e le opinioni tradiscono le fonti documentali della storia.
A breve, come anticipato, la nostra opinione sul libro e dunque sull’intera vicenda “strage di Ustica”
Pre-recensione a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
editore: Ponte alle Grazie – Adriano Salani Editore
anno di pubblicazione: 2018
ISBN: 978-88-3331-024-4
“Quei maledetti piccoli aerei. Arrivano solo di notte, scendono silenziosi, lanciano il loro carico di fuoco e tornano rapidi fra le nuvole… Possibile siano donne? Così brave, abili, precise, incuranti del pericolo?
Arrivano la notte all’improvviso, seminano il terrore e poi toccano di nuovo il cielo.
Misteriose, sfuggenti, inafferrabili. Sembrano streghe. Nachthexen, streghe della notte”
E’ l’8 ottobre 1941 quando, in Unione Sovietica, con l’ordine numero 0099, vengono istituiti tre reggimenti di aviazione composti interamente da sole donne.
I tre reggimenti erano: il 586° caccia bombardieri con in dotazione gli YAK-1; il 587° bombardieri in picchiata con in dotazione i bimotori Petliakov-2; il 588° per i bombardamenti notturni con in dotazione i biplani Polikarpov Po-2.
Sarà proprio delle donne del 588° reggimento, che i tedeschi, con rispetto, soprannomineranno “Nachthexen” ovvero “streghe della notte“, che Ritanna Armeni ci parlerà, o meglio ci farà conoscere la loro storia raccogliendo la testimonianza di una Strega: Irina Rakobolskaja, vice comandante del 588° reggimento.
Il Polikarpov aereo in dotazione al 588° reggimento, che erroneamente nel libro viene definito come un bimotore (si può pensare che questa inesattezza provenga da un errore di traduzione dal russo all’italiano confondendo il significato di biplano con bimotore), è un biplano monomotore degli anni venti in legno, non è veloce con i suoi 120 km/h di velocità massima e non vola alto (tangenza operativa di soli 1000 metri).
Il Polikarpov Po-2 (nome in codice NATO Mule), inizialmente denominato Polikarpov U-2, era soprannominato dai piloti russi “Kerosinka” (traducibile in italiano con un pittoresco: “Lampada a cherosene”) per la sua tendenza ad incendiarsi. Fu un aeroplano di grande successo se consideriamo che fece il primo volo alla fine degli anni ’20 e terminò la sua attività alla fine degli anni ’60, utilizzato fino ad allora dall’Aviazione Bulgara. Ad oggi ce ne sono ancora molti in condizioni di volo e diversi altri nei vari musei dell’aria dei vari paesi ex filosovietici. Disegnato dal famoso progettista Nikolaj Nikolaevič Polikarpov, già incarnava lo spirito che ha poi sempre contraddistinto le costruzione aeronautiche sovietiche: semplicità e robustezza, Forse il Po-2 era fin troppo spartano e razionale con costi molto contenuti anche in termini di gestione e manutenzione. Come dire: la formula della longevità di un velivolo ben riuscito
Ma richiede una manutenzione minimale, è facilmente riparabile, non ha bisogno di aeroporti per decollare e atterrare: un qualunque campo appena pianeggiante va bene.
Un aeroplano apparentemente non adatto all’impiego in guerra e un gruppo di giovani donne apparentemente non adatte all’impiego in guerra, formeranno un connubio formidabile e una perfetta macchina da guerra.
Costruito in oltre 40 mila esemplari nelle più disparate versioni (terrestre, con sci, idrovolante, con cabina chiusa, aeroambulanza, lavoro agricolo oltre che addestratore e bombardiere) è un velivolo assai conosciuto dai pilotti di tutti le nazioni che furono sotto l’influenza sovietica, Corea del Nord compresa. In quei cieli se la vide con i jet statunitensi riuscendo a farla franca grazie alla bassa velocità e alla ottima manovrabilità. Solo i F4 Corsair, residui bellici della II Guerra Mondiale riuscivano ad averne ragione. Ebbe anche un impiego intensivo come aereo da trasporto passeggeri nelle tratte commerciali a corto raggio ma, di sicuro, conobbe il culmine della gloria quale velivolo in uso al 588° Reggimento tutto al femminile, proprio quello delle “Streghe della notte”
Il libro non contiene racconti dettagliati di missioni di guerra, nè troveremo foto, l’unica è quella di copertina una giovane “Strega” che abbraccia l’elica del suo Polikarpov, ma è una storia che inizia nel giugno del 1941 con il comunicato radio di Molotov:
“Alle 4 di questa mattina, senza alcuna dichiarazione di guerra e senza che prima sia stata fatta alcuna rimostranza all’Unione Sovietica, le truppe tedesche hanno attaccato lungo le nostre frontiere …”
Seguiremo questo gruppo di giovani donne, rivivremo le loro emozioni: gioia, dolore, delusione, amarezza, ma anche caparbietà, ostinazione e grandissima forza di volontà e la consapevolezza che potevano farcela.
Sono tutte volontarie, vogliono dare il loro contributo per la difesa della patria, ma soprattutto non vogliono sentirsi dire: “no”, solo perché sono donne. Il Socialismo aveva sancito la parità tra uomo e donna, e ora loro erano lì a pretendere di fare la loro parte.
Come nella migliore tradizione editoriale, ecco il risguardo interno del libro “Una donna può tutto” in cui viene sintetizzato il contenuto del volume
La prima battaglia che dovranno combattere e vincere è quella contro il pregiudizio, lo scetticismo e l’ironia che non verrà loro risparmiata.
Formeranno un gruppo eccezionale che porterà, nel 1943, al 588° reggimento il conferimento del titolo di “46° Reggimento della Guardia”, è un riconoscimento importante: le Streghe sono diventate “sentinelle della patria”.
La storia termina il 15 ottobre 1945, quando il 588°, divenuto 46° reggimento della Guardia, è sciolto. Vengono consegnati al museo dell’Armata Rossa i documenti di volo, la bandiera e gli oggetti che avevano riguardato il reggimento.
L’Unione Sovietica, unica nazione coinvolta nella II Guerra Mondiale ad impiegare le donne in combattimento lungo le linee del fronte, archivia così un esperienza, e con paternalismo rinvia le donne a casa affinché ora, in tempo di pace, riprendano il loro ruolo di mogli e madri all’interno delle famiglie dalle quali erano state per troppo tempo lontane.
Le Streghe hanno compiuto 23000 voli in 1100 notti di combattimento, 31 di loro sono morte in missione.
Sono donne che hanno affrontato da guerriere l’orrore della guerra, senza mai lasciarsi scoraggiare.
Una storia poco ricordata se non addirittura lasciata cadere volutamente nell’oblio nella stessa ex Unione Sovietica da una storia scritta al maschile. L’Unione Sovietica aveva coraggiosamente osato tanto. Le donne sovietiche avevano risposto con entusiasmo e hanno ben ripagato la fiducia in loro riposta.
La splendida pilota da caccia sovietica Lydia Litvyak ritratta davanti al suo bimotore Petlyakov Pe-2. Durante il II Conflitto mondiale divenne famosa per aver abbattuto ben 12 velivoli tedeschi nel corso di 66 missioni. Un vero asso della caccia. “Era una donna molto aggressiva ma anche un pilota eccezionale”, dichiarò il suo comandante Boris Eremin (in seguito tenente generale dell’aviazione), “Un pilota da caccia nato” soleva dire di lei l’ufficiale. L’attività operativa di Lydia ebbe inizio proprio in seno al 586° Reggimento ove si addestrò lungamente a bordo dello Yak-1 (foto Flickr.com)
Ma neanche il Socialismo sovietico riesce ad accettare quello che queste donne avevano dimostrato con i fatti: la loro capacità di affrontare, alla pari, gli stessi compiti affidati ai loro colleghi uomini. Non sono scese in piazza a gridare slogan, ma sono andate a combattere in guerra affianco ai reggimenti maschili.
Il loro successo sembra infastidire, quasi impaurire, i vertici politici di allora ma anche quelli successivi alla caduta dell’Unione Sovietica. Dare enfasi o semplicemente ricordare queste pagine di storia poteva forse far crescere nelle donne l’aspirazione a ruoli di rilevanza politica? Il fatto che le donne non si erano tirate indietro, non avevano chiesto di rinunciare a questo progetto ma erano arrivate sino alla fine, ha lasciato spiazzati tutti. Cos’altro avrebbero potuto chiedere e pretendere ancora?
In Italia il servizio militare femminile effettivo su base volontaria verrà introdotto solo nel 1999. Prima del 2000 l’impiego in guerra, delle donne, era limitato al solo Corpo delle infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana.
Un libro alla memoria delle Streghe che furono. Di riflessione per le Streghe che sono e che saranno.
Recensione a cura di Franca Vorano.
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: Falling to Earth – an Apollo 15 astronaut’s journey [Cadendo sulla Terra – un viaggio dell’astronauta dell’Apollo 15 ]
autore: Al Worden with Francis Franch
editore: Smithsonian Books – Washington
(2011, edizione digitale, prima edizione)
eISBN: 978-1-58834-310-9
Questo è davvero un libro speciale.
Tutti i libri possono esserlo, ma alcuni sono più speciali di altri. Già l’argomento, le missioni spaziali, le prime in assoluto da quando esiste l’essere umano sulla Terra, è di un interesse travolgente. Queste missioni si sono svolte in un periodo di pochi decenni. Un tempo insignificante, se messo in confronto con i millenni che l’umanità aveva già alle spalle. E considerato anche che la conquista dell’aria, cominciata si nel 1800, ma realmente perfezionata solo nei primi anni del 1900, aveva avuto anche questa uno sviluppo esponenziale che ha del prodigioso.
L’astronauta James B. Irwin, pilota del modulo lunare denominato “Falcon” porge il saluto militare all’obiettivo della fotocamera posta tra le mani del suo collega David R. Scott, comandante della missione. Sullo sfondo, immancabile, la bandiera statunitense e il Lunar Roving Vehicle (LRV). Quella dell’Apollo 15 fu una missione del tutto militare in quanto che tutti e tre i suoi membri erano ufficiali piloti dell’USAF (Unites States Air Force)
Nessuno si sarebbe mai immaginato di poter camminare sul suolo lunare così presto.
Sulla scia della rivalità e della competizione con l’Unione Sovietica, il presidente Kennedy aveva promesso di portare l’Uomo sulla Luna prima della fine del decennio. Erano gli anni sessanta.
Per mantenere la promessa, gli Stati Uniti avevano posto in atto uno sforzo immenso, sia dal punto di vista tecnologico che economico. E anche di risorse umane. Gli equipaggi erano stati selezionati tra i migliori piloti del momento, quasi tutti piloti sperimentali, super qualificati e provenienti da tutte le aviazioni, sia dell’Aeronautica che dell’Esercito, della Marina e dei Marines.
L’unico segno di italianità lasciato nell’ambito della missione Apollo 15 è costituito dal logo di missione realizzato a cura dello stilista (nonché ingegnere aeronautico) Emilio Pucci, a cui venne commissionato direttamente dagli ingegneri della NASA. Nell’idea di base del suo ideatore, egli immaginò di far volare tre uccelli (forse rondini) stilizzati sulla superficie lunare con i colori della bandiera statunitense. Probabilmente il numero tre era legato al numero tre dei membri dell’equipaggio ma, sappiamo che, purtroppo, uno dei tre orbitò abbastanza lontano dalla superficie terrestre mentre solo i due pù fortunati misero davvero piede sulla superficie della Luna.
Lo spazio, però, è un ambiente diverso rispetto all’atmosfera. Dal 1969, l’anno del primo allunaggio ad opera dell’Apollo 11, fino al 1972, anno dell’ultimo allunaggio portato a termine dall’Apollo 17, possiamo contare tre meri anni durante i quali 12 uomini hanno passeggiato sulla Luna e sei sono rimasti ad orbitare velocemente sopra di loro, soli a bordo e con una miriade di compiti da svolgere.
Poi tutto è finito. Le missioni Apollo hanno lasciato il posto all’epoca dello Shuttle, alla costruzione delle stazioni spaziali, una russa (la MIR) e una americana, ma più che altro internazionale, la I.S.S. (International Space Station).
Immortalati dell’occhio della fotocamera uffciale della NASA, ecco tutti i protagonisti della missione Apollo 15: l’equipaggio, il Modulo Lunare e il Rover.
Solo in questo periodo, un paio di decenni dopo il 2000, si sente di nuovo parlare di ritorno nello spazio profondo, lontano dall’orbita terrestre, addirittura si parla di Marte e di alcuni asteroidi lontani.
Il libro di cui parliamo riguarda la vita di uno dei membri dell’equipaggio dell’Apollo 15. E precisamente di colui che non era destinato a scendere sul suolo lunare, ma a restare in orbita, solo e con tantissime cose da fare.
E già qui la storia comincia a farsi interessante. Perché Alfred Worden è un tipo speciale e tutta la sua storia lo è, a cominciare dalla sua infanzia fino ai giorni nostri.
Ha scritto solo questo libro, ma che libro!
Le prime pagine cominciano con la prefazione del Capitano Dick Gordon, astronauta e pilota della Gemini 11, poi pilota del modulo di comando dell’Apollo 12 (anche lui destinato ad orbitare la luna senza scendere al suolo) e poi comandante di riserva dell’Apollo 15. Ogni equipaggio in addestramento per una missione aveva un altro equipaggio che si addestrava in parallelo ed ogni membro di backup era immediatamente pronto e disponibile a sostituire il titolare per qualunque ragione che gli avesse impedito di partire, fosse pure un banale raffreddore.
Ecco la famosa fotografia che immortala Alfred Worden mentre fluttua nello spazio, appena fuori il modulo di comando dell’Apollo 15, intento a recuperare la pellicola della fotocamera panoramica e a verificare l’esito gli otto esperimenti scientifici effettuati durante le orbite del Modulo di Comando
Poiché una recensione è essenzialmente una presentazione, destinata a chi, venuto a conoscenza dell’esistenza di un libro, vorrebbe conoscerne il tipo di contenuto per decidere se leggerlo o meno, non esito a consigliare chiunque abbia un Kobo a comprare “Falling to Earth” subito e cominciare a leggerlo. E’ in inglese. Purtroppo non esiste, per quanto ne so, la versione italiana. Ma di questo problema ho già parlato nelle altre recensioni, qui su VOCI DI HANGAR.
Per chi ha letto le mie precedenti recensioni di libri sullo stesso argomento e scritti da altri astronauti, diciamo subito che anche questo traccia un po’ la vita dell’autore, dall’infanzia fino alle scuole iniziali, al periodo dell’Accademia militare, in questo caso West Point (forse la più prestigiosa), fino ad arrivare alla scuola di volo.
Worden opta per l’Air Force. Molti suoi colleghi vennero arruolati invece dalla Navy, la Marina americana. Altri scelsero i Marines.
Alcuni, molti, finirono a combattere in Vietnam.
Erano molti i reparti di volo dove tutti questi piloti prestavano servizio e dove furono raggiunti dalla notizia che la NASA, l’ente spaziale americano, ricercava piloti da avviare alla carriera di astronauti. Anche se, all’inizio, li cercava solo nei reparti sperimentali di volo.
Per i detrattori delle missioni spaziali o per i complottisti che, ancora oggi, sostengono che le missioni lunari furono tutta una montatura della NASA, ecco una foto panoramica che attesta il gran movimento di uomini e mezzo nell’area di allunaggio del modulo Lunare dell’Apollo 15. E’ facile distinguere le tracce dell’automobile lunare e le orme degli astronauti sulla superficie .
Infatti, tutti i primi neo-astronauti, tranne qualche eccezione come Buzz Aldrin, erano test-pilots, i piloti sperimentali, il meglio in assoluto per esperienza e capacità. In altre parole i più indicati per entrare a far parte di un settore nuovo come l’astronautica, dove ogni cosa sarebbe stata essenzialmente sperimentale. Con tutte le incognite e i rischi associati.
Molti piloti mandarono il proprio curriculum e furono inviati alle visite mediche e ai colloqui necessari. Worden si trovava in Inghilterra, presso il Centro sperimentale inglese. Fu fatto rimpatriare, superò i test ed entrò a far parte della NASA come membro di equipaggio.
Gli anni che seguirono furono anni durissimi, come si può immaginare. La disponibilità degli equipaggi doveva essere totale, il lavoro andava ben oltre le canoniche otto ore, spesso durava giorni e notti con appena qualche ora di sonno. Si lavorava anche nei fine settimana. Inoltre i centri della NASA e le sedi dove venivano costruiti i veicoli spaziali, i centri di addestramento e i simulatori di ogni tipo erano sparsi per tutto il paese. Gli astronauti dovevano attraversare gli Stati Uniti in lungo e largo, migliaia di chilometri che percorrevano a bordo del caccia biposto T38. Questo meraviglioso addestratore veniva usato come aereo executive personale. Ogni astronauta ne aveva uno e lo usava per andare dove serviva, quasi come un’automobile.
Allo scopo di estendere il raggio d’azione degli astronauti, la missione Apollo 15 ebbe in dotazione il Rover lunare che è ritratto nella foto accanto al Modulo Lunare con a bordo l’astronauta Irwin.
Worden era sposato con Pamela. Avevano una figlia e poi ne ebbero un’altra. Ovviamente la moglie restava da sola per periodi lunghissimi e aveva sulle proprie spalle la responsabilità della famiglia della quale mancava sempre un elemento importante. I trasferimenti erano molto frequenti, bisognava cambiare stato, città, casa. Una vita dura.
Tutti questi disagi non andavano certo a favore di una serena unione familiare.
Dopo alcuni anni anche Worden si trova ad affrontare un divorzio. Come quasi tutti i suoi colleghi.
Ci furono almeno due incidenti terribili, in quegli anni. Sapevo già, dalla lettura dei libri di altri astronauti, dell’incendio della navicella sulla piazzola di lancio, di quella che doveva essere la missione Apollo 1 (che per questo cambiò anche nome, anzi, numero), dove persero la vita tutti i tre membri di equipaggio e dell’incidente di volo di due colleghi di Worden, mentre cercavano di atterrare in condizioni di scarsissima visibilità, a bordo di un T38. Morti entrambi.
Ma Worden rivela in questo libro anche altri incidenti di cui non sapevo nulla.
La moglie Pamela, però, sapeva eccome. E aveva cominciato a capire che il lavoro del marito era estremamente pericoloso. E non stava mai tranquilla. Aveva visto come altre mogli di astronauti avevano ricevuto la notizia della morte dei loro mariti e si aspettava anche lei, in ogni momento, una visita del genere. Non ce la faceva più.
Durante una cerimonia tenutasi il 30 luglio 2009 al Kennedy Space Center in Florida (USA), Al Worden prese la parola in qualità di ambasciatore del Exploration Award in virtù del notevole contributo che egli fornì al programma spaziale statunitense, in particolare in occasione della missione Apollo 15
In questo libro, Worden mette bene in evidenza tanti elementi, compresi i rischi inerenti al suo lavoro. Diciamo che, leggendo i capitoli, si viene ad avere, via via, una idea molto più chiara di tanti episodi già letti in altri libri.
L’autore è un tipo deciso, caparbio, meticoloso. Sa scrivere in modo molto vivido ed ha le idee chiare su ogni cosa. Si percepisce dalla lettura, ma oggi si può anche fare riferimento ai tanti video di Youtube. Andate a vedere il tipo, come è oggi, come parla e come si muove. Ha una simpatia innata, modi amichevoli e tranquilli, ma si vede la decisione in ogni suo gesto.
Negli anni che hanno preceduto il suo divorzio da Pam, tanto per fare un esempio, sperimentava i voli sub-orbitali, utilizzando un velivolo F104 modificato. Decollava, saliva ad un livello altissimo, accelerava al massimo, poi tirava su il muso in una ripida cabrata che lo portava oltre il limite dell’atmosfera, intorno ai cento chilometri di quota. Il motore veniva spento e l’aereo entrava in una traiettoria balistica che per alcuni momenti avveniva in uno strato basso dello spazio. Poi ricadeva nell’atmosfera, il motore veniva riacceso e si tornava a terra, spesso atterrando sulla superficie dura e liscia di un lago asciutto della California.
Chuck Yeager, il famoso pilota sperimentale, aveva già perso un velivolo in questo modo e si era dovuto lanciare. Nel lancio, il canottino gonfiabile che aveva addosso, aveva preso fuoco e per spegnerlo e sganciarlo si era ustionato le mani.
Come dare torto a Pamela?
Alla fine, sia pure in condizioni di massima civiltà e senza liti, i due si separano.
Al Worden ne parla nel libro.
“Although I will always regret that my marriage to Pam did not work out, once it ended I saw I never could give her what she needed in life. She wanted stability and comfort. That wasn’t me”.
“Sebbene sarò sempre rammaricato che il mio matrimonio con Pam non abbia funzionato, una volta finito mi sono accorto che non avrei mai potuto darle ciò di cui lei aveva bisogno nella sua vita. Lei voleva stabilità e comodità. Quello non ero io”.
E dice che solo due mesi dopo il divorzio Pam venne a trovarlo a casa insieme al suo nuovo compagno. Il suo nome era Jim e a lui piaceva lavorare dalle nove alle diciassette, tornare a casa mettere le pantofole e fumare la pipa.
Beh, certo, era tutto un altro tipo di uomo. Dice Worden:
“Pam had found happiness, at last”. “Pamela aveva trovato la felicità, alla fine”.
A testimoniare il grande lavoro svolto dagli astronauti della missione Apollo 15 questa foto ritrae Irwin mentre svolge la perforazione della superficie lunare nel corso delle innumerevoli prospezioni geologiche che gli furono affidate. Sulla Luna non si andava solo a passeggio ma anche a lavorare. Da notare la tuta alquanto sporca. All’indomani dell’annullamento della missione Apollo 20 e, subito dopo, anche delle 19 e della 18, l’Apollo 15 divenne una missione del tipo “J”, con attività scientifica avanzata e dunque, in particolare, fu curato l’addestramento geologico degli astronauti
Gli scienziati che contribuivano a preparare le missioni lunari erano interessati soprattutto a scoprire l’origine geologica del suolo lunare e delle rocce che erano presenti intorno ai crateri. Pensavano che i crateri fossero originati dall’impatto di meteoriti, ma volevano scoprire se fossero anche il risultato di eruzioni vulcaniche.
Negli anni, prima della missione Apollo 15, Worden fece tanto addestramento in giro per l’America, per essere in grado di riconoscere e distinguere l’origine di ogni roccia, se era vulcanica o no.
Divenne quasi un geologo lui stesso, ma nell’ultima missione, Apollo 17, la NASA mandò sulla luna un geologo vero, come ho scritto nella recensione del libro di Gene Cernan.
I capitoli si susseguono, il racconto della vita operativa di Worden contiene tanti aspetti che altri, nei loro libri, non hanno neppure sfiorato. Si impara, da questo libro. Devo dire che la missione Apollo 15 ha avuto molti più compiti delle precedenti, molti più esperimenti da portare a termine. Una delle pareti del modulo di servizio, quello che contiene il motore e resta in orbita lunare insieme al modulo di comando, in un tutt’uno che si separerà solo poco prima del rientro nell’atmosfera terrestre, era letteralmente zeppa di strumenti, sensori e macchine fotografiche.
Le pellicole impressionate, gli archivi con le registrazioni di tutti questi strumenti dovevano essere recuperati nel volo di rientro perché il modulo di servizio non era destinato a tornare a terra. Worden portò a termine questa operazione (E.V.A. Extra vehicular activity) nel primo terzo di percorso tra la Luna e la Terra. Nessuno aveva mai fatto questo. E’ la passeggiata spaziale più lontana dalla Terra di sempre. E da lì poteva vedere Terra e Luna contemporaneamente.
Worden rimase in orbita lunare da solo per sei giorni, mentre i suoi due colleghi scendevano al suolo a bordo del LM (Lunar Module). Ad ogni giro intorno alla Luna fotografava e mappava la superficie con strumenti di ogni tipo. Un lavoro enorme. Gli strumenti erano in grado di rilevare la presenza di qualunque elemento chimico, gas o particella, specialmente di origine vulcanica.
La recopertina del bel libro di Warden
Una cosa curiosa che Worden riporta nell’ambito di questa ricerca è abbastanza impensabile e non mi sarebbe mai venuta in mente, se lui non l’avesse detta.
Ad un certo punto, mentre orbitava e faceva rilevamenti con i suoi sensori, questi hanno scoperto la presenza di particelle di origine terrestre e che… non dovevano essere lì. Ma subito il fatto aveva trovato la sua spiegazione.
Durante il viaggio verso la Luna, in tre giorni e mezzo, è umano che si debbano espletare le tipiche funzioni fisiologiche. Sia la pipì che il resto veniva messo in apposite buste, sulle quali veniva segnato il nome, l’ora etc. Questi reperti sarebbero stati studiati al rientro. Ma a volte il contenuto veniva inserito in uno scomparto che lo sparava fuori nel vuoto spaziale. Però nello spazio ci sono altre leggi fisiche. La nuvola di scorie non si disperdeva, ma seguiva la navicella, anche quando questa entrava in orbita intorno alla Luna. In una di quelle orbite, i sensori ne avevano rilevato la presenza, con una certa sorpresa per l’astronauta che operava quei sistemi.
Bene. Fin qui, a parte la meticolosità e l’abbondanza delle descrizioni e la vividezza del modo di narrare dell’autore, potrei quasi dire che si tratta di un normale libro scritto da un astronauta.
Worden era al suo primo volo spaziale, a differenza di altri che avevano partecipato alle missioni Gemini. Veniva da anni di addestramento, da studi di tutti i tipi, corsi di geologia e voli parabolici per simulare la condizione di assenza di gravità. E da lunghe sessioni subacquee per simulare la cosiddetta attività extra veicolare (E.V.A. o extra vehicular activity).
Era entusiasta e aveva un gran rispetto gerarchico per i superiori, compreso il suo comandante Dave Scott. Ed era animato da un grande senso di cameratismo e amicizia per l’altro membro di equipaggio, James Irwin.
E forse proprio per questo, poco prima del lancio, avvenne qualcosa di sconcertante, di banale e allo stesso tempo di gravissimo. Qualcosa che avrebbe rovinato la carriera di questo grande pilota e grande uomo. E dopo aver portato a termine la missione in maniera tanto perfetta. Dopo aver fatto molto di più di altri astronauti. E dopo aver ricevuto continui elogi e riconoscimenti per la perfezione della sua opera, sia dai colleghi, che da tutto l’apparato di controllo a terra e sia dai membri del congresso e dalla Casa Bianca.
Cosa era successo?
Il lettore lo scopre sin dalle prime parole della prefazione, scritta da Worden stesso.
“It was the worst day in my life. I’d had low points before. A failed marriage. Friends dead in car wrecks, aircraft, and spacecraft. This day was almost worse than death. Everything I had worked towards over a lifetime of service was ruined, and I was all alone. Yust a few months before, heads of state had onored me. Congress asked me to address them. I was called a hero. Now I was clearing out my rented apartment, loading boxes into a trailer, and preparing to leave Houston forever. I’d been fired in disgrace and frozen out by my colleagues. I had lost everything: My career, and the respect and trust of those for whom I would have given my life”.
Sono poche le fotografie che sono rimaste nella storia dell’astronautica. Ebbene una di queste è proprio quella scattata dalla missione Apollo 15 in fase di allontanamento dalla superficie terrestre e in viaggio verso la Luna
“Era il giorno peggiore della mia vita. Avevo già avuto punti bassi prima. Un matrimonio fallito. Amici morti nei rottami di un’auto, aereo e veicolo spaziale. Questo giorno era quasi peggio della morte. Tutto ciò per il quale avevo lavorato attraverso una vita di servizio era rovinato, ed ero solo. Pochi mesi prima, capi di stato mi avevano onorato. Il congresso mi aveva invitato a fare un discorso. Ero stato chiamato eroe. Ora stavo pulendo il mio appartamento in affitto, caricando scatole in una roulotte e mi preparavo a lasciare Houston per sempre. Ero stato scacciato e scaricato dai miei colleghi. Avevo perso tutto: la mia carriera ed il rispetto e la fiducia di coloro per i quali avrei dato la vita”.
Parole terribili. Specialmente se le leggiamo già all’inizio di un libro.
Il giorno di cui Worden parla si riferisce all’estate de 1972. La missione Apollo di cui aveva tanto onorevolmente fatto parte risaliva al 1971. Pochi mesi erano passati, ma un grande guaio era scoppiato, come una bomba ad orologeria.
A questo argomento sono dedicate tante pagine, perché si tratta di una cosa complessa. Ma per sintetizzarla al massimo, diciamo che si era trattato di qualcosa di molto banale. Tutti gli equipaggi, ad ogni volo, portavano con sé alcuni gadget che poi, una volta tornati, avevano acquistato valore per essere stati nello spazio. Figuriamoci se erano stati addirittura sulla luna.
La missione Apollo 15 ebbe inizio il 26 luglio 1971 dal complesso di lancio 39 A del Kennedy Space Center in Florida. C’erano a bordo l’astronauta David R. Scott, comandante di missione, Alfred M. Worden, pilota del modulo di comando e servizio(CSM) e James B. Irwin, pilota del modulo lunare (LM)
Nel corso delle missioni ai semplici gadget si erano aggiunte certe buste affrancate, con annulli che ogni filatelico avrebbe pagato a peso d’oro. Il comandante Dave Scott, nella missione Apollo 15, ne aveva portate centinaia, un po’ per l’equipaggio stesso, quindi anche per Worden, e un po’ per alcuni personaggi estranei. Questi faccendieri, alla fine della missione avevano subito messo in vendita le buste, facendo scoprire un illecito che la NASA si era trovata a dover giustificare, con grande imbarazzo, verso l’opinione pubblica e verso il governo degli Stati Uniti.
Ovviamente non era consentito trarre vantaggi economici da una professione per la quale si era già pagati.
La vicenda entra in una spirale perversa, passano decenni prima che se ne venga a capo. Alla fine la colpa si riduce ad un illecito di scarso valore e tutti sono riabilitati, ma intanto la rovina era fatta.
In età già avanzata, ecco l’autore del libro che lo presenta alla stampa. Gli fanno da sfondo il Modulo Lunare e due manichini debitamente attrezzati che simulano la discesa sul suolo lunare
Jim Irwin si ritirò subito e andò in pensione, Dave Scott rimase, ma ebbe comunque gravi ripercussioni nella carriera.
Worden, invitato a lasciare la NASA e a rientrare nei ranghi dell’Aeronautica, dove la sua carriera sarebbe stata comunque compromessa, ci pensò sopra per alcuni giorni. Poi, il suo carattere indomito si rifiutò di subire la conseguenza di una stupida leggerezza indotta più che altro dall’intraprendenza del suo comandante. Lui aveva solo acconsentito per rispetto gerarchico, ma non aveva mai pensato di lucrare su una cosa del genere.
Perciò decide di rifiutare l’invito e di passare al contrattacco.
Chi leggerà questo libro vedrà come si svolgono i fatti negli anni successivi.
Il danno era fatto, ma…
Giusto per la cronaca, in questa missione c’è stato anche un altro elemento di rilievo che Worden mette bene in risalto. Dave Scott e Jim Irwin, durante i giorni passati sul suolo lunare, si sottoposero ad un lavoro estenuante. Il loro cuore si era talmente affaticato da preoccupare gli scienziati a terra già durante il volo di rientro. Infatti richiesero loro di indossare sempre un sensore per tenerli sotto controllo continuo. Senza comunque rivelare che almeno Jim rischiava una attacco di cuore in ogni momento.
Dave Scott si riprese abbastanza bene. Irwin no. Ebbe problemi, subì interventi chirurgici e alla fine, nel 1991, solo venti anni dopo essere tornato, morì di infarto. Nella sua vita successiva alla missione Apollo e al pensionamento si era dedicato interamente alla religione. Della quale non aveva mai parlato prima. Strani effetti della Luna.
Senza dubbio l’Apollo 15 ha tante cose particolari che lo caratterizzano. Al Worden ne parla diffusamente.
Ma ce ne è anche una che riguarda l’ultima parte della fase di rientro, quando si devono aprire i paracadute che frenano la caduta della navicella fino al cosiddetto splashdown sull’oceano.
Prima che la capsula tocchi l’acqua è necessario scaricare il carburante rimanente, quello che alimenta i piccoli getti di stabilizzazione. Si tratta di un elemento chimico tossico. Meglio non rischiare che una eventuale perdita contamini l’acqua. Di solito si scarica nell’atmosfera, dove i forti venti di alta quota disperdono tutto.
Stavolta i venti non ci sono e l’elemento tossico e corrosivo finisce sui paracadute. Uno di questi si deteriora. Grandi buchi si allargano sulla calotta, che si affloscia.
Ecco la famosa foto che ritrae lo splash-down con l’apertura di solo due paracadute su tre disponibili. Era il 7 agosto del 1971 e la navicella si trovava più o meno al centro dell’Oceano Pacifico, 330 miglia a Nord di Honolulu, nell’arcipelago delle Hawaii. Ad attenderli c’era un elicottero lanciato dalla nave USS Okinawa
Anche un secondo paracadute incomincia a bucarsi, ma per fortuna la navicella ammara prima che succeda il peggio.
Su Youtube si trovano i video sulla discesa della navicella. Uno dei paracadute è quasi chiuso.
Oppure, per chi volesse approfondire l’argomento, ci sono tante foto, filmati e articoli sul sito www.alworden.com.
Una frase conclusiva che sintetizzi tutto quanto esposto sopra?
Un gran bel libro.
Vale la pena cercarlo e scaricarlo sul Kobo. Anche se per farlo dovesse essere necessario comprare anche il Kobo.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)
Didascalia della Redazione di VOCI DI HANGAR
Nota della Redazione
Tutte le fotografie presenti in questa recensione sono state prelevate gratuitamente dallo splendido sito web Apollo archive che vi invitiamo a visitare in lungo e largo. Troverete centinaia di scatti a colori e in bianco e nero che ripercorrono le missioni Apollo nonchè le pre e post Apollo. Ricco di didascalie e di ulteriore materiale collaterale, è un sito divulgativo cui non smetteremmo mai ti attingere. Perchè se è vero che la storia, per essere viva, deve essere vissuta, ebbene siamo certi che questa è la migliore opportunità offerta a coloro che vogliano farlo davvero
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